Marcello Cini – C’è ancora bisogno della filosofia per capire il mondo?

Marcello Cini_ancora filosofia

Coperta 305

Marcello Cini

C’è ancora bisogno della filosofia per capire il mondo?

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È possibile «collegare e raccordare scienza da una parte e cultura e senso comune dall’altra»?[1] Marino Badiale risponde affermativamente, argomentando che spetta alla filosofia il compito di effettuare questa mediazione attraverso una attività razionale di sintesi e di interpretazione delle idee e dei risultati della scienza. Sintesi significa, in questo contesto, «cogliere gli aspetti concettuali più significativi di una disciplina scientifica: le categorie con le quali essa organizza il suo particolare dominio di oggetti, la metodologia nella quale sintetizza il proprio concreto operare, i valori e gli scopi conoscitivi nei quali riassume il fine della propria ricerca». Interpretazione vuol dire «comprendere il significato culturale e umano di tutto questo, collegando i concetti fondamentali delle varie discipline con le altre dimensioni della cultura e dell’operare umano in una unità comprensibile e sensata». Si tratta, in definitiva, di «capire cosa la scienza stessa ci dice dell’essere umano e del mondo che egli si costruisce».

Questo è, del resto, argomenta Badiale, ciò che ha fatto la filosofia in Occidente, almeno fino a poco tempo fa: i suoi maggiori esponenti si sono posti come fine una comprensione razionale delle varie dimensioni dell’esistenza umana e della loro sintesi in una visione unitaria e armonica. Oggi, tuttavia questo obiettivo sembra diventare sempre più irraggiungibile. Due tendenze divaricanti infatti dominano da un lato la scienza e dall’altro la cultura, tanto nelle sue manifestazioni elitarie come in quelle di massa.

Da parte sua la scienza è sempre più caratterizzata da un processo esponenziale di “specializzazione parcellizzante” che esclude la possibilità di una sintesi filosofica che ne colga gli aspetti concettuali fondamentali, e vanifica dunque la ricerca di un senso complessivo per le sue azioni e i suoi fini. Al tempo stesso infatti, la filosofia, sottoposta allo stesso processo, cancella questo compito dalla sua agenda, mentre le discipline scientifiche sempre più cercano nell’autoreferenzialità della loro pratica la propria legittimazione.

La cultura di massa è a sua volta dominata dal rifiuto di «un aspetto fondamentale della tradizione filosofica occidentale» cioè della «discussione razionale sui grandi temi della vita umana: il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, il modo migliore di organizzare la vita degli esseri umani». Essa si presenta dunque come una forma di irrazionalismo diffuso, come un immane sforzo per non sapere ciò che stiamo facendo (a noi stessi e al nostro mondo).

Il procedere di questi due processi – la specializzazione parcellizzante della scienza e l’espulsione del pensiero critico dalla cultura di massa – porterebbe dunque a concludere che la riflessione filosofica di sintesi e di interpretazione inizialmente proposta è impossibile. Non resterebbe allora altro da fare, secondo Badiale, se non tentare di attestarsi su alcune linee di resistenza, nella scuola soprattutto ma anche in alcuni punti chiave all’interno delle facoltà scientifiche e delle istituzioni della ricerca, nell’attesa che la scienza diventi adulta, capace cioè di «rinunciare al desiderio infantile di onnipotenza» e di «riconoscere la propria funzione, il proprio ruolo, e quindi, contemporaneamente, il proprio valore e i propri limiti».

Dico subito che non mi riconosco interamente in questo discorso, anche se condivido molte delle argomentazioni che lo sorreggono ed alcune delle conseguenze che se ne traggono. È come se mi trovassi di fronte a una figura che, pur essendo composta da molti pezzi che mi sono familiari, finisce, per il diverso ordine con il quale vengono disposti o per l’assenza di altri che secondo me sarebbero necessari, col rappresentare un quadro diverso da quello che appare ai miei occhi.

Fuori di metafora, mi sembra per esempio che l’analisi schematicamente riassunta in precedenza dei due processi che hanno trasformato la scienza e la cultura di massa, pur rappresentandone correttamente alcuni tratti evidenti, non colga appieno la natura della profonda svolta che entrambe queste componenti fondamentali della società contemporanea hanno vissuto negli ultimi decenni del secolo appena finito. In particolare mi sembra che questa analisi parli delle norme metodologiche e dei criteri epistemologici delle diverse discipline scientifiche come se avessero una radice comune in un ideale di scienza che in ultima analisi assume la fisica come modello. Non è un caso, mi sembra, che gli esempi utilizzati abbiano tutti a che fare con questa disciplina e che le discipline della vita e della mente non siano mai nominate.

Non tiene conto, per esempio, del fatto che, via via che si attinge ai livelli più elevati di organizzazione della materia, il consenso degli scienziati sul linguaggio disciplinare considerato appropriato si indebolisce, e si assiste alla moltiplicazione dei linguaggi adottati da gruppi diversi della comunità. Questi linguaggi non sono necessariamente in contraddizione: essi corrispondono a differenti modellizzazioni del dominio fenomenologico e a differenti punti di vista (culturali, epistemoligici, tecnologici) a partire dai quali si costruiscono le categorie concettuali e i metodi pratici utilizzati per analizzare il dominio considerato. In queste discipline sarà dunque sempre più difficile inventare un “esperimento cruciale” capace di decidere chi ha ragione e chi ha torto, perché tutti i modelli sono parziali e unilaterali. Ognuno di essi è al tempo stesso “oggettivo”, perché riproduce alcune proprietà del reale, e “soggettivo” perché il punto di vista è scelto dai gruppi diversi in conflitto fra loro.

Una rappresentazione della scienza che non assuma questa varietà di punti di vista in competizione, secondo me, impedisce a sua volta di individuare la novità e la ricchezza del compito che la filosofia si trova a dover affrontare, rispetto a quello di sintesi e di interpretazione assegnato ad essa nel saggio introduttivo; un compito che del resto appare all’autore stesso impossibile da raggiungere nelle condizioni attuali.

In questo lavoro mi propongo dunque di discutere anzitutto (§ 2) la natura della svolta che ha caratterizzato la scienza nel passaggio dal XX al XXI secolo. Successivamente analizzerò rispettivamente i rapporti fra scienza ed epistemologia, rispettivamente per le discipline della materia inerte (§ 3) e per quelle della materia vivente (§ 4) e pensante (§ 5). Il § 6 è dedicato invece al rapporto fra scienza ed etica. Nelle conclusioni (§ 7) cercherò di argomentare perché sono convinto che la filosofia sia un bisogno insopprimibile della mente umana: come l’Araba Fenice risorge sempre dalle sue ceneri.

[1] Marino Badiale, Problemi tra scienza e cultura, in Koinè [volume collettaneo recante il titolo: Scienza, cultura, filosofia], Periodico culturale, Anno X, nn. 1-2, Gennaio-Giugno 2002, pp. 9-37; pubblicato anche in : http://blog.petiteplaisance.it/?s=marino+Badiale.

[1] Marino Badiale, Problemi tra scienza e cultura, in Koinè [volume collettaneo recante il titolo: Scienza, cultura, filosofia], Periodico culturale, Anno X, nn. 1-2, Gennaio-Giugno 2002, pp. 9-37; pubblicato anche in : http://blog.petiteplaisance.it/?s=marino+Badiale.


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Massimo Bontempelli – Il pregiudizio antimetafisico della scienza contemporanea

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304 ISBN

Massimo Bontempelli

Il pregiudizio antimetafisico della scienza contemporanea

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Per comprendere l’ontologia dell’essere sociale al livello della sua compiutezza ontologica, quale sede di una verità fortemente esplicativa e logicamente incontrovertibile, occorrerebbe aver dissipato i tanti equivoci dell’inconsapevolezza filosofica. Un primo equivoco riguarda la nozione filosofica di realtà. Per l’uomo mentalmente immerso nell’universo delle merci, infatti, non è reale se non ciò che appare in una figurazione omogenea a quella della merce, vale a dire in forma sensibilmente percettibile e concretamente utilizzabile. Realtà, da questo punto di vista, non è che un altro nome per l’esistenza empirica. Naturalmente si può dare alle cose i nomi che si desiderano. La denominazione in questione, però, è carica di un’ideologia dell’intrascendibilità del dato, fortemente limitatrice del pensiero, al quale toglie curiosità intellettuale e capacità di comprensione verso le forme ontologiche più alte della semplice esistenza empirica. Non è certo un caso se, nonostante precise indicazioni testuali non equivocabili da chi effettivamente le legga, la celebre formula hegeliana secondo cui ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è razionale, sia stata comunemente intesa come una attribuzione di logicità ai nessi empirici, e come un’attribuzione di necessità concettuale alla storia. Eppure Hegel chiarisce esplicitamente come la realtà che è razionale sia non già quella empirica bensì quella ontologica, e come l’empirico esista frequentemente in forma irrazionale, ovvero ontologicamente irreale. Naturalmente senza comprendere il concetto di realtà elaborato dalla filosofia ontologica non si dispone di una mappa concettuale adatta in cui situare la nozione di libera individualità sociale. La libera individualità sociale costituisce infatti la più razionale espressione della socialità umana, e quindi la forma ontologicamente più reale del genere umano, pur avendo fino ad oggi difettato quasi completamente di esistenza empirica. La forma più matura di mentalità comunista è proprio quella che comprende il difetto dell’attuale esistenza sociale nella sua totale incapacità di dare espressione concreta alla realtà ontologica della libera individualità sociale. Un secondo grave equivoco concerne la metafisica. Essa appare per lo più come l’abusiva sostituzione di spiegazioni basate su principi assoluti trascendenti la concreta esperienza, inverificabili per definizione, ai sobri modelli esplicativi relativi ai dati empirici. In realtà, il termine metafisica si riferisce, più genericamente, a qualsiasi principio esplicativo più interno e profondo rispetto alla superficie empirica delle cose. Farsi scudo degli argomenti adducibili contro la trascendenza per giustificare l’abolizione di ogni metafisica, significa non capire quello che già Vico e Kant avevano mostrato, e cioè che senza principi metafisici risulta inesplicabile la trasformazione storica. Erano forse empirici i principi del puritanesimo che hanno ispirato la trasformazione del sistema politico dell’Inghilterra del Seicento dalla monarchia assoluta a quella costituzionale? O i principi del 1789 che hanno ispirato la rivoluzione francese? Un ulteriore equivoco riguarda la nozione di verità e la sua assolutezza. La mentalità contemporanea è portata a concepire la verità o, aristotelicamente, come adaequatio rei intellectus (declinando questa corrispondenza in senso predittivo e strumentalistico, anziché in senso essenzialista e statico come Aristotele), o, formalisticamente, come coerenza sintattica delle manipolazioni simboliche nelle trasformazioni inferenziali. La nozione di verità viene così ridotta a quella di congettura nel primo caso, e a quella di rigore nel secondo. Intendiamoci: sia le congetture che il rigore sono necessari ai processi conoscitivi. Se però essi non rappresentano momenti integrativi del pensiero veritativo, ma pretendono di esprimere tutta la conoscenza possibile all’uomo, mettendo da parte come un ferro vecchio la nozione più forte e più propria di verità, conducono inevitabilmente al nichilismo. La congettura può essere, infatti, in base alle prove che ha dato di sé come strumento di orientazione nell’esperienza, più o meno affidabile, e, in base ai dati sperimentali di controllo, più o meno corroborata. Ma la sua validità non può per definizione essere ritenuta permanente: essa, in quanto congettura, può sempre trovare un’esperienza che la smentisca. Il rigore, da parte sua, è per definizione contenutisticamente vuoto, e non può giustificare il proprio principio di coerenza. Se dunque si assumono la congettura e il rigore come unici mezzi di ragionamento, si apre nel ragionamento stesso un vuoto, quello della verità, intesa nel suo carattere di permanenza di significato, autoconvalidazione logica, pienezza di contenuto ontologico. La risposta che viene ovvia alla mentalità odierna è che è appunto di questo carattere della verità che si può e si deve fare a meno. Senonché, come ha rivelato Hegel, alla cui dimostrazione rinviamo (cfr. Scienza della logica, vol. II, sez. II, cap. III, e inoltre nella premessa a Sul concetto in generale), sussiste necessariamente una verità di cui non è misura l’esistenza, ma sulla quale anzi è l’esistenza a misurare la sua verità. Non si può cioè fare a meno di un criterio di giudizio la cui verità sia data non da qualche sua forma di correlazione con i dati empirici, ma da una sua intrinseca autoconvalida, e che consenta di valutare come veri o falsi i dati empirici. Non ne fanno a meno, infatti, neppure coloro che questo criterio negano, e riducono la verità a congettura e a rigore. La loro stessa affermazione che la verità sia congettura o rigore non rientra né nella congettura né nel rigore. E la critica negatrice dell’esistenza di una verità permanente, autoconvalidantesi e piena di contenuto ontologico, o presuppone contraddittoriamente la permanenza, l’autoconvalida e la piena realtà dell’economia di mercato, o sfocia, altrettanto contraddittoriamente, in una contestazione che deve autorelativizzarsi. Alla mentalità odierna appare comunque insensata l’idea che qualcosa di esistente possa essere falso. Se esiste, non si dice forse il vero affermandone l’esistenza? Con i fatti, si diceva una volta, non si discute. Eppure, tanto per fare un esempio, uno Stato la cui politica sia interamente determinata da interessi privati è un falso Stato, dato che appartiene al concetto di Stato il carattere di essere un’istituzione pubblica. E la ragione esiste proprio se discute i fatti alla luce della sua razionalità.


Massimo Bontempelli – IL PREGIUDIZIO ANTIMETAFISICO DELLA SCIENZA CONTEMPORANEA
Massimo Bontempelli (1946-2011) – Quale asse culturale per il sistema della scuola italiana?
Massimo Bontempelli – La convergenza del centrosinistra e del centrodestra nella distruzione della scuola italiana.
Massimo Bontempelli – In cammino verso la realtà. La realtà non è la semplice esistenza, ma è l’esistenza che si inscrive nelle condizioni dell’azione reciproca tra gli esseri umani, diventando così sostanza possibile del loro mutuo riconoscimento.
Massimo Bontempelli – Il pensiero nichilista contemporaneo. Lettura critica del libro di Umberto Galimberti « Psiche e tecne».
Massimo Bontempelli (1946-2011) – L’EPILOGO DELLA RAZIONALIZZAZIONE IRRAZIONALE: demente rinuncia alla razionalità degli orizzonti di senso, e perdita della conoscenza del bene e del male. L’universalizzazione delle relazioni tecniche ha plasmato la razionalizzazione irrazionale, razionalità che non ha scopi, che è cioè irrazionale.

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Jean Bricmont – Contro la filosofia della meccanica quantistica.

Jean Bricmont001

303 ISBN

Jean Bricmont

Contro la filosofia della meccanica quantistica

Traduzione dal francese di Fabio Acerbi

indicepresentazioneautoresintesi

 

Quando ho studiato la meccanica quantistica ho imparato che l’oggetto più fondamentale di questa teoria, la funzione d’onda, non descriveva il sistema fisico in esame, bensì la conoscenza che ne avevamo. In ciò risiedevano l’originalità e la stranezza radicale della meccanica quantistica. Ma cosa significava tutto ciò? Di certo, non quello che si poteva credere ingenuamente: non si studiavano certo i processi interni al cervello umano che sono associa ti a ciò che chiamiamo ‘conoscenza’. In fin dei conti, si trattava forse di qualcosa di banale: non possiamo far altro che studiare oggetti o proprietà accessibili alla conoscenza umana; se esistono realtà radicalmente inaccessibili alla nostra percezione o alla nostra conoscenza non le studiamo per definizione. Ma allora, dove stava la novità? Capitava di spingersi più in profondità; si imparava allora che la meccanica quantistica non aveva fatto che giustificare un punto di vista filosofico precedente, risalente almeno a Kant, Hume e Mach e sviluppato dai positivisti moderni.

Strano: ecco una teoria fisica che ci costringe ad adottare una prospettiva filosofica specifica, senza la quale non è possibile comprenderla. Mermin cita una formulazione estremizzata di quest’idea: «La dottrina secondo cui il mondo è fatto di oggetti la cui esistenza è indipendente dalla coscienza umana si trova essere in conflitto con la meccanica quantistica e con fatti sperimentali ben stabiliti». Effettivamente, la scienza suppone tradizionalmente che si possa separare il ‘soggetto’ umano dall’oggetto studiato. Ma la meccanica quantistica aveva imposto una svolta: la filosofia ‘realista’ (a volte completata con la parola ‘metafisica’ o ‘ingenua’) era divenuta non più difendibile. Questa filosofia aveva avuto i suoi momenti di gloria nel XVIII e nel XIX secolo, all’apogeo del materialismo scientifico trionfante. Einstein era ancora legato a quella visione delle cose. È per questa ragione che non aveva mai potuto ammettere la meccanica quantistica. Ma quest’ultima ci era imposta dai fatti. Personalmente, neanch’io mi trovavo disposto ad accettare un tale punto di vista. Mi sembrava che ci fosse qualche cosa di profondamente sbagliato nella posizione positivista, ma per delle ragioni puramente filosofiche, e non vedevo come una teoria scientifica, ed ancor menoi ‘fatti’, potessero cambiare qualcosa in tutta la faccenda. Non solo, vedevo che Einstein, Schrödinger e qualche volta de Broglie avevano sollevato obiezioni all’interpretazione dominante della meccanica quantistica. Ma, mi si diceva, costoro appartenevano ad un’altra generazione, e non avevano mai potuto arrunettere la nuova visione del mondo e della scienza elaborata da Boru, Heisenberg e Pauli. Tuttavia, ogni teoria scientifica essendo destinata a perire, almeno così pare, non potrebbe darsi che un giorno un’altra teoria, più perfezionata, comportasse una revisione delle nostre concezioni filosofiche? Ma anche questa speranza era vana, von Neumann avendo, almeno così sembrava, dimostrato che ogni teoria ‘realista’ sarebbe entrata necessariamente in conflitto con le previsioni sperimentali. I fatti stessi imponevano dunque una visione della scienza radicalmente nuova. Eppure, Schrödinger ed il suo gatto mi sembravano aver messo in rilievo una difficoltà concettuale fondamentale della meccanica quantistica. Mi sembrava si trattasse di un problema ben più importante della tradizionale questione del determinismo, nella quale si volevano rinchiudere i ‘dissidenti’. D’altro canto, non riuscivo bene a vedere quale partito trarre dalle obiezioni di Einstein: con Podolsky e Rosen, egli aveva tentato di mostrare che la meccanica quantistica era manifestamente una descrizione incompleta della realtà. Ma tutti erano d’accordo nel ritenere che Bohr avesse fatto fronte in modo magistrale a queste obiezioni. C’era anche un certo Bohm che, sulle tracce di Louis de Broglie, aveva cercato di proporre un’‘interpretazione’ della meccanica quantistica in termini di ‘variabili nascoste’. Ma anche questo tentativo si era rivelato un fallimento. In più, un certo Bell aveva mostrato in maniera incontrovertibile che ogni tentativo d’interpretazione in termini di ‘variabili nascoste’ doveva, se non voleva contraddire le previsioni della meccanica quantistica, essere non locale, il che era chiaramente inaccettabile.

Non vedendo vie di uscita ai problemi mi sono occupato di altre cose, restando comunque insoddisfatto, come molti della mia generazione. Da qualche anno sembra però essersi risvegliato l’interesse per le questioni relative ai fondamenti della meccanica quantistica. Le differenti versioni di quella che viene chiamata “l’interpretazione di Copenhagen” sembrano raccogliere consensi sempre meno unanimi. Uno degli scopi di questo articolo è quello di spiegare come vi sia un problema effettivo nella meccanica quantistica in quanto teoria fisica. Il problema è sottile e non ha conseguenze pratiche – ma sussiste. Occorre però evitare di attribuire a questo problema un’importanza eccessiva e, in ogni caso, non precipitare nella deriva irrazionalista in cui ci si imbatte talvolta ai margini del dibattito sulla meccanica quantistica. Peraltro, intendo mostrare che il problema è stato storicamente trasfigurato pretendendo che la soluzione risiedesse nell’adozione di uno specifico punto di vista filosofico. Intendo anche spiegare perché un certo numero di idee trasmesseci, come quelle che avevo imparato quando ero studente (sul teorema di Bell, sull’impossibilità di teorie a variabili nascoste), siano erronee.

Comincerò con una breve discussione filosofica sull’opposizione tra realismo e positivismo (sezione 2). Può sembrare strano iniziare con una discussione filosofica. Mi sembra tuttavia indispensabile prendere le mosse da una chiarificazione di queste nozioni, spiegando in particolare ciò che il realismo filosofico non è, a tal punto la confusione su tale questione perverte ogni discussione sui fondamenti della meccanica quantistica. Indicherò poi quale sia esattamente il problema della meccanica quantistica (sezione 3), e cercherò di mostrare che tale problema non è legato ad una posizione filosofica specifica. Non solo, l’idea in base alla quale la soluzione del problema consista nell’adottare una posizione filosofica positivista ha reso difficile la comprensione dell’aspetto più radicalmente nuovo della meccanica quantistica, cioè il suo carattere non locale, messo in evidenza da Einstein, Podolsky, Rosen e da Bell (sezione 4). Infine, indicherò brevemente le soluzioni possibili esistenti (sezione 5). Sebbene nessuna di esse sia interamente soddisfacente, alcune sono molto più interessanti di quanto si affermi correntemente (spesso senza esaminarle in dettaglio), ed occorre certamente studiarle se si vuole arrivare un giorno ad una teoria quantistica totalmente coerente e priva di ambiguità. Devo però sottolineare che pressoché niente di ciò che si trova in quest’articolo è originale (eccetto, come si dice di solito, gli errori). In effetti, i lavori di Bell contengono, anche se spesso in maniera molto stringata, quasi tutto ciò che può essere detto oggi sui problemi della meccanica quantistica. Uno degli obiettivi principali di questo articolo è quello di incoraggiare il lettore a studiare gli scritti di Bell. Per facilitare la lettura dell’articolo ho spostato tutta la parte dell’esposizione che necessita di equazioni nelle appendici da I a III, mentre l’ultima appendice è dedicata ad alcune tracce bibliografiche.


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