Maurice Blanchot (1907-2003) – Una giusta risposta è sempre radicata nella domanda. Vive della domanda. La risposta autentica è sempre vita della domanda.

Maurice Blanchot02

 

Lo spazio letterario

Lo spazio letterario

 

«Una giusta risposta è sempre radicata nella domanda. Vive della domanda.
Il senso comune crede che essa la sopprima. Nei periodi detti felici, effettivamente, solo le risposte sembrano vive. Ma questa felicità dell’affermazione deperisce ben presto. La risposta autentica è sempre vita della domanda. Può richiudersi su di essa, ma per preservarla mantenendola aperta».

Maurice Blanchot, Lo spazio letterario, Einaudi, Torino 1967, p. 183.



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Salvatore Bravo – Il presente non è tutto, lo diviene in assenza di domande. La domanda è già utopia concreta. Per pensare l’utopia concreta l’immaginazione è imprescindibile, essa è operazione critica, domanda radicale e filosofica, è una diversa rappresentazione del presente: mentre configura il futuro, opera nel presente investendolo di nuova vita. Un mondo senza pensiero ed immaginazione empatica è solo distopia.

Agnes Heller001

Salvatore Bravo

La domanda filosofica e l’utopia concreta

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L’indagine filosofica pone domande radicali. In ogni filosofare vi è l’atto dell’uscire dalle posizioni ordinarie, dall’ovvio, per interrogarlo. La domanda filosofica non vive nel chiuso delle accademie, delle istituzioni o nelle parole paludate degli specialisti: abita ovunque vi siano esseri umani che pongano l’esigenza del senso, del riportare il quotidiano alla sua razionalità. Si procede per scissione e ricomposizione. La domanda filosofica vive socraticamente nella strada. È nei luoghi della vita routinaria che possono emergere domande su dettagli che rivelano la sostanza, la verità del proprio tempo. Domandare nel filosofare è sempre pratica dell’epochè, sospensione dell’atteggiamento naturale, porre le sovrastrutture culturali ed ideologiche in uno stato limbico, per guardare con occhi nuovi, per imparare a guardare il mondo in carne e d’ossa, come affermava Husserl.[1] La parola teoria deriva dal greco θεωρέω theoréo, “guardo, osservo”, composto da θέα, thèa, “spettacolo” e ὁράω, horào, “vedo,” dunque senza il guardare profondamente non vi è la domanda filosofica.

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SUV carro armato

SUV carro armato

 

Prodotto negli Stati Uniti arriva il carro armato di lusso:
si chiama Ripsaw Ev2 Extreme Luxury Tank. Dotato di un motore Diesel da 6.6 litri  è prodotto dalla Howe Technologies. Tra i super ricchi americani sta già diventando un oggetto di culto.


Fenomenologia del SUV

Muoviamo un passo con un esempio: l’analisi del SUV. La mastodontica auto sovrana delle nostre strade. Il SUV tradisce le contraddizioni del nostro reale “molto virtuale.” In primis, la sua storia è inquietante, in quanto tale modello ha un’origine militare. L’acronimo di SUV è Sport Utility Vehicle, un’automobile corazzata derivata dai modelli corazzati della prima guerra del Golfo.
Se la propaganda politica presenta il turbocapitalismo quale diffusore di pace e diritti universali, le guerre, si propugna “seraficamente”, sono un incidente necessario nel cammino della pace. La guerra ispira tecniche di conquista adattandole all’ambiente, utilizzandole in svariati settori industriali ed anche per il mercato dell’auto. Si tratta dunque di un unico mercato. Sicuramente solo un numero sparuto di compratori ne conosce la storia e le tragedie di cui è segno. La guerra è tra di noi, non solo nel caso vi sia un’implicazione diretta o indiretta nelle scelte governative, ma anche quando si adotta un mezzo che si è ispirato ad essa. Il compratore non si domanda certo il Perché della mastodontica presenza, semplicemente la usa. La ragione strumentale trionfa sulla razionalità oggettiva. Lo spirito con cui ci si approccia al mercato cambia, se semplicemente si obbedisce alla propaganda, o se si interpone la domanda tra essa e se stessi. La Filosofia si situa in quello spazio di elaborazione: sentire/guardare con lo scandaglio, per capire, per non essere fruitore passivo delle contingenze.

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La falsa cultura capitalistica della cosiddetta ecologia “sostenibile”

Più palese – rispetto alla precedente – è la contraddizione che si manifesta nel continuo salmodiare del circolo mediatico sullo sviluppo sostenibile da parte della falsa cultura capitalistica. Non una contraddizione si apre, ma una voragine che mostra e denuncia l’ipocrisia dell’attuale modello economico. Il SUV consuma notevoli quantità di carburante con il conseguente inquinamento da benzene, sostanze alifatiche, polveri sottili, nanoparticelle. Ecco la verità del capitalismo assoluto: dell’ambiente come della vita non gli importa nulla, il plusvalore resta l’unico fine, al punto da infischiarsene dell’inquinamento e della febbre della Terra con i suoi eventi estremi. Giunge un’altra domanda: “A quale bisogno risponde il SUV?”.

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Bisogni radicali, bisogni alienanti

I bisogni – se seguiamo la linea di Agnes Heller – si distinguono in bisogni radicali e bisogni alienanti. I primi sono i bisogni autentici che favoriscono la formazione dell’essere umano, permettendogli di fiorire secondo la famosa metafora di Aristotele. L’essere umano è possibilità che si attua nella convivialità, nella cultura etica del disinteresse. I bisogni autentici sono i bisogni della comunità. Nella parola comunità è presente uno scrigno di significati dimenticati: comunità deriva da cum-munus: nel mondo antico munus è il dono disinteressato che reca in sé la reciprocità del gesto. La società dei SUV non è una comunità, ma solo un mercato, in cui è assolutamente estranea l’esperienza del dono. Il guidatore – trincerato nell’abitacolo del SUV – con la sua ombra minaccia i pedoni, e fa della distanza la cifra del suo successo nel mercato delle quantità: ingerisce sempre più massicce dosi del “farmaco” della quantità pensando di “curare” così la propria paura dell’altro attraverso il suo nascondimento corazzato.

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La paura curata con il “farmaco” della quantità

L’altra verità del SUV è la paura curata con il “farmaco” della quantità, con l’espandersi del proprio fragile io nell’esoscheletro della corazza dell’auto. Il sistema del lavoro astratto, aumenta il timore dell’altro: la competizione diventa esperienza darwiniana di selezione: si è ciò che si produce. Se la capacità poietica non è altamente performativa, si cade nella disistima generale fino alla marginalità sociale. La quantità è la cifra del turbocapitalismo e si concretizza nel plusvalore come nell’espansione della res extensa: naturalmente l’estensione della quantità è direttamente proporzionale alla presenza dell’io. La qualità scompare dietro il gigantismo del SUV, come delle sue innumerevoli copie. La quantità invade le strade, gli spazi come la coscienza dei servi del capitale. I bisogni alienanti sono dunque bisogni indotti e compensativi dell’assenza della qualità.
La comunità è il luogo della qualità: convivialità, amicizia, reciprocità, progettualità condivisa. Nei bisogni radicali si iscrive la verità della natura umana, ogni comunità con un tasso di convivialità sviluppata conosce la malattia mentale come eccezione. Le società che tale più non sono – perché potere e plusvalore sono i suoi fondamenti – non conoscono che la malattia, l’inquietudine giornaliera del vivere. Il bisogno alienante non conosce la presenza dell’altro e la reciprocità, poiché è un bisogno incontenibile: è stato introiettato al fine di espandersi con funzione geometrica, e non raggiunge mai la gratificazione, che è spostata in avanti in un tempo indefinito, con il risultato che il soggetto desiderante è dominato e asservito. Il bisogno radicale conosce il senso del limite in quanto vive l’esperienza della qualità, della profondità, della gioia.

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La mancanza d’essere

Nell’epoca in cui domina il lavoro astratto, ridotto a sola energia poietica senza qualità, per riportare i bisogni radicali ed il lavoro concreto quale tema centrale del dibattito culturale e politico, è necessaria la domanda filosofica supportata dalla postura filosofica:

«La filosofia può fare solo una cosa: può dare al mondo una norma e può volere che gli uomini siano in grado di dare alla norma un mondo. […] il filosofo non opera una mediazione filosofica fra essere e dovere, la compie solo in quanto uomo: come un uomo tra milioni, un uomo tra coloro che vogliono sapere la verità, uno di quelli che vogliono che il mondo possa diventare la patria dell’umanità».[2]

La Filosofia deve riportare l’umano nella comunità umana. Sin dalla catabasi di Platone, ed ancor prima, sa bene che l’essere umano è mancanza d’essere, non gli è sufficiente la semplice vita, la sola quantità, ma ha bisogno di senso. Privato del senso l’uomo soggiace all’esperienza del disastro: vive fuori da ogni riferimento, fatticità heideggeriana. In assenza della domanda del senso non resta che un mondo minacciato dalle cose, dai SUV nelle multiformi manifestazioni. Mondo della paura, nel quale l’essere è solo un estraneo. In assenza di orientamento, dello spazio di una patria, i bisogni alienanti assalgono l’essere umano. La Filosofia nella contemporaneità è sostenuta da Filosofi deboli: in assenza di esperienze storiche profonde, radicali (nell’accezione marxiana) e dirette, sembra che anche le domande abbiano perso la loro energia critica. Solo la consapevolezza che viviamo l’esperienza estrema di un totalitarismo non riconosciuto potrà, forse, ridare vigore alla domanda. Per riportare l’umano nel mondo è necessario il logos, il dubbio che investa la vita nella sua totalità come nella risposta.

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L’utopia come problema

Il logos è domanda che si prende cura della vita giorno dopo giorno. La domanda elabora utopie, ma affinché non diventino distopie, incubi, esse hanno un valore puramente regolativo, è un tendere verso, con la consapevolezza dell’impossibilità di realizzazioni assolutamente perfette. L’utopia la si può coltivare nella cura del quotidiano, vivendo l’esperienza della qualità, della convivialità, nel concreto. Perché la vita diventi umana vi deve essere una stratificazione temporale dell’utopia: la perfezione è un tendere verso che si radica nella cura del presente. La convivialità diviene anticipazione di un tempo impossibile, perfetto, definitivo, ma che trasforma il presente in possibilità creativa nel nome della reciprocità:

«La normalità ci impone di giudicare il nostro mondo né migliore né peggiore di qualunque altro mondo umano di cui abbiamo conoscenza. In ogni caso, tutto ciò che conosciamo del passato lo sappiamo attraverso le utopie. Perché cosa altro sono le opere artistiche e storiche se non frammenti di una realtà utopica? Abbiamo bisogno di utopie per il futuro, ma non di credere alla loro realizzazione. Le utopie, infatti, non si realizzano mai; non ne hanno bisogno, dato che esistono già. La cosa migliore delle donne e degli uomini di un dato mondo sono le utopie che essi creano nei confini del loro universo. […] Normalità significa prenderci cura del nostro mondo. La cosa migliore che possiamo fare è agire in modo utopistico, mettendo in luce le possibilità positive della nostra epoca moderna».[3]

 ***

 La Filosofia come nostalgia dell’umano

La domanda ci riconduce alla nostalgia di un mondo degli esseri umani e per gli esseri umani. In ogni domanda filosofica la radicalità è nella richiesta di un mondo umano, e nel contempo è un “no” verso l’ordine vigente: nella domanda vive la fiducia di un mondo perfettibile. Il presente non è tutto, lo diviene in assenza di domande. L’esodo è nel presente: l’esperienza del passaggio, della prassi filosofica vive già nella domanda. La domanda è già utopia concreta. La domanda trasforma la posizione dell’alterità: si compie il transito dalla prospettiva strumentale alla prospettiva tra soggetti in relazione. In questa attività risiede la forza rivoluzionaria della Filosofia. Dove il silenzio regna sovrano, dove la critica filosofica è solo esperienza di un passato glorioso, si assiste al dominio, al potere come destino, al mondo delle cose che signoreggiano sull’essere umano offrendogli soltanto la penuria del non-essere, schiacciandolo in un’esistenza puramente biologica.

***

L’immaginazione

Si vive senza immaginazione: la quantificazione opera un taglio sull’immaginazione. Ogni totalitarismo fa la guerra all’immaginazione. Per pensare l’utopia concreta l’immaginazione è imprescindibile, essa è operazione critica, domanda radicale e filosofica, è una diversa rappresentazione del presente: mentre configura il futuro, opera nel presente investendolo di nuova vita.
La domanda filosofia trova il suo humus nell’immaginazione, della capacità tutta umana di trascendere il presente.
L’arte come la religione può favorire l’immaginazione filosofica:

«Quale ruolo gioca il riferimento alla tradizione biblica? Per rispondere occorre riflettere, almeno per un momento, sulla natura dell’immaginazione, questa straordinaria facoltà mentale che deriva dalla fusione tra ragione ed emozione. Ogni momento della nostra giornata è segnato dalla presenza dell’immaginazione anche dal punto di vista psicologico, ma questa facoltà è addirittura decisiva quando si tratta di innovare: di immaginare, appunto, un futuro che sia diverso dal presente. Questa dimensione creativa dell’immaginazione, caratteristica in particolare dell’arte, è determinante per il formarsi delle utopie e ha trovato espressione in molte pagine della Bibbia. Personalmente trovo molto convincente la tesi dell’egittologo Jan Assmann, che riconosce nel Libro dell’Esodo uno dei capisaldi dell’utopia di ogni tempo. Attraverso la promessa ricevuta da Mosè, il popolo di Israele riesce a concepire la liberazione dalla schiavitù e l’avvento di un mondo completamente nuovo. Si verifica così salto di scala nel percorso immaginativo che avrà conseguenze formidabili per tutta l’umanità».[4]

Per giungere alla convivialità, ai bisogni autentici, la domanda filosofica deve essere sostenuta dall’immaginazione senza la quale il pensiero è solo calcolo, dominio dell’ente uomo sugli altri enti. Un mondo senza pensiero ed immaginazione empatica è solo distopia, un incubo realizzato. Per riprenderci la Storia, per un nuovo inizio, abbiamo bisogno del pensiero e delle sue strutture senza le quali si è schiacciati tra le cose.

Salvatore Bravo


[1] Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Vol. 1, Einaudi, 2002. Nella prima parte del I libro delle Ideen, Essenza e conoscenza di essenza, viene sviluppata la critica al naturalismo positivistico. Essa si basa sulla distinzione tra dato di fatto ed essenza, quindi sui possibili fraintendimenti naturalistici dei dati di fatto.
L’empirismo viene considerato come scetticismo e il carattere dell’essenza vien chiarito in modo tale da superare ogni sua interpretazione in chiave di realismo platonico. Il fatto costituisce l’essenziale, in esso si vede l’essenziale. L’essenzialità è colta nell’intuizione. Ogni fatto rivela così l’eidos. La riduzione eidetica strettamente legata alla riduzione al soggetto. Possiamo cogliere l’essenza solo se ci liberiamo da ogni pregiudizio e se descriviamo quello che vediamo come lo vediamo. Husserl formula, muovendo da qui, il principio dei principi:«Nessuna immaginabile teoria può cogliere in errore nel principio di tutti i principi: cioè, che ogni visione originariamente offerente è una sorgente legittima di conoscenza, che tutto ciò che si da originalmente nell’intuizione, per così dire in carne ed ossa (leibhaft) è da assumere come essa si da.» Questo principio dei principi è ciò che rimane dopo la critica scettica, anzi, è il risultato stesso dell’accettazione della critica scettica. Si possono negare tutte le teorie e le scienze, ma resta sempre quello che si vede e si sente nei limiti di ciò che si percepisce. Si possono verificare discordanze con gli altri sul percepito reale, ma queste possono essere chiarite per mezzo della costituzione intersoggettiva, cioè del dialogo tra i soggetti della conoscenza e dell’esperienza.

[2] Á. Heller, La filosofia radicale, il Saggiatore, Milano 1979, p. 154.

[3] Á. Heller, Scrivere dopo Auschwitz, p. 54.

[4] Á. Heller intervista “Noi orfani dell’utopia”, Avvenire del 26/5/2016

 



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Paulo Coelho – Frequenta quelli che non temono di apparire vulnerabili. Perché hanno fiducia in se stessi e sanno che, prima o poi, tutti incespicano in qualche ostacolo; per loro, non si tratta di un segno di debolezza, ma di umanità.

Paulo Coelho 01
Il manoscritto ritrovato ad Accra

Il manoscritto ritrovato ad Accra

 

«Frequenta quelli che non temono di apparire vulnerabili. Perché hanno fiducia in se stessi e sanno che, prima o poi, tutti incespicano in qualche ostacolo; per loro, non si tratta di un segno di debolezza, ma di umanità.

[…] Scappa da coloro che utilizzano gli amici per conquistare o mantenere un riconoscimento sociale, o pr aprire porte di circoli esclusivi […].

Coltiva la compagnia di quelli che si adoperano per schiudere un’unica porta: quella del tuo cuore.

[…] Condividi il cammino con quelli che sostengono: “Anche se siamo arrivati fin qui, dobbiamo proseguire”. Sanno che bisogna sempre spingersi oltre gli orizzonti conosciuti.

[…] Donati a quelli che consentono alla luce dell’Amore di manifestarsi liberamente, senza pregiudizi né ricompense – senza mai essere oscurata dalla paura di non venir accettata».

Paulo Coelho, Il manoscritto ritrovato ad Accra, trad. di Rita Desti, La nave di Teseo, Milano 2018


 

Aleph

Aleph

«Una vita senza causa è una vita senza effetto».

Paulo Coelho, Aleph, trad. di Rita Desti, La nave di Teseo, Milano, 2017.


 

 

Come il fiume che scorre

Come il fiume che scorre

«Il bambino guardava la nonna scrivere una lettera. A un certo punto, le domandò:
“Stai scrivendo una storia che è capitata a noi? E che magari parla di me.”
La nonna interruppe la scrittura, sorrise e disse al nipote:
“È vero, sto scrivendo qualcosa di te. Tuttavia, più importante delle parole, è la matita con la quale scrivo. Vorrei che la usassi tu, quando sarai cresciuto.”
Incuriosito, il bimbo guardò la matita, senza trovarvi alcunché di speciale.
“Ma è uguale a tutte le altre matite che ho visto nella mia vita!”
“Dipende tutto dal modo in cui guardi le cose. Questa matita possiede cinque qualità: se riuscirai a trasporle nell’esistenza, sarai sempre una persona in pace con il mondo.
“Prima qualità: puoi fare grandi cose, ma non devi mai dimenticare che esiste una Mano che guida i tuoi passi. ‘Dio’: ecco come chiamiamo questa mano! Egli deve condurti sempre verso la Sua volontà.
“Seconda qualità: di tanto in tanto, devo interrompere la scrittura ed usare il temperino. È un’operazione che provoca una certa sofferenza alla matita ma, alla fine, essa risulta più appuntita. Ecco perché devi imparare a sopportare alcuni dolori: ti faranno diventare un uomo migliore.
“Terza qualità: il tratto della matita ci permette di usare una gomma per cancellare ciò che è sbagliato. Correggere un’azione o un comportamento non è necessariamente qualcosa di negativo: anzi, è importante per riuscire a mantenere la retta via della giustizia.
“Quarta qualità: ciò che è realmente importante nella matita non è il legno o la sua forma esteriore, bensì la grafite della mina racchiusa in essa. Dunque presta sempre attenzione a quello che accade dentro di te.
“Quinta qualità: essa lascia sempre un segno. Allo stesso modo, tutto ciò che farai nella vita lascerà una traccia: di conseguenza, impegnati per avere piena coscienza di ogni tua azione.”

Apprezza ciò che sei perché tu sei amore, quell’amore che cerchi in ogni cosa e in ogni dove. Accogli ciò che tu sei perché tu sei ciò che cerchi di essere, ciò che tu vuoi essere, tu sei la vita che crea la tua vita. Accetta te stesso, amore del tuo amore, perché tu sei ciò che hai tanto bisogno di essere. Sorridi all’amore che tu emani perché tu sei quell’amore che cerchi in ogni luogo, pace dei tuoi sensi».

Paulo Coelho, Come il fiume che scorre. Pensieri e riflessioni 1998-2005, trad. di Rita Desti, La nave di Teseo, Milano 2018.



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Fabio Acerbi – Concetto ed uso dei modelli nella scienza greca antica

Fabio Acerbi 01

302 ISBN

Fabio Acerbi, Concetto e uso dei modelli nella scienza greca antica.

ISBN 978-88-7588-214-3, 2018, pp. 92, formato 140×210 mm. [liberamente scaricabile in PDF] – Collana “Il giogo” [90]. In copertina: Particolare di un manoscritto del X Secolo; pagina dell’opera di Aristarco di Samo Sulle dimensioni e distanze del Sole e della Luna.

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Concetto ed uso dei modelli hanno avuto un ruolo centrale nell’indagine scientifica dell’ultimo secolo, non solo nelle scienze esatte e nelle loro applicazioni immediate, ma anche nei campi medico-biologico e delle discipline economiche o sociali. Se l’àmbito di ricerca in cui viene praticato l’approccio modellistico varia in maniera non indifferente, resta però immutata la sua caratteristica essenziale, il costruire cioè all’interno dell’universo matematico immagini semplificate di classi di eventi appartenenti all’universo fenomenico. C’è di più: accade spesso che a tale scopo specifiche discipline utilizzino in maniera peculiare strumenti matematici ben determinati, e questo fatto ha spesso contribuito in maniera decisiva a definire con maggiore nettezza i confini e quindi lo scopo delle discipline in gioco, a volte arrivando a dotarle di un’aura di scientificità che per altri versi risultava e risulta quantomeno discutibile accordare loro.
Alla luce delle incertezze contemporanee è importante cercare di capire le origini storiche del concetto di modello, analizzando in particolare se e come fossero già presenti in origine tali gravi confusioni tra quest’ultimo ed il fenomeno che era inteso modellizzare. Il presente contributo intende fornire i risultati di una prima ricognizione nel campo della scienza greca antica.


Euclide. Tutte le opere

Euclide. Tutte le opere

Euclide. Tutte le opere. Testo greco a fronte, curatore Fabio Acerbi, pp. 2713, Bompiani, 2007

Quarta di copertina

Le opere in greco di Euclide sono il fondamento della geometria occidentale, e pertanto l’elaborazione dei teoremi matematici qui proposta sta anche alla base dell’impresa scientifica dell’Europa. Questo corpus di colossale importanza nacque nell’ambiente filosofico dell’Accademia platonica, grazie a quei pensatori come Teeteto che, accogliendo e rilanciando le istanze del Pitagorismo antico, avevano posto l’aritmetica e la geometria al centro della conoscenza. Gli “Elementi”, in particolare, costituirono il manuale di matematica dell’antichità classica e del Medioevo.


Logo Adobe Acrobat    Freccia rossa   p. 105    

Fabio Acerbi,
Riflessi condizionali

 


Il silenzio delle sirene. La matematica greca antica

 

Fabio Acerbi,
Il silenzio delle sirene. La matematica greca antica, Carocci, 2010.

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Quarta di copertina

La matematica greca antica è raramente presentata al lettore come oggetto di attenzioni storiche o filologiche. L’autore di questo volume, invece, si propone di farlo, descrivendo i metodi di analisi dei testi matematici antichi, conducendo il lettore dietro le quinte delle mode storiografiche e sfatandone alcuni miti, offrendo un quadro dettagliato della tradizione testuale delle opere principali. Il “contenuto matematico” delle ricerche antiche è adeguatamente contestualizzato, ed esposto per grandi linee tematiche privilegiando le tecniche dimostrative e il linguaggio utilizzato nella loro elaborazione. Viene dato spazio a domìni di ricerca solitamente trascurati come i fondamenti e la teoria dei numeri. Ne risulta un quadro organico, ricco di informazioni, forse spiazzante per la messa in prospettiva decisamente inusuale.

Indice

Fonti di uso frequente e loro sigle

Nota liminare

  1. Metodi

Che cos’è la matematica greca: una mappa per sottogeneri/Come è scritta la matematica greca/Come venne diffusa la matematica greca/Come muore la matematica greca/Come ci è giunta la matematica greca: la trasmissione diretta/Come ci è giunta la matematica greca: le fonti greche indirette/La collocazione cronologica dei matematici antichi

  1. Problemi

Contesto e interpretazione/Miti storiografici/Tecniche/La classificazione delle linee irrazionali e dei poliedri regolari/Le quadrature e il cosiddetto «metodo di esaustione»/Elementi di teoria delle sezioni coniche; le proprietà caratteristiche; il metodo di «applicazione delle aree»; il luogo a 3 e 4 linee/Curve speciali; la classificazione dei problemi e dei luoghi/Sistemi numerici, algoritmi e tradizione metrica/Teoria dei numeri/Trigonometria e geometria sferica

Appendice. La tradizione manoscritta

A1. Le opere principali

A1.1. Un solo manoscritto, conservato, a capo di tutta la tradizione: Collectio di Pappo, Coniche di Apollonio, Metrica di Erone / A1.2. Due recensioni differenti per varianti marginali: Elementi e Data di Euclide / A1.3. Due recensioni antiche radicalmente differenti: Ottica e Fenomeni di Euclide / A1.4. Una recensione (tardo)-

antica e una bizantina: i Commentari di Pappo e Teone all’Almagesto e di Teone alle Tavole facili di Tolomeo; gli anonimi Prolegomena all’Almagesto / A1.5. Tradizione antica a più rami: Almagesto di Tolomeo e corpus archimedeo / A1.6. Tradizione bizantina e bipartita: Arithmetica di Diofanto / A1.7. Mostri filologici: Geometrica e Stereometrica inclusi nel corpus eroniano / A1.8. Palinsesti

A2. La formazione di corpora settoriali

A2.1. Il corpus astronomico minore / A2.2. Il corpus analitico / A2.3. Un corpus astronomico-matematico tardo-bizantino / A2.4. I corpora scoliastici

A3. Traduzioni arabe e arabo-latine

Onomasticon

Bibliografia

Indice dei manoscritti e dei papiri

Indice dei nomi

Indice dei nomi geografici e astronomici

Indice dei passi citati da autori non matematici

Indice analitico

 

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Recensione al libro

Alberto Cappi, Giornale di Astronomia, 01-01-2013

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Salvatore Bravo – Lo sradicamento è vita fuori dalla storia, dalla coscienza, dalla comunità in cui la vita fiorisce. Lo sradicamento massimo è la riduzione di tutto sulla linea della quantità, è associare il bene solo alla quantità. Ma se il bene è la quantità, il male è per tutti.

Bravo Salvatore 028

 

Xilografia del 1474

Xilografia del 1474

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“E dimmi che non vuoi morire”.
Quattordici volte avrebbe pronunciato questa frase,
una per ognuno dei suoi quattordici figli,
sette maschi e sette femmine
uccisi a causa della sua superbia.

Solo il numero la rendeva orgogliosa,
non giudicava le qualità interiori dei figli,
ma si soffermava solo al loro esteriore aspetto.

Zeus la condannò a un pianto eterno.
Pianto che continuò a sgorgare
nonostante fosse stata trasformata in pietra da Zeus.

 

Niobe di pietra

Salvatore Bravo

L’epoca degli sradicamenti

 

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Gegenstand ed obiectum
La velocità
La manipolazione del concreto
Il mito di Niobe
Proprietà pubblica
Proprietà privata
La verità


L’epoca dello sradicamento, ovvero della vita fuori dalla storia, sia della coscienza che della comunità in cui la vita fiorisce. Per capire la profondità esiziale dello sradicamento globale può esserci d’ausilio Hegel con la Fenomenologia dello Spirito: le figure che si susseguono nell’opera rappresentano il percorso di radicamento della coscienza, i passaggi ed il travaglio per nascere a forme di vita sempre più consapevoli.
Il travaglio della coscienza è la storia del radicamento, della consapevolezza, del baricentro che si sposta dal fuori al dentro, e del suo disporsi verso e nella comunità. La prima figura è la coscienza, lo stadio più primitivo è la certezza sensibile in cui il soggetto giudica l’oggetto non posto dal soggetto, ma soggetto animato di vita propria.

***

Gegenstand ed obiectum

È il trionfo dell’obiectum sul Gegenstand. Lo sradicamento opera a favore della certezza sensibile e dunque dell’obiectum, mentre nel Gegenstand è la coscienza a porre la realtà, a conoscerla per trasformarla. Con l’integralismo dell’obiectum, il soggetto vive fuori di sé, è alienato, si inginocchia dinanzi all’oggetto non riconoscendolo come sua creazione. Lo sradicamento globale è il regno della certezza sensibile, il soggetto è spettatore nel turbine degli eventi che si concretizzano dinanzi a lui, e che fatalmente deve servire. L’asservimento globale è dunque sradicamento. Fenomeno complesso e poliforme, talvolta difficilmente riconoscibile, poiché in modo semplicistico è associato ai migranti, flusso ininterrotto di viaggiatori senza meta per il globo, odissea senza patria, senza ritorno. E dunque anche l’atto del partire è privo di densità emotiva e storica: non si parte da nessun luogo, per lo sradicato tutti i luoghi sono non luoghi, sono soste nel transito perenne.
La perversione dello sradicamento del migrante è solo una voce del fenomeno, in verità sono presenti manifestazioni altrettanto perniciose, ma non riconosciute.

***

La velocità

La velocità, vero mito baconiano della contemporaneità, è una forma di sradicamento. La velocità nella mitizzazione della stessa è espressione di efficienza e competitività. Se si guarda la velocità da un altro punto di vista, essa è la manifestazione dello sradicamento da ogni pensiero, dall’ascolto dei pensieri che ci giungono per svelarci mondi. La velocità orienta a vivere in uno stato costante di disorientamento: non conta verso dove è finalizzato l’accrescimento cinetico, ma è valutato solo il risultato finale. La produzione a ritmi crescenti è incentivata senza critica, non importa se il mondo si inabissa tra prodotti e scorie. La velocità è competizione: l’altro è sempre il nemico da battere sul tempo e nel tempo. Ogni percezione dell’altro è dunque puramente strumentale. I predoni della velocità, misurano i tempi delle prestazioni, ogni riflessione sulla qualità tace.
Ogni problema teoretico è solo un limite nella logica della competizione. La sindrome della velocità è entrata nelle relazioni umane, che velocemente si consumano. Nel linguaggio comune vi sono soltanto rapporti flessibili, che si orientano – già nella loro genesi iniziale – ad una durata velocemente transeunte. Nelle scuole gli apprendimenti devono essere veloci e “concreti”.

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La manipolazione del concreto

Il termine è concreto è utilizzato con somma superficialità. Il concreto è parola che deriva da concrescĕre, dunque da cum e crescĕre, crescere con, dove appunto particolare ed universale sono compresenti. Nulla è più complesso del concreto che esige la lentezza della lettura filologica. Il “concreto” all’epoca dello sradicamento è semplicemente il dato dilavato da ogni principio e contesto: in tal modo il concreto diviene astratto, empiria volgare e semplice. Lo sradicamento è polimorfo nel senso freudiano: fenomeno perverso in cui le parole perdono il loro radicamento significante per essere flatus vocis. Se le manifestazioni dello sradicamento sono innumerevoli, diventa pur necessario riportare tale fenomeno alla sua verità logica, storia e sostanziale. In questo caso ci viene in aiuto un mito greco analizzato da Simone Weil.

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La roccia piangente sul monte Sipilo, Manisa, in Turchia, conosciuta come Niobe

La roccia piangente sul monte Sipilo, Manisa, in Turchia, conosciuta come Niobe.

Il mito di Niobe

Niobe è il simbolo di coloro che associano il bene alla quantità. Niobe giudicava i suoi quattordici figli, sette maschi muscolosi e sani, sette femmine bellissime, il bene assoluto. Il numero la rendeva orgogliosa, non giudicava le qualità interiori dei figli, ma si soffermava solo al loro esteriore aspetto. I valori della res extensa contro i valori della res cogitans.
Per Simone Weil lo sradicamento massimo è la riduzione di tutto sulla linea della quantità, l’essere umano così, si sradica dal pensiero, dalla coscienza per essere parte della natura. La quantità si rende manifesta nell’occupazione del tempo asservito al solo lavoro:

 

La prima radice

La prima radice

«Non è la quantità del metallo che conta, bensì il grado della lega. In questo campo, un po’ d’oro puro vale molto oro puro. Un po’ di verità pura vale quanto molta verità pura. E così una statua greca perfetta contiene altrettanta bellezza di due statue greche perfette. Il peccato di Niobe consisteva nell’ignorare che la quantità non ha nessun rapporto col bene; e venne punita con la morte dei figli. Noi commettiamo lo stesso peccato ogni giorno, e veniamo puniti allo stesso modo».[1]

La punizione è quotidiana: se il bene è la quantità, il male è per tutti.[2] L’atomistica delle solitudini ne è conseguenza: sradicati da se stessi, dalla comunità, dalla storia come da ogni tradizione. Lo sradicamento e la quantità occupano lo spazio della mente: il tempo è pieno per cui non vi è spazio che per le mercificazioni. Il successo dello sradicamento non potrebbe essere più totale. L’essere umano ridotto ad atomo, ad individuo, non ha anticorpi per opporsi alla manipolazione: diviene, così, facile preda dei mercati, vera rete mondiale del saccheggio. La punizione ricade su tutti, poiché ogni vita è speculare alle altre, per quanto tentino di convincerci del contrario. Non solo l’infelicità nelle forme di alienazione si radica per divenire capillare, ma ancor più è in pericolo un intero pianeta: ogni vita umana è sotto scacco. La quantità agisce per trasformare l’altro in “fondo” da cui trarre plusvalore ed energia per eventuali piani di investimenti.
Il linguaggio stesso si contrae per essere veicolo della separazione. Nella lingua di ogni giorno le parole della quantificazione restringono le visuali e con esse le capacità empatiche. Le parole della quantificazione sono respingenti, creano mondi nei cui paesaggi la presenza umana non è contemplata. Dinanzi a processi di disgregazione di tale enormità, Simon Weil riconosce l’importanza degli spazi pubblici quali luoghi nei quali vivere lo spirito della comunità come appartenenza partecipata ad una storia.

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Proprietà pubblica

La proprietà pubblica implica la pubblica fruizione di spazi monumentali e politici. In questo modo tutti vivono l’esperienza del pubblico radicamento senza chiusura. Il radicamento nello spazio-tempo pubblico educa all’empatia, diviene educazione sentimentale e razionale sconosciuta al regno della quantità dove vige un sostanziale analfabetismo emotivo e razionale:

«Un bisogno altrettanto importante è la partecipazione ai beni collettivi, partecipazione che non consiste in una fruizione materiale, ma in un sentimento di proprietà. Si tratta più di uno stato spirituale che di una disposizione giuridica. Là dove esiste veramente una vita civica, ognuno si sente personalmente proprietario dei monumenti pubblici, dei giardini, della magnificenza esibita nelle cerimonie; e così, il lusso che quasi ogni essere umano desidera è concesso persino ai più poveri. Ma non solo lo Stato bensì qualsiasi specie di collettività ha il dovere di fornire la soddisfazione di questo bisogno. Una grande fabbrica moderna costituisce uno spreco dal punto di vista della proprietà. Né gli operai, né il direttore che dipende da un consiglio d’amministrazione, né i membri del consiglio che non la vedono mai, né gli azionisti che ne ignorano l’esistenza, possono trovarvi la minima soddisfazione a questo bisogno. Le modalità di scambio e di acquisto, quando comportano lo spreco dei nutrimenti materiali e morali, vanno trasformate. Non esiste nessun legame naturale fra la proprietà e il danaro. Il legame oggi stabilito è solo il risultato di un sistema che ha concentrato sul danaro la forza di ogni possibile movente. Questo sistema è dannoso; occorre operare la dissociazione inversa».[3]

Lo sradicamento si invera nelle fabbriche, nelle quali la gratificazione, il senso di esistere è assente. Sono luoghi della non vita. Solo la relazione, l’esplicitarsi di bisogni profondi ed irrinunciabili possono rendere le condizioni qualitative. La punizione cade su tutti nel regno della quantità, dal vertice della gerarchia al suo livello più basso: tutti sono coinvolti e stravolti dalla violenza della quantità.

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Proprietà privata

Simone Weil non è radicale nella sua soluzione, ribadisce l’importanza anche della proprietà privata, ma come struttura finalizzata ai bisogni autentici. La casa, la terra, i mezzi di produzione devono essere parte diretta della vita del cittadino, in modo che la soddisfazione dei bisogni materiali autentici possa essere la premessa per la liberazione dall’ossessione della quantità, in modo da aprire un varco verso il pensiero dal quale nessuno dev’essere escluso:

«La proprietà privata è un bisogno vitale dell’anima. L’anima è isolata, perduta, se non è circondata da oggetti che siano per essa come un prolungamento delle membra del corpo. L’uomo è irresistibilmente portato ad appropriarsi col pensiero ciò che continuamente e a lungo ha usato per il lavoro, per il piacere o per le necessità della vita. Così un giardiniere, dopo un certo tempo, sente che il giardino è suo. Ma là dove il sentimento di appropriazione non coincide con la proprietà giuridica, l’uomo è continuamente minacciato da separazioni dolorosissime. Se la proprietà privata è riconosciuta come un bisogno, questo implica per tutti la possibilità di possedere altri oggetti oltre quelli di normale consumo. Le modalità di questo bisogno variano molto secondo le circostanze; ma è auspicabile che la maggior parte degli uomini sia proprietaria dell’alloggio e di un po’ di terra e, quando non vi sia una impossibilità tecnica, degli strumenti di lavoro. La terra e il bestiame fanno parte degli strumenti del lavoro agricolo. Il principio della proprietà privata è violato nel caso di terra lavorata da braccianti e da servi di fattoria sottoposti agli ordini di un amministratore, e che sia proprietà di cittadini i quali ne percepiscano il reddito. Perché fra quanti sono in rapporto con quella terra non ve n’è neppur uno che, in un modo o in un altro, non le sia estraneo. C’è spreco non dal punto di vista del frumento prodotto ma dal punto di vista della soddisfazione che quella terra potrebbe offrire al bisogno di proprietà. Fra questo caso estremo e l’altro caso limite del contadino che coltiva con la sua famiglia la terra di sua proprietà, ci sono molte situazioni intermedie nelle quali il bisogno umano di appropriazione è più o meno misconosciuta».[4]

La proprietà come espressione di sé, non è sradicamento, ma relazione. La cura, il rispecchiarsi nella proprietà come parte di sé e della propria storia può avvenire solo qualora soddisfi l’autoconsumo o sia luogo della comunità famiglia. La proprietà privata così fatta sublima l’individuale, lo investe, trascendendolo. Nella proprietà finalizzata all’accumulo, non vi è che un senso di estraneità e sradicamento, di ignoranza della stessa. Gli accumulatori seriali di proprietà non le gestiscono, non le conoscono, le usano soltanto.

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La verità

Nella quantità vi è lo sradicamento dalla verità. Il radicamento è verità immanente e trascendente, mentre lo sradicamento è menzogna, dimenticanza dell’altro come dell’appartenenza la quale è di ordine orizzontale e verticale, nel primo caso è il legame carnale con la comunità dei viventi, nel secondo caso radicamento nella storia, nell’invisibile che motiva l’apertura all’altro nel presente:

«Non è possibile soddisfare l’esigenza di verità di un popolo se a tal fine non si riesce a trovare uomini che amino la verità. Il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell’anima umana. È tra i più difficili da definire. Mediante la sua partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro, l’essere umano ha una radice. Partecipazione naturale, cioè imposta automaticamente dal luogo, dalla nascita, dalla professione, dall’ambiente. Ad ogni essere umano occorrono radici multiple. Ha bisogno di ricevere quasi tutta la sua vita morale, intellettuale, spirituale tramite gli ambienti cui appartiene naturalmente».[5]

Si osanna il relativismo, la libertà da ogni legame, per mettere in atto il nichilismo economico, il quale esige il superamento di ogni limite. La verità è giudicata nel circo mediatico come limite minaccioso, da cui liberarsi velocemente.
Lo sradicamento è dunque una condizione innaturale, l’irruzione nella storia di un tentativo di mutazione antropologica. L’essere umano nella sua natura è relazione concreta. Lo sviluppo qualitativo della sua personalità e del pensiero non può che avvenire nelle relazioni. L’accelerazione e la speditezza sono divenute gli ausili per bruciare le relazioni, per svuotarle di significato, renderle inautentiche, in modo da favorire lo sradicamento. Ogni relazione è giudicata nella spettacolarizzazione della libertà come limite, anzi chiunque faccia resistenza è già “vecchio”.
Ci costringono a vivere nello sradicamento anche dalla propria età, e radicati invece nella fuga nel tempo. Il totalitarismo economico, non riconosciuto, è la tragedia politica di questi anni.

Nikolaj Gavrilovič Černyševskij, Che fare? (1863)

N. G. Cernysevskij, Che fare? (1863)

 

La prima edizione del libro Che fare? (1902 di Lenin)

V.I. Lenin, La prima edizione del libro Che fare? (1902)

Dinanzi ad un’apocalisse antropologica che si annuncia, deve risuonare nuovamente il Che fare? di N. G. Černyševskij e il Che fare? di V. I. Lenin. A questa domanda si dovrà rispondere, il rischio è l’oblio dell’uomo, ed il riapparire del “musulmano” [6] l’essere umano al limite dell’inumano, della cosa, descritto da Agamben in Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone (Bollati Boringhieri, 1998), non più come eccezione, ma come sistema, come normale prassi della vita.

Salvatore Bravo

 

[1] Simone Weil, La prima radice, trad. di F. Fortini, SE, Milano, 1990, pag. 32.

[2] «Fare il male, come ha detto Simone Weil, ma è anche ciò che testimoniano da Auschwitz Primo Levi o Elie Wiesel, è ridurre l’uomo a cosa. […] il dolore di un “cancro”, il dolore dell’anima, che non a caso si è detto che “impietrisce”, come nel mito di Niobe, ci fanno “cose”. Le SS nei campi di sterminio riducevano l’uomo a cosa, quasi si fossero calati nel ruolo di agenti storici del male universale, incarnando, per così dire, ogni dolore e ogni pestilenza. Uno dei personaggi di Ombre sulll’Hudson di Singer si chiede se Dio stesso, il creatore e l’ordinatore dell’universo, non sia un Hitler cosmico che scatena appunto i suoi agenti contro l’uomo, come è già stato raccontato nel Libro di Giobbe, nella Bibbia. […] La sofferenza affonda il mondo, ci rende muti, afasici, senza linguaggio come meri oggetti, relitti abbandonali su una squallida riva …» (Franco Rella, Figure del male, Meltemi, 2002).

[3] Ibidem, pag. 18.

[4] Ibidem, pag. 17.

[5] Ibidem, pag. 21.

[6] Scrive Isabella Adinolfi: «Chi è il musulmano? Secondo la  rappresentazione e definizione che ne hanno dato testimoni quali Levi, Wiesel, Amery, Carpi, Bettheleim, e storici del calibro di Sofsky, Kogon, i musulmani, erano morti viventi, cadaveri ambulanti. Affamati, degradati, appartenevano a un regno intermedio tra la vita e la morte, tra l’umano e il non umano: non erano – sintetizza Pier Vincenzo Mengaldo – né veramente vivi, né ancora morti, né ancora veramente uomini, né del tutto non uomini. Le descrizioni del musulmano concordano tutte nell’indicare questo stadio cui, prima o poi, quasi tutti gli internati raggiungevano, come “perdita di coscienza, di consapevolezza”, come il venir meno “della volontà di vivere”, come “ripiegamento” e chiusura su se stessi. Nella “situazione estrema”, nell’”esperienza limite” del campo, il musulmano, secondo Bettelheim, è colui che “non resta un essere umano”, colui che non riesce a rimanere uomo.

Quel che resta di Auschwitz. L'archivio e il testimone

Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone

 

 

Figure del male

Figure del male

C’è, secondo quest’autore, “un punto di non-ritorno”, una sorta di discrimine morale tra umano e non umano, una soglia che il prigioniero non deve mai varcare e oltrepassare, se vuole rimanere uomo. Quando perde ogni senso di dignità, di rispetto di sé, di decenza, quando abdica anche all’ultimo margine di libertà, quando rinuncia alla dimensione della coscienza, allora l’uomo cessa di essere veramente uomo, muore spiritualmente e moralmente e talora anche fisicamente» (I. Adinolfi, Quel che resta di Auschiwitz. Una riflessione sul saggio di Giorgio Agamben, minima&moralia, blog di approfondimento culturale, 24-01-2014: http://www.minimaetmoralia.it/wp/quel-che-resta-di-auschwitz-una-riflessione-sul-libro-di-giorgio-agamben/).



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Romano Luperini – Prigionieri di una logica e di un linguaggio esclusivamente economici, dovevamo subito seppellire questo linguaggio. E invece con questo linguaggio ci hanno perfettamente addomesticato e addestrato. Noi stessi, noi docenti, siamo diventati la macchina amministrativa del sistema.

Luperini Romano 02

Solo dopo l’ultima sillaba il verso di una poesia acquista significato. Solo alla fine di una vita se ne dovrebbe scorgere il senso.

L'ultima sillaba del verso

L’ultima sillaba del verso

 

Sono andato a malincuore al convegno annuale di Italianistica che si è tenuto a Roma. Tema: la malinconia e la riscrittura. Vent’anni fa sarebbe stato: strutture sociali e strutture formali. Quella e nel mezzo deve accontentare tutti strizzando l’occhio alle principali tendenze di moda, strutturalismo e marxismo allora, pensiero debole e postmodemo oggi. Una nuova generazione, quella fra i cinquanta e i sessant’anni, di cui faccio parte, con questo convegno ha assunto finalmente la direzione della critica accademica e soprattutto il controllo dei concorsi e dei finanziamenti pubblici alla ricerca. I vecchi e i giovani vi avevano avuto un posto ormai marginale, puramente celebrativo per gli uni, di apprendistato per gli altri.
Ma io non amo i miei coetanei, che, anche senza volerlo o saperlo, travolti dalle mutazioni che hanno sconvolto le istituzioni letterarie e accademiche, hanno trasformato la letteratura in un mestiere e la funzione sociale in un ruolo professionale. I vecchi, o almeno alcuni di essi, portano dentro di sé il peso della storia, hanno partecipato a grandi esperienze, conservano qualcosa da ricordare e da raccontare; i giovani sono almeno ingenui, possono ancora entusiasmarsi e magari provare nostalgia per un mondo mai vissuto e divenuto per loro quasi leggendario. Ma i coetanei? Con quanta disinvolta rapidità sono restati sulla cresta dell’onda passando dal primato dell’economia politica a quello del linguaggio, della poesia, della scrittura (anzi, la Scrittura, con la maiuscola addirittura) o ovviamente della riscrittura (p. 119).

***

«Da Berlinguer alla Gelmini non è cambiato nulla. Destra o sinistra non c’entrano. E neppure che uno sia stato un rettore e l’altra invece sia una semianalfabeta. Tutti seguono la stessa logica, fanno le stesse riforme. Beato te che sei in pensione, te ne sei andato in tempo per non vedere il disastro» ha detto.
Si è alzato, ha cominciato a camminare avanti e indietro sotto la pergola. Poi si è fermato e ha declamato in piedi: «Asn Anvur Vqr Gev Ava Pqa Psa … Sembra una filastrocca. Non sai cosa vogliono dire? Peggio per te. Senza di loro sei perduto. Sono gli acronimi che santificano la nostra esistenza quotidiana di docenti burocrati. “La bêtise, la bêtise trionfante” ha scritto un nostro collega su un blog citando Flaubert. Bêtise? Sono sciocchezze, stupidità, certo, ma sciocchezze e stupidità niente affatto casuali e che anzi corrispondono a precisi interessi, a una precisa razionalità. Non per nulla siamo prigionieri di una logica e di un linguaggio esclusivamente economici: crediti-debiti-capitale umano-prodotti della ricerca-offerta formativa-università come azienda.»
«Dovevamo subito seppellire questi acronimi e questo linguaggio con una sola risata, bisognava che da tutte le università della penisola si alzasse insieme una unica grande risata … E invece a poco a poco, con questi acronimi e con questo linguaggio, ci hanno perfettamente addomesticato e addestrato. Abbiamo tutti collaborato alla catastrofe. Noi stessi, noi docenti, siamo diventati la macchina amministrativa del sistema. Siamo stati molto zelanti, molto americani, anzi più americani degli americani, più realisti del re … Abbiamo accettato senza fiatare i blocchi stipendiali, la sospensione delle assunzioni, la decimazione del corpo docente e dei dottorati, ci siamo posti alla testa della ritirata, abbiamo promosso le valutazioni e le autovalutazioni, i criteri di qualità puramente quantitativi, i requisiti di docenza e i loro parametri numerici … » (pp. 242-243).

Romano Luperini, L’ultima sillaba del verso. Romanzo, Mondadori, 2017.


Quarta di copertina

Dopo La rancura Romano Luperini continua a fondere l’Io al Noi, per raccontare, con ricordi commossi e riflessioni amare, profonde speranze e altrettanto abissali disincanti, i due decenni a cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio.

«Non è vero che l’impegno è chiacchiera, che ogni cosa esiste solo per la distruzione e la morte e che la mente umana vi cerca un senso e una storia solo perchè ammalata di cultura e di civiltà. Quelle erbe, quei fiori, quei boschi, quei campi costituiscono inevitabilmente un paesaggio, un insieme sensato e interpretabile. Quel viottolo color argilla, che congiunge un gruppo di case ai campi, viene percorso dal trattore rosso che li lavora. Quegli uccelli che sfrecciano dal tetto della casa alla macchia di salici nella valle e da questi agli alberi di acacia più lontani seguono traiettorie obbligate e ragionevoli: collegano il nido sul tetto ai campi e i campi al ruscello che scorre sotto i salici. Se è impossibile trovare un senso generale che spieghi il percorso della storia e il significato della vita e della morte, è possibile però interpretare la società e la natura, raccogliere frammenti di senso, mettere insieme dei tasselli, costruire delle storie e della narrazioni.»

Solo dopo l’ultima sillaba il verso di una poesia acquista significato. Solo alla fine di una vita se ne dovrebbe scorgere il senso. Valerio, il narratore e protagonista di questo romanzo, è sopravvissuto a stento a una terribile malattia che ha devastato il suo corpo. Si trova in una condizione di incertezza, mezzo vivo e mezzo già morto, solo nella campagna più solitaria, fra boschi, colli, uccelli, animali selvatici. E, sul limitare dell’ultima sillaba, prova a chiedersi quale sia stato il significato del suo percorso. In quest’opera di ricostruzione, convoca alla memoria gli eventi della sua storia privata e della Storia collettiva dall’88 fin quasi ai giorni nostri: la separazione dalla moglie, la fine di una militanza e di una fede politica che lo impegnavano dagli anni Sessanta, la caduta del muro di Berlino, la breve relazione con Margareth, la Guerra del Golfo, il legame con una ragazza canadese, Betty, la morte della madre, l’inizio dell’inchiesta Mani pulite, che coinvolge anche il fratello; e poi, imprevisto, un evento che pesa più degli altri: l’incontro con Claudine, un’allieva dell’università, da cui Valerio è attratto al punto da idealizzarla, sovrapponendola al personaggio di un racconto di Musil che porta il suo nome. L’amore con Claudine sembra ridare una meta ai suoi giorni, ma il declino progressivo del corpo, “bene mobile”, gli ricorda quotidianamente che ha davanti a sé nient’altro che una serie di ultime volte, che è, in fondo, come il falco che osserva dalla finestra del suo casolare, che “tutto il giorno si prepara, spia la campagna intorno, si protende, aspetta. Aspetta cosa? Se poi la morte arriva e se lo piglia”. E tuttavia, dopo dieci anni dall’ultimo incontro, i due avranno modo, sorprendentemente, di vedersi ancora una volta. Nonostante tutto, Claudine non è diventata ancora una figlia: resta una possibile, misteriosa e imprendibile amante. Dopo La rancura – che dando voce a tre generazioni ripercorreva quasi un secolo di storia italiana – Romano Luperini continua a fondere l’Io al Noi, a creare, per usare le parole di Annie Ernaux, “un legame indissolubile fra collettività e individualità attraverso la presenza della Storia”. Per raccontare, con ricordi commossi e riflessioni amare, profonde speranze e altrettanto abissali disincanti, i due decenni a cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio.




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Carmine Fiorillo – I ponti, ancor prima di essere strutture materiali, sono strutture di pensiero, ponti eidetici, su cui si sedimentano quelle tracce di significato che consentono l’attraversamento dalla vita alla vita. L’antropologia capitalistica ci riserva solo la necrofila distopia del ponte. I veri costruttori di ponti li progettano in armonia con l’essenza umana, nel rispetto della natura.

Ponti eidetici

Paul Klee, Rivoluzione del Viadotto, 1937

Paul Klee, Rivoluzione del Viadotto, 1937

ponte

Noi siamo storia
e siamo la nostra storia nella storia.
Siamo una trama di significati.
Le nostre tracce di significato sono ponti.
Costruiamo ponti che ci portino ad amare e generare il bene e il bello.

La storia è soprattutto trama di significati universali.
E per ogni essere umano è trama di significati di quel che la persona è stata ed è, le scelte che ha compiuto e che ha in animo di compiere, le azioni che ha messo in atto per concretizzare la propria progettualità sociale e il proprio cammino di conoscenza, come pure le azioni che non ha messo in atto per preservare la propria identità in questo cammino.

La storia di chi ha cercato (e cerca) di vivere con profondità di senso e di valori ogni esperienza di comunicazione è costituita dalla traccia di significato di quei fatti che continuano ad essere in lui vitali, e preservati in spirito, ad illuminare il proprio presente nella progettazione di ponti verso il futuro. Noi siamo storia e siamo la nostra storia nella storia.
Dobbiamo sempre cercare una possibile strada per liberarci dalla “gabbia d’acciaio” del “puro presente” e per combattere il nichilismo moderno che ci avvolge da ogni lato cercando di convincerci che sia possibile vivere solo “al presente”, senza bisogno di storia, senza bisogno di passato, senza bisogno di futuro.

Le nostre tracce di significato sono ponti, sono ciò che unisce “quel che è stato” a “quel che sarà”.

Perché i ponti, ancor prima di essere strutture materiali, sono strutture di pensiero che pongono in comunicazione, descrivendo la parabola efficace di uno stato relazionale.

Attraverso questi ponti eidetici noi consentiamo, e ci consentiamo, un passaggio, un attraversamento, non solo da un luogo ad un altro, ma soprattutto dal passato al presente, dall’oggi al futuro, dalla vita alla vita.

L’antropologia capitalistica ci riserva distopia: offre “in dono” il “presente assoluto” di ponti unicamente “materici” destinati a schiacciare lo spirito per la loro intrinseca deteriorabilità strutturale, perché confligge con l’idea stessa di ponte, pur dovendoli costruire, e vorrebbe vedere il mondo solo come una pianura senza fine, con un paesaggio assolutamente piatto, che per questo non necessita della presenza di ponti.

Per il capitalismo mondializzato, per gli speculatori e le lobby dell’ingegneria dei ponti, l’idea stessa di ponte viene vissuta come un “non senso”, da risolvere con i “pacificanti” calcoli matematici: «un ponte non può smettere di essere ponte senza precipitare» (F. Kafka).
Ma anche un pericolo.
E non perchè i ponti possono «precipitare», e dunque occorre poi “spendere” per ricostruirli.

Per essi è l’idea stessa di ponte ad essere un pericolo in quanto i veri costruttori di ponti testimoniano un alto grado di differenziazione dall’onnivora omologazione, e soprattutto di consapevolezza delle possibili condizioni alternative per il movimento, per l’attraversamento, per il cambiamento, per il dialogo, ed anche per il conflitto.

Impariamo dunque che il senso profondo della cultura e della storia, della nostra storia (anche “minore”, anche della nostra storia personale e psicologica) lo dobbiamo ritrovare progettando quei ponti su cui si sedimentano tracce di significato.

Ponti che ci portino ad amare e generare il bene e il bello, promuovendoli nella relazione con tutti coloro che incontriamo nell’attraversamento della quotidianità, generando ciò che davvero vale e che ci sopravvive, ponti generazionali.

Tracce di significato, perché traccia è:

segno” lasciato sul terreno della storia;

vestigio” che permette di riconoscere, ricordare, rammemorare;

testimonianza”  di pienezza di valore vissuta,
di progettualità impegnata comunitariamente;

orma” che rinvia al “cammino” dell’uomo
nella realizzazione della propria compiuta umanità;

indizio” di eventi passati che il tempo ha reso evanescenti,
ma che sono prefigurazione di un futuro;

cifra” di virtualità che cercano la vita nel presente;

segnacolo” di accadimenti futuri;

impronta” della possibile dialettica di comprensibilità tra passato e presente;

abbozzo” che serva da guida;

filo conduttore” di un discorso di rilevanza umanistica;

schizzo” di un progetto di ricerca sul bene e sul bello;

metafora” della fiducia critica nella memoria storica dell’uomo.

Carmine Fiorillo


Il «Ponte del capello», particolare dell’affresco nella Chiesa di Santa Maria in Piano a Loreto Aprutino

Il «Ponte del capello», particolare dell’affresco nella Chiesa di Santa Maria in Piano a Loreto Aprutino.


Edvard Munch, L'urlo, 1893.

Edvard Munch, L’urlo, 1893.

 


«Stenditi, ponte, mettiti all’ordine, trave senza spalletta, sorreggi colui che ti è affidato. Compensa insensibilmente l’incertezza del suo passo, ma se poi vacilla, fatti conoscere e lancialo sulla terra come un Dio montano […]una volta gettato, un ponte non può smettere di essere ponte senza precipitare» (Franz Kafka).[1]

«Non una casa vien costruita, non un’architettura progettata, ove la ruina non sia implicita, posta quale pietra di fondamento» (Ernst Jünger).[2]

«Astraendo due cose dalla imperturbata situazione della natura, per designarle come “separate”, noi le abbiamo già nella nostra coscienza riferite l’una all’altra, le abbiamo distinte entrambe, insieme, nei confronti di tutto ciò che sta loro in mezzo. E viceversa: noi sentiamo come collegato, soltanto ciò che abbiamo in precedenza e in qualche modo isolato. Le cose devono essere prima divise l’una dall’altra, per essere poi unite. Dal punto di vista pratico come da quello logico, sarebbe senza senso legare ciò che non era diviso, ancor più: ciò che in qualche modo non rimane ancora diviso» (Georg Simmel).[3]

«Allora io capisco […] perché d’altra parte tanto amore io sento per il mondo ‘di là dal ponte’» (Alberto Savinio).[4]

«A me piacciono i ponti so-spe-si, che volano da una sponda all’altra, con un solo grande balzo, come una plancia. Allora non c’è acqua che può far danni» (Rudyard Kipling).[5]

 


[1] Franz Kafka, Die Brücke, 1916, in Id., Ein Landarzt, 1918, trad. it. Il ponte, in Id., Il messaggio dell’imperatore. Racconti, versione di Anita Rho, Milano, Frassinelli, 1935, 19686, pp. 319-321: 321.

[2] Ernst Jünger, Sulle scogliere di marmo, Guanda, 2002.

[3] Georg Simmel, Brücke und Tür, in «Der Tag», 15 settembre 1909, ora in Id., Brücke und Tür. Essays des Philosophen zur Geschichte, Religion, Kunst und Gesellschaft, im Verein mit Margarete Susman, herausgegeben von Michael Landmann, Stuttgart, Koehler, 1957, trad. it. Ponte e porta, in Id., Saggi di estetica, introduzione e note di Massimo Cacciari, Padova, Liviana, 1970, pp. 1-8: 3.

[4] Alberto Savinio, Ad vocem «Zoografia», in Nuova enciclopedia, Milano, Adelphi, 1977, 20025, p. 401.

[5] Rudyard Kipling, The Bridge-Builders, trad. it. I costruttori di ponti, in Id., I figli dello Zodiaco, A cura di Ottavio Fatica, Milano, Adelphi, 2008, p. 166.



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Theodor Ludwig Adorno (1903-1969) – Una società emancipata è la realizzazione dell’universale nella conciliazione delle differenze. Una politica a cui questo stesse veramente a cuore dovrebbe richiamare l’attenzione sulla cattiva eguaglianza di oggi […] e concepire uno stato di cose migliore come quello in cui si potrà essere diversi senza paura.

Theodor Ludwig Adorno03

 

Minima moralia

Minima moralia

 

«Una società emancipata

è la realizzazione dell’universale

nella conciliazione delle differenze.

Una politica a cui questo

stesse veramente a cuore

dovrebbe richiamare l’attenzione

sulla cattiva eguaglianza di oggi […]

e concepire uno stato di cose

migliore come quello in cui si potrà

essere diversi senza paura».

 

Theodor Ludwig Adorno, Minima moralia, Einaudi.

 




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Romano Luperini – Non si dà educazione senza utopia, senza un progetto. Ogni educazione presuppone una utopia, la esige. La scuola deve educare coltivando l’universale umano che è in tutti noi.

Romano Luperini 01
2013 Insegnare la letteratura oggi

Insegnare la letteratura oggi

«[…] con quale criterio si riconosce il contenuto di verità che dobbiamo cercare nelle opere? Per un insegnante – e per un insegnante di materie letterarie soprattutto – questo criterio è quello dell’utopia. Ogni educazione presuppone una utopia, la esige. Ciò è valido sempre, in generale; figuriamoci oggi, nella situazione di miseria e di assedio a cui è sottoposta la scuola e in cui ci troviamo a vivere. Non si dà educazione senza utopia, senza un progetto in nome del quale “tirare su”, verso una qualche meta, i giovani che ci vengono affidati. Definire la meta dell’oggi: questo è l’essenziale, dunque. E ancora una volta per trovare la nostra utopia bisogna tornare indietro, alle nostre radici. Passato e futuro hanno d’altronde un destino solo. Salvare l’uno è anche salvare l’altro» (p. 40).

«La scuola  […] deve educare facendo fronte a una nuova drammatica condizione umana che la globalizzazione proietta ormai su una scala planetaria. Un compito estremo. Perché la scuola, in questo spazio lacerato da immani contraddizioni, deve educare alla cittadinanza del mondo: deve, come ha scritto Martha Nussbaum, “coltivare l’umanità”, l’universale umano che è in tutti noi. Un compito estremo, reso più difficile nella situazione attuale italiana da almeno due circostanze: il declino in questi anni della civiltà italiana e con esso – ed è coincidenza niente affatto casuale – del prestigio e del ruolo della letteratura e di chi la insegna; e l’involuzione della scuola prodotta dai processi di “riforma” in atto. Dai documenti che circolano si ricavano infatti alcune tendenze di fondo: l’ideologia ministeriale punta a incoraggiare l’individualismo e la competizione, inducendo gli allievi a percorsi personali: la disarticolazione e settorializzazione della comunità scolastica si traduce in canalizzazione precoce, cosicché la divisione riguarda non solo i singoli ma i gruppi sociali, alcuni spinti verso l’alto (i licei), gli altri verso il basso (le scuole professionali), senza che venga garantita una base unitaria e neppure possibilità reale di interscambio dal basso all’alto; viene di fatto distrutta la classe come comunità organica, sede di formazione unitaria e di un sapere comune, a esclusivo vantaggio della proiezione sul mondo del lavoro, dei curricoli personali degli allievi e della influenza delle loro famiglie; questa impostazione non solo dissolve qualsiasi tendenza alla socializzazione del sapere, ma mina alle radici la possibilità stessa di una formazione unitaria di base: con il terzo anno di ogni ciclo proiettato verso l’alto (il 2 più 1), viene di fatto ridotto lo spazio dei programmi comuni; la scuola pubblica, proprio in quanto pubblica, viene vista con sospetto, a favore delle scuole private, l’articolazione e disarticolazione particolaristica delle quali è più congeniale al progetto ideologico perseguito.
Viene così colpita a morte la spinta verso l’unità del sapere e verso un sapere condiviso. La nuova scuola prefigura una società in cui ciascuno è solo sul mercato del lavoro, in concorrenza con tutti gli altri; e prefigura un mondo in cui ciascun popolo si comporta in modo predace su scala mondiale. Mentre la forza dell’educazione sta nell’unire verticalmente (dal passato al presente) e orizzontalmente (avvicinando i vari popoli e le varie culture di oggi), la cosiddetta “riforma” smembra, settorializza, contrappone. Fa trionfare i particolarismi.
La “riforma” in atto nega l’utopia umanistica; è, alla radice, antieducativa. Pone in discussione la possibilità stessa di fare della classe una comunità ermeneutica, in cui si sviluppi una libera dialettica interpretativa all’interno di un sapere comune. In una comunità ermeneutica ognuno muove sì dalla propria parzialità, ma non per assolutizzarla, bensì per porla in rapporto dialettico con le altre parzialità al fine di creare lo spazio interpretativo e democratico di una verità comune articolata, complessa e tendenzialmente universale.
La classe, in quanto comunità interdialogica, prefigura un mondo senza frontiere. In una scuola pubblica e dunque pluralistica per sua natura, la classe costruisce uno spazio che rispetta le differenze, e tuttavia non esclude, ma unisce. Aspira all’universalità dell’umanesimo. Ebbene, oggi è proprio questa universalità a essere minacciata. Siamo in una situazione-limite. I professori di italiano non potranno e non dovranno dimenticare di essere gli ultimi eredi di una tradizione umanistica che può apparire per certi versi ormai consumata, ma che conserva nel suo fondo un nucleo ancora vitale e un’utopia necessaria e attuale» (pp. 41-43).

Romano Luperini, Insegnare la letteratura oggi, Manni Editore, 2013, quinta edizione ampliata 2016.

Quarta di copertina

La crisi della scuola, l’insegnamento della letteratura, il problema della storiografia letteraria e della manualistica costituiscono i temi principali di questo volume, che spazia dalla teoria alla didattica della letteratura. L’insegnamento deve essere basato non sulla centralità del testo, ma sulla centralità della lettura, intesa come esperienza vitale e partecipazione interpretante. Un posto di rilievo spetta alla interdisciplinarità, ai percorsi tematici e per generi, all’interculturalismo e al canone europeo, in relazione anche alle ultime indicazioni ministeriali. L’autore non intende soltanto suggerire “come” insegnare la letteratura nella scuola media superiore di oggi e di domani, ma anche spiegare “perché” essa va insegnata.


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Salvatore Bravo – Il ponte di Genova: simbolo dell’economia curvata sul privato, sul plusvalore ad ogni costo. Il denaro, questa astrazione vuota ed estraniata della proprietà, è stato fatto signore della vita e della morte.

Ponte Morandi di Genova

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«Fare soldi è un arte, […].

Un buon affare è il massimo di tutte le arti»

                                                                      Andy Warhol

Salvatore Bravo

Il ponte di Genova:
l’economia curvata sul privato, sul plusvalore ad ogni costo

Il denaro, questa astrazione vuota ed estraniata della proprietà, è stato fatto signore della vita e della morte.

 

Il crollo del ponte di Genova è simbolo e sostanza del capitalismo assoluto. È simbolo di una prassi dell’abbandono di ogni spazio pubblico. I governi di ogni colore negli ultimi anni si sono succeduti per confermare la consegna ai privati del pubblico. Il privato come mantra della soluzione di ogni problema finanziario mostra le sue nefandezze ed i suoi crimini. L’economia curvata sul privato, sul plusvalore ad ogni costo, palesa la stupidità dell’integralismo economico. In assenza di ogni misura, etica e progetto comunitario, l’integralismo economico fa dell’immediato, del guadagno senza prospettive e responsabilità, la sua legge suprema. Si spinge per l’angustia di prospettive ad uccidere la mucca che quotidianamente munge.

Il disastro di Genova è stato annunciato da decenni, se lo stesso Morandi nel 1979 dichiarò, in un articolo sul quotidiano La Verità, che il ponte andava incontro a problemi di ruggine causa usura tempo e salsedine. Ricorda, tale tragedia, il Vajont per la collusione pubblico-privato, e per gli studi che annunciano il disastro. L’appalto per il rifacimento degli stralli era stato espletato, ma si è deciso di rimandare i lavori a settembre. Sorge il dubbio che tale posticipo sia dovuto al desiderio improrogabile a non rinunciare ai guadagni dei pedaggi che nella stagione estiva sono notevoli. Il simbolo diviene sostanza del turbocapitalismo, il fine di ogni prassi nel capitalismo assoluto è il denaro, la riduzione di ogni persona, di ogni comunità a plusvalore. Tale logica è confermata dall’amministratore delegato Castellucci che, seppelliti i morti, propone 500 mln di euro per i sopravvissuti, e la ricostruzione del ponte in acciaio in otto mesi. Ancora una volta il denaro diviene padrone del mondo, dovrebbe lenire la tragedia. I servitori del turbocapitalismo vorrebbero acquietare gli animi con una manciata di quattrini, non certo rendendo pubblici gli accordi finanziari secretati. L’ipertecnologico capitalismo globale ruota su se stesso per affermare il nuovo Medioevo del denaro: i pochi possono tutto, usare finanche i beni pubblici come feudo personale, i tanti restano in uno stato semischiavile, esposti al pericolo di perdere la vita e la dignità.

 

Il Plusvalore legge dell’economia e delle sue tragedie

La cancrena del plusvalore è così parte del modo di agire ed esserci, il dispositivo è parte in un modo così meccanico che ad un errore causato dal plusvalore si vuol riparare con un errore più grande, confermando la logica profonda sottesa a tale tragedia. Marx descrive il denaro come la logica del capitalismo che tutto trasforma, capovolge il mondo come i sentimenti, ne dimostra la pericolosità. Fin quando ci si inginocchia alle logiche del plusvalore siamo tutti in pericolo:

 

«Il denaro, in quanto possiede la proprietà di comprar tutto, di appropriarsi di tutti gli oggetti, è dunque l’oggetto in senso eminente. L’universalità della sua proprietà costituisce l’onnipotenza del suo essere, esso è considerato, quindi come ente onnipotente. […] Il denaro è il mediatore fra il bisogno e l’oggetto, fra la vita e il mezzo di vita dell’uomo. Ma ciò che media a me la mia vita mi media anche l’esistenza degli altri uomini. Per me è questo l’altro uomo. […] Tanto grande è la mia forza quanto grande è la forza del denaro. Le proprietà del denaro sono mie, di me suo possessore: le sue proprietà e forze essenziali. Ciò ch’io sono e posso non è dunque affatto determinato dalla mia individualità. Io sono brutto, ma posso comprarmi la più bella fra le donne. Dunque non sono brutto, in quanto l’effetto della bruttezza, il suo potere scoraggiante, è annullato dal denaro. Io sono, come individuo storpio, ma il denaro mi dà 24 gambe: non sono dunque storpio. Io sono un uomo malvagio, infame, senza coscienza, senza ingegno, ma il denaro è onorato, dunque lo è anche il suo possessore. Il denaro è il più grande dei beni, dunque il suo possessore è buono: il denaro mi dispensa dalla pena di esser disonesto, io sono, dunque, considerato onesto; io sono stupido, ma il denaro è la vera intelligenza di ogni cosa: come potrebbe essere stupido il suo possessore? Inoltre questo può comprarsi le persone intelligenti, e chi ha potere sulle persone intelligenti non è egli più intelligente dell’uomo intelligente? Io, che mediante il denaro posso tutto ciò che un cuore umano desidera, non possiedo io tutti i poteri umani? Il mio denaro non tramuta tutte le mie deficienze nel loro contrario? […] Poichè il denaro, in quanto concetto esistente e attuale del valore, confonde e scambia tutte le cose, esso costituisce la generale confusione e inversione di ogni cosa, dunque il mondo sovvertito, la confusione e inversione di tutte le qualità naturali e umane. […] Il denaro, questa astrazione vuota ed estraniata della proprietà, è stato fatto signore del mondo. L’uomo ha cessato di essere schiavo dell’uomo ed è diventato schiavo della cosa; il capovolgimento dei rapporti umani è compiuto; la servitù del moderno mondo di trafficanti, la venalità giunta a perfezione e divenuta universale è più disumana e più comprensiva della servitù della gleba dell’era feudale […]».[1]

 

L’asservimento a tali logiche spinge verso il baratro, ma può essere occasione di coscienza, di consapevolezza. La scissione dimostrata ai funerali di Stato tra quanti hanno accettato i funerali di Stato e quanti lo hanno rifiutato, è la spia evidente di una contraddizione in seno alla comunità, di un diffuso sentimento di abbandono di parti enormi della popolazione italiana ed europea. La tragedia nella tragedia è stato l‘atteggiamento delle “ex-sinistre” di governo, la loro malcelata difesa dei Benetton.

Nichilismo dell’integralismo economico

A “sinistra” non vi sono idee, ma interessi, e ciò è parte del declino italiano ed europeo. È necessario rammentare i valori ed i vissuti che fra tante contraddizioni nel secondo dopoguerra hanno posto un limite agli interessi privati per affermare la centralità dei diritti sociali. La pietà deve trasformarsi in pensiero, in progetto politico altrimenti il rischio è un’irrimediabile deriva nichilistica. L’atomistica delle solitudini lasciata a se stessa diviene bacino elettorale di forze che non hanno nel loro progetto la comunità solidale e l’individuo liberato. Senza una chiara progettualità comunitaria, senza una “buona utopia”, senza una nuova consapevolezza collettiva mediata dal pensiero è problematico solo ipotizzare una nuova coscienza civile capace di porre le condizioni per superare la palude in cui siamo caduti.

 

Il bivio tra crematistica ed economia

 Per inoltrare lo sguardo verso il futuro è necessario radicarsi criticamente verso il passato. Il bivio è tra crematistica ed economia. Se si abbraccia la crematistica, inevitabilmente, l’eccesso come regola al di là dei bisogni autentici, spingerà verso la tragedia i singoli come l’umanità. L’economia, dal greco οἴκος (oikos), “casa” e νόμος (nomos), è il regolamentare i bisogni veri della casa. Tale bivio nella condizione attuale può apparire distante, astorica, in quanto ormai non si pensa che secondo la logica crematistica (dal greco “χρήματα” ricchezza illimitata). In verità «Il noto è sconosciuto», come affermava Hegel: dinanzi ad un pianeta che non regge per il consumo illimitato delle risorse (pianeta limitato, ma assoggettato a desideri illimitati), si può comprendere come la scelta del percorso da intraprendere sarà determinante per il futuro prossimo a venire.

Concludo con la distinzione svolta da Aristotele tra crematistica ed economia, distinzione dispersa e dimenticata nel linguaggio attuale, al punto che si chiama economia ciò che è crematistica.

L’indistinzione nella pratica favorisce le tragedie:

«È chiarito quindi anche il dubbio mosso all’inizio, se cioè la crematistica appartiene all’amministratore della casa e all’uomo di stato o no, ma si devono invece presupporre i beni (perché come la scienza dello stato non produce gli uomini, ma, ricevutili da natura, se ne serve, così pure la natura deve dare, quali mezzi di sostentamento, la terra, il mare e qualche altra cosa) e, dopo ciò, è compito dell’amministratore disporre il tutto in maniera conveniente. In effetti, l’arte del tessitore non deve produrre la lana, ma usarne e discernere qual è buona e utilizzabile, quale cattiva e non utilizzabile: che certo si potrebbe pure dubitare per quale motivo la crematistica è parte dell’amministrazione domestica e la medicina no; eppure i membri della casa devono stare in salute, proprio come devono vivere e avere ogni altra cosa necessaria. Il fatto è che, per un certo rispetto, appartiene all’amministratore e al governante vegliare pure sulla salute, ma per un certo rispetto no, bensì al medico: allo stesso modo, riguardo ai beni, per un certo rispetto appartiene all’amministratore interessarsene, per un certo rispetto no, bensì a un’arte subordinata. Ma è soprattutto la natura che, come s’è già detto, deve provvedere all’esistenza di tali beni: infatti è compito della natura fornire il nutrimento all’essere che nasce e, in realtà, ciascun essere trae il nutrimento dal residuo di materia da cui è nato. Perciò è secondo natura per tutti la crematistica che ha come oggetto i frutti della terra e gli animali. Essa, come dicemmo, ha due forme, l’attività commerciale e l’economia domestica: questa è necessaria e apprezzata, l’altra basata sullo scambio, giustamente riprovata (infatti non è secondo natura, ma praticata dagli uni a spese degli altri); perciò si ha pienissima ragione a detestare l’usura, per il fatto che in tal caso i guadagni provengono dal denaro stesso e non da ciò per cui il denaro è stato inventato. Perché fu introdotto in vista dello scambio, mentre l’interesse lo fa crescere sempre di più (e di qui ha pure tratto il nome: in realtà gli esseri generati sono simili ai genitori e l’interesse è moneta da moneta): sicché questa è tra le forme di guadagno la più contraria a natura».[2]

 

Andy Warhol e Donald Trump

Andy Warhol e Donald Trump.

Two dollars (Declaration of independence) Cartamoneta da 2 dollari 4 pezzi Firmata da Warhol

4 pezzi da 2 dollari 4 con firma di Warhol.

The Art History of Donald Trump, From Disappointing Christie’s to Becoming Warhol’s Bête Noire

 

Rappresentazione di Warhol della Trump Tower

Rappresentazione di Warhol della Trump Tower.

[1] K. Marx, Manoscritti economico filosofici, 1844.

[2] Aristotele, Politica, § 10.



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