Levis Mumford (1895-1990) – Gli utopisti trattano sempre la società come un tutto unico. La nostra civiltà ha poi diviso la vita in compartimenti. Sono giunto dunque a considerare il pensiero utopista come l’opposto dello spirito unilaterale, partigiano, specialistico.

Levis Mumford

Anche la più ingenua utopia possiede qualità umane
che mancano del tutto nei progetti dei super-uomini.
L. Mumford

 

Storia dell'utopia

Storia dell’utopia

Introduzione di Franco Crespi Traduzione di Roberto D’Agostino, Donzelli, 2008.


014  

«Ogni comunità, oltre alle istituzioni in vigore, possiede una riserva di potenzialità, che in parte sono radicate nel passato, ancora vive anche se celate, e in parte derivano da nuovi rapporti e mutamenti, che aprono la via ad ulteriori sviluppi».

 

Levis Mumford, Storia dell’utopia.


 

 

008   «Poco dopo la prima guerra mondiale, io vivevo ancora nel clima di speranza della generazione passata; ma mi rendevo conto che l’entusiasmo del grande XIX secolo era giunto alla fine. Quando ho iniziato ad esaminare storicamente le utopie, intendevo chiarire che cosa in esse fosse andato perduto e definire che cosa fosse ancora valido. Fin dal principio ero conscio di una virtù che era stata inspiegabilmente trascurata: le opere classiche degli utopisti trattavano sempre la società come un tutto unico e tenevano conto dei rapporti esistenti tra funzioni, istituzioni e fini dell’uomo. La nostra civiltà ha poi diviso la vita in compartimenti. Sono giunto dunque a considerare il pensiero utopista come l’opposto dello spirito unilaterale, partigiano, specialistico»

Anche la più ingenua utopia che sia stata mai scritta, possiede qualità umane che mancano del tutto nei progetti dei «super-uomini» di scienza e degli individui dalla cieca morale che hanno inventato l’attuale strategia russo-americana di sterminio totale. Gli utopisti, pur avendo sopravvalutato le forze degli ideali, sono chiaramente in possesso delle loro facoltà e vicini alla realtà umana, molto più dei «realisti» – scienziati e militari – che hanno trasformato l’uso delle armi assolute in un ideale di costrizione. Questi cervelli sottosviluppati sono pronti a decimare e ad annientare la razza umana piuttosto di rinnegare le arbitrarie e irrazionali premesse sulle quali hanno posato la loro corrotta e ormai fallimentare strategia. I responsabili delle attività scientifiche, tecnologiche e militari che hanno più disprezzato la funzione degli ideali, trasformano oggi in un nuovo ideale l’espansione della loro capacità di distruzione e di sterminio.

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Ludovico Geymonat (1908-1991) – L’intellettuale non-conformista, per svolgere la sua funzione, deve militare fuori dei partiti burocratizzati, ed eventualmente contro di essi. Questa sua funzione non può essere svolta per intero senza un rapporto organico con le masse. un rapporto organico con le masse non richiede la mediazione dei partiti.

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008[…] Non ci sono dubbi che la nozione di intellettuale organico debba essere superata. […] l’obbiettivo della rivoluzione è stato accantonato dagli eredi di Gramsci e la vita «provvisoria» entro le strutture pluralistiche pare diventata definitiva. Nonostante questo, la macchina e l’intellettuale di Gramsci sono sopravvissuti. È sopravvissuto un rigido apparato di persuasori senza più alcuno scopo, se non la sua stessa riproduzione su scala allargata, entro questa società. […]

 Quel che mi preme è che esso venga riconosciuto come autentico problema con tutte le sue conseguenze:


1) che l’intellettuale non-conformista – per svolgere la sua funzione – deve militare fuori dei partiti burocratizzati, ed eventualmente contro di essi;

2) che questa sua funzione non può essere svolta per intero senza un rapporto organico con le masse;
3) che un rapporto organico con le masse non richiede la mediazione dei partiti.

 


Il ruolo dei partiti nella società contemporanea. Ho tentato di mettere in luce il loro crescente contrasto con la società civile, conseguente allo sviluppo di strutture burocratiche rigide ai loro vertici. Dato che i partiti costituiscono l’asse della così detta vita democratica, questo contrasto mi sembra dovrebbe essere sufficiente a raffreddare gli entusiasmi di tutta la sinistra verso l’attuale sistema democratico-parlamentare e indurli a riflettere seriamente sui modi del suo superamento. È qui che entra in gioco l’analogia – da un lato – tra teorie scientifiche e patrimonio scientifico-tecnico, e – dall’altro – tra ordinamenti giuridici e società civile. La pretesa di assolutizzare l’ordinamento odierno con le sue libertà formali e assumerlo come criterio per valutare tutte le altre società, è tanto regressiva quanto quella di assumere una particolare teoria scientifica, per quanto potente e riuscita, come punto di arrivo insuperabile. Così come è l’impatto del patrimonio scientifico-tecnico a vanificare le seconde, allo stesso modo è l’impatto della società civile a vanificare le prime. Nel caso in esame, è la crescente incapacità dei partiti di valorizzare e utilizzare l’iniziativa di individui e di gruppi che non accettano di inserirsi nelle loro burocrazie, e – quel che è peggio – la loro tendenza a soffocare questo tipo di iniziative.


Non c’è in questa tua posizione una polemica implicita contro la nozione di intellettuale organico di Gramsci?

Non ci sono dubbi che la nozione di intellettuale organico debba essere superata. Era una nozione perfettamente coerente con la visione del partito di Gramsci, di un partito che doveva bensì vivere provvisoriamente entro le strutture pluralistiche della «democrazia» borghese, ma la cui vera funzione era quella di rovesciarle per instaurare la dittatura del proletariato. La sua struttura doveva quindi riflettere questa funzione senza lasciarsi «corrompere» dall’ambiente in cui provvisoriamente doveva operare. Dato che – in una società complessa come quella italiana – questa macchina per la rivoluzione non avrebbe potuto dare tutti i suoi frutti senza il «consenso», a questo dovevano pensare gli intellettuali.
Ma l’obbiettivo della rivoluzione è stato accantonato dagli eredi di Gramsci e la vita «provvisoria» entro le strutture pluralistiche pare diventata definitiva. Nonostante questo, la macchina e l’intellettuale di Gramsci sono sopravvissuti. È sopravvissuto un rigido apparato di persuasori senza più alcuno scopo, se non la sua stessa riproduzione su scala allargata, entro questa società. E gli altri partiti, quelli a così detta «struttura interna democratica», hanno più o meno seguito questo esempio. Una delle conseguenze di siffatto processo di subordinazione di tutte le istanze della vita civile, sia culturale che economica, è stata da un lato l’eclisse di ogni creatività intellettuale – con l’eccezione forse del campo della ricerca scientifica in senso stretto, proprio perché questa è finora riuscita a conservare una organizzazione autonoma rispetto ai partiti – e dall’altro l’avvio di un’economia assistita e clientelare in cui i parametri decisionali sono costituiti quasi esclusivamente dagli interessi delle strutture burocratiche dei partiti.

Dunque al livello delle strutture profonde un’evoluzione per certi versi analoga a quella dell’Unione Sovietica.

Non credo infatti che dobbiamo farci ingannare dalla schiuma di superficie. Certo, in Italia gli intellettuali discutono, polemizzano, dissentono liberamente, ma entro ben determinati limiti e per lo più in forme puramente retoriche. Mancano, a ben guardare, sia un’autentica creatività intellettuale sia una seria possibilità di interventi efficaci – sulle strutture della società – al di fuori di quelli voluti dai vertici dei partiti. Con una sola differenza rispetto all’URSS: i sovietici hanno bisogno della polizia per ottenere il conformismo; noi siamo più maturi, ne abbiamo meno bisogno. Inoltre, anche per quanto riguarda l’URSS, le ragioni di questa degenerazione vanno cercate nella transizione dal partito di lotta di Lenin al partito di governo di Stalin senza che la struttura interna del partito venisse mutata in vista del cambiamento di funzioni.


In questo spazio interamente coperto dai partiti
che tendono a fungere quali partiti di governo come dovrebbe muoversi l’intellettuale non-conformista?

 Può ben darsi che questa specie – dopo la sua stagione d’oro nel ‘700 – sia ormai in via di estinzione … Alcuni esemplari sopravvivono ancora in quello spazio che fino ad oggi meno ha subito la pressione dei partiti, e cioè l’Università. Certo in Italia la situazione è peggiore che in Francia o in Inghilterra. Non è affatto escluso che la degradazione in cui l’Università è stata spinta dalla complicità di tutti i partiti sia stata un modo indiretto per piegare queste resistenze, per far scomparire queste zone di relativa libertà di ricerca. Ma anche se riuscissimo a salvare queste «zone franche», difficilmente la funzione dell’intellettuale non conformista potrebbe esaurirsi entro di esse. Senza un rapporto organico con le masse, si regredisce alla figura dell’intellettuale di tipo illuminista che è del tutto inadeguata rispetto alle esigenze di società come le nostre in cui il ruolo delle masse è decisivo.

Ma le masse sono nei partiti. Dunque un rapporto con le prime deve passare attraverso i secondi. Fuori dai partiti, fuori dalle masse?

 Non lo credo affatto. Quel che la Chiesa prima, e poi quei suoi moderni sostituti che sono i partiti (nel senso sopra accennato del termine), hanno tentato di fare sistematicamente, è stato di liquidare i movimenti di massa, o reprimendoli o riassorbendoli. Ciò mostra l’esistenza di una profonda frattura tra partiti e masse.

Ma non è affatto chiaro come l’intellettuale non-conformista possa occupare questo spazio vuoto.

 Per questo problema non ho soluzioni. Quel che mi preme è che esso venga riconosciuto come autentico problema con tutte le sue conseguenze:

1) che l’intellettuale non-conformista – per svolgere la sua funzione – deve militare fuori dei partiti burocratizzati, ed eventualmente contro di essi;
2) che questa sua funzione non può essere svolta per intero senza un rapporto organico con le masse;
3) che un rapporto organico con le masse non richiede la mediazione dei partiti.

Sotto quale forma possa organizzarsi questo rapporto e in che modo debba svolgersi questa militanza fuori dai partiti burocratizzati, questo è un problema aperto. Ma – ripeto – non riusciremo mai a risolverlo senza rico noscerlo come tale, chiaramente, spregiudicatamente.

Ludovico Geymonat, Paradossi e rivoluzioni. Intervista su scienza e politica, a cura di Giulio Giorello e Marco Mondadori, il Saggiatore, 1979, pp. 126-129.

«Ludovico Geymonat, un intellettuale “indisciplinato” rispetto all’ortodossia dei partiti che per varie ragioni respingevano – spesso in modo sbigativo – atteggiamenti autonomi, proposte innovative e di critiche alla cultura […]». Mario Quaranta


Ludovico Geymonat

Nato a Torino l’11 maggio 1908, deceduto a Rho (Milano) il 29 novembre 1991, filosofo e matematico. È considerato uno dei più importanti filosofi italiani del Novecento. Di famiglia valdese, si era laureato in filosofia all’Università di Torino nel 1930 e, due anni dopo, aveva conseguito la laurea in matematica. Durante il ventennio, avendo rifiutato di iscriversi al PNF, gli fu preclusa la carriera accademica; si mantenne insegnando in scuole private.

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Nel 1942, Geymonat aderì al Partito comunista clandestino e, dopo l’armistizio, fece della sua casa di Barge il centro organizzativo delle Brigate Garibaldi della zona.
I fascisti lo arrestarono nel novembre del 1943, ma il professore, incarcerato a Saluzzo, fu rilasciato per mancanza di prove. Prese così la strada dei monti e, con il nome di copertura di “Luca Ghersi”, divenne commissario politico della 55° Brigata “Carlo Pisacane”, operante nella valle del Po.
Dopo la Liberazione, Geymonat (che fu capo redattore dell’edizione piemontese de l’Unità e assessore al Comune di Torino), intraprese l’insegnamento universitario.
Dal 1956 al 1978, tenne all’Università di Milano la prima cattedra di Filosofia della scienza istituita in Italia. Partecipò anche alla fondazione del Centro di Studi metodologici di Torino e, nel 1963, cominciò a dirigere la collana di classici della Scienza, della Casa editrice UTET.
Negli ultimi anni della sua vita, Geymonat lasciò il PCI, si avvicinò a Democrazia Proletaria e aderì, infine, al Partito della Rifondazione Comunista. Grande divulgatore della storia della filosofia (molto diffuso nei Licei il suo manuale Storia del pensiero filosofico e scientifico), Geymonat ha lasciato molte importanti opere. Ricordiamo: Il problema della conoscenza nel positivismo (1931), La nuova filosofia della natura in Germania (1934), Studi per un nuovo razionalismo (1945), Saggi di filosofia neorazionalistica (1953), Galileo Galilei (1957), Filosofia e filosofia della scienza (1960), Scienza e realismo (1977). Di Geymonat sono anche i sette volumi della Storia del pensiero filosofico e scientifico, scritti tra il 1970 e il 1976. Del 1974 è Attualità del materialismo dialettico, in collaborazione con Bellone, Giorello e Tagliagambe e, del 1986 (con Giorello e Minazzi) Le ragioni della scienza.

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Geymonat e Dal Pra. Foto Vito Panico – Copyright Vito Panico.


Ludovico Geymonat (1908-1991) – Si sostiene oggi da varie parti che nel mondo attuale non vi è più posto per la filosofia. Io non sono affatto di questo parere. Le ricerche specialistiche non si rivelano in grado di generare un’autentica cultura.


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Karl Mannheim (1893-1947) – L’utopia impedisce alla realtà esistente di tramutarsi in assoluta. Noi consideriamo come utopie tutte le idee trascendenti una situazione data, le quali hanno comunque un effetto nella trasformazione dell’ordine storico-sociale esistente. Una mentalità si dice utopica quando è in contraddizione con la realtà presente.

Karl Mannheim

 

MANNHEIM

 


014  

«Ogni evento storico si presenta come una continua liberazione dell’ordine esistente, per mezzo dell’utopia, che da esso ha origine […] Noi consideriamo come utopie tutte le idee trascendenti una situazione data, le quali hanno comunque un effetto nella trasformazione dell’ordine storico-sociale esistente».

 

Karl Mannheim, Ideologia e utopia, il Mulino, Bologna 1957.


 

 

008   «La tesi principale della sociologia della conoscenza è che ci sono aspetti del pensare, i quali non possono venire adeguatamente interpretati, finché le loro origini sociali rimangono oscure. È senz’altro vero che l’individuo pensa. Non esiste sopra o sotto di lui un’entità metafisica, quale la coscienza di gruppo, di cui il singolo potrebbe, nel migliore dei casi, riprodurre le idee. Nondimeno, sarebbe falso dedurre da un tale fatto che le idee e i sentimenti di un individuo abbiano origine in lui solo e possano essere convenientemente spiegati sull’unica base della sua esperienza» (p. 8).
«A rigore, non è corretto dire che il singolo individuo pensa. È molto più esatto affermare che egli contribuisce a portare avanti il pensiero dei suoi predecessori. Egli si trova ad ereditare una situazione in cui sono presenti dei modelli di pensiero ad essa appropriati e cerca di elaborali ulteriormente, o di sostituirli con altri, per rispondere, nel modo più conveniente, alle nuove esigenze, nate dai mutamenti e dalle trasformazioni occorse nella realtà» (p. 9).

 

«Il conoscere è ideologico, quando non riesce a rendersi conto dei nuovi elementi insiti nella situazione o quando tenta di passare loro sopra considerandoli in termini ormai del tutto inadeguati» (p. 103).

 

 

049    La funzione dell’utopia è proprio quella di portare alla luce questi nuovi elementi
e di valorizzarli in massimo grado:
«Una mentalità si dice utopica
quando è in contraddizione con la realtà presente
» (p. 211).

«Utopici possono invero considerarsi soltanto quegli orientamenti che, quando si traducono in pratica, tendono, in maniera parziale o totale, a rompere l’ordine prevalente» (p. 211).

«Noi consideriamo utopie tutte le idee (e non soltanto, quindi, la proiezione dei desideri) trascendenti una situazione data, le quali hanno comunque un effetto nella trasformazione dell’ordine storico-sociale esistente» (p. 225).

«Da questo punto di vista, ogni evento storico si presenta come una continua liberazione dall’ordine esistente per mezzo dell’utopia, che da esso ha origine. Solo nell’utopia e nella rivoluzione si dà una vita autentica, mentre l’ordine istituzionale non rappresenta altro che il cattivo residuo delle rivoluzioni e delle utopie in fase di declino» (p. 217).

«In opposizione all’idea conservatrice di un ordine stabilito, l’utopia impedisce alla realtà esistente di tramutarsi in assoluta, concependola invece come una delle possibili “topie”, da cui scaturiranno quegli elementi utopici che a loro volta porranno in crisi lo stato attuale” (p. 217).

«Ogni epoca produce (nei gruppi sociali diversamente situati) quelle idee e quei valori in cui si condensano, per così dire, le tendenze non ancora realizzate e soddisfatte, che rappresentano i bisogni di ciascuna età. Codesti elementi intellettuali costituiscono allora il materiale esplosivo per far saltare in aria l’ordinamento esistente. La realtà presente dà origine alle utopie che, a loro volta, ne rompono i confini per lasciarla libera di svilupparsi nella direzione dell’ordine successivo» (p. 218).



Karl Mannheim, Ideologia e utopia, il Mulino, Bologna 1957.


 Per leggere ancora sull’argomento


Maria Luisa Bernieri, Attualità delle Utopie, in Volontà n. 6/7 1949.
Martin Buber, Sentieri in utopia, ed. Comunità, Milano 1967.

Thomas A. Reiner, Utopia e urbanistica, Marsilio, Padova 1967.
Leonardo Benevolo, Le utopie del secolo XIX,  in Le origini dell’urbanistica moderna,  Laterza, Bari 1968.
Lewis Mumford, Storia dell’utopia, ed. Calderini, Bologna 1969.
Pierluigi Giordani, Il futuro dell’utopia, Calderini, Bologna 1969.
Claudio Stroppa, Comunità e Utopia, Dedalo, Bari 1970.
Françoise Choay, La città. Utopie e realtà, vol. I e II, Einaudi, Torino 1973.
Massimo Baldini, Il pensiero utopico, Città Nuova, Roma 1974.
Otto Rühle , Il coraggio dell’utopia, ed. Guaraldi, Firenze 1972.
Rita Cirio e Pietro Favari (a cura), Utopia rivisitata, Bompiani, Milano 1974.
Maria Luisa Berneri, Viaggio attraverso Utopia, Arch. Fam. Berneri, (1950) Pistoia 1981
AA.VV., La cittàdell’utopia, pp.291, cheiwiller, Milano 1999.
Salvatore Santuccio, L’utopia nell’architettura del ‘900, Alinea, Firenze 2003


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Bronisław Baczko (1924-2016) – Rari sono coloro che spontaneamente proclamano di essere utopisti. Di norma sono gli altri a chiamarli così, intendendo con ciò presentarli come sognatori, inventori di chimere.

Bronisław Baczko

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Bronisław Baczko, L’utopia.
Immaginazione sociale e rappresentazioni utopiche nell’età dell’illuminismo
(Einaudi, Torino 1979)


014  «Essere uno storico non significa soltanto studiare il passato come professione, o mestiere; non soltanto disporre di una certa forma di erudizione o appropriarsi di un certo numero di tecniche di indagine. I grandi storici si sono distinti per il fatto che per loro essere storico significava anche un particolare modo di essere e di radicarsi nel mondo sociale, pensarlo in un modo proprio».

B. Baczko, Se n’è andato uno storico, “società e storia”, n. 42, 1988.


 

 

008«Rari sono coloro che spontaneamente proclamano di essere utopisti. Di norma sono gli altri a chiamarli così, intendendo con ciò presentarli come sognatori, inventori di chimere».



Bronisław Baczko, Lumières de l’utopie (Payot, Paris 1978), Utopia, in Enciclopedia Einaudi, Vol. XIV, Einaudi, Torino 1981, p. 870.




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Moses Israel Finley (1912-1986) – Apatia e ignoranza politica sono oggi un dato fondamentale. Forme nuove di partecipazione popolare, ateniesi nello spirito se non nella sostanza devono essere inventate. L’utopia trascende la realtà sociale, ma non è trascendentale.

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«L’utopia trascende la realtà sociale, ma non è trascendentale».

Moses Israel Finley, Utopie antiche e moderne,
in Uso ed abuso della storia, Einaudi, Torino 1981, p. 270.


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008«Apatia e ignoranza politica sono oggi un dato fondamentale, al di là di ogni possibile discussione; le decisioni non sono il frutto del voto popolare, che al massimo ha un occasionale potere di veto a fatto compiuto, ma sono prese dai leader politici. Il punto è stabilire se nella situazione odierna questo stato di cose è necessario e auspicabile o se forme nuove di partecipazione popolare, ateniesi nello spirito se non nella sostanza – se così mi posso esprimere – devono invece essere inventate».



Moses Israel Finley, La democrazia degli antichi e dei moderni, trad. di G. Di Benedetto e F. de Martino – postfazione di C. Ampolo, Milano, 1992, p. 36. [nuova ed. 2010].


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Indice

Prefazione alla seconda edizione

Prefazione alla prima edizione

I. Governanti e governati

II. La democrazia, il consenso e l’interesse nazionale

III. Socrate e dopo

Appendice Censura nell’antichità classica

Postfazione di Carmine Ampolo

Indice dei nomi



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Jean-Jacques Rousseau (1712-1778 ) – Qualcuno pensò di dire «questo è mio». «Guardatevi dal dare ascolto a questo impostore; siete perduti se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra è di nessuno».

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008Il primo che, dopo aver recintato un terreno, pensò di dire questo è mio, e trovò altri tanto ingenui da credergli, fu il vero fondatore della società civile. Quanti crimini, conflitti, omicidi, quante miserie e quanti orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che, strappando i paletti o colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: «Guardatevi dal dare ascolto a questo impostore; siete perduti se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra è di nessuno».



J.-J. Rousseau, Scritti politici, a cura di P. Alatri, Torino, 1970, pp. 289, 321.




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Salvatore Antonio Bravo – Marx poeta nel suo anelito all’universale: «Non rimaniamo immobili Senza volere né fare niente. Non subiamo passivamente il giogo ignominioso. Il desiderio, la passione, l’azione sono parte di noi».

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Marx poeta nel suo anelito all’universale

 

Karl Marx è stato scrittore e filosofo poliedrico. Il genio filosofico non si caratterizza per la fissità della forma, ma è polimorfo: la vita che il genio sente profondamente, si esprime in una pluralità di stili. Karl Marx fu poliedrico, ma coerente nell’intento della sua opera: l’emancipazione degli uomini dal giogo dell’economicismo alienante, consapevole che ogni liberazione non può che avvenire nella collettività e con la comunità. Un uomo reso atomo non è più tale, ma è solo un ente tra gli enti pronto ad essere quantificato, misurato, ridotto a sola soma, a solo corpo. In Marx la vita è processo, lotta empatica dalla quale e per la quale le forze plastiche per la liberazione rinascono come l’araba fenice. C’è un Marx ritenuto minore, secondario rispetto alle opere filosofiche, ovvero il Marx della prima giovinezza. Marx poeta, nel quale l’uomo già si mostra, mediante il poetare in rima baciata ed alternata. Le poesie giovanili come la tesi su Democrito ed Epicuro, ci offrono elementi riflessione per capire la profondità prismatica del Filosofo. La lettura delle poesie dimostra quanto la motivazione e l’indignazione verso le ingiustizie sono la forza emotiva della trascendenza del pensiero marxiano. Nelle poesie è presente l’anelito alla bellezza, ad un mondo pacificato mediante la lotta. L’eros platonico è linfa vitale nelle poesie come nei manoscritti, senza di esso non vi sarebbe opera filosofica o scientifica. Il desiderio di un mondo in cui gli uomini possano essere “umani” e non sfruttatori o padroni, si configura nel movimento dialettico dell’eros platonico, del suo anelare all’universale mediante un’elevazione che sani le scissioni:

«Ecco perché, mio caro Fedro, posso dire che l’Eros è pieno di bellezza e bontà al più alto grado ed è quindi, per tutti gli esseri, la fonte dei più alti beni. Vorrei dirlo in versi, questo: Eros è il dio che dà «la pace agli uomini, la calma al mare, la tregua ai venti, il riposo al dolore». È lui a liberarci dall’odio, lui a donarci l’amicizia; di tutti i conviti, come il nostro adesso, è il fondatore; nelle feste, nei cori, nei sacrifici, è lui a farci da guida; vi porta la dolcezza, allontana ogni rancore, generosissimo di ogni bene, non sa cosa sia la malvagità, propizio ai buoni, esempio ai saggi, ammirato dagli dèi, è cercato da chi non ha amore, prezioso per chi lo possiede. Il Lusso, la Delicatezza, la Voluttà, le Grazie, la Passione, il Desiderio sono i suoi figli. È pieno di attenzione verso i buoni ma si allontana dai malvagi, e nel dolore, nella paura, nel desiderio, nel discorso, egli è sempre lì, pronto a combattere. È il nostro sostegno, la nostra salvezza per eccellenza. È l’onore di tutti gli dèi, di tutti gli uomini; è la guida più bella, la migliore, e ogni uomo deve seguirlo, celebrare la sua gloria con splendidi inni e cantare con lui quel canto con cui conquista i cuori di tutti gli dèi e di tutti gli uomini[1]

Il nucleo delle poesie come delle opere giovanili fanno della speranza il nucleo vivente che dialettizza il pensiero perché lo motiva. Non vi è Rivoluzione senza l’entusiasmo, senza lo scandalo dinanzi all’ingiustizia. In assenza del pathos della speranza concreta, c’è solo la passione triste, che rafforza le contraddizioni e naturalizza il presente. Dinanzi alle ingiustizie, alle riforme del lavoro, agli olocausti del capitalismo privato, come di stato, se l’indifferenza regna, la causa è da ricercare nell’aggressione alla categoria del possibile, alla speranza, all’incondizionato desiderare dell’umanità. Se un essere umano lo si priva della speranza, ogni disposizione al pensiero come alla lotta è necrotizzata. Nelle poesie di Marx la speranza scorre tra le parole, per diventare dotta speranza, docta spes, come affermava E. Bloch, ovvero la speranza marxiana sarà sempre prassi mediata dalle circostanze storiche. Si pensi alla lettera ad Arnold Ruge del 1843 in cui Marx prefigura “il sogno di una cosa”. La speranza è dunque la cifra, una delle cifre con cui possiamo unificare il pensiero di Marx. Tra il 1835 ed il 1836 Karl Marx studente all’università di Bonn, mostrò la sua vena letteraria anche con la scrittura di poesie e romanzi, già rivelatasi al liceo ginnasio di Trier. Il liceo era diretto dal prof. Wittenbach il quale invitava gli alunni ad esprimersi, a non temere ad essere se stessi. Non si può non pensare alla nostra nichilistica scuola, la quale in nome del paradigma dell’azienda forma all’omologazione, alla negazione di se stessi. Il mercato è il leitmotiv a cui le nuove generazioni debbono sacrificare i loro talenti. La formazione dovrebbe favorire la pluralità delle espressioni, oggi si assiste invece, al trionfo programmato dell’homo laborans laborans. Si insegna l’atomismo di Stato, mediante la pratica della competizione. Le poesie di Marx ci invitano a pensare alla lotta, ad avere dubbi e specialmente attraverso il suo amore dell’umanità, ad essere consapevoli che non è finita: la storia è in divenire, la vita non la si può rinchiudere in recinti ideologici e renderla ipostasi. Il grande timore del lobbismo finanziario è la vita in sé. Lottano contro la vita, hanno necessità di rinchiuderla in una spazio angusto per potersene difendere. Lo spettro di Marx si aggira e cercano di neutralizzarlo con l’aziendalizzazione delle istituzioni e del pensiero. Nella poesia Sentimenti, un Marx giovanissimo con la sua forza plastica invita alla lotta, a non accettare l’ingiustizia e la negazione dell’uomo nella sua umanità come un evento normale, quotidiano:

                       Sentimenti

 

 

Non posso occuparmi tranquillamente
Di ciò che agita il mio animo.
Non posso restare calmo
Quando tutto mi chiama alla lotta
Vorrei conquistare tutto,
Tutti i favori divini,
Assimilare tutte le scienze,
Abbracciare tutte le arti.
Andiamo arditamente avanti
Senza tregua né riposo.
Non rimaniamo immobili
Senza volere né fare niente.
Non subiamo passivamente
Il giogo ignominioso,
Il desiderio, la passione, l’azione
Sono parte di noi.[2]

La teoria e la prassi compaiono in questa con una chiarezza lapalissiana. La cultura, le scienze non sono nulla se non servono a trasformare il mondo, ad essere dono per gli uomini. Il fine della produzione culturale è capire per trasformare il mondo. Il mondo è emendabile solo attraverso la lotta. Prometeo era il mito prediletto di Marx. Ed ancora:

       Orgoglio d’uomo

 

 

Nessuna frontiera ci arresta,
Nessun paese ci trattiene,
E noi vaghiamo sui flutti
Lontano in terra straniera.
Nessuna può fermarci,
Chiudere la nostra speranza,
Le forme svaniscono
E restano solo gioia e sofferenza.
Questi mostri lontani
Ritti solo per paura,
Non sentono il fuoco d’amore
Che li tolse al nulla.
Non c’è colonna che si sollevi
Da sola arditamente.
Costruita pietra su pietra,
Come il lento incedere della lumaca.
Ma l’anima è onnipotente,
Vero fuoco gigante,
Anche se cade
Trascina astri nella caduta.
Da sola, vittoriosamente,
S’innalza verso il cielo,
Gettando gli dei nell’abisso
Col bagliore del lampo negli occhi.
Non le fanno paura le vette
Dove si muove il pensiero divino,
Che l’anima stringe al petto,
La sua grandezza è la preghiera.
Dovrebbe consumarsi da sola,
Sprofondare nella propria grandezza,
Il tuono rimbomba dove gorgogliano i vulcani
E i demoni la circondano piangendo.
Morendo lancia la sua sfida,
Innalza un trono per colmo d’ironia,
Perfino la sconfitta è vittoria
Il fiero disprezzo ricompensa di eroi.
Ma quando il fuoco unisce due esseri,
Quando due anime si saldano strettamente,
Quando l’una annuncia all’altra
Che non è più sola nell’universo.
Allora attraverso lo spazio si sente
Come un suono d’arpa eolia,
Bruciano nel fulgore dell’eterna bellezza
Il desiderio e la passione.
Jenny, posso dirlo chiaramente:
Le anime che ci siamo scambiate
Bruciano dello steso fuoco,
Le loro onde scorrono nello stesso flutto.
Allora getto il guanto
In faccia al mondo,
Crolli pure il nano gigante,
I suoi frantumi non spegneranno l’ardore che mi anima
Come gli dei andrò avanti,
Vittorioso fra le rovine,
Ogni parola fiamma e azione
Sarò pari al Creatore.[3]

La poesia dedicata a Jenny, la futura moglie, sembra parlare all’umanità intera, ancora una volta l’anima si erge contro le forze che vogliono addomesticarla, renderla insignificante presenza. Il senso di una vita è magnificare la propria anima nella lotta. Marx si spinge ad affermare che la sconfitta è vittoria, perché l’azione contro le ipostasi, le divinità posticce è già vincere. Lottare è vincere la propria paura e le proprie pigrizie, per cui ogni azione di liberazione, a prescindere dai risultati, è un’uscita dalla caverna nelle quali forze oscure vogliono che l’anima sia umiliata e tacitata. Lottare è creare, ogni lotta vuole una rigenerazione che si irradia. La chiusura atomistica nella caverna non è vittoria, non è sconfitta, è un’esistenza al limite del nulla in solitudine. La sconfitta presuppone la lotta ed il superamento di ogni fatalismo. Le poesie di Marx, non ci parlano solo dell’uomo Marx, ma specialmente dei nostri giorni consumati in un’anomia senza speranza. Rileggere le poesie di Marx può essere un esercizio per capire l’autore e rimotivarci a pensare. Non dobbiamo restare in poltrona ad almanaccare di quello che potrebbe essere, ma partecipare alla storia che altrimenti fugge dalle nostre vite:

Nella sua poltrona

 

 

Comodamente stupido nella sua poltrona,
Il pubblico tedesco siede in silenzio.
Su e giù scroscia la tempesta,
Più scuro e più cupo si annuvola il cielo,
Fra i lampi saettanti,
Questo non lo smuove nel pensiero.
Eppure quando sorge il sole,
L’aria sussurra, la tempesta si placa,
Allora si leva ed emette un grido,
E scrive un libro: “il rumore è passato”.
Su ciò incomincia a fantasticare,
Vuole andare alla radice delle cose,
Crede che non sia il modo giusto,
Anche il cielo se ne fa gioco,
Perché tutto sia regolato più sistematicamente,
Prima grattando la testa, poi i piedi,
Si comporta dunque come un bimbo,
Cerca cose che sono marcite
Avrebbe dovuto invece comprendere il presente,
E lasciare andare la terra e il cielo,
Tutto va comunque per la sua strada
E l’onda scorre tranquilla lungo la rocce[4]

Leggere o rileggere le poesie di Marx è un arricchimento culturale ed emotivo, ma specialmente dimostrano l’attualità della Filosofia di Marx, ed anche l’inesauribile densità dell’approccio olistico della Filosofia la quale sa guardare l’autore nella sua totalità per individuarne la linfa vitale che scorre, animando il suo pensiero.

Salvatore Antonio Bravo

 

[1] Platone, Simposio, Il Giardino dei Pensieri, pag. 38

[2] Rivista di Storia delle Idee 3:2 (2014) pp. 133-139 – ISSN.2281-1532 http://www.intrasformazione.com DOI 10.4474/DPS/03/02/MTR142/07 Patrocinata dall’Università degli Studi di Palermo.

[3] Ibidem.

[4] Ibidem.


 

 

Jenny e Karl Marx

Jenny e Karl Marx

KARL MARX A JENNY MARX, TREVIRI

Manchester, 21 giugno 1856
34, Butler street, Greenbeys

Mio caro tesoro,

ti scrivo di nuovo, perché sono solo e perché mi secca tenere continui dialoghi mentali con te, senza che tu ne sappia nulla o tu mi possa rispondere[…]

Io ti ho viva davanti a me e ti porto in palmo di mano, e ti bacio dalla testa ai piedi, e cado in ginocchio davanti a te, e sospiro: «Madame, io vi amo ». E davvero io ti amo, più di quanto abbia amato il Moro di Venezia. Il mondo falso e corrotto coglie tutti i caratteri in modo falso e corrotto. Chi dei miei numerosi calunniatori e nemici dalla lingua biforcuta mi ha mai rimproverato di essere chiamato a recitare la parte di primo amoroso in un teatro di seconda classe? Eppure è così. Se quei furfanti avessero avuto dello spirito, avrebbero dipinto da una parte «i rapporti di produzione e di commercio» e dall’altra me ai tuoi piedi. “Look to this picture and to that” [“Guardate questo ritratto e quello”] — vi avrebbero scritto sotto. Ma furfanti stupidi sono costoro e rimarranno stupidi in saecula saeculorum.

Una assenza momentanea fa bene, perché quando si è presenti le cose sembrano troppo eguali per distinguerle. Persino le torri da vicino hanno proporzioni nanesche, mentre le cose piccole e quotidiane, considerate da vicino, crescono troppo. Così è per le passioni. Piccole abitudini le quali con la vicinanza che esse impongono assumono forma appassionata, scompaiono non appena il loro oggetto immediato è sottratto alla vista. Grandi passioni che per la vicinanza del loro oggetto assumono la forma di piccole abitudini, crescono e raggiungono di nuovo la loro proporzione naturale per l’effetto magico della lontananza. Così è con il mio amore. Basta che tu mi sia allontanata solo dal sogno e io so immediatamente che il tempo è servito al mio amore per ciò a cui servono il sole e la pioggia alle piante, per la crescita. Il mio amore, appena sei lontana, appare per quello che è, un gigante in cui si concentra tutta l’energia del mio spirito e tutto il carattere del mio cuore.

Io mi sento di nuovo un uomo, perché provo una grande passione, e la molteplicità in cui lo studio e la cultura moderna ci impigliano, e lo scetticismo con cui necessariamente siamo portati a criticare tutte le impressioni soggettive e oggettive, sono fatti apposta per renderci tutti piccoli e deboli e lamentosi e irrisoluti. Ma l’amore non per l’uomo di Feuerbach, non per il metabolismo di Moleschott, non per il proletariato, bensì l’amore per l’amata, per te, fa dell’uomo nuovamente un uomo.

Mia cara, tu sorriderai e ti chiederai come mai tutto a un tratto divento così retorico ? Ma se potessi stringere il tuo cuore al mio cuore, tacerei e non direi parola. Poiché non posso baciare con le labbra, sono costretto a farlo con il linguaggio e le parole…

In realtà molte donne sono a questo mondo, e alcune di esse sono belle. Ma dove ritrovo un volto nel quale ogni tratto, anzi ogni piega risveglia i ricordi più grandi e più dolci della mia vita? Nel tuo viso soave io leggo persino le mie sofferenze infinite, le mie perdite irreparabili, e quando bacio il tuo dolce viso riesco ad allontanare con i baci la sofferenza. « Sepolto nelle sue braccia, risvegliato dai suoi baci » — cioè nelle tue braccia e dai tuoi baci e io regalo ai bramini e a Pitagora la loro teoria della rinascita e al cristianesimo la sua teoria della risurrezione […]

Addio tesoro mio. Ti bacio migliaia di volte insieme alle bambine.

Tuo Karl

 


Salvatore Antonio Bravo – Una morale per M. Foucault?
Salvatore Bravo – Aldo Capitini e la omnicrazia. L’apertura è sentire la compresenza dell’altro, sentire la propria vita fluire nell’altro, lasciarlo essere, amarlo per quello che è, liberarlo dalla paura del potere, della mercificazione.
Salvatore Bravo – L’abitudine alla mera sopravvivenza diviene abitudine a subire. Ma possiamo scoprire, con il pensiero filosofico, che “oltre”, defatalizzando l’esistente, c’è la buona vita.
Salvatore Bravo – La filosofia è nella domanda di chi ha deciso di guardare il dolore del mondo. Responsabilità della filosofia è il riposizionarsi epistemico per mostrare la realtà della caverna e rimettere in azione la storia.
Salvatore Antonio Bravo – L’epoca del PILinguaggio. Il depotenziamento del linguaggio è attuato dalla globalizzazione capitalistica, nel suo allontanamento dalla persona e dalla comunità.
Salvatore Bravo – Sentire se stessi è possibile attraverso l’uscita dalla caverna dei cattivi pensieri quotidianamente inoculati assumendo la libertà di vivere i poliedrici colori del possibile.
Salvatore Bravo – La tolleranza è parola invocata nel quotidiano terrore dei giorni. La tolleranza nasconde il volto aggressivo della globalizzazione. È la concessione della legge del più forte, il diritto di vivere concesso dal potere.
Salvatore Antonio Bravo – Il tempo che ha la sua base nella produzione delle merci è esso stesso una merce consumabile. Ogni resistenza dev’essere svuotata della sua temporalità e colonizzata dalle immagini dello spettacolo globale.
Salvatore Antonio Bravo – Le miserie della società dell’abbondanza. La verità del consumo è che essa è in funzione non del godimento, bensì della produzione.
Salvatore Antonio Bravo – La società dei cacciatori. L’atomismo sociale e la deriva individualista dei nostri giorni, trovano la loro sostanza in un’immagine esplicativa della condizione umana postmoderna: il cacciatore.
Salvatore Antonio Bravo – «Le vespe di Panama» di Z. Bauman. La filosofia perde la sua credibilità e la sua natura critica e costruttiva se vive nel mondo temperato delle accademie e degli studi televisivi e mediatici, dove campeggia l’uomo economico: turista della vita, vagabondo tra le mercificazioni.
Salvatore Antonio Bravo – Il comunista è un pensatore militante, consapevole dunque che la sua azione è perenne: non vi sono sistemi o regimi che concludono la storia e pacificano gli animi. In Marx l’idea del comunismo si concretizza anzitutto nell’immagine di una società in cui l’individuo, liberato dall’alienazione, diventa un uomo totale, universale, cioè capace di dar pieno sviluppo alla sua personalità.
Salvatore Antonio Bravo – Theodor L. Adorno, in «Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa», ci comunica l’urgenza di un nuovo esserci. Chi vuol apprendere la verità sulla vita immediata, deve scrutare la sua forma alienata, le potenze oggettive che determinano l’esistenza individuale fin negli anditi più riposti. Colui che non vede e non ha più nient’altro da amare, finisce per amare le mura e le inferriate. In entrambi i casi trionfa la stessa ignominia dell’adattamento.
Salvatore Antonio Bravo – «Viva la Revoluciòn» di E. Hobsbawm.
Salvatore Antonio Bravo – Evald Ilyenkov e la logica dialettica. Occorre studiare il pensiero come un’attività collettiva, in cooperazione. Il capitalismo è profondamente anticomunitario, trasforma tutto in merce, disintegra le comunità, smantella la vita nella sua forma più alta: il pensiero comunitario consapevole.
Salvatore Antonio Bravo – «Il giovane Marx», di György Lukács. L’intera opera di Marx è finalizzata dall’amore per l’umanità che si fa pensiero consapevole della disumanità di ogni condizione di alienazione, e di ogni reificazione negatrice della libertà.
Salvatore Antonio Bravo – Il libro di Norman G. Finkelstein, «L’industria dell’olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei».
Salvatore Antonio Bravo – Il mercato e l’asservimento della Scuola: il mito dell’orientamento consapevole. Ciò che occorre invece è tempo per un’educazione da esseri umani, per lo sviluppo intellettuale, per l’adempimento di funzioni sociali, per rapporti socievoli, per il libero gioco delle energie vitali fisiche e mentali.

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Michel Pastoureau – Il rosso per millenni è stato dominante sia nella cultura materiale, che nei codici sociali e nei sistemi di pensiero.

Michel Pastoureau
Rosso. Storia di un colore

Rosso. Storia di un colore

008«Lo storico deve costantemente rammentare che non esiste alcuna verità universale del colore, né per quanto riguarda le sue definizioni, le sue pratiche o i suoi significati, né per quanto riguarda la sua percezione. Anche in questo caso, tutto è culturale, strettamente culturale». M. Pastoureau, in Medioevo simbolico.


Michel Pastoureau, Rosso. Storia di un colore, traduzione di Guido Calza, Ponte alle Grazie, 2017, pp. 261.

 


 Risvolto di copertina

Nella civiltà occidentale, il rosso è il primo colore che viene usato sia in pittura che in tintoria. Probabilmente è per questo che è stato a lungo il colore per eccellenza, il più ricco dal punto di vista sociale, artistico e simbolico. Nell’Antichità è stato il simbolo della guerra, della ricchezza e del potere. Nel Medioevo ha assunto una forte connotazione religiosa, evocando sia il sangue di Cristo che le fiamme dell’Inferno, ma nella dimensione profana è stato anche il colore dell’amore, della gloria e della bellezza e la Rivoluzione francese lo farà diventare anche un colore ideologico e politico. Il primo colore che l’uomo abbia padroneggiato, fabbricato, riprodotto e dunque quello sul quale lo storico, il sociologo o l’antropologo hanno più cose da dire che su tutti gli altri. Rosso – quarto capitolo di un’opera di alto profilo che vede in libreria Blu, Nero, Verde e prevede il giallo come quinta e ultima tappa – è un testo ricchissimo, che considera il rosso lungo un orizzonte temporale molto ampio e sotto tutti i punti di vista: una bussola che ci permetterà di orientarci nel labirinto cromatico di questo colore archetipico della storia e della cultura occidentale.


 

«Oggi il blu è il colore preferito in Occidente ma nell’antichità contava poco, al contrario del rosso che per millenni è stato dominante sia nella cultura materiale, che nei codici sociali e nei sistemi di pensiero».
«La sua egemonia nasce per questioni materiali visto che è il colore i cui pigmenti sono più facili da trovare in natura e da fabbricare, con una vasta gamma di tonalità. Come sempre, al dato materiale si aggiunge quello simbolico. È il colore ambivalente, ispirato al sangue, dunque alla vita ma anche alla morte, o a un elemento distruttore come il fuoco».
«Già durante il paleolitico viene considerato come un colore che protegge. I capi se lo cospargono sul corpo, viene messo nei sepolcri con blocchi d’argilla. Nell’antica Roma solo l’imperatore ha il diritto di vestirsi interamente di porpora. Anche i Papi per secoli sono stati ammantati di rosso, solo dopo il Medioevo è comparso il bianco. Ancora oggi la simbologia degli onori sociali è legata a questo colore: si dice per esempio “stendere il tappeto rosso”. È anche un accessorio della bellezza, dei primi trucchi, tra l’altro anche maschili. Fino al Diciottesimo secolo, i nobili si truccavano il viso di rosso».
«L’evoluzione più recente si ha con la storia della bandiera rossa sventolata come simbolo di pace durante una manifestazione della Rivoluzione francese, nel 1791. Allora l’esercito sparò lo stesso e con i martiri quel drappo è diventato emblema politico della rivolta popolare, poi della sinistra».
«E poi c’è l’amore in ogni sua forma …».
Michel Pastoureau

Michel Pastoureau

Medioevo simbolico
Laterza
Sinossi
La mitologia di alberi e boschi, i bestiari delle fiabe, il gioco degli scacchi, la storia e l’archeologia dei colori, l’origine degli stemmi e delle bandiere, la leggenda di re Artù e quella di Ivanhoe. Un grande storico dei simboli alle prese con l’affascinante complessità di segni e sogni del Medioevo occidentale.
Indice

Il simbolo medievale. In che modo l’immaginario fa parte della realtà

Una storia da costruire – L’etimologia – L’analogia – Lo scarto, la parte e il tutto – I modi di intervento

L’animale

I processi ad animali. Una giustizia esemplare?

Il Medioevo cristiano di fronte all’animale – La scrofa di Falaise – Una storiografia deludente – Tipologia dei processi – Perché tanti maiali in tribunale? – L’anima delle bestie – La buona giustizia

L’incoronazione del leone. In che modo il bestiario medievale si è dato un re

Leoni dappertutto – La fauna del blasone – Una triplice eredità – Nascita del leopardo – L’arca di Noè – L’orso detronizzato

Cacciare il cinghiale. Dalla selvaggina regale alla bestia impura: storia di una svalutazione

Le cacce romane – I libri di caccia coi cani – Dai testi cinegetici ai documenti di archivio – Il cinghiale, un animale diabolico – Il cervo, un animale cristologico – La Chiesa di fronte alla caccia

Il vegetale

Le virtù del legno. Per una storia simbolica dei materiali

Un materiale vivente – La materia per eccellenza – Il taglialegna e il carbonaio – L’ascia e la sega – Gli alberi benefici – Gli alberi malefici

Un fiore per il re. Per una storia medievale del giglio di Francia

Un fiore mariano – Un fiore regale – Un ornamento cosmico – Un fiore condiviso – Una monarchia vegetale, p. 97

Il colore

Vedere i colori del Medioevo. È possibile una storia dei colori?

Difficoltà documentarie – Difficoltà metodologiche – Difficoltà epistemologiche – Il lavoro dello storico – Speculazioni dotte – Pratiche sociali – Vedere i colori nel quotidiano

Nascita di un mondo in bianco e nero. La Chiesa e il colore dalle origini alla Riforma

Luce o materia? – La chiesa medievale, tempio del colore, p. 125 – Liturgia del colore – L’abito: dal simbolo all’emblema – Un colore onesto: il nero – La «cromoclastia» della Riforma

I tintori medievali. Storia sociale di un mestiere riprovato

Artigiani divisi e litigiosi – Il tabù delle mescolanze – Le raccolte di ricette – Difficoltà della tintura medievale, p. 165 – Un mestiere svalutato – I dati del lessico – Gesù tra i tintori

L’uomo rosso. Iconografia medievale di Giuda

Giuda non è solo – Il colore dell’altro – Rosso, giallo e chiazzato – Tutti i mancini sono rossi

L’emblema

La nascita delle arme. Dall’identità individuale all’identità familiare

La questione delle origini – Il problema della datazione, p. 197 – L’espressione dell’identità – La diffusione sociale, p. 201 – Figure e colori – Brisure e arme parlanti – La lingua del blasone – Dallo scudo al cimiero – La mitologia della parentela

Dalle arme alle bandiere. Genesi medievale degli emblemi nazionali

Un oggetto storico poco studiato – Dall’oggetto all’immagine – Una storia lunga – L’esempio bretone – Quando l’emblema fa la Nazione – Un codice europeo a scala planetaria – Come nascono le bandiere – Stato o Nazione?

Il gioco

L’arrivo del gioco degli scacchi in Occidente. Storia di una acculturazione difficile

Un gioco venuto dall’Oriente – La Chiesa e gli scacchi – L’avorio, un materiale vivente – Ripensare i pezzi e la partita – Dal rosso al nero – Una struttura infinita – Un gioco per sognare

Giocare al re Artù. Antroponimia letteraria e ideologia cavalleresca

Una letteratura militante – Dai nomi letterari ai veri nomi, p. 272 – Rituali arturiani – Tristano, l’eroe preferito – Ideologia del nome

Risonanze

Il bestiario di La Fontaine. L’armerista di un poeta nel XVII secolo

Un bestiario familiare – Un armerista letterario – Animali emblematici – Araldica della favola

Il sole nero della malinconia. Nerval lettore delle immagini medievali

Un manoscritto prestigioso – Il sole nero – I fermenti della creazione – Un’opera aperta

Il Medioevo di «Ivanhoe». Un best-seller d’epoca romantica

Uno straordinario successo di libreria – Dalla storia al romanzo e ritorno – Un Medioevo esemplare

Note

Fonti

Indice analitico



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Ludovico Geymonat (1908-1991) – Si sostiene oggi da varie parti che nel mondo attuale non vi è più posto per la filosofia. Io non sono affatto di questo parere. Le ricerche specialistiche non si rivelano in grado di generare un’autentica cultura.

Ludovico Geymonat 01
Contro il moderatismo

Contro il moderatismo

 

008[…] si sostiene oggi da varie parti che nel mondo attuale non vi è più posto per la filosofia. Io non sono affatto di questo parere. Le ricerche specialistiche hanno dei compiti via via più importanti, vero è però che esse non si rivelano in grado di generare un’autentica cultura.


«[…] si sostiene oggi da varie parti che nel mondo attuale non vi è più posto per la filosofia. Tutti sono disposti a riconoscere che in altre epoche essa rappresentò il grande tronco della cultura: tronco da cui si diramarono a poco a poco le singole branche del sapere (dalle scienze matematiche alle scienze fisiche, a quelle sociali) e che costituì per molti secoli la base ultima su cui esse si reggevano; oggi però – si aggiunge – tali discipline sono diventate maggiorenni, non hanno più bisogno di cercare fuori di sé il proprio fondamento, possono fare tranquillamente a meno della matrice da cui hanno tratto la loro prima origine. Oggi la cultura si concretizza nelle indagini specialistiche, le quali sole hanno i mezzi per accrescere sul serio le nostre conoscenze; al di là di queste indagini vi è unicamente il vuoto dei discorsi retorici, indegni di un qualsiasi studioso serio.

Se accettassimo tali argomentazioni, non ci resterebbe che proporre la chiusura di tutti gli Istituti di Filosofia o la loro trasformazione in Istituti di carattere specialistico, rivolti all’approfondimento di qualche settore particolare della cultura; per esempio dell’antropologia, della storia della filosofia, della metodologia delle scienze, o di qualche altro campo che possa apparire più in linea con la moda culturale del momento.

Desidero dichiarare subito, con molta franchezza, che io non sono affatto di questo parere.

Se è indubbiamente vero che oggi le ricerche specialistiche hanno dei compiti via via più importanti e danno prova di saperli assolvere con grande efficacia accrescendo di giorno in giorno il dominio dell’uomo sul mondo, vero è però che esse non si rivelano in grado di generare un’autentica cultura.

[…] Va poi osservato che non è neanche vero che l’impostazione rigorosamente specialistica risulti oggi del tutto soddisfacente per le stesse scienze particolari. Al contrario, sono proprio esse a dare segni manifesti di una esigenza antitetica: sono cioè gli stessi specialisti ad accorgersi di non poter approfondire oltre un certo limite le loro indagini senza impegnarsi in problemi che richiedono discussioni più ampie […]».

Ludovico Geymonat, Per un nuovo insegnamento della filosofia [1964], in Id., Contro il moderatismo. Interventi dal 1945 al 1978, a cura di Mario Quaranta, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 137-138.

«Ludovico Geymonat, un intellettuale “indisciplinato” rispetto all’ortodossia dei partiti che per varie ragioni respingevano – spesso in modo sbigativo – atteggiamenti autonomi, proposte innovative e di critiche alla cultura […]». Mario Quaranta, in ibidem, p. 7.


Ludovico Geymonat

Nato a Torino l’11 maggio 1908, deceduto a Rho (Milano) il 29 novembre 1991, filosofo e matematico. È considerato uno dei più importanti filosofi italiani del Novecento. Di famiglia valdese, si era laureato in filosofia all’Università di Torino nel 1930 e, due anni dopo, aveva conseguito la laurea in matematica. Durante il ventennio, avendo rifiutato di iscriversi al PNF, gli fu preclusa la carriera accademica; si mantenne insegnando in scuole private.

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Nel 1942, Geymonat aderì al Partito comunista clandestino e, dopo l’armistizio, fece della sua casa di Barge il centro organizzativo delle Brigate Garibaldi della zona.
I fascisti lo arrestarono nel novembre del 1943, ma il professore, incarcerato a Saluzzo, fu rilasciato per mancanza di prove. Prese così la strada dei monti e, con il nome di copertura di “Luca Ghersi”, divenne commissario politico della 55° Brigata “Carlo Pisacane”, operante nella valle del Po.
Dopo la Liberazione, Geymonat (che fu capo redattore dell’edizione piemontese de l’Unità e assessore al Comune di Torino), intraprese l’insegnamento universitario.
Dal 1956 al 1978, tenne all’Università di Milano la prima cattedra di Filosofia della scienza istituita in Italia. Partecipò anche alla fondazione del Centro di Studi metodologici di Torino e, nel 1963, cominciò a dirigere la collana di classici della Scienza, della Casa editrice UTET.
Negli ultimi anni della sua vita, Geymonat lasciò il PCI, si avvicinò a Democrazia Proletaria e aderì, infine, al Partito della Rifondazione Comunista. Grande divulgatore della storia della filosofia (molto diffuso nei Licei il suo manuale Storia del pensiero filosofico e scientifico), Geymonat ha lasciato molte importanti opere. Ricordiamo: Il problema della conoscenza nel positivismo (1931), La nuova filosofia della natura in Germania (1934), Studi per un nuovo razionalismo (1945), Saggi di filosofia neorazionalistica (1953), Galileo Galilei (1957), Filosofia e filosofia della scienza (1960), Scienza e realismo (1977). Di Geymonat sono anche i sette volumi della Storia del pensiero filosofico e scientifico, scritti tra il 1970 e il 1976. Del 1974 è Attualità del materialismo dialettico, in collaborazione con Bellone, Giorello e Tagliagambe e, del 1986 (con Giorello e Minazzi) Le ragioni della scienza.

Geymonat e Dal Pra

Geymonat e Dal Pra

 



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Werner Jaeger (1888-1961) – Assistiamo ad uno spezzettamento della vera paideia, che sempre era stata educazione dell’uomo alla «areté intera», in una quantità di capacità speciali senza un fine dominante. Restituire questo fine alla vita dell’uomo e così conferire, di nuovo, significato e unità a tutte le singole parti, ormai disgregate, dell’esistenza.

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008Non è lecito in nessun caso dare poca importanza alla vera educazione: è dovere di ognuno dedicarsi a questo fine per tutta la vita e con tutte le forze. Assistiamo ad uno spezzettamento della vera paideia, che sempre era stata educazione dell’uomo alla «areté intera», in una quantità di capacità speciali senza un fine dominante. Restituire questo fine alla vita dell’uomo e così conferire, di nuovo, significato e unità a tutte le singole parti, ormai disgregate, dell’esistenza.


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Sostiene Platone che «l’educazione degli educati» nel loro insieme è di altissima importanza per la polis, perché ne fa uomini di reale capacità che fanno tutto come si deve […]. Cultura (paideia) produce vittoria, ma non sempre la vittoria produce anche cultura: spesso anzi ne nasce incultura (apaideusìa).

[…] Nell’uso comune, spiega Platone, si suol chiamare paideia la formazione acquisita in ogni specie di attività, e si suol parlare di paideia o del suo contrario perfino nei mestieri di mercante o di padrone di nave o in qualsiasi altra simile attività.
Però se la paideia si considera dal nostro punto di vista, cioè da quello di un educatore, che vuol infondere nello stato un certo ethos, uno spirito che lo penetri in tutto, allora per cultura si deve intendere piuttosto una educazione alla virtù iniziata fin dalla prima fanciullezza, che ecciti nell’uomo il desiderio di divenire un compiuto cittadino […].

A tutte le altre specie di formazione riferentisi solo a qualcosa di particolare si dovrebbe, a rigore, rifiutare il nome di cultura, paideia, giacché sono banausiche, mirano al guadagno o a un’altra qualunque capacità o conoscenza, priva di principio spirituale che la governi e di fine retto, o sono puro mezzo e strumento. […] Giacché non c’è dubbio per lui che gli uomini educati bene, in generale, diventano uomini valenti. Non è lecito in nessun caso dare poca importanza alla vera educazione; essa è anzi, per i migliori tra gli uomini, il più alto di tutti i valori ideali […]. E quando questo valore venga a scadere e il restaurarlo appaia possibile, è dovere di ognuno dedicarsi a questo fine per tutta la vita e con tutte le forze.

Con queste parole Platone caratterizza se stesso e l’opera della sua vita. Come ai suoi occhi si presenti lo stato di fatto, egli lo dice qui chiaramente: si tratta dello spezzettamento della vera paideia, che sempre era stata educazione dell’uomo alla «areté intera», in una quantità di capacità speciali senza un fine dominante. La filosofia di Platone vuoi restituire questo fine alla vita dell’uomo e così conferire, di nuovo, significato e unità a tutte le singole parti, ormai disgregate, dell’esistenza. Egli dové accorgersi a fondo che la sua epoca, nonostante la mirabile ricchezza di capacità e conoscenze speciali, rappresentava in realtà una caduta di livello della cultura.

Quel che egli intenda per ricostruzione della paideia, lo rappresenta chiaramente con la contrapposizione della vera educazione umana, che egli cerca, alla formazione meramente speciale e professionale.

Riconquistare al suo tempo questa totalità dell’areté, e quindi dell’uomo e della vita, era il compito più duro e meritorio di tutti, non paragonabile con qualsiasi altro servizio che lo spirito filosofico potesse rendere in questo o quel campo di conoscenza.

La soluzione che di tal problema Platone concepisce si può meglio che altrove scorgere nella Repubblica, il cui edificio tutto si fonda sul fatto che l’idea del bene, principio primo di tutti i valori, è posta dominatrice nel centro del cosmo. La scoperta decisiva, per quel che spetta all’educazione, è che essa ha da prendere le mosse da questo quadro del cosmo, e deve volgersi intorno all’idea del bene, come intorno al suo sole. […]

Il suo ideale di paideia è, nella sua più intima essenza, autodominio, non dominio esercitato da altri, dal di fuori, con la forza […].

 

 

Werner Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, 3 voll., La Nuova Italia, Firenze 1999, vol. III, pp. 387-395.


Werner Jaeger (1888-1961) – L’arte ha in sé una illimitata capacità di comunicazione spirituale, perché possiede ad un tempo quella universalità e quell’evidenza vitale immediata che sono le due condizioni più importanti dell’efficacia educativa. La poesia si trova così sempre in vantaggio, rispetto ad ogni ammaestramento meramente razionale e a tutte le verità di ragione universali. La poesia è più filosofica della vita reale, ma è anche più piena di vita che la conoscenza filosofica, mercé la sua concentrata realtà spirituale.

Werner Jaeger (1888-1961) – L’importanza storica dei Greci quali educatori deriva dalla nuova e consapevole concezione della posizione dell’individuo nella comunità. La loro scoperta dell’uomo non è la scoperta dell’Io soggettivo, ma l’acquistar coscienza delle leggi universali della natura umana.

Werner Jaeger (1888-1961) – Stato non è mai mera potenza, ma è sempre la struttura spirituale del portatore di questa potenza, dell’uomo. L’incultura è la causa per cui gli stati vanno in rovina. È chiaro allora che bisogna togliere agl’incolti la possibilità d’influire sull’azione del governare.

Werner Jaeger (1888-1961) – Assistiamo ad uno spezzettamento della vera paideia, che sempre era stata educazione dell’uomo alla «areté intera», in una quantità di capacità speciali senza un fine dominante. Restituire questo fine alla vita dell’uomo e così conferire, di nuovo, significato e unità a tutte le singole parti, ormai disgregate, dell’esistenza.


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