Mario Vegetti (1937-2018) – Il tempo, la storia, l’utopia. Cè il tempo dell’utopia, cioè della realizzazione della kallipolis attuata. L’avvento della kallipolis rappresenta un’esigenza necessaria come intenzione di governare il disordine, ma esso è improbabile (non però, per le stesse ragioni, impossibile).

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L’avvento della kallipolis nella storia è descritto da Platone come un evento possibile nell’infinità della distensione temporale (502 b I: en panti to chrono), ma non necessario né programmaticamente prevedibile, benché certamente intenzionato e atteso. Esso dipende piuttosto da una sorta di arresto della dialettica storica degenerativa, dall’inserzione subitanea di un asse verticale di valore sul movimento orizzontale di questa dialettica.

 

L’avvento della kallipolis rappresenta un’esigenza necessaria come intenzione di governare il disordine, di arrestare la degenerazione verso la tirannide del tempo storico-umano, ma esso è improbabile (non però, per le stesse ragioni, impossibile), e risulterebbe comunque precario, appunto perché si pone in controtendenza rispetto alla dinamica dialettica di questo stesso tempo.

 

Il potere della verità. Saggi platonici

Mario Vegetti

Il potere della verità. Saggi platonici

Carocci, 2018.

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Recensioni

Franco Ferrari, Alias de il Manifesto, 20-05-2018

Alcuni stralci del capitolo 7, dove si parla

di utopia

e di kallipolis

 

Il tempo, la storia, l’utopia

 

 

La struttura compositiva dei libri VIII e IX della Repubblica pone immediatamente un problema: perché la kallipolis – cioè la forma compiuta di una società umana governata secondo giustizia – compaia all’inizio della “storia”, anziché al suo termine, come era accaduto nel primo movimento del dialogo, dal libro II al V. […] perché, dunque, la kallipolis è situata ora all’ inizio e non alla fine dei tempi?» (p. 171).

«[…] per chi attribuisca a Platone la convinzione che il progetto utopico sia in qualche misura praticabile – risulta importante una seconda funzione argomentativa. Nel libro VI Socrate aveva indicato tre possibili dimensioni temporali per l’esistenza della kallipolis: «nell’infinito tempo passato, o anche oggi in qualche regione barbarica […] oppure se accadrà nel futuro» (499C-d). Si trattava ora di proteggere la prima ipotesi – come vedremo tutt’altro che irrilevante – da una possibile obiezione: se la città dell’utopia è esistita nel passato, perché oggi non esiste più? E reciprocamente, la sua attuale inesistenza non è prova che essa non è mai davvero esistita? A questo risponde il libro VIII: se anche fosse esistita nel passato, la kallipolis non avrebbe potuto durare indefinitamente nel tempo, e la sua scomparsa non dimostra quindi la sua impossibilità.
Questo argomento è rilevante perché in 592.a Glaucone avrebbe seccamente respinta la seconda possibilità evocata da Socrate (che la città giusta esista ora in qualche luogo della terra). Quanto alla dimensione futura […] costituisce, come vedremo, uno dei maggiori problemi interpretativi dei nostri due libri.
Torniamo però all’ipotesi di una kallipolis formatasi in un remoto passato, e poi inevitabilmente estinta nel corso del tempo. Essa va situata in un contesto più ampio e trasversale, che riguarda in Platone il tema ricorrente del tempo delle origini» (p. 172).

«Il tempo propriamente umano inizia […] con l’esplosione della crisi, del disordine, del conflitto – insomma, dal punto di vista antropologico, della pleonexia. Solo a partire di qui vengono prodotti i saperi, la filosofia, la politica: insomma le tecniche umane per governare il disordine dopo la catastrofe delle origini. E con esse nascono […] le figure destinate a quesro governo del disordine: appunto il filosofo, il politico, il legislatore.
La kallipolis della Repubblica, in quanto realizzazione compiuta di questo governo del disordine, che consegue finalmente un controllo politico e psicologico sulla pleonexia, appare dunque collocata logicamente non all’inizio ma al termine del processo, come pieno dispiegamenro della condizione storico-umana. Tuttavia, se la si considera dal punto di vista della crisi, essa può anche apparire come un inizio, in quanto questa stessa crisi può venir pensata come un effetto della sua disgregazione, della sua instabilità e del suo fallimento nel compito di governare il disordine. Questo non comporta ancora, almeno per quanto riguarda la Repubblica, una visione ciclica del tempo storico-umano, perché la stessa realizzazione della kallipolis non è che una possibilità bensì latente in questo tempo, ma tutt’altro che necessitata da esso, che potrebbe dunque permanere nel disordine delle sue origini.
Lo spostamento di prospettiva, che disloca la città dell’ordine giusto non alla fine ma all’inizio del tempo umano, diventa invece, nel linguaggio mitico del Timeo, una «verità» (26C7-d I) che colloca senza incertezze una kallipolis, dai tratti simili se pure contraffatti rispetto a quella della Repubblica […] novemila anni prima di Socrate e Crizia (la sua distruzione sarebbe qui stata dovuta a un cataclisma naturale, e non a una instabilità strutturale).
Né l’ambigua collocazione della kallipolis della Repubblica (alla fine ma anche all’inizio del tempo), né la dislocazione mitica di quella del Timeo in un’epoca remota, possono tuttavia fare di entrambe un’imitazione (mimema) del regno di Crono […].
Se mai, c’è un segnale dell’ambiguità della collocazione della kallipolis della Repubblica sul tranquillo crinale che separa precariamente, con il suo controllo etico-politico, due fasi del disordine nella storia umana» (p. 174).

«Nel sorprendente ricongiungimento fra i due estremi del libro VIII, che salda il principio e la fine della “storia” della degenerazione etico-politica, è forse da leggere un’indicazione precisa: il governo del disordine, una volta che sia eventualmente conseguito, reca in sé un fattore di instabilità perché tende a sostituire la tensione “filosofica” verso l’ordine con forme di condizionamento educativo intese certo a favorirne il consolidamento, ma che sono d’altra parte incapaci di riattivarne il senso, e dunque impotenti a controllare il risorgere di quei desideri pleonectici il cui orizzonte compiuto è il massimo disordine della tirannide.
La decisione platonica di collocare la kallipolis nel libro VIII all’inizio del tempo storico-umano ha dunque anche questo significato: di mostrare che la sua eventuale realizzazione, come compimento dello sforzo di governo del disordine, può costituire il fine di questo tempo, ma certamente non la sua fine (non più di quanto un altro operatore d’ordine, il demiurgo del Timeo, possa determinare la fine dell’influenza caotica della “necessità” nel mondo)» (p. 175).

«L’instabilità del governo del disordine è resa inevitabile dal suo stesso inserimento nel continuum spazio-temporale, e la sua deformazione inizia quindi nel momento stesso in cui il progetto utopico – la cui esigenza è d’altronde imposta dallo stesso disordine dei tempi – passa dal piano del logos a quello degli erga. Questo è il senso del discorso delle Muse con cui si apre il libro VIII: un discorso certamente scherzoso, […] ma non per questo privo di due assunti di grande importanza teorica. Il primo è nettamente formulato all’inizio del logos: «è difficile che venga sovvertita una città così costituita, ma poiché per ogni cosa che è nata vi è distruzione, neppure una simile costruzione resisterà per tutta la durata del tempo, ma si dissolverà» (546a).

Il secondo assunto, che chiarisce e giustifica il primo, emerge dal senso complessivo del discorso sul “numero geometrico”: è impossibile imporre alla dimensione spazio-temporale un compiuto controllo perfettamente razionale (quindi matematizzabile), quale invece è possibile per il campo dell’ontologia eidetica (a modello appunto geometrico), il cui ordine ha peraltro una funzione paradigmatica rispetto agli sforzi di governare quella dimensione (cfr. VI 500 c-d).

La deformazione inevitabile […] non riguarda soltanto la qualità etico-politica della società umana, ma anche la stessa qualità “biologica” del suo gruppo dirigente, secondo il nesso circolare di perfettibilità dell’umano che era stato proposto dall’ “eugenetica” del libro V.

Alla luce di questi due assunti generali, il libro VIII descrive in modo più determinato le ragioni che rendono inevitabile la crisi della kallipolis realizzata: una crisi che non può non avere inizio da quella del suo gruppo dirigente, secondo un assioma costante della teoria politica platonica (545d, cfr. III 415c, V 465b). Nonostante la vaghezza del discorso platonico (547a-b) sembra che questa crisi inizi con un conflitto tra il ceto di governo “filosofico” e quello “militare”, o fra elementi degenerati presenti in entrambi. Chiari sono invece i motivi e la soluzione del conflitto: c’è una spinta incoercibile alla riprivatizzazione («spartirsi terra e case privatizzandole»), e all’asservimento del terzo ceto («asservire, riducendoli alla condizione di perieci e di servi, coloro che prima erano da loro difesi come uomini liberi»): il ceto di governo assume dunque il monopolio esclusivo della ricchezza, del potere e della guerra (547c).
Che la crisi della kallipolis assuma questa forma specifica non dipende soltanto dai principi generali formulati nel discorso delle Muse, ma più specificamente […] dalla dinamica logico-genetica della sua formazione. Essa aveva avuto infatti origini violente, fondata com’era sulla rieducazione di un ceto militare comparso nella città della pleonexia; e il suo gruppo dirigente era stato costituito sulla base di un accordo fra l’elemento razionale (logistikon) e quello collerico-aggressivo (thymoeides), la cui fedeltà al primo, nonostante ogni sforzo di condizionamento educativo “indelebile”, non poteva che risultare strutturalmente precaria» (p. 176).

«La tirannide è la forma inevitabile della degenerazione tanto psicologica quanto politica perché essa rappresenta l’espressione limite, la massima potenzialità, di quella pleonexia da cui ha origine la crisi della kallipolis (riappropriazione della proprietà privata, asservimento del terzo ceto, competizione per il potere e la ricchezza). L’orizzonte della tirannide, ancor prima della sua eventuale realizzazione compiuta, è dunque implicito in ogni fase delle costituzioni degenerate, e nei tipi d’uomo loro analoghi, e rappresenta dialetticamente la loro verità, anche se in forma solo incoativa» (p. 180).

«E qual è allora, se non appartiene al ciclo, il tempo proprio dell’utopia? […] Esistono in Platone due distinte concezioni della temporalità, quella cosmica e quella storico-umana, cui se ne aggiunge […] una terza, quella dell’utopia. […] La seconda dimensione è quella del tempo storico-umano, che si instaura a partire dal distacco dalle origini mitiche: è questo il tempo del disordine, della degenerazione (morale, politica e anche biologica), ma al tempo stesso il tempo dell’esigenza dell’ordine, dello sforzo deliberato di ricostruzione. Questa dimensione non è in alcun modo ciclica, ed è strutturata dal movimento dialettico delle contraddizioni latenti nelle forme politiche da un laro, nei tipi psicologici dall’altro.
Cè, infine, il tempo dell’utopia, cioè della realizzazione del progetto d’ordine, della kallipolis attuata. Va sottolinearo che tuesto tempo non appartiene alla seguenza dialettica del tempo storico-umano, né la Repubblica lo presenta come il telos di questa sequenza (se mai soltanto come l’ipotesi di un’origine che la rende comprensibile). L’avvento della kallipolis nella storia è descritto come un evento possibile nell’infinità della distensione temporale (502bI: en panti to chrono), ma non necessario né programmaticamente prevedibile, benché certamente intenzionato e atteso. Esso dipende piuttosto da una sorta di arresto della dialettica storica degenerativa, dall’inserzione subitanea di un asse verticale di valore sul movimento orizzontale di questa dialettica. Una ricognizione attenta del linguaggio platonico relativo alla temporalità dell’utopia lo può indicare chiaramente.
La prima condizione di realizzabilità dell’utopia è, si sa, l’intervento dei filosofi nella politica della città. Ma che la natura filosofica si salvi nelle città della storia è impossibile “a meno che un dio si trovi a soccorrerla” (492a5), grazie insomma a un “favore divino” (493aI). Che poi i filosofi così salvati siano indotti a occuparsi della politica delle città dipende da “una fortuita necessità” (499b5); questo non accadrà, in altri termini, “a meno che non sopravvenga una qualche sorte divina” (592a8: theia tyche). Anche così, la loro azione politica potrà avere successo solo grazie a “circostanze propizie sopravvenute per una sorte divina” (Ep. VII 327e 3-5).
La condizione di possibilità alternativa (la conversione alla filosofia dei potenti o dei loro figli) viene descritta con lo stesso linguaggio. Essa avrà luogo se “per una gualche ispirazione divina sorga […] un vero amore per la filosofia” […]. In altri termini, i potenti possono diventare filosofi “per una sorte divina” (Ep. VII 326br3). […] Che cosa ci dice questo linguaggio ricorrente di tyche, moira, kairos, ananche, theion? Il suo primo significato è senza dubbio che le condizioni di realizzabilità della kallipolis non appartengono al corso normale della storia, che il suo avvento non ne costituisce il telos predeterminato. Esso può soltanto essere dovuto al verificarsi fortuito e istantaneo di circostanze propizie e cogenti, il cui carattere straordinario ed eccezionale (tanto nel senso della rarità quanto in quello del valore) è sottolineato dal ricorso al termine theion (che non può in alcun caso indicare un disegno provvidenziale, una pronoia divina, perché essa non avrebbe evidentemente il carattere fortuito di tyche). L’avvento della kallipolis rappresenta un’esigenza necessaria come intenzione di governare il disordine, di arrestare la degenerazione verso la tirannide del tempo storico-umano, ma esso è improbabile (non però, per le stesse ragioni, impossibile), e risulterebbe comunque precario, appunto perché si pone in controtendenza rispetto alla dinamica dialettica di questo stesso tempo.

Mario Vegetti, Il potere della verità, Carocci editore, 2018.

Il capitolo Il tempo, la storia, l’utopia di questo libro è già stato pubblicato in Platone, La Repubblica, traduzione e commento a cura di M. Vegetti, vol. II, VI-VII, Bibliopolis, Napoli 2003.

 


Coperta 301

 

Mario Vegetti

Scritti sulla medicina galenica

ISBN 978-88-7588-215-0, 2018, pp. 464, Euro 35 .

indicepresentazioneautoresintesi

 

Il volume raccoglie i principali scritti su Galeno e sul Galenismo composti da Mario Vegetti in circa un cinquantennio di attività. La selezione dei saggi qui pubblicati è stata realizzata dall’Autore negli ultimi mesi della sua vita. A causa della sua morte, avvenuta il giorno 11 marzo 2018, l’Autore non ha potuto rivedere le bozze.

Questo libro, cui l’Autore teneva tanto, ci consente di mantenere vivo il ricordo anche di questa parte della sua opera; ecco dunque il motivo per cui siamo lieti, insieme alla sua famiglia, di offrire ai lettori, soprattutto a quelli più giovani, la presente raccolta. Per la quale, innanzitutto, dobbiamo ringraziare Mario.


Sommario

 

Nota preliminare di Luca Grecchi

 

Galenus

Introduzione a Galeno

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Tradizione e verità. Forme della storiografia filosofico-scientifica
nel De placitis Hippocratis et Platonis di Galeno

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I nervi dell’anima

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Enciclopedia ed antienciclopedia: Galeno e Sesto Empirico

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Galeno e la rifondazione della medicina

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L’épistémologie d’Érasistrate et la technologie hellénistique

***

La psicopatologia delle passioni nella medicina antica

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Historiographical strategies in Galen’s physiology
(De usu partium, De naturalibus facultatibus)

***

De caelo in terram. Il Timeo in Galeno
(De placitis Hippocratis et Platonis, Quod animi mores corporis temperamenta sequuntur)

***

Il confronto degli antichi e dei moderni in Galeno

***

Galeno

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Corpo e anima in Galeno

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Corpo, temperamenti e personalità in Galeno

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Galeno, il “divinissimo” Platone e i platonici

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Fra Platone e Galeno: curare il corpo attraverso l’anima, o l’anima attraverso il corpo?

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I nuovi testi di Galeno: tra epistemologia e storia della cultura

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Indice dei nomi


Coperta scritti ippocratici grande

Mario Vegetti

Scritti sulla medicina ippocratica

indicepresentazioneautoresintesi

ISBN 978-88-7588-225-9, 2018, pp. 416, uro 30

I saggi raccolti in questo volume ripercorrono gli ultimi cinquant’anni di ricerca ippocratica. Gli entusiasmi iniziali, ben motivati dalla “scoperta” di un grande territorio del sapere scientifico fino ad allora relativamente inesplorato, dei suoi metodi e della sua efficacia terapeutica, hanno via via ceduto in parte il campo a un più equilibrato atteggiamento critico-storico. Nel suo insieme, una lettura di questi testi può continuare ad offrire un panorama intellettuale utile a comprendere le coordinate metodiche e sociali che hanno consentito la comparsa di uno dei fenomeni più rilevanti dell’antica tradizione scientifica dell’Occidente. I saggi sono disposti in ordine cronologico, ad eccezione delle due introduzioni al volume ippocratico (1964 e 1973) che sono poste al termine per il loro carattere riassuntivo.

Sommario

 

Introduzione

Technai e filosofia nel perì technes pseudoippocratico

Il De Locis in Homine fra Anassagora ed Ippocrate

Teoria ed esperienza nel metodo ippocratico

La medicina ippocratica nella cultura e nella società greca

Nascita dello scienziato

Legge e natura nel De aëre ippocratico

Kompsoi Asklepiades.
La critica di Platone alla medicina nel III libro della Repubblica

Empedocle “medico e sofista”

Saperi terapeutici: medicina e filosofia nell’antichità

Le origini dell’insegnamento medico

Il malato e il suo medico nella medicina antica

Il pensiero ippocratico

La questione ippocratica

Nuovi orizzonti di ricerca

Indice dei nomi



 
Luca Grecchi – Mario Vegetti: un ricordo personale e filosofico
Silvia Fazzo – Grazie Mario Vegetti! Per la lucidità luminosa delle tue intuizioni. Amavi la vita per tutto ciò che ha di più vero. Hai formato una intera generazione di allievi e di allievi degli allievi.

 

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ADDIO A MARIO VEGETTI

Ricordano l’amico e il protagonista della Casa della Cultura: Ferruccio Capelli, Mauro Bonazzi, Fulvio Papi, Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri, Salvatore Veca


Ricordo di Mario Vegetti – Rai Filosofia

 Addio a Mario Vegetti, l’utopia di Platone e i suoi chiaroscuri – La Stampa

Mario Vegetti,  filosofo studioso di Platone – Corriere della Sera


Altri libri

di Mario Vegetti

 

 

 

289 ISBN

Mario Vegetti

Il coltello e lo stilo

Animali, schiavi, barbari e donne alle origini della razionalità scientifica

Petite Plaisance, ISBN 978-88-7588-228-0, 2018, pp. 192, Euro 20

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«La stagione culturale cui appartiene Il coltello e lo stilo va certo messa in contesto ma non può venire rimossa né esser soggetta ad alcuna damnatio memoriae; può anzi darsi che essa continui a restarci indispensabile, tanto sul piano intellettuale quanto appunto su quello dell’ethos».

Mario Vegetti

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Premessa alla nuova edizione del 2018

 Il coltello e lo stilo fu pubblicato nella primavera del 1979. Fin dalla sua comparsa, suscitò un vivace interesse, non solo, e non tanto, fra gli specialisti di antichistica, quanto presso un pubblico composito di lettori che frequentavano i territori che allora si chiamavano “cultura critica”: epistemologia, antropologia, psicoanalisi, ed eventualmente movimenti come quello femminista e animalista. Ne uscirono naturalmente diverse interpretazioni del senso e degli intenti del libro (dalla critica irrazionalistica ai fondamenti “violenti” della scienza, a una rivisitazione moderata di Foucault).
Nell’introduzione all’edizione del 1996, riprodotta in questo volume, ho tentato di delineare le coordinate culturali entro le quali Il coltello e lo stilo era stato concepito, e di indicare un punto di vista d’autore sulla collocazione del libro. Ha fatto però bene l’editore a ristampare qui la prima edizione, quella del 1979. Da un lato, questo restituisce ai primi lettori la possibilità di un rinnovato incontro con il testo; dall’altro, e soprattutto, consente a nuovi lettori l’accesso alla forma originale del libro ormai da gran tempo esaurita. Non è immotivato pensare che questa ristampa possa apparire a qualcuno come una riscoperta, e ridestare almeno in parte l’interesse e la discussione così vivaci tanti anni or sono. Se così fosse, potremmo augurare “bentornato” al Coltello e lo stilo.

Mario Vegetti

Febbraio 2018



Quarta di copertina

 

008   Il coltello, makhaira: che incide il corpo dell’animale sull’altare del sacrificio, nella bottega del macellaio, sul tavolo dello scienziato anatomista. La conoscenza dell’animale, ottenuta grazie al coltello anatomico, fonda nella scienza greca al tempo stesso una classificazione, a partire da Aristotele, e una medicina razionale, che culmina in Galeno. La ragione scientifica antica segue il trattato della dissezione anatomica: essa è in grado di classificare le varietà dell’umano – la donna, il barbaro, lo schiavo – con la precisione e la verità di cui l’anatomia è modello. Seguendo il percorso della ragione anatomica, questo libro tenta al tempo stesso di ricostruire un’anatomia della ragione, nei modi della sua genesi e della sua crescita: la traccia di una polarità fra homo sapiens e homo necans, fra il coltello dell’anatomo e lo stilo con cui si scrivono i trattati della scienza. Lo stilo, grapheion – cioè la scrittura, il trattato, la scuola: con questi strumenti e in questi luoghi il sapere della zoologia, dell’anatomia, dell’antropologia si organizza, si accumula, si predispone al commento. Il coltello e lo stilo segnano dunque uno del tragitti lungo i quali si è durevolmente snodata la razionalità scientifica europea.

 

 

Indice

Premessa alla nuova edizione

Introduzione alla seconda edizione

Nota preliminare

Avvertenza

Capitolo I
Animale, vivo o morto
Classificazione e razionalità scientifica

***

Capitolo II
Neutralizzazioni
Verità dell’anatomia, genesi della teoria

***

Capitolo III
Classificare gli uomini
Che cos’è un uomo
Che cos’è un vero uomo
Razze di uomini
Un animale lunare

***



291 ISBN

Mario Vegetti

Tra edipo e Euclide. Forme del sapere antico

ISBN 978-88-7588-227-3, 2018, pp. 208, Euro 20

indicepresentazioneautoresintesi

 

L’Edipo re di Sofocle e gli Elementi di Euclide costituiscono in un certo senso i confini entro i quali si svolge il percorso della razionalità antica. La tragedia del V secolo è anche un conflitto drammatico di saperi: quello profano e indagatore di Edipo, quelli sacri di Apollo e Tiresia, quello critico e sfuggente di Giocasta. All’opposto, il trattato euclideo propone l’idea di una scienza pacificata, senza conflitti e soggettività, tutta affidata al potere della dimostrazione. Tra questi limiti, il libro indaga una costellazione di forme del sapere antico, con i loro valori antropologici: dalle metafore politiche della medicina ippocratica a un oggetto scientificamente disturbante come la scimmia, dal problema del bambino cattivo nell’antropologia stoica alla zoologia immaginaria di Plinio. Il confronto tra l’idealismo di Galeno e la sfida materialistica proposta dalla medicina metodica, e l’indagine sugli stili epistemologici della scienza ellenistica concludono i saggi raccolti nel volume.

 

Sommario

 

Introduzione

Premessa

Avvertenza

La questione dei metodi: una nota preliminare

Forme del sapere nell’Edipo re

Metafora politica e immagine del corpo nella medicina greca

L’animale ridicolo

Passioni e bagni caldi. Il problema del bambino cattivo nell’antropologia stoica

Lo spettacolo della natura. Circo, teatro e potere in Plinio

Modelli di medicina in Galeno

Una sfida materialistica. La polemica di Galeno contro la medicina metodica

La scienza ellenistica: problemi di epistemologia storica

Indice dei nomi

 


Coperta cuore sangre cercello

Paola Manuli – Mario Vegetti

Cuore, sangue e cervello.
Biologia e antropologia nel pensiero antico. In Appendice:
Galeno e l’antropologia platonica.

indicepresentazioneautoresintesi

La questione del ruolo da assegnare nell’organismo al cuore, al sangue e al cervello, e in particolare di stabilire a quale, o quali, di essi tocchi il rango di principio egemone, la signoria nell’organismo stesso, sta al centro di una delle vicende più tormentate della storia della biologia greca. Il suo interesse va oltre quello della genesi di una teoria biologica, l’encefalocentrismo, che pure avrebbe consegnato al sapere occidentale tutta una serie di certezze durevoli e di importanza fondamentale. Questa vicenda è un caso tipico, metodologicamente esemplare delle questioni connesse alla storia della scienza antica, e più in generale alle fasi di gestazione di una teoria scientifica: in essa elementi e vettori exstrascientifici si compongono in un intreccio indissolubile con i “dati” positivi e pilotano la stessa costruzione della teoria.
Qui ogni decisione presa all’interno del discorso biologico circa il “principio” dell’organismo interagisce con le esigenze di una psicologia e di una antropologia le quali, di norma, si costruiscono al di fuori di quel discorso, e in ogni caso rappresentano istanze ideologiche molto più generali, concezioni complessive sull’uomo, sulla società, sul mondo.

Riccardo Chiaradonna – «Cuore, sangue e cervello» è insieme una ricerca sulle teorie mediche antiche e sui loro fondamenti metodologici. ed epistemologici


Coperta scritti con la mano sinistra

Mario Vegetti

Scritti con la mano sinistra

indicepresentazioneautoresintesi

Questi testi si caratterizzano per la loro coerenza, nei suoi aspetti di insistenza e resistenza. Insistenza, nel senso di continuare tenacemente a porre problemi e domande, senza variare disinvoltamente il punto di vista da cui l’interrogazione viene posta, rifiutando la convinzione secondo la quale sconfitte storiche sono di per sé la prova di errori nella teoria. E resistenza: che significa accettare i mutamenti imposti dalla riflessione e dalle cose stesse su cui ci si interroga, ma invece rifiutare pentitismi compiacenti, cedimenti corrivi alle mode correnti o alle “luci della ribalta”; restare fedeli, insomma, a ciò che di noi hanno fatto la nostra storia intellettuale e morale e la nostra collocazione.
Scritti con la mano sinistra, appunto. Nel doppio senso che si tratta, da un lato, di scritti marginali, parerga, rispetto al mio impegno professionale di studioso della filosofia antica; dall’altro, di scritti che rispecchiano più direttamente la mia collocazione politica, la mia presa di partito (la scelta “da che parte stare”). “A sinistra”, dunque. Una posizione alla quale mi consegnano la mia tradizione familiare, il mio percorso intellettuale e morale, la mia convinzione di un futuro possibile alternativo alla barbarie che attraversa il nostro tempo e ne minaccia l’orizzonte. E la stessa tensione razionale, lo stesso sforzo di comprensione e argomentazione, ispirano e sorvegliano (o almeno dovrebbero sorvegliare) sia il lavoro di ricerca sia la “presa di partito” che coinvolge l’uomo prima che il ricercatore.
Il libro è diviso in tre parti. Nella prima, Tra filosofia e politica, si discutono alcune problematiche filosofiche rilevanti dal punto di vista di interrogazioni che vengono, in senso lato, dalla politica. Nella seconda, Tra politica e filosofia, l’oggetto di indagine sono le prospettive della politica considerate da un punto di vista filosofico. Nella terza, Tra gli antichi e noi, si torna ad una riflessione sulla società e il pensiero dell’antichità dal punto di vista delle prospettive filosofico-politiche delineate.
Grandi interrogativi, dunque, per piccoli scritti, nell’intento di tenere aperto lo spazio dell’incertezza, di riproporre l’urgenza della riflessione, resistendo sia al cedimento di fronte all’omologazione del pensiero, sia alla rassegnazione di fronte all’estrema durezza dell’epoca. Non si tratta di un compito esclusivo del filosofo, e tanto meno dell’antichista, perché esso coinvolge la responsabilità morale e intellettuale di ognuno.



Marxismo e società antica, Feltrinelli, 1977

Marxismo e società antica, Feltrinelli

Opere di Ippocrate, UTET

Opere di Ippocrate, UTET

Ippocrate, Antica Medicina, Rusconi, 1998

Ippocrate, Antica Medicina, Rusconi

Introduzione alle culture antiche. Vol 2. Il sapetre degli antichi, Bollati Boringhieri 1992

Introduzione alle culture antiche. Il sapetre degli antichi, Bollati Boringhieri

Introduzione alle culture antiche. Vol. 3. L'esperienza religiosa antica, Bollati Borinchieri 1992

Introduzione alle culture antiche. L’esperienza religiosa antica, Bollati Boringhieri

Le opere psicologiche di Galeno, Bibliopolis

Le opere psicologiche di Galeno, Bibliopolis

Platone, La Repubbluca, Bibliopolis

Platone, La Repubblica, Bibliopolis

La Rapubblica di Platone nella tradizione antica, Bibliopolis

La Rapubblica di Platone nella tradizione antica, Bibliopolis

Galeno, Nuovi scritti autobiografici, Carocci

Galeno, Nuovi scritti autobiografici, Carocci

Dialoghi con gli antichi, Academia

Dialoghi con gli antichi, Academia

Platone, La Repubblica (Libri V-VI-VIII), Radar, 1969

Platone, La Repubblica (Libri V-VI-VIII), Radar

Platone, La repubblica, Rizzoli

Platone, La Repubblica, Rizzoli

Platone, Reoubblica, Libro 11, Lettera XIV. Socrate incontra Marx. Lo straniero di Treviri, Guida 2004

Platone, Reoubblica, Libro 11, Lettera XIV. Socrate incontra Marx. Lo straniero di Treviri, Guida

Platone. Las Repubblica, Laterza 2007

Platone. La Repubblica, Laterza

Tra Edipo e Euclide. Forme del sapere antico, Il Saggiatore

Tra Edipo e Euclide. Forme del sapere antico, Il Saggiatore

Polis e economia nella Grecia antica, Zanichelli

Polis e economia nella Grecia antica, Zanichelli

L'uomo e gli dei, Kindle Edition

L’uomo e gli dei, Kindle Edition

Guida alla lettura della Repubblica di Platone,Laterza, 2007

Guida alla lettura della Repubblica di Platone, Laterza

Quindici lezioni su Platone, Einaudi 2003

Quindici lezioni su Platone, Einaudi

Libertà e democrazia. La lezione degli antichi e la sua attualità, Ed. Casa della Cultura

Libertà e democrazia. La lezione degli antichi e la sua attualità, Ed. Casa della Cultura

Aristotele. Metafisica. Antologia, La Nuova Italia, 2001

Aristotele. Metafisica. Antologia, La Nuova Italia

Incontro con Aristotele. Quindici lezioni, Einaudi 2016

Incontro con Aristotele. Quindici lezioni, Einaudi

L'etica degli antichi, Laterza, 2010

L’etica degli antichi, Laterza

«Un paradigma in cielo». Platone politico da Aristotele al Novecento, Carocci 2016

«Un paradigma in cielo». Platone politico da Aristotele al Novecento, Carocci

Chi comanda nella città. I greci e il potere, Carocci 2017

Chi comanda nella città. I greci e il potere, Carocci

 


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Salvatore Bravo – Il pensiero corporante all’epoca del capitalismo assoluto, con la sua promessa dell’Eden restituisce soltanto un corpo esausto e violento, come nel mito della caverna di Platone. Si immilla la frustrazione. Il capitalismo oggi esige che l’uomo lotti contro se stesso oltre che contro gli altri.

Platone_Mito della caverna

caverna

Il pensiero corporante all’epoca del capitalismo assoluto


Sommario

Corpo, feticcio idolatrato

Necessità della mediazione simbolica e sua elusione

La promessa dell’Eden restituisce solo un corpo esausto

Si immilla la frustrazione

Il capitalismo oggi esige lotta contro se stessi, rancore rivolto contro di sé

I pensieri devono essere inquieti, pensieri di distruzione e reificazione

La violenza è diventata spettacolo

La violenza è legalizzata

Il corpo dello studente come tempio imprenditoriale

Corpo che vive nel sogno dopato dell’immagine: corpo divenuto violento

Corpo legato ai ceppi come nel mito della caverna di Platone

Körper o Leib


Illustrazione del mito platonico della caverna in un'incisione del 1604 di Jan

Illustrazione del mito in un’incisione del 1604 di Jan Saenredam.
I prigionieri immobilizzati davanti al muro, incapacitati nel guardare indietro,
fissano la parete e vedendo delle ombre,
in realtà modellini proiettati dalla luce di una torcia,
credono che esse siano vere figure umane.


 

 

Corpo,  feticcio idolatrato
Il tramonto del pensiero è il tramonto dell’Occidente. La genealogia del tramonto è la decadenza del corpo. Negli ultimi decenni assistiamo all’esaltazione del corpo, divenuto feticcio idolatrato. Il corpo vissuto è gradualmente anestetizzato dalla violenza delle immagini e degli stimoli: da quelli acustici ai gustativi. È un tripudio di stimolazioni. Non vi è però nulla di dionisiaco nella bacchiche foglie dell’Occidente, ma solo la disintegrazione del corpo vissuto.

Necessità della mediazione simbolica e sua elusione
Gli stimoli, per poter divenire pensiero, come pure processo di buone pratiche politiche, necessitano della mediazione simbolica, del tempo della sedimentazione, tempo in cui il corpo vissuto si ascolta vivere, dà voce umana alle mere stimolazioni nervose, nomina le immagini per concettualizzarle. Sono passaggi lenti e genealogici, che portano alla riconfigurazione del corpo vissuto. Se si parte dall’assunto spinoziano-nietzscheano che il pensiero è il corpo vissuto, per cui ogni appello a ipostasi come l’anima, la coscienza, il corpo, ed annessi dualismi non sono che esemplificazioni rassicuranti, comprendiamo la decadenza teoretica dell’Occidente.

La promessa dell’Eden restituisce solo un corpo esausto
Il corpo dell’Occidente – nell’epoca del capitalismo assoluto – è un corpo tormentatissimo, sottoposto ad una violenza perenne. Il peso di questa continua violenza molto spesso non è avvertito poiché l’azione perenne del potere economico sul corpo non è mai sospesa: si vive inseguiti, agguantati dal mercato, il quale promette l’Eden e restituisce un corpo esausto, spossato per il continuo saccheggio sensoriale.

Si immilla la frustrazione
Corpo efficiente, competitivo, i cui pori sono la porta d’ingresso della violenza capitalistica. Corpo che non deve invecchiare, deve vivere nel sogno dell’eterna giovinezza che si materializza con l’attività cosmetica e chirurgica. Corpo da incubo perché angoscia e toglie il respiro: il paradiso non è mai raggiunto, ma è sempre un nuovo desiderio indotto, spostato in avanti. Corpo che guarda il sogno realizzato degli altri corpi. Lo sguardo diventa bilioso e rancoroso. Le parole che corrono lungo la stimolazione perenne “Godimento infinito” “Senza limiti” sono il sedimento di pensieri anticomunitari e crematistici. Corpo in attività perenne in cui istinti e passioni si frammentano in una temporalità caotica e cronologica. È il tempo della successione-ripetizione. Il corpo – proiettato nell’orizzonte degli istinti e della loro soddisfazione fuori di sé, nel tempo che verrà – vive l’esperienza del godimento frustrato una, dieci, cento, mille volte … Si immilla la frustrazione.

Il capitalismo oggi esige  lotta contro se stessi, rancore rivolto contro di sé
Se il pensiero è esperienza del corpo, in questo contesto, che non necessita dei grafici di sociologi o di altri professionisti dell’analisi del Capitale, i pensieri conseguenti non sono che rabbia, rancore, pensieri non liquidi ma vettori dell’atomismo sociale.
Il ritorno ad una condizione hobbesiana realizzata: tutti contro tutti. Ma, dovremmo aggiungere: ognuno contro se stesso.
La grande novità del capitalismo assoluto, della violenza che si espande, e che pervade capillarmente ogni spazio, è la lotta contro se stessi, il rancore che si rivolge contro se stessi. Non si è mai all’altezza delle richieste del mercato, dell’ideale di perfezione corporale dell’esigente mercato che – mentre promette di venderti il paradiso – in realtà ti fa comprare l’inferno. Non una volta, ma ogni giorno, ogni ora, il tempo diviene il luogo degli inferni quotidiani.

I pensieri devono essere inquieti, pensieri di distruzione e reificazione
Dietro la volgarità, l’aggressività dei cattivi pensieri che abitano la cronaca, non vi è che la violenza del capitale che ha fatto del corpo vissuto un veicolo del corpo violenza, i cui pensieri non sono che il riflesso della caverna del Capitale assoluto in cui vive il corpo, della gabbia d’acciaio che stringe le sue maglie. Gli artigli del capitale stringono ed il corpo – che voleva godere – soffre, diviene esso stesso violenza, non ha che pensieri violenti. L’affermazione secondo cui il corpo non è che la tomba dell’anima, è pienamente realizzata. Il corpo è divenuto caverna, e nel buio della caverna i pensieri non possono che essere inquieti, pensieri di distruzione e reificazione, che si materializzano in atti linguistici, nell’incapacità di accettare la sconfitta, l’errore, il limite, e che tendono a realizzarsi nella soppressione dell’altro.
Corpo vorace eppure fragile, che trasmette al mondo la violenza che ha subito. Le cronache ci presentano lo stupore della violenza diffusa, crimini sempre più sadici: la violenza è distruzione del corpo di coloro che hanno negato la soddisfazione del sogno.

La violenza è diventata spettacolo
Non vi sono analisi teoretiche, non si utilizzano categorie del pensiero filosofico per capire: si invoca sempre più controllo, senza capire.
Anzi, la violenza è diventata spettacolo, attrae telespettatori che vogliono vivere il brivido del sensazionale; si vendono merci per acquietare i corpi squassati dall’eterna insicurezza, dal timore di essere aggrediti. Si guarda il mondo attraverso una feritoia, perché l’alterità è divenuta il potenziale aggressore. Tutto avviene in modo fatale ed esiziale: non vi sono spiegazioni, solo il destino muove la violenza che passa, plasma, organizza i corpi di sudditi senza speranza.

La violenza è legalizzata
La violenza è legalizzata. L’iperattività con cui la formazione è presentata nella offerta formativa delle scuole, non è che violenza organizzata. La formazione della cosiddetta “buona scuola” è l’esperienza del corpo scisso da sé. Le continue attività, lo spostamento da un luogo a un altro per competere, il mostrarsi in selfie pedagogico, sono il file rouge dell’attività formativa pubblica e privata.

Il corpo dello studente come tempio imprenditoriale
Lo studente non deve mai sospendere l’esecuzione della produzione, la sua formazione all’annichilimento del pensiero teoretico, perché il corpo dev’essere educato ad avere pensieri performativi. L’assenza di contenuti è questione ritenuta assai relativa, necessario è il corpo che non può che viversi come corpo teso alla lotta, dunque corpo come tempio imprenditoriale, in cui scrivere ed inscrivere la violenza del Capitale. Il resto è complementare. Il corpo è il supporto del pensiero, e per supporto si devono intendere le pratiche sociali: i linguaggi, le posizioni spaziali a cui il corpo è costretto, la tensione emotiva che lo attraversa perché dev’essere sempre teso all’attacco ed alla difesa.

Corpo che vive nel sogno dopato dell’immagine: corpo divenuto violento
Se si analizzano le pratiche del Capitale assoluto, si possono capire le ragioni della violenza diffusa del corpo divenuto veicolo di morte, luogo dove si mette in atto la logica del Capitale. Le miserie dell’abbondanza passano per le guerre che scuotono il corpo.

Corpo legato ai ceppi come nel mito della caverna di Platone
Il corpo è dunque legato ai ceppi come nel mito della caverna di Platone, costretto a sognare il falso. Un corpo che vive nell’oscurità, nel sogno dopato dell’immagine, non può che divenire violento: non a caso nel mito della caverna lo schiavo liberato è ucciso dagli schiavi. Essi non hanno pensiero teoretico, perché il loro supporto, il corpo, è al centro delle pratiche delle violenze che lo hanno formato e deformato e pertanto i loro pensieri sono puntuti, sciabole rancorose pronte a puntare ed uccidere chiunque smentisca o sia pronto a far vedere loro, improvvisamente, l’avvilimento, l’umiliazione a cui sono stati sempre sottoposti:

«Non avrebbe gli occhi pieni di tenebra, venendo all’improvviso dal sole? […] E se dovesse discernere nuovamente quelle ombre e contendere con coloro che sono rimasti sempre prigionieri, nel periodo in cui ha la vista offuscata, prima che gli occhi tornino allo stato normale? E se questo periodo in cui rifà l’abitudine fosse piuttosto lungo? Non sarebbe egli allora l’oggetto di riso? E non si direbbe di lui che dalla sua ascesa torna con gli occhi rovinati e che non vale neppure la pena di tentare di andar su? E chi prendesse a sciogliere e condurre su quei prigionieri, forse che non l’ucciderebbero, se potessero averlo tra le mani e ammazzarlo?» (Platone, La Repubblica, Libro VII, 517; Mito della caverna).

Körper o Leib
Le parole di Platone ci riportano al compito della filosofia: rifondare il pensiero teoretico nel regno del pensiero che ha come supporto il corpo mercificato. I tempi non possono che essere lunghi, il passaggio non può avvenire in modo improvviso, e non può che essere l’effetto di un lungo percorso. Siamo dinanzi ad un bivio: Körper o Leib. Merleau Ponty definiva il corpo vissuto come carne del mondo senza la quale ogni comunità è disintegrata, persa nell’abbaglio dell’atomismo sociale. Il futuro ed il presente implicano la responsabilità di tutti tra corpo morto o corpo vissuto nella relazione con l’altro e con se stessi. I pensieri ed i modelli sociali con le loro pratiche non saranno che una conseguenza delle scelte a cui tutti siamo chiamati.

Salvatore Bravo

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Albert Schweitzer (1875-1965) – L’ideale è per noi quello che è una stella per il marinaio. Non può essere raggiunto, ma rimane una guida.

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Filosofia della civiltà

Filosofia della civiltà

Albert Schweitzer, Filosofia della civiltà, Fazzi, 2014.

La sensazione di vivere in un’epoca di decadenza e confusione, in cui l’uomo sembra aver smarrito le proprie certezze sul senso dell’esistenza e del suo ruolo nel mondo, è un malessere trasversale a ogni periodo storico, e in particolare per gli intellettuali è sempre stato motivo di profonda inquietudine. Ma quello che a proposito di questa “nausea” scrive Albert Schweitzer, premio Nobel per la Pace e filosofo di raro acume, suona per noi oggi quanto mai intimo, come qualcosa che ci riguarda da vicino. Negli ultimi secoli l’umanità ha conosciuto un progresso che non ha precedenti nella storia, ma allo stesso tempo ha smarrito il senso di cos’è la civiltà, e il “peccato originale” alla base di questo vuoto è il fallimento della filosofia, che non è stata in grado di attendere a quella che fin dagli albori del logos è stata la sua vocazione: fondare, giustificare e diffondere una visione del mondo che permettesse di avere chiaro l’orizzonte di cosa ha valore e cosa no, di cosa ha senso e cosa no. Dopo l’avvento delle scienze naturali, che sembravano in grado di descrivere il mondo meglio di quanto tutta la storia del pensiero avesse fatto fino a quel momento, la filosofia si è ridotta in uno stato di sudditanza, convincendosi che il suo ruolo fosse esaurito, e da pensiero attivo è diventata storia della filosofia, una galleria di nature morte che non affrontano più le questioni fondamentali su cui gli individui dovrebbero riflettere.


Albert Schweitzer (1875-1965) – Nella maturità dobbiamo lottare per continuare a pensare liberamente e a sentire così profondamente come facemmo in gioventù.


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Eduardo Galeano (1940-2015) – … è all’orizzonte … Per quanto io cammini potrò mai raggiungerla …? A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare.

Eduardo Galeano 01
Paarole in Cammino 02

Paarole in Cammino

 

«Lei è all’orizzonte. […] Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare».

 

E. Galeano, Finestra sull’utopia, in Parole in cammino.


Eduardo Galeano – «Non accettiamo il tempo presente come destino. Un altro mondo è possibile»


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Marcello Zanatta – Concetto basilare dell’etica, il bene entra, in modo tematico o implicito, nella riflessine di tutte le filosofie dell’antichità e riveste anche una fondamentale dimensione ontologica.

Marcello Zanatta 01
Bene

Bene

 

Concetto basilare dell’etica, il bene entra, in modo tematico o implicito, nella riflessine di tutte le filosofie dell’antichità. La sua rilevanza, tuttavia, non è soltanto di ordine morale, ma in Platone e nei Neoplatonici riveste anche una fondamentale dimensione ontologica, e in Aristotele è oggetto pure di un’indagine metafisica. In questo libro la nozione del bene è presentata in tutte le fasi del pensiero filosofico antico e con tematico riferimento ai loro principali esponenti. Lo si analizza così nel Presocratici, nei Sofisti, in Socrate, in Platone, in Aristotele, in Epicuro, negli Stoici (antichi, del periodo di mezzo e del periodo romano), nei rappresentanti dello scetticismo che più marcatamente ne hanno trattato, nei Neoplatonici. In ognuno di questi filosofi e nel quadro delle corrispondenti linee di pensiero il bene è analizzato altresì nelle valenze che assume in rapporto con altre basilari figure della filosofia, quali il conoscere, la virtù, la fel icità, la prassi e poi la sostanzialità e le sue condizioni. Ne emerge una presentazione ampia e articolata, corredata da una nutrita bibliografia.



Altre pubblicazioni di Marcello Zanatta

 

Anima

Anima

Dell'interpretazione di Aristotele

Dell’interpretazione di Aristotele

Homo moriens

Homo moriens

Identità, logos e verità in Heidegger

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Introduzione alla filosofia di Aristotele

Introduzione alla filosofia di Aristotele

La forma del corpo vivente

La forma del corpo vivente

La ragione verisimile, Saggio sulla Poetica di Aristotele

La ragione verisimile, Saggio sulla Poetica di Aristotele

La teoria aristotelica della percezione

La teoria aristotelica della percezione

Lineamenti della filosofia di Aristotele

Lineamenti della filosofia di Aristotele

Profilo storico della Filosofia antica

Profilo storico della Filosofia antica

Sapienza e filosofia prima in Aristotele

Sapienza e filosofia prima in Aristotele

Storia della filosofia antica

Storia della filosofia antica

 

 



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Giuseppe Ungaretti (1888-1970) – Sdegno e coraggio di vivere sono stati la traccia della mia vita. Volontà di vivere nonostante tutto, stringendo i pugni, nonostante il tempo, nonostante la morte. Vi arriva il poeta e poi torna alla luce con i suoi canti e li disperde.

porto sepolto

Il porto sepolto, 1916

Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi canti
e li disperde

Di questa poesia
mi resta
quel nulla
d’inesauribile segreto

 

 

 

 

 

Vita di un uomo

Vita di un uomo

Non sono il poeta dell’abbandono alle delizie del sentimento, sono uno abituato a lottare, e devo confessarlo – gli anni vi hanno portato qualche rimedio – sono un violento: sdegno e coraggio di vivere sono stati la traccia della mia vita. Volontà di vivere nonostante tutto, stringendo i pugni, nonostante il tempo, nonostante la morte. Giuseppe Ungaretti, da Note a L’allegria; in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Milano.

 

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Il porto sepolto di Alessandria d’Egitto.

Museo sottomarino di Alessandria di Egitto.

 

 

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Salvatore Bravo – L’assenza di futuro è il nichilismo dell’assoluto presente. Il trionfo dell’immediato-astratto forma individui e non persone. Il radicamento nell’attimo fa del soggetto un ente che si piega alle circostanze.

Giovanni Gentile 01

 

 

 

La riforma della dialettica hegeliana

La riforma della dialettica hegeliana

L’assenza di futuro è il nichilismo dell’assoluto presente. La contemporaneità è il luogo dell’astratto, dell’immediato scisso da ogni legame con se stessi e con la comunità. Il naturale fondamento dell’umanità – ovvero, la relazione – perisce sotto i colpi della scure dell’indifferenziazione delle scelte. Il silenzio del futuro è dunque sradicamento dal presente. L’umanità globalizzata vive la condizione del ritiro dal mondo, misticismo edonistico che favorisce la globalizzazione della reificazione. In assenza di radicamento, di empatia, di reciprocità con e nella comunità, il futuro diviene pura espressione verbale: il futuro – per esserci – esige il presente nella sua vitalità emotiva e razionale. La reificazione, e il gioco alla riduzione ad un presente onnivora-mente consumato, ha divorato il futuro. La condizione umana diviene pura presenza, pubblico passivizzato di uno spettacolo non scelto, ma semplicemente subìto nel chiasso della esemplificazione. Coloro che hanno cercato un asse verso il futuro scompaiono dal teatrino mediatico della pseudo-discussione “culturale”, dal circo mediatico che rende omaggio soltanto al nichilismo linguistico delle vuote parole, della volgarità di massa, delle evanescenti meteore della cultura-spettacolo. Tutto pur di cancellare dall’orizzonte la necessità di una prassi comunitaria e l’esigenza stessa di futuro altro possibile. Il modo più efficace per ottenere tale risultato è rendere ogni persona individuo-atomo. Si lotta con gli altri e per gli altri, la vita è prassi nella comunione delle idee, ma ancor più profondamente nella comunione della carne vissuta. Il fondamento è annichilito con le armi dello stordimento di massa: competizione, crematistica, culto del corpo spettacolo: la prospettiva del futuro non può che collassare. Il trionfo dell’immediato-astratto forma individui e non persone.
Scomparsi dall’orizzonte mediatico, vi sono autori che continuano a offrirci concetti per capire il presente ed aprire alla prospettiva della trasformazione.
Giovanni Gentile non è assente dal circo mediatico per la sua adesione al fascismo. In realtà, una lettura di questo autore meno stereotipata ed omologata, ci porta al ragionevole sospetto che su di lui pesi la fatwa liberista. Filosofo della prassi e della comunità intendeva l’essere umano come soggetto creativo, responsabile della prassi, in cui la dimensione del presente è concretamente colta nel suo darsi verso il futuro:

«Lo svolgimento spirituale, in cui consiste, è questa progressiva autodeterminazione dell’Io: nella quale ogni momento è un’affermazione in nuova forma dell’Io stesso, e però una negazione, un reale annullamento dell’Io nella forma in cui era prima determinato: un passare dal non essere all’essere di un Io determinato: e, poiché un io non determinato non è nulla, si può anche dire che sia un passare dal non essere all’essere dell’Io. La nostra vita è un continuo morire del vecchio io, un nascere continuo del nuovo, in cui il vecchio bensì permane, ma rinnovato e trasfigurato». [i]

L’attualismo gentiliano, dunque, è prassi, trasformazione, il presente ed il passato nella concretezza non sono distinguibili, ma sono il libero fuoco del pensiero che rende ubertoso il futuro. La libertà è pensiero nel quale sono integrati i piani della persona. Nel concreto i piani non sono geometricamente distinguibili. L’essere umano gentiliano ha sul fondo la lezione di Vico: l’umanità esprime al massimo il suo potenziale creativo nell’unità dello spirito. La storia è lo scenario in cui l’essere umano realizza pienamente la sua umanità:

«Ora non posso tracciare tutta la storia del progresso del soggettivismo. Ma non posso non accennare che G. B. Vico ha, per questo rispetto, il merito di avere benché oscuramente, affermato, di contro all’analisi cartesiana, la necessità tutta moderna di quella sintesi che egli scolpiva nella celebre frase: verum et factum convertuntur; di avere primo, con entusiasmo che ha del religioso, additato nello sviluppo eterno del mondo delle nazioni, che lo sviluppo dello spirito, la stessa realizzazione di quella che egli diceva Provvidenza divina: unificando il divino e l’umano, e risolvendo, per conseguenza, l’immobilità e l’eternità pura di quello nel processo storico, ed eterno in quanto storico, di questo; di aver insomma inaugurato la nuova metafisica, che è filosofia dello spirito, anticipando di un secolo il movimento del pensiero, quale si svolse poi gradatamente in Germania». [ii]

Il regno dell’astratto è il trionfo del cartesianesimo: analisi senza sintesi. La divisione è il mezzo con il quale si effettua il dominio dell’incomprensibile. Il presente risulta adialettico, nella divisione lo sguardo olistico si eclissa per lasciare spazio all’integralismo della violenza di una parte sulle altre. L’assoggettamento economico del mondo e delle persone, vive e prolifera nella separazione. La dinamicità della coscienza è così occultata, resa presenza, oggetto dei processi. Il soggetto necessita della coscienza di sé per potersi porre come soggetto della storia, deve poter ricostruire il processo complesso del quotidiano per vivere la propria presenza come attore di un possibile cambiamento. Affinché ciò si possa materializzare è necessario che il soggetto sia autocoscienza, Gegenstand, consapevole di aver posto il mondo e dunque responsabile di un eventuale processo di riforma. «La Filosofia è il proprio tempo appreso in pensieri», affermava Hegel in Lineamenti di Filosofia del diritto. Se invece si vive l’esperienza della separazione, se il mondo semplicemente è sempre esistito e con esso le forme sociali, la coscienza è ente tra gli enti, oggetto di manipolazione senza speranza, senza futuro, senza presente, senza storia.

L’aumento delle merci è proporzionale alla negazione dell’essere umano. Il radicamento nell’attimo, nel cogliere l’occasione per il risultato, fa del soggetto ente che si piega alle circostanze, ne è trascinato via, sviluppando in tal modo una estrema adattabilità agli eventi fino alla dimenticanza di sé. La divisione è abitudine alla morte. La vita, per Giovanni Gentile, è unità. Anche la morte, per il filosofo dell’attualismo, è un atto di vita in quanto si muore a qualcuno.

La filosofia forma alla vita, essa stessa è un corpo vivo, le cui parti ritrovano il loro senso nella loro relazione imprescindibile come la vita:

«La filosofia appunto perciò è una; e si trasformi, s’atteggi variamente, e si particolarizzi quanto si voglia, resta sempre la filosofia come appunto quello sforzo di fissare l’essere nella sua organica natura, in ogni momento della coscienza, nella sua vittoria sul non essere. Quel ritmo vitale dell’essere, che la filosofia si sforza di conoscere, se è il ritmo dell’essere vivo della coscienza nostra, deve essere il ritmo della natura che si rispecchia nell’animo nostro, il ritmo dello spirito, alla cui formazione assistiamo interiormente, spettacolo insieme e spettatori, il ritmo del conoscere e dell’operare: di tutto ciò che è di tutto l’essere. Perciò ogni filosofo, ogni sistema ha un principio e un complesso di dottrine speciali, in cui quel principio viene esplicato, e ciascuna delle quali perderebbe tutto il suo significato e la sua stessa consistenza se volesse considerarsi indipendentemente dal principio». [iii]

La filosofia di G. Gentile è attualismo perché concretezza della vita contro ogni positivismo scientista. Filosofia della vita contro ogni rigor mortis delle parti. L’ostilità nei suoi confronti, ad un approfondito esame, non può essere ridotta alla sua adesione al fascismo, piuttosto problematica, ma rientra nell’attuale ostracismo contro gli autori che hanno posto la coscienza e la prassi quale sostanza del loro pensiero. La concretezza con il suo operare è osteggiata per favorire l’ipostatizzazione dell’immediato, perché si viva nella tragica e bugiarda negazione non solo del futuro, ma specialmente dell’analisi complessiva dei fenomeni sociali. Il Regno animale dello Spirito di Hegel può presentarsi, così, come l’unico modello possibile, eternizzato dalla mortificazione generale e dall’espulsione di ogni atteggiamento teoretico. La caverna diviene gabbia d’acciaio. Contro di essa l’attualismo di G. Gentile ha ben reso paleso quanto il pensato rivissuto è pensiero concreto in quanto ridivenuto attuale e come tale combustibile per il pensiero pensante, agere, nuovo inizio e come tale già prassi, e quindi apertura verso il futuro:

«Un pensiero nostro, ma già pensato, non si ripensa se non in quanto si rivive nel pensiero attuale; è cioè solo e in quanto esso non è il pensiero di una volta, distinto dal pensiero presente ma lo stesso pensiero attuale, almeno provvisoriamente. Sicché pensare un pensiero (o porre il pensiero oggettivamente) è realizzarlo; ossia negarlo nella sua astratta oggettività per affermarlo in un’oggettività concreta, che non è di là dal soggetto, poiché è in virtù dell’atto di questo». [iv]

L’attualismo, filosofia della prassi, ha nell’atto la sua legge teoretica. L’atto è l’unità della coscienza viva pensante che si sottrae al fatalismo per essere nel mondo, per vivere la responsabilità dell’agire politico. Nell’anomia generalizzata delle passioni tristi, G. Gentile rompe con la decadenza della fine delle grandi narrazioni per sfidarci ad un altro modo di esserci nella storia.

Solo con la forza plastica di grandi autori possiamo cominciare a ritrovare la via che ci conduce fuori dalla “gabbia d’acciaio”. Perché questo accada dobbiamo superare l’ostacolo epistemologico indotto da una società in cui si può trasgredire in ogni ambito, ma non si può pensare con coscienza di sé, perché tale coscienza è sostituita con il semplice “sentire.”

Salvatore Bravo

[i] Giovanni Gentile, La riforma della dialettica hegeliana, Sansoni, Firenze 1954, pag. 261

[ii] Ibidem, pag. 115.

[iii] Ibidem, pag.110.

[iv] Ibidem, pag. 184.

 



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Gianluca Giachery – Recensione a «Esistenza, ragione, storia. Pietro Chiodi (1915-1970)». La radicalità etica e l’attualità della riflessione del filosofo e comandante partigiano.

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269 ISBN

indicepresentazioneautoresintesi

Giuseppe Cambiano, Cesare Pianciola (a cura di), Esistenza, ragione, storia. Pietro Chiodi (1915-1970), Pistoia, Editrice Petite Plaisance. 2017, pp. 160, ISBN 978-88-7588-195-5, euro 15,00.

«Tutti tacquero. Max riprese: – Conosci il tedesco? – Lo so leggere ma non saprei parlarlo. – Che libri leggi in tedesco? – Sto leggendo Heidegger. – Max si rivolse all’agente della Gestapo dicendo: – Dev’essere uno scrittore comunista. Vero? – L’altro guardò l’ufficiale italiano dicendo: Ja, ja –. Questi annuì col capo».

Si tratta dell’interrogatorio subito da Pietro Chiodi, filosofo e comandante partigiano (1915 -1970), nella caserma di Bra il 22 agosto del 1944, dopo la sua cattura, e riportato in Banditi, una delle testimonianze sulla guerra partigiana più rilevanti della nostra letteratura, in anni in cui sia la storia che la letteratura (non solo quelle insegnate nelle scuole) hanno perso gran parte del loro potenziale, appunto, educativo e progettuale. Ancora un’altra annotazione di Chiodi, tratta sempre da Banditi:

«Carcere di Bra, 22 agosto 1944:
– Come ti chiami?
– Chiodi Pietro.
– Che mestiere facevi?
– Il professore.
– Quanti anni hai?.
– Ventinove».

Filosofo impegnato, allievo di Abbagnano, fraterno amico di Leonardo Cocito (il geniale professore di letteratura del Liceo di Alba, antifascista e impiccato dai nazi-fascisti), professore e Maestro di Beppe Fenoglio, primo traduttore italiano di Heidegger (la sua traduzione di Esse e Tempo rimane, tutt’ora, ineguagliata), fine studioso di Kant ma anche dell’esistenzialismo di matrice sartreana, Pietro Chiodi è una di quelle figure di intellettuale che poco si adatta a qualsiasi etichetta specialistica. Piuttosto, pur nell’approfondimento di alcune tematiche di carattere squisitamente filosofico-teoretico, egli non ha mai perso di vista la dimensione dell’impegno politico-culturale nella società, trasformando lo studio e l’insegnamento in materia viva, nel pieno rigore del pensiero critico kantiano.
La dimensione dell’impegno, l’amore per il dibattito, il polemos e la discussione, oltreché una appassionata dedizione alla ricerca, allo studio e all’analisi dei testi filosofici caratterizza la figura complessiva del filosofo di Corteno Golgi, nel volume curato da Giuseppe Cambiano e Cesare Pianciola. Volume che, oltre a contenere saggi di studiosi che si soffermano sulle differenti direzioni del pensiero di Chiodi, ci consegna una preziosa testimonianza di Aida Ribero, compagna del filosofo, e un saggio dello stesso Chiodi, del 1957, dal titolo “Alcune riflessioni a proposito dello scritto di Antonio Giolitti, Riforme e rivoluzione, a voler ribadire la sua costante attenzione al tema dell’impegno civile.
Chiodi è stato anche un instancabile traduttore di opere filosofiche: dalla Critica della ragion pura agli Scritti morali di Kant, a testi di Heidegger, Jaspers, Löwith, Carnap, Weber, Tatarchiewicz. Tutto ciò a dimostrare – come viene evidenziato nel saggio di Gianluca Garelli, Filosofia e traduzione in Pietro Chiodi – che, per il filosofo, il confronto diretto con il testo costituiva un vero e proprio lavoro intellettuale di comprensione e di esplicazione ermeneutica.
È Cambiano a delineare un profilo attento e critico di Chiodi, ripercorrendo i temi centrali (tutti uniti da un rigore teoretico) della sua ricerca: dall’influenza e dialogo continuo con Abbagnano (grande ed esemplare figura di riferimento della scuola filosofica torinese), fino agli studi centrali dedicati ad Heidegger, in un confronto serrato con la fenomenologia husserliana; dal “rirorno a Kant” (Chiodi aveva dedicato la propria tesi di laurea – andata dispersa – al filosofo di Königsberg), agli studi su Sartre e il tema dell’alienazione, per immergersi, poi, nel “dibattito sull’esistenzialismo” che, tra la metà degli anni ‘50 e gli anni ‘70, coinvolse personaggi eminenti del panorama culturale e filosofico italiano, tra cui Anronio Banfi, Remo Cantoni, Enzo Paci, Abbagnano e lo stesso Chiodi.
Come Abbagnano, scrive Cambiano, anche Chiodi cerca l’anti-Hegel, e lo trova in Heidegger. «Per Chiodi, come del resto per Abbagnano, Hegel rimarrà sempre l’eroe negativo. Per valutare gli aspetti positivi o i limiti di qualsiasi filosofia il confronto con Hegel apparirà sempre determinante. Ciò vale anche per il pensiero di Heidegger» (p. 9).
L’Heidegger di Essere e Tempo costituisce per Chiodi un punto di apertura e, contemporaneamente, di differenziazione rispetto alla Lebensphilosophie, poiché restituisce al Dasein la centralità dell’esistenza, quindi, al suo carattere fondamentalmente ontologico. Tuttavia, rileva Chiodi, assolutizzando la struttura stessa del Dasein, Heidegger non può che fallire nel progetto iniziale di Essere Tempo, avvitandosi continuamente nel tentativo di esplicare le forme attraverso cui si rivela lo stesso Dasein. Per questo, nonostante l’attenzione a quella prima, fondamentale opera heideggeriana, Chiodi dedicherà negli anni ‘50 saggi penetranti sul pensiero del “secondo Heidegger”, in quel percorso che da Sentieri interrotti (Holzwege) , tradotto dallo stesso Chiodi, porta a definire la “Svolta” (Kehre) heideggeriana. Si tratta, tuttavia, effettivamente di una “svolta”? È il problema posto da Chiodi.
Lo studio di Heidegger è strettamente connesso all’emergere del confronto di Chiodi con l’esistenzialismo e, in particolare, con Sartre. A questa tematica, Pianciola dedica un saggio accurato e approfondito, che ripercorre la genesi dell’attenzione da parte di Chiodi al pensiero sartreano. Per Chiodi, scrive Pianciola, «Sartre ha avuto il merito di aver tentato un incontro tra esistezialismo e marxismo come critica della ragione dialettica, cioè come analisi delle condizioni di un uso valido e non mistificato dei concetti marxistici di prassi, dialettica, alienazione» (p. 72). In tal senso, come per Heidegger e per altri pensatori, Chiodi propone sempre una disamina attenta e critica dell’opera del filosofo francese, rilevando, nella scrittura filosofica sartreana, alcune cesure che contraddistinguono il passaggio da L’essere e il nulla alla Critica della ragione dialettica. Pianciola sottolinea come, da un lato, per Chiodi la categoria di “progetto” viene ripresa ne L’essere e il nulla da Heidegger in una prospettiva coscienzialista, mentre nella Critica della ragione dialettica, «il progetto è prassi in situazione» (p. 73); d’altro canto, la categoria stessa di relazione assume una duplice valenza nelle due opere: nella prima viene ripreso il Mit-Sein heideggeriano come costitutivo dell’essere, mentre nella Critica la reciprocità diviene la «struttura formale originaria dell’esistenza» (ivi). È evidente, in questo caso, la trasformazione del pensiero sartreano in direzione di una maggiore attenzione alle dinamiche dei gruppi (il “collettivo”), in quanto espressione delle modalità politiche del soggetto di agire nella società, per prendere consapevolezza della propria condizione di sfruttamento e alienazione.
Tra prassi, dunque, alienazione e permanenza del primato della coscienza nel pensiero sartreano, Chiodi, rifacendosi a Kierkegaard, fa emergere la categoria della «possibilità», proprio perché, secondo il filosofo, non è possibile scardinare completamente il negativo che rimane costantemente come un’ombra nella radicalità dei processi umani. Qui, per Chiodi, rileva ancora Pianciola, si chiarifica e puntualizza il ruolo della filosofia (e del filosofo): «La filosofia delinea campi di significati, di valori, di possibilità, deve indicare ciò che minaccia l’umanità dell’uomo, invitare all’azione per combattere le condizioni che lo degradano» (p. 78). Una direzione, questa, decisa e trasparente anche nei confronti dei limiti dello stesso ruolo euristico della filosofia, che fa emergere la radicalità etica e l’attualità della riflessione di Pietro Chiodi.

Gianluca Giachery

 


Testo già pubblicato su “Paideutika”. Quaderni di formazione e cultura, 27, Nuova serie, Anno XIV, 2018.


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Cosa vuol dire Paideutika?

Letteralmente essa è la menzione al plurale dell’aggettivo verbale derivato dal greco paideuo (istruisco, educo, formo), da cui anche paideia (educazione, cultura, istruzione, conoscenza). cui Paideutika nomina tutto ciò che ha a che fare con la formazione dell’uomo.
Così Paideutika intende sviluppare una critica serrata delle pratiche di assoggettamento formativo a partire esattamente dal nesso formazione/cultura. E di farlo nel segno di una tradizione fenomenologica che, con accentuata attenzione esistenziale, non potrà che immergersi nelle infinite forme della vita di cultura – dalla filosofia alle scienze umane, dall’arte alla letteratura, dalle scienze sociali e politiche a quelle dell’educazione – per rivendicare, oggi, l’urgenza di un pensiero radicale. Un pensiero capace di reagire, con metodo decostruttivo, alla confortevole e levigata illibertà che sempre si annida nelle formule retoriche ed edificanti del pedagogismo corrente.


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Gianluca Giachery

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Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900) – Un’educazione che faccia intravedere alla fine del suo corso un impiego, o un guadagno materiale, non è affatto un’educazione in vista di quella cultura che noi intendiamo, ma semplicemente un’indicazione delle strade che si possono percorrere per salvare e difendere la propria persona, nella lotta per l’esistenza.

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La filosofia nell'epoca tragica dei Greci e Scritti dal 1870 al 1873

La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e Scritti dal 1870 al 1873

 

«La vera cultura disdegna […] contaminarsi con un individuo bisognoso e pieno di desideri: essa sa sgusciare accortamente dalle mani di colui che vorrebbe impossessarsi della cultura come di un mezzo per i suoi fini egoistici. E quando qualcuno crede di averla afferrata, per ricavarne in qualche modo un guadagno, e sfruttandola placare i bisogni della sua vita, essa allora corre via subitaneamente, a passi impercettibili e con atteggiamento di disdegno.
Di conseguenza, amici miei, non scambiate questa cultura, questa dea eterea, raffinata, dal piede leggero, con quell’utile domestica che talvolta viene anche chiamata ‘la cultura’, ma non è altro se non la serva e la consigliera intellettuale delle necessità della vita, del guadagno e della miseria. Un’educazione, peraltro, che faccia intravedere alla fine del suo corso un impiego, o un guadagno materiale, non è affatto un’educazione in vista di quella cultura che noi intendiamo, ma semplicemente un’indicazione delle strade che si possono percorrere per salvare e difendere la propria persona, nella lotta per l’esistenza».

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Friedrich Wilhelm Nietzsche, Über die Zukunft unserer Bildungsanstalten (1872); trad. it., Sull’avvenire delle nostre scuole, ne La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e Scritti dal 1870 al 1873, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1980, vol. III, tomo II, p. 164. Il testo completo delle cinque conferenze si può leggere alle pp. 79-206 di questo volume.


Friedrich Nietzsche (1844-1900) – Scrivi col sangue: imparerai che il sangue è spirito


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Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900) – Chi si sente completamente in accordo con questo presente, e lo assume come qualcosa ‘che si comprende da sé’ non è da noi certo invidiato. Tra costoro e i solitari, stanno tuttavia in mezzo i combattenti, cioè coloro che sono ricchi di speranza.

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La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e Scritti dal 1870 al 1873

 

«Chi si sente completamente in accordo con questo presente, e lo assume come qualcosa ‘che si comprende da sé’ (‘selbstverständlich’), non è da noi certo invidiato, né per questa fede né per questa parola di moda ‘che si comprende da sé’, formata in modo scandaloso; chi invece, giunto all’opposto punto di vista, è già disperato, non ha più bisogno di combattere, e non appena si arrenderà alla solitudine, sarà senz’altro solo. Tra costoro ‘che si comprendono da sé’ e i solitari, stanno tuttavia in mezzo i combattenti, cioè coloro che sono ricchi di speranza».

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Friedrich Wilhelm Nietzsche, Über die Zukunft unserer Bildungsanstalten (1872); trad. it., Sull’avvenire delle nostre scuole, ne La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e Scritti dal 1870 al 1873, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1980, vol. III, tomo II, p. 84. Il testo completo delle cinque conferenze si può leggere alle pp. 79-206 di questo volume.


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