Immanuel Kant (1724-1804) – Lo studente non deve imparare dei “pensieri”, ma a “pensare”. Non lo si deve “portare” ma “guidare”, se si vuole che in seguito sia capace di camminare da solo. Rovesciando questo metodo, lo studente acciuffa una sorta di ragione prima ancora che in lui si sia formato “l’intelletto” e s’appropria d’una “scienza” posticcia che in lui è soltanto appiccicata , non maturata.

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«Da un insegnante ci si attende […] che innanzi tutto formi nel suo discepolo l’uomo intellettivo, poi quello razionale e infine il dotto. Un tal modo di procedere ha il vantaggio che, qualora lo studente non arrivi mai all’ultimo gradino dell’istruzione, avrà però tratto una certa utilità da essa. E se non per la scuola, certamente sarà diventato più esperto e più intelligente per la vita» (p. 152).

Riferendosi agli orientamenti pedagogici dominanti nel suo tempo, Kant rileva che l’approccio  fondato sul «rispecchiamento» di quello che, a suo giudizio, è l’«ordine naturale», risulta essere letteralmente capovolto nell’organizzazione degli studi a lui coeva: «Rovesciando questo metodo, lo studente acciuffa una sorta di ragione prima ancora che in lui si sia formato l’intelletto e s’appropria d’una scienza posticcia che in lui è soltanto appiccicata , non maturata […]. È questo il motivo per cui non di rado s’incontrano dotti […] che dimostrano poca intelligenza, e le accademie sfornano teste insipide più di qualsiasi altro ceto sociale» (pp. 152-153).

«[Lo studente] non deve imparare dei pensieri, ma a pensare; non lo si deve portare ma guidare, se si vuole che in seguito sia capace di camminare da solo» (p. 153)

«Questa è la breve comunicazione riguardante le attività di cui ini occupo in questo semestre universitario [già] iniziato e che ho ritenuto necessario [esporre] solamente perché ci si possa fare un concetto del metodo di insegnamento cui trovai utile ora apportare alcune modifiche» (p. 160).

Comunicazione di I. Kant sull’ordinamento delle sue lezioni nel semestre invernale 1765-1766 (1765), in Immanuel Kant, Antologia di scritti pedagogici, a cura di Giordano
Formizzi, Il Segno dei Gabrielli, Verona 2004.


Utile confronto

Giuseppe Micheli, Kant storico della filosofia, Antenore, Padova 1980, pp. 90-97; Id., L’insegnamento della filosofia secondo Kant, in Luca Illetterati (a cura di), Insegnare filosofia. Modelli di pensiero e pratiche didattiche, De Agostini, Novara 2007, pp. 136-59 (ottima Introduzione di Illetterati).

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Insegnare filosofia

Oggi per la filosofia la questione didattica assume una problematicità che appare per molti aspetti del tutto peculiare. Ciò che rimane spesso non discusso nelle diverse forme di discorso relative alla didattica della filosofia è quanto pertiene all’oggetto che la tecnica e l’arte didattica devono trasmettere, e cioè la filosofia stessa.  Non è infatti forse del tutto fuori luogo chiedersi se il laureato in filosofia oggi sia effettivamente in grado, una volta uscito dall’università e dalla scuola di specializzazione, di proporsi come un soggetto che fa da guida di un esercizio filosofico, come un soggetto che entra in una classe per fare sperimentare una pratica del pensiero che non si risolva nella proposta di alcuni percorsi storici all’interno della tradizione filosofica. Grazie al contributo di molti dei migliori filosofi italiani, Insegnare filosofia rimette in discussione concezioni e modelli talmente radicati da non essere nemmeno più avvertiti come propri riferimenti nelle pratiche di insegnamento, e contemporaneamente ci aiuta a ripensare le forme stesse dell’insegnamento della filosofia nel luogo principale della formazione di coloro che sono poi chiamati a esercitare a diverso titolo la filosofia, ovvero, appunto, l’università.


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Simone Weil (1909-1943) – Un regime inumano, lungi dal forgiare esseri capaci di edificare una società umana, modella a sua immagine tutti coloro che gli sono sottomessi.

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«Mai sinora nella storia un regime di schiavitù è caduto sotto i colpi degli schiavi. La verità è che, secondo una formula celebre, la schiavitù avvilisce l’uomo fino al punto di farsi amare dall’uomo stesso; che la libertà è preziosa solo agli occhi di coloro che la possiedono effettivamente; e che un regime del tutto inumano, com’è il nostro, lungi dal forgiare esseri capaci di edificare una società umana, modella a sua immagine tutti coloro che gli sono sottomessi, tanto gli oppressi quanto gli oppressori».

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Simone Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, a cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano 1983, p. 129 (ed. or. Réflexion sur les causes de la liberté et de l’oppression sociale, Édition Gallimard, Paris 1955).

Risvolto di copertina

A venticinque anni, nel 1934, Simone Weil scrisse queste Riflessioni, vero talismano che dovrebbe proteggere chiunque è costretto ad attraversare l’immenso ammasso di menzogne che circonda la parola «società». Come sempre nelle parole più ovvie, in essa si cela una realtà segreta e imponente, che agisce su di noi anche là dove nessuno la riconosce. La Weil è stata la prima a dire con perfetta chiarezza che l’uomo si è emancipato dalla servitù alla natura solo per sottomettersi a un’oppressione ancora più oscura, ancora più capricciosa e incontrollabile: quella esercitata dalla società stessa, poiché «sembra che l’uomo non riesca ad alleggerire il giogo delle necessità naturali senza appesantire nella stessa misura quello dell’oppressione sociale, come per il gioco di un equilibrio misterioso». Da questa intuizione centrale si diparte, con cristallina virtù argomentativa, una sequenza di ragionamenti che svelano nei meccanismi del potere come in quelli della produzione e dello scambio altrettanti volti di una stessa idolatria. Scritto quando Hitler era al potere da pochi mesi e quando Stalin era venerato da gran parte dell’intelligencija come «piccolo padre» di una nuova umanità, questo testo non ha un attimo di incertezza nel delineare l’orrore di quel presente. Ma, come sempre nella Weil, lo sguardo è così preciso proprio perché va al di là del presente e percepisce un’immagine inscalfibile del Bene, in rapporto alla quale giudica il mondo. È uno sguardo che ci induce a «sfuggire al contagio della follia e della vertigine collettiva tornando a stringere per conto proprio, al di sopra dell’idolo sociale, il patto originario dello spirito con l’universo».

 


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Jonathan Crary – Il capitalismo all’assalto del sonno nel tentativo di imporre al corpo umano schemi artificiali di temporalità e di prestazione efficiente.

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24:7. Il capitalismo all'assalto del sonno

24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno

«Seguendo l’iniziativa dell’Agenzia per le ricerche avanzate del Pentagono, i ricercatori di varie accademie stanno conducendo test sperimentali su una varietà di tecniche antisonno […]. Gli studi sull’insonnia efficiente si inseriscono in un programma che mira alla creazione di un nuovo genere di soldato […] I passeri dalla corona bianca sono stati prelevati dall’ecosistema della costa del Pacifico, dove compiono i consueti percorsi stagionali, affinché diano il loro contributo al tentativo di imporre al corpo umano schemi artificiali di temporalità e di prestazione efficiente. Come la storia insegna, le innovazioni in campo militare vengono poi inevitabilmente assimilate in una sfera sociale più ampia, per cui il soldato a prova di sonno è l’antesignano del lavoratore o del consumatore immuni dal sonno. I farmaci contro il sonno, opportunamente presentati attraverso martellanti campagne pubblicitarie, diventerebbero in prima battuta un’opzione legata a un particolare stile di vita per poi tramutarsi, infine, in un’esigenza imprescindibile per grandi masse di persone. I sistemi di mercato 24/7 e un’infrastrutura globale concepita per forme di produzione e consumo senza limiti sono già una realtà da tempo, ma ora si tratta di costruire un soggetto umano che possa adeguarvisi in modo sempre più completo».

Jonathan Crary, 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno, Einaudi, 2015, pp. 5-6.

 

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Aperto 24 ore su 24, 7 giorni su 7, è il mantra del capitalismo contemporaneo, l’ideale perverso di una vita senza pause, attivata in qualsiasi momento del giorno o della notte, in una sorta di condizione di veglia globale. Viviamo in un non tempo interminabile che erode ogni separazione tra un intenso e ubiquo consumismo e le strategie di controllo e sorveglianza. Sembra impossibile non lavorare, mangiare, giocare, chattare o twittare lungo l’intero arco della giornata, non c’è momento della vita che sia realmente libero. Con la sua presenza ossessiva, il mercato dissolve ogni forma di comunità e di espressione politica, invadendo il tessuto della vita quotidiana.


Jonathan Crary,
Che l’uomo diventi come il passero dalla corona bianca


Le tecniche dell'osservatore

Le tecniche dell’osservatore


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Salvatore Bravo – Aldo Capitini e la omnicrazia. L’apertura è sentire la compresenza dell’altro, sentire la propria vita fluire nell’altro, lasciarlo essere, amarlo per quello che è, liberarlo dalla paura del potere, della mercificazione.

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Il potere di tutti

La censura agisce con l’espulsione dall’orizzonte dialogico di autori disfunzionali rispetto alle logiche di potere sempre più escludenti. Non sono solo le persone ad essere espulse, rese invisibili, ridotte a merce e come tali vendute in quanto forza lavoro a basso prezzo nell’occidente, ma anche gli autori che fungono da rottura critica per il sistema vigente.
Aldo Capitini è tra gli autori scomparsi, resi invisibili dal ‘panorama culturale’ mediatico e chiassoso. L’occidente dei leaders, del potere consegnato agli uomini ed alle donne forti al comando, che chiamano con la solita fascinazione delle parole, responsabilità politica, trasparenza, efficienza della decisione. La realtà immanente ci parla invece di infeudamento del potere: leaders, longa manus dei poteri finanziari e il popolo divenuto materiale inerte nelle mani di improbabili demiurghi che in nome di interessi lobbistici sono divenuti gli esattori dei diritti sociali. Il decremento dei diritti sociali obnubilato dalla concessione dei diritti individuali. Questi ultimi divengono operativi per coloro che ne possono usufruire materialmente, per i restanti il diritto individuale è solo potenziale senza atto.
Aldo Capitini, scomparso nel 1968, contrapponeva al sistema del potere di pochi, del partito, dei molti contro le minoranze un’altra visione, un’altra prospettiva del potere. Per Capitini il potere che si struttura secondo forme escludenti, o che si autolegittima mediante l’uso della forza è ancora natura nella natura, ‘il pesce grande mangia il pesce piccolo’; affinché l’essere umano possa divenire umano deve spezzare tale meccanicismo per sostituire ad esso l’apertura. Essa è umanizzazione dei rapporti, infinita inclusione nell’amore. L’apertura è sentire la compresenza dell’altro, sentire la propria vita fluire nell’altro, lasciarlo essere, amarlo per quello che è, liberarlo dalla paura del potere, della mercificazione perché possa fiorire nelle sue potenzialità. Aristotele affermava che l’uomo dev’essere come un albero, deve fiorire, vi dev’essere il passaggio dalla potenza all’atto. Per Capitini solo l’apertura riporta gli uomini all’incontro con il ‘tu’, nell’empatia, nello scambio, la meraviglia che stimola la crescita nell’incontro. La compresenza dell’altro, è uno dei capisaldi del pensiero di Capitini: compresenza significa sguardo che incontra l’alterità e non lo distoglie, significa parola che si fa dialogo e non termina, perché l’apertura è infinita e sospende ogni forma di naturalizzazione del sistema. Il potere si naturalizza non solo nella sua intrasformabilità ideologica, ma specialmente – fa notare Capitini – nella sua pratica violenta ed escludente, nel suo omologarsi alle forze della natura. Bisogna rompere il meccanicismo dell’azione con l’apertura e la compresenza dell’altro perché la vita diventi il centro del fare politica. La Resurrezione, secondo Capitini, era il simbolo della vittoria sulla morte ovvero la chiusura della natura quale modello di adesione acritico del potere. Oggi nel sistema del selfie e delle mercificazioni, assistiamo all’operazione di trasformare l’apertura mediatica, tutto è fluido e pubblico per essere fonte di guadagno, l’altro è sempre un mezzo, ci si intristisce in una chiusura senza feritoie, se tutto passa e pare permesso, resta celata la persona, che è invisibile mentre tutto sembra controllato dallo sguardo del nuovo potere disciplinare, del nuovo Panopticon. La persona non dev’esserci, perché dove c’è l’umano c’è il tu che nel logos dell’incontro è una variabile che può scomporre i poteri. Il tu è censurato, alienato dalle logiche permissiviste che, in cambio del tutto lecito, vogliono l’abbandono della speranza, dell’uscire fuori da sé per entrare in una nuova vita. Alla chiusura attuale, di questi anni, una cortina di cemento sembra il nostro futuro, si contrappone l’apertura, la compresenza che divengono omnicrazia .. [Leggi tutto nel PDF]

Salvatore Bravo


Aldo Capitini e la omnicrazia

 


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Nell’agosto 1968, due mesi prima dell’operazione chirurgica che ne provocherà la morte il 19 ottobre, Capitini affida allo scritto autobiografico Attraverso due terzi del secolo la sintetica ricostruzione del suo percorso esistenziale, intellettuale e politico. Tra la primavera e l’estate dello stesso anno ha tentato una sintesi del suo pensiero politico nello scritto Omnicrazia: il potere di tutti, riproponendosi di lavorarci ulteriormente dopo l’operazione; non potrà farlo, ma lascerà un testo tutt’altro che incompiuto che è il risultato di un’esperienza quasi quarantennale di elaborazione teorica e di organizzazione politica, dall’antifascismo «liberalsocialista» degli anni trenta agli esperimenti di democrazia dal basso nell’immediato dopoguerra, alla decostruzione dell’ideologia cattolica, alla «rivoluzione nonviolenta» negli anni cinquanta, alla teorizzazione della «compresenza», della democrazia diretta e dell’«omnicrazia» negli anni sessanta.

I temi di Capitini, rimossi e deformati già nell’immediato dopoguerra, sono oggi attuali, da conoscere, da studiare e da sviluppare. Sono da riprendere le sue ricerche sulla «complessità» della realtà, sulla «compresenza» delle molte dimensioni del reale (il presente e il passato, la vita e la morte) in ogni singola esistenza; i suoi esperimenti di «nuova socialità» per una società di massimo socialismo e massima libertà, oltre le derive stataliste-staliniste e le imposture liberal-proprietarie; la sua puntuale polemica anticattolica per liberare la dimensione spirituale-mentale dai poteri confessionali; la sua prospettiva del «potere di tutti» come orientamento politico per il presente, contro i poteri oligarchici, politici, economici e culturali.


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Pubblicati nel 1937 presso l’editore Laterza per interessamento di Benedetto Croce, gli Elementi di un’esperienza religiosa di Capitini sfuggirono alla censura fascista per un fatto assai significativo: essendo per il regime la religione naturalmente conservatrice – e certo tale era la religione cattolica -, nulla v’era da temere da un libro che parlasse di religione. Il libro di Capitini esprimeva, invece, una visione del mondo radicalmente antifascista. Partendo da una persuasione liberamente religiosa, né cattolica né cristiana, Capitini affermava i valori della nonviolenza, della nonmenzogna, della responsabilità, del “farsi centro” in un momento storico che vedeva il trionfo della violenza e dell’assenza di scrupoli.

Gli Elementi, prima opera filosofica di Capitini, sono il punto di partenza ideale per studiare la complessa filosofia di uno dei teorici più rigorosi e profondi della nonviolenza.

 

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Luis Buñuel (1900-1983) – Bisogna incominciare a perdere la memoria, anche solo a pezzi e bocconi, per rendersi conto che è proprio questa memoria a fare la nostra vita. Una vita senza memoria non sarebbe una vita, così come un’intelligenza senza possibilità di esprimersi non sarebbe un’intelligenza. La nostra memoria è la nostra coerenza, la ragione, l’azione, il sentimento. Senza di lei, siamo niente.

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dei miei sospiri estremi, edizione se, milano, 1991

Dei miei sospiri estremi

«Negli ultimi dieci anni di vita, mia madre perse a poco a poco la memoria. Quando andavo a trovarla, a Saragozza, dove abitava con i miei fratelli, ci capitava di darle una rivista che lei sfogliava minuziosamente dalla prima all’ultima pagina. Dopo di che gliela riprendevamo per dargliene un’altra, che in realtà era la stessa. Ricominciava a sfogliarla con la medesima cura.
Arrivò a non riconoscere più i figli, a non sapere più chi eravamo, chi era. Entravo, la baciavo, passavo un po’ di tempo con lei – la salute fisica restava intatta, era anzi piuttosto agile per la sua età – poi uscivo, rientravo subito dopo, e mi accoglieva con lo stesso sorriso, mi pregava di accomodarmi, come se mi vedesse per la prima volta. Del resto, non ricordava neanche più il nome.
In collegio, a Saragozza, ero in grado di recitare a memoria l’elenco dei re visigoti spagnoli, superfici e popolazioni di tutti gli stati europei, e molte altre futilità. Questo genere di memoria meccanica è generalmente disprezzato nei collegi. In Spagna questo tipo di allievo si chiama memorion. Ed io, memorion com’ero, ero bersagliato da sarcasmi per quelle esibizioni mediocri.
A mano a mano, col passar degli anni, questa memoria un tempo così disdegnata ci diventa preziosa nella vita. I ricordi si accumulano a nostra insaputa e un giorno, all’improvviso, cerchiamo inutilmente il nome di un amico, di un parente. Lo abbiamo dimenticato. Può capitarci di diventare furiosi, alla vana ricerca di una parola che conoscevamo, che abbiamo sulla punta della lingua, e che si ostina a non ritornare.
Con questa dimenticanza, e le altre che non tarderanno a farsi avanti, incominciamo a capire e ad ammettere l’importanza della memoria. L’amnesia – di cui, per quanto mi riguarda, ho incominciato a soffrire verso i settant’anni – inizia con i nomi propri e i ricordi più vicini: dove ho messo l’accendino, cinque minuti fa? Cosa volevo dire avventurandomi in questa frase? È l’amnesia anterograda, cui segue quella antero-retrograda che si riferisce agli avvenimenti degli ultimi mesi, degli ultimi anni: come si chiamava il mio albergo, quando sono andato a Madrid, nel maggio 1980? E il titolo di quel libro che mi ha tanto interessato, sei mesi fa? Non ricordo più, cerco a lungo, invano. E finalmente arriva l’amnesia retrograda che può cancellare una vita intera, com’è accaduto a mia madre.
Quanto a me, non ho ancora subito i colpi di questa terza forma di amnesia. Del mio passato remoto, dell’infanzia, della giovinezza, serbo ancora ricordi molteplici e precisi, così come una gran quantità di volti e di nomi. Se mi capita di dimenticarne uno, non mi preoccupo troppo. So che tornerà improvvisamente, per uno dei molti capricci dell’incoscio, che lavora instancabile nell’ombra.
In compenso mi capita di avvertire una grande preoccupazione, angoscia direi, quando non riesco a ricordare un avvenimento recente, che ho vissuto, oppure il nome di una persona incontrata negli ultimi mesi, e perfino di una cosa. D’un tratto la mia personalità si sgretola, si sfascia. Non mi riesce di pensare ad altro, eppure tutti i miei sforzi, le mie ire sono inutili. Che sia l’inizio di una scomparsa totale? Sensazione tremenda, dover usare una metafora per dire “tavolo”. E oltre ogni limite, l’angoscia peggiore: esser vivo, ma non riconoscere più, non sapere chi sei.
Bisogna incominciare a perdere la memoria, anche solo a pezzi e bocconi, per rendersi conto che è proprio questa memoria a fare la nostra vita. Una vita senza memoria non sarebbe una vita, così come un’intelligenza senza possibilità di esprimersi non sarebbe un’intelligenza. La nostra memoria è la nostra coerenza, la ragione, l’azione, il sentimento. Senza di lei, siamo niente.
Ho immaginato spesso d’inserire in un film una scena con un uomo che cerchi di raccontare una storia a un amico. Ma dimentica una parola su quattro, parole generalmente molto semplici, come “automobile”, “via”, “poliziotto”.Farfuglia, esita, gesticola, cerca degli equivalenti patetici, fino a quando l’amico irritatissimo lo schiaffeggia e se ne va. Mi capita anche, per difendermi ridendo dalle crisi di panico, di raccontare l’aneddoto del tizio che va da uno psichiatra e lamenta disturbi della memoria, lacune. Lo psichiatra gli fa un paio di domande formali, poi gli dice:
“E allora? Queste lacune?”.
“Quali lacune?” risponde l’altro.
Indispensabile e onnipotente, la memoria è anche fragile e minacciata. Minacciata non solo dalla dimenticanza, sua vecchia nemica, ma anche dai ricordi fasulli che la sommergono, e l’invadono ogni giorno di più. Un esempio: ho raccontato per anni agli amici (e in questo libro lo cito) il matrimonio di Paul Nizam, brillante intellettuale marxista degli anni Trenta. Rivedevo chiaramente la chiesa di Saint-Germain-des-Prés, il pubblico di cui facevo parte, l’altare, il prete, Jean-Paul Sartre testimone dello sposo. Un giorno, l’anno scorso, mi dissi improvvisamente: ma è impossibile! Paul Nizam, marzista convinto, e sua moglie che apparteneva a una famiglia di agnostici, non si sarebbero mai sposati in chiesa! Una cosa assolutamente impensabile. Avevo quindi trasformato un ricordo? Si trattava di un ricordo inventato? Di una confessione? Ho rivestito di un ambiente familiare, chiesastico una scena soltanto orecchiata? Non lo so, non sono mai riuscito capire.
La memoria è perennemente invasa dall’immaginazione e dalle fantasticherie, e poiché esiste una tentazione di credere nella realtà dell’immaginario, finiamo col fare delle nostre menzogne verità. Il che del resto ha un’importanza molto relativa, dato che sono anch’esse cose vissute, e personali.
In questo libro semibiografico, nel quale mi capiterà di perdermi come in un romanzo picaresco, di abbandonarmi al fascino irresistibile del racconto inaspettato, forse, malgrado la mia vigilanza, continuerà a sussistere qualche ricordo fasullo. Ma la cosa ha veramente poca importanza, ripeto. Sono fatto dei miei errori e dei miei dubbi, come delle mie certezze. Non essendo uno storico, non mi sono aiutato con appunti né libri e il ritratto proposto è comunque il mio, con tutte le mie affermazioni, esitazioni, lacune, con le mie verità e le mie bugie, in una parola: la mia memoria».


Luis Buñuel, Dei miei sospiri estremi, SE, Milano, 1991, traduzione di Dianela Selvatico Estense.


Dei miei sospiri estremi copia

Luis Buñuel Portolés nacque a Calanda (vicino Saragozza, in Aragona) il 22 febbraio 1900  e ci lasciò il 29 luglio 1983 a Città del Messico. Scrisse questo libro già ottantenne con il suo fido sceneggiatore Jean-Claude Carrière. Il titolo originale è: Mon derniere soupir. Il libro fu pubblicato nel 1982 da Edition Robert Laffont, S.A. di Parigi e tradotto in Italia, a Milano, da SE nel 1991. La mia copia è la prima edizione (dubito che ce ne sia stata una seconda). Sono 280 pp. e costava la bella cifra di 38.000 lire. In copertina c’è il particolare di un quadro del 1904 di Dalì (La persistenza della memoria), la IV di copertina è realizzata con una fotografia di Man Ray che ritrae il regista nel 1929. E’ un libro che ho appena riletto: semplicemente strepitoso. Strepitoso come la sua vita: gli amici intimi di questo artista impareggiabile erano personaggi come Lorca, Dalì, Tanguy, Picasso, Man Ray …

Vincenzo Reda

Luis Bunuel ritratto d Man Ray

Luis Buñuel ritratto da Man Ray

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Bianca Guidetti Serra (1919-2014) – Gli antichi ritenevano che l’amicizia, pur essendo qualcosa di divino, non richiedesse né altari né templi; doveva stare solo nel cuore degli uomini.

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Bianca Guidetti Serra, Primo Levi, l’amico

Cura e postfazione di Daniele Orlandi:
A voi la fiaccola! Primo Levi e Bianca Guidetti Serra.

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Agli amici

«Cari amici, qui dico amici
Nel senso vasto della parola:
Moglie, sorella, sodali, parenti,
Compagne e compagni di scuola,
Persone viste una volta sola
O praticate per tutta la vita:
Purché fra noi, per almeno un momento,
Sia stato teso un segmento,
Una corda ben definita.

Dico per voi, compagni d’un cammino
Folto, non privo di fatica,
E per voi pure, che avete perduto
L’anima, l’animo, la voglia di vita.
O nessuno, o qualcuno, o forse un solo, o tu
Che mi leggi: ricorda il tempo
Prima che s’indurisse la cera,
Quando ognuno era come un sigillo.
Di noi ciascuno reca l’impronta
Dell’amico incontrato per via;
In ognuno la traccia di ognuno.
Per il bene od il male
In saggezza o in follia
Ognuno stampato da ognuno.

Ora che il tempo urge da presso,
Che le imprese sono finite,
A voi tutti l’augurio sommesso
Che l’autunno sia lungo e mite».

Primo Levi

 


Bianca Guidetti Serra in una foto giovanile

Bianca Guidetti Serra in una foto giovanile


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Bianca con Primo Levi


Cartolina Di P. Levi dal treno per auschwitz

Cartolina firmata da P. Levi, Vanda Maestro e Luciana Nissim dal treno per Auschwitz, e indirizzata a Bianca Guidetti Serra (24-2-1944) [Collezione Bianca Guidetti Serra]: «Cara Bianca, tutti in viaggio alla maniera classica – saluta tutti – a voi la fiaccola. Ciao Bianca, ti vogliamo bene. Primo, Vanda, Luciana. Bolzano, 23-2. VINCEREMO»


Bianca, l'avvocato

Bianca, l’avvocato

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 Alcuni suoi libri

Compagne01

Compagne02

Bianca Guidetti Serra,
Compagne. Testimonianze di partecipazione politica femminile, Torino, Einaudi, 1977
Risvolto di copertina
Quando Bianca Guidetti Serra decise di fare le interviste che formano ora questo libro, intendeva semplicemente documentare per l'area di Torino la partecipazione attiva alla Resistenza dei «Gruppi di difesa della donna e per l'assistenza ai combattenti per la libertà» costituitisi nel dicembre del 1943, primo nucleo di quella che sarà poi l'Unione donne italiane. La scelta di queste compagne per il colloquio, avverte la Guidetti Serra nella sua densa Premessa, era avvenuta casualmente, in base a rapporti avuti durante e dopo la Resistenza, a legami di affinità politica, di conoscenza e di affetto. «Fin dalle prime conversazioni, tuttavia, è emerso che se la partecipazione alla lotta di liberazione, cui si riferivano soprattutto le mie domande, appariva un momento importante della loro vita politica, non era però unico e isolato e soprattutto non era casuale. La scelta antifascista, infatti, nata in anni remoti per le piu anziane, nel 1943-45 per le piu giovani, aveva trovato ragione d'impegno prima della Resistenza, durante e, per quasi tutte, anche dopo. Il proposito iniziale si è quindi naturalmente dilatato e ne è nata una sorta di autobiografia "politica" di ciascuna donna». Anche se nel raccontare le vicende politiche cui hanno partecipato (battaglie, imprese terroristiche, attività di collegamento e di organizzazione, d'informazione, di propaganda; arresti, torture, deportazioni; e poi scioperi, lotte, attività sociale e politico-sindacale dopo la Liberazione) mettono deliberatamente in ombra, e spesso tacciono, la loro piú intima storia di donne, tutte si riferiscono al proprio «vissuto», alla propria esperienza soggettiva ed emotiva piu che al quadro storico-politico generale. Per questo le interviste vanno lette anche come pezzi complementari di una piú generale memoria di lotta di classe a Torino, e diventano piu significative se si cerca di vederle come un contesto.

 


Bianca la rossa

Bianca Guidetti Serra con Santina Mobiglia, Bianca la rossa, Torino, Einaudi, 2009.

Leggi un estratto:

Estratto

I principali eventi del Novecento italiano nelle memorie di una protagonista: dalla Resistenza alle battaglie per i diritti del lavoro, dalla Fiat agli anni del terrorismo fino alle «fabbriche della morte»


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Bianca Guidetti Serra, Contro l’ergastolo. Il processo alla banda Cavallero,
Edizioni dell’Asino, 2010.

La storia della Banda Cavallero, apparsa nel 1994 in Storie di giustizia, ingiustizia e galera (Linea d’ombra), perché utile a illuminare la realtà contraddittoria del processo penale, il ruolo non rieducativo del carcere e la disumanità di una condanna come quella dell’ergastolo.


Storie di Giustizia, Ingiustizia e Galera

Bianca Guidetti Serra, Storie di Giustizia, Ingiustizia e Galera


SCHEDATURE FIAT 1Bianca Guidetti Serra, Le schedature Fiat. Cronaca di un processo e altre cronache, Rosemberg & Sellier,1984, p. 160. Con prefazine di Stefano Rodotà.

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Il paese dei CelestiniBianca Guidetti Serra, Francesco Santanera (a cura di), Il paese dei Celestini. Istituti di assistenza sotto processo, Einaudi, 1973.

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Jorge Luis Borges (1899-1986) – Non c’è libro meno bisognoso di prologo di questo, dalla genesi indolente, formato da una sedimentazione di prologhi …

Borges 01

J. L. Borges, L'idioma degli argentini

Logo Adelphi

Jorge Luis Borges, L’idioma degli argentini, Adelphi, 2016

A cura di Antonio Melis.
Traduzione di Lucia Lorenzini.

Risvolto di copertina

Che ci racconti del truco, grazie al quale i giocatori, dimesso l’io abituale, diventano criollos che «vogliono spaventare la vita a grida»; o di coltelli che cercano i sentieri della morte e del Chileno, signore dell’insolenza, che si dissangua a terra; o dell’origine del tango, la cui patria sono gli angoli delle case rosate dei sobborghi, la protervia domenicale del guappo e il chiasso delle popolane sui portoni; o di una notte serena capace di rivelare miracolosamente il «senso reticente o assente dell’inconcepibile parola eternità»; o della felicità, che «non è meno sfuggente nei libri che nella vita»; o del metodo insospettabile e segreto con il quale Cervantes suscita nel lettore «una reazione di compassione e perfino di collera di fronte alle infinite iniquità che affliggono l’eroe»; o, infine, delle differenze fra lo spagnolo degli spagnoli e quello della conversazione argentina, il Borges di questo libro giovanile, ripudiato e ora finalmente ritrovato, è già, inconfondibilmente, il grande Borges. E solo apparente è l’«aria enciclopedica e guerrigliera», giacché tre direzioni cardinali lo governano: «La prima è un sospetto, il linguaggio; la seconda è un mistero e una speranza, l’eternità; la terza è questo godimento, Buenos Aires».

Scrive Maria Grazia Profeti (Alias, il manifesto, 18-12-2016): «Forse uno dei più evidenti motivi di interesse dell’Idioma degli argentini risiede proprio nel tentativo dell’autore di fare i conti con il legato spagnolo, come veniva percepito in Amertica Latina, riflettendo insomma sulla formazione di quell'”idioma”. Lo sottolinea adeguatamente Antonio Melis, nel saggio conclusivo, nel quale ripercorre la storia editoriale del libro, e dove nota come Borges “non perda l’occasione per scrivere un altro capitolo della polemica contro la letteratura spagnola”».

Maria Grazia Profeti,
Eroici furori giovanili di fronte al legato spagnolo

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Blaise Pascal (1623-1662) – Tutta la nostra dignità sta nel pensiero. Mentre l’universo non ne sa nulla. Lavoriamo, quindi, a ben pensare: ecco il principio della morale.

Blaise Pascal 01

Pascal_Pensieri_Einaudi

«L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna che pensa. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di quel che lo uccide, perché sa di morire e la superiorità che l’universo ha su di lui; mentre l’universo non ne sa nulla.
Tutta la nostra dignità sta, dunque, nel pensiero. In esso dobbiam cercare la ragione per elevarci, e non nello spazio e nella durata, che non potremmo riempire. Lavoriamo, quindi, a ben pensare: ecco il principio della morale».

Blaise Pascal, Pensieri [377 (347)], Einaudi, 1974, pp. 161-162.

 


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Ferruccio Rossi-Landi (1921-1985) – Pensiero come ragione creatrice di realtà. Realizzare tale pensiero e rendere permanenti quelle esperienze per mezzo di progettazioni sociali vuol dire costruire un futuro affatto diverso dal passato e dal presente che ci opprimono. Ma allora non c’è scelta: bisogna costruirlo; ed è questo il senso della rivoluzione.

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«Io me la rido degli uomini cosiddetti “pratici” e della loro saggezza.
Se si vuol essere un bue,
naturalmente si può voltar la schiena ai tormenti dell’umanità
e badare solo alla propria pelle».

Karl Marx a Siegfried Meyer, 30 aprile 1867.

Il linguaggio come lavoro e come mercato

Il linguaggio come lavoro e come mercato

«Penetriamo nel mezzo delle cose. Gli atteggiamenti di coloro che scelgono di non essere buoi si possono classificare secondo alcuni criteri strettamente interconnessi: (i) la misura
in cui gli aspetti negativi, che ognuno avverte nella situazione umana, vengono considerati costitutivi della natura stessa dell’uomo; (ii) la misura in cui si ritiene che il negativo possa venir eliminato per opera dell’uomo stesso; e (iii) la misura in cui la fonte della capacità di giudicarne viene considerata estranea alla storia o alla natura. La posizione da cui si prendono . qui le mosse è che una natura umana separata dalla storia semplicemente non esiste; da ciò segue, da un lato, che tutto ciò che vi è di negativo nella storia “fa parte” della natura umana, ma che ne fa parte anche la capacità di giudicarne […]. È rivoluzionaria l’azione che tende a ricongiungere coscienza e praxis; è conservatrice l’azione che in un modo qualsiasi ostacola tale ricongiungimento. […] Siamo così giunti a formulare un tipo di privilegiamento del discorso ideologico radicalmente diverso da quello prima esaminato. È l’ideologia come progettazione sociale fondata su di un privilegiamento dinamico anziché statico, nel futuro anziché nel passato, infra-storicamente anziché extra-storicamente.
La realtà cui essa si riferisce non la vincola se non nel senso in cui l’oggetto da costruirsi vincola il costruttore.
Questa progettazione dà pertanto luogo non già a una scienza del già fatto, bensl a una scienza del da farsi, che esclude il soltanto-naturale e il sovra-naturale perché è proprio e soltanto come scienza appartenente per intero alla storia che si costituisce. In essa si esprime l’esigenza di ricongiungere la praxis e il pensiero cioè di essere una scienza generale dell’uomo. […] Si spera di superare la falsità della coscienza in quanto si progetta una situazione nuova, finora non mai verificatasi storicamente, nella quale tale falsità si formi sempre meno, fin verso la meta ideale di non formarsi affatto. È un’ideologia innovatrice anziché conservatrice, che comporta una rivalutazione volontaristica del pensiero come ragione creatrice di realtà.
La coscienza e la praxis che si tratta di ricongiungeré stanno insieme solo nel futuro. Ciò vuoi dire che in questo momento esse stanno insieme solo nel pensiero – o in quelle rare esperienze di libera integrità che tutti i rivoluzionari ci descrivono come tipiche dell’azione storica felice e che la società richiudendosi su se stessa a guisa di mare sporco immediatamente inghiotte e cancella. Realizzare tale pensiero e rendere permanenti quelle esperienze per mezzo di progettazioni sociali vuol dire costruire un futuro affatto diverso dal passato e dal presente che ci opprimono.
Ma allora non c’è scelta: bisogna costruirlo; ed è questo il senso della rivoluzione.
Milano, aprile 1967».

Ferruccio Rossi-Landi, Ideologia come progettazione sociale, saggio apparso in Ideologie, 1967, I, 1°, pp. 1-25, poi in Id., Il linguaggio come lavoro e come mercato, Bompiani, 1968, pp. 161.131-

 


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Peter Sloterdijk – Devi cambiare la tua vita! Questo è il comando metanoico per eccellenza. Esso fornisce la parola chiave per la rivoluzione. È soggetto chi si dedica a un programma per eliminare da se stesso la passività e passa dal mero essere-formato al versante del darsi-forma.

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«Devi cambiare la tua vita! Questo è l’imperativo che supera l’alternativa tra ipotetico e categorico, l’imperativo assoluto, il comando metanoico per eccellenza. Esso fornisce la parola chiave per la rivoluzione, declinata alla seconda persona singolare. Esso definisce la vita come un dislivello tra le sue forme più elevate e quelle più basse. lo vivo, ma qualcosa mi dice con autorità inconfutabile: non vivi ancora correttamente. L’autorità numinosa della forma gode del privilegio di rivolgersi a me con un “tu devi”: è l’autorità di una vita diversa in questa vita. Questa autorità coglie in me una sottile insufficienza, che è più antica e più libera della colpa. Si tratta del mio più intimo non-ancora. Nel mio istante più cosciente vengo colto dalla protesta assoluta contro il mio status qua. Cambiare me stesso è ciò di cui ho bisogno. Se tu dunque cambi veramente la tua vita, non faresti che dare retta alla tua migliore volontà, non appena capisci che una tensione verticale, a te favorevole, sta scardinando la tua vita» (p. 33).

«L’acrobatica è sovversione dall’alto, […] cammina sopra e oltre l’“esistente”. Il principio sovversivo, o meglio, sopravversivo, non alberga nell’Über di Überheblichkeit (arroganza), né alberga nell’hyper di hybris o nel super di superbia, ma nell’“acro” di acrobatica. Il termine “acrobatica” rimanda all’espressione greca usata per indicare il camminare sulle punte dei piedi (da akros, alto, in cima, e bainein, andare, camminare). Designa la forma più elementare della naturale contronaturalità.» (p. 155).

«È soggetto chi si dedica a un programma per eliminare da se stesso la passività e passa dal mero essere-formato al versante del darsi-forma» (p. 239)

«Da quando è iniziata la catastrofe globale, con il suo parziale disvelamento, è comparsa nel mondo una nuova configurazione dell’imperativo assoluto, che si indirizza a tutti e a nessuno sotto forma di severo ammonimento: cambia vita! Altrimenti prima o poi il completo disvelamento della crisi vi dimostrerà che cosa vi siete lasciati sfuggire all’epoca dei segni preliminari» (p. 547).

Peter Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita, Raffaello Cortina Editore, 2010.

 

 

Risvolto di copertina
"Devi cambiare la tua vita!": così intimava al poeta la voce che Rilke udì al museo del Louvre agli inizi del Novecento. Politica e religione ci hanno tentato per secoli, ma oggi l'una è in crisi mentre l'altra sembra cavalcare prepotentemente i nuovi fondamentalismi. In quest'ampia indagine sulla natura umana Peter Sloterdijk confuta che a ritornare sia il sentimento religioso. Semmai è presente in ogni piega della nostra società il disagio etico suscitato dalla constatazione che "così non possiamo più andare avanti" e che, dunque, ogni persona debba seriamente lavorare su se stessa per essere e rimanere all'altezza delle sfide del nostro mondo. Dopotutto, cosa accomuna un pizzaiolo e uno yogi, un sacerdote e una modella, un economista e una biologa se non il continuo esercizio teso a migliorare il proprio "rendimento"? Non si tratta solo del successo sulla scena pubblica, bensì di una elevazione che continuamente slitta dal piano fisico a quello spirituale e dal piano individuale a quello planetario. Al tempo degli antichi Greci era l'obiettivo della saggezza; oggi che tale parola sembra desueta non perde il suo mordente la stessa "pericolosa" pratica della filosofia.

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