Vincent Van Gogh (1853-1890) – Se un’opera d’arte non comunica con individuale originalità i sentimenti dell’artista, se li esprime in modo incomprensibile, oppure se non nasce da un’esigenza interiore dell’autore, non è un’opera d’arte.

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Lettere a Theo [1872-1890]

Lettere a Theo [1872-1890]

 

«Se un’opera d’arte non comunica con individuale originalità
i sentimenti dell’artista,
se li esprime in modo incomprensibile,
oppure se non nasce da un’esigenza interiore dell’autore,
non è un’operad’arte».

Vincent van Gogh, Lettere a Theo [1872-1890], ed. it. a cura di Massimo Cescon, Guanda, Milano 2014, p. 178.

 

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Vincent Van Gogh (1853-1890) – Quando c’è convenzionalismo, c’è sempre la sfiducia e la sfiducia dà sempre luogo a ogni sorta di intrighi

Vincent Van Gogh (1853-1890) – Ho un grande fuoco nell’anima … qualcuno verrà a sedersi davanti a questo fuoco, e magari vi si fermerà

Vincent Van Gogh (1853-1890) – Preferisco la malinconia che aspira e che cerca

Vincent van Gogh (1853-1890) – La maggior parte della gente trova “troppo poca bellezza”. Continua sempre a camminare e ad amare la natura.

Vincent Van Gogh (1853-1890) – Le opinioni non possono rendere più vera la verità.


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Isabella Guanzini – Il reciproco toccarsi corrisponde ad una reciproca donazione di senso, in cui ciascuno lascia la propria impronta sul corpo e sull’anima dell’altro. Così si trasmette come per travaso di corpo in corpo, di contatto in contatto, e si costruisce un mondo comune.

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«[…] il tatto è nell’uomo il senso più perspicuo».
Aristotele, De Anima, 421a20.

 

Tenerezza. La rivoluzione del potere gentile

Tenerezza. La rivoluzione del potere gentile

 

 

«Il reciproco toccarsi corrisponde ad una reciproca donazione di senso, in cui ciascuno lascia la propria impronta sul corpo e sull’anima dell’altro. […] Precisamente grazie a tale flusso […] di affetti e di sensibilità sociale, che si trasmette come per travaso di corpo in corpo, di contatto in contatto, si costruisce un mondo comune».

Isabella Guanzini, Tenerezza. La rivoluzione del potere gentile, Ponte alle Grazie, 2017.

 

 

Per resistere al male ci vuole un animo tenero:
la sfida più dura mai affidata all’umano

«Non c’è altra via di umanizzazione per il tempo presente e futuro: la forza rivoluzionaria della tenerezza e dell’affetto corrisponde alla via sovrana per una nuova ecologia umana, sensibile alle mani, alle facce, alle voci e ai corpi nella loro irriducibile singolarità e verità.»

La tenerezza va ripulita dalla spessa crosta di zucchero e va mostrata in tutta la sua essenzialità e potenza: è la percezione elementare della fragilità della vita, di ogni vita; è la disposizione umana fondamentale dei legami che tengono insieme il mondo; è vicinanza; riconoscimento del volto dell’altro, della sua fisicità, del suo essere al mondo.

 


http://blog.petiteplaisance.it/wp-content/uploads/2019/02/Il-rilievo-Campana-I-sec.-d.C..-Euriclea-tiene-in-mano-il-piede-di-Ulisse.jpg

Il rilievo Campana (I sec. d.C.),  composizione di rara bellezza ed efficacia. Euriclea tiene in mano il piede di Ulisse, ri-conosce Ulisse attraverso il tatto, ri-conosce la ferita e sta per gridare la sua scoperta. Ulisse, con un doppio drammatico movimento, le chiude la bocca e volge la testa verso Eumeo che si trova alle sue spalle.

 


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Pavel Aleksandrovič Florenskij (1882-1937) – Verità, bene e bellezza: questa triade metafisica è un unico principio. Nella vita ci sono molte cose mostruose, malvage, tristi e sporche. Tuttavia, rendendosi conto di tutto questo, bisogna avere dinanzi allo sguardo interiore l’armonia e cercare di realizzarla.

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«Il mondo sarà salvato dalla bellezza».*
Fedor Dostoevskij

«Verità, bene e bellezza: questa triade metafisica è un unico principio.
La verità manifestata è amore. L’amore realizzato è bellezza.
».
Pavel A. Florenskij

«Che cosa ho fatto io per tutta la vita?
Ho contemplato il mondo come un insieme».
Pavel A. Florenskij

 

«Il luogo nel quale incomincia la rivelazione della verità […]
è l’amicizia, come nascita misteriosa del “tu”».
Pavel A. Florenskij

Non dimenticatemi

Non dimenticatemi

 

Il rapporto realistico con il mondo è nella sua sostanza un rapporto di azione: è la vita nel mondo.Se non comprendiamo che ogni atto di cultura è verità, non saremo in grado di riconoscergli dignità interiore e vera umanità. (da Il valore magico della parola)

 

«La visione della vita dell’antichità greca è di un ottimismo tragico. La vita non è affatto una festa e un divertimento continuo: nella vita ci sono molte cose mostruose, malvage, tristi e sporche. Tuttavia, rendendosi conto di tutto questo, bisogna avere dinanzi allo sguardo interiore l’armonia e cercare di realizzarla».

Pavel Aleksandrovič Florenskij, lettera del 7 dicembre 1935, in Non dimenticatemi. Dal gulag staliniano le lettere alla moglie e ai figli del grande matematico, filosofo e sacerdote russo [1933-1937], a cura di Natalino Valentini e Lubomir Zak, Mondadori, Milano 2000, p. 227.

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  • Fedor Dostoevskij, L’idiota [1868], parte III, cap. V, tr. di Rinaldo Küfferle, Garzanti, Milano 19826, p. 478.
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L’idiota


Pavel Florenskij (1882-1937) – «La prospettiva rovesciata». Ci sono solo due tipi di rapporto con la vita: quello interiore e quello esteriore, come ci sono due tipi di cultura: contemplativo-creativa e rapace-meccanica.


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Ivan Illich (1926-2002) – Lessico unidirezionale: «inclusione» contro «emancipazione». Un tempo il crescere non era un processo economico. Oggi gli stessi genitori sono diventati insegnanti ausiliari responsabili degli input di capitale umano, per usare il gergo degli economisti, grazie ai quali i loro rampolli otterranno la qualifica di “homo oeconomicus”.

Genere. Per una critica storica dell'uguaglianza

Genere. Per una critica storica dell’uguaglianza

Salvatore A. Bravo

Lessico unidirezionale

I sistemi di potere proliferano, divengono capillari, strutturano i pensieri diffondendo parole, escludendone altre: censura linguistica-lessicale. La contrapposizione, il polemos (Πόλεμος) linguistico, è la condizione della democrazia, della comunità viva che veicola con le parole il confronto concettuale. In assenza di polemos linguistico non vi è che lo scorrere delle parole lungo un asse unidirezionale. Le parole sono apprese, ripetute, formulano rappresentazioni finalizzate a puntellare la caverna dei nostri mondi. Il sole che illumina fuori della caverna, il bene, è la libertà di parlare – con cognizione di sé – dei modi di produzioni, la parresia (παρρησία, ciò che viene detto). Non vi è comunità se non con la parola plurale, dialettica, nella quale (e con la quale) ci si confronta per capire, nella quale (e con la quale) si studia la storia per evidenziare in modo contrastivo le differenze. Un mondo senza parole dialettiche è unidirezionale, convoglia verso uno spazio ed un tempo eguale per tutti. La forza del sistema è nel ridurre le differenze a simulacro. Il simulacro è l’immagine allo specchio svuotata di ogni suo contenuto formale, di ogni passaggio dalla potenza all’atto. È possibile per tutti dichiarare la propria differenza, ostentarla fino al ridicolo, purché non intacchi la struttura dell’economia. Le differenze-simulacro, ombre della forma, una volta devitalizzate della loro carica trasgressiva pensante, sono interne al sistema. Possono scorrere all’interno dell’invisibile recinto, la loro differenza è semplice apparenza: l’involucro, il simulacro non cela la verità, è diventato la sostanza seriale del capitale. È il regno del dicitur, della chiacchiera (Gerede) senza alcun fondamento (Grund). Le differenze in tal modo non impensieriscono, non ricevono l’ostilità di alcuno, anzi sono trofei ideologici che rafforzano il sistema, il quale si presenta come democratico, mostra a caratteri cubitali “la libertà seriale”, di cui non si deve avere paura.

La sussunzione linguistica
La sussunzione, la sottomissione linguistica, non è riconosciuta: opera attraverso un invisibile guinzaglio lessicale. L’ostilità verso la cultura classica, verso la filosofia teoretica, non riposa soltanto nella presunta sua inutilità al lavoro, ma essa ha un’eccedenza di ragioni non esplicite: le parole teoretiche, i grandi quesiti della cultura classica e filosofica, disorientano, lasciano intravedere la verità del pensiero unico, il fondamento nichilistico, l’integralismo della caverna. Sono eliminati dal curriculum scolastico, ridotte a discipline secondarie, su di esse scorre un giudizio economico: non producono a sufficienza, per cui si invita la popolazione scolastica e non a viverle che come esperienza breve e fugace dell’adolescenza, una breve malattia da cui si guarisce.

L’inclusione
Il disprezzo si struttura nella logica dell’inclusione, del “mettere dentro”, del recintare liberamente le vite di tutti. In ogni documento scolastico, in ogni trasmissione televisiva la parola che fortemente è ripetuta è “competizione”. Il trattato di Lisbona del 2007 è esplicito all’articolo 86: l’Europa dev’essere altamente competitiva. La competizione dev’essere inclusiva, la grande novità dell’Europa post 1989 è l’inclusione, l’eguaglianza dei soggetti in funzione del mercato: nessuno dev’essere lasciato fuori del mercato. Tutti – nelle loro differenze – devono essere accolti nel mercato, ed inclusi: lo scandalo è restarne fuori, per cui ogni resistenza all’inclusione è persino medicalizzata. Un esercito di psicologi e medici scrutano il disagio dei resistenti per normalizzarlo, per deprivarlo della capacità creativa-oppositiva e renderlo normale e felice, come gli altri, pronto ad entrare nel recinto dell’inclusione.

La formazione come esperienza economica
La formazione dev’essere oggi per il capitalismo mondializzato un’esperienza economica. Non si forma il cittadino, la persona, ma l’homo oeconomicus. Tutti devono essere inclusi nel processo di governo delle esistenze funzionali all’economia, sin dall’età più tenera. Ogni sistema totalitario è attento alla formazione dei più piccoli:

«Un buon esempio è l’istruzione. Un tempo il crescere non era un processo economico: ciò che un ragazzo o una ragazza imparavano a casa propria non era scarso. Ognuno apprendeva a parlare la sua lingua vernacolare nonché le conoscenze indispensabili per una vita vernacolare. Sarebbe stato impossibile, salvo rare eccezioni, definire la crescita un processo di capitalizzazione della popolazione attiva. Oggi tutto questo è cambiato. I genitori sono diventati insegnanti ausiliari all’interno del sistema didattico. Sono responsabili di quegli input fondamentali di capitale umano, per usare il gergo degli economisti, grazie ai quali i loro rampolli otterranno la qualifica di “homo oeconomicus”. È quindi del tutto ragionevole che l’economista attivo nel settore didattico si preoccupi di come convincere la madre a iniettare la maggior quantità possibile di input di capitale non rimunerato nel proprio bambino. […] Quando i bambini entrano in prima elementare, esistono già tra loro differenze rilevanti nelle capacità verbali e matematiche. Tali differenze rispecchiano anzitutto variazioni in termini di doti naturali e in secondo luogo la quantità di capitale umano che il bambino acquisisce prima dei sei anni. Lo stock di capitale umano acquisito rispecchia, a sua volta, differenti input di tempo e di altre risorse da parte di genitori, insegnanti, fratelli e del bambino stesso. Il processo d’acquisizione prescolare di capitale umano è analogo alla successiva acquisizione di capitale umano attraverso la scolarizzazione e la formazione sul luogo di lavoro. Gli input non rimunerati di tempo e di fatica investiti dalla madre nella capitalizzazione del figlio sono qui correttamente presentati come la prima fonte di formazione del capitale umano. E anche chi consideri ridicole queste espressioni, deve necessariamente ammettere la realtà dei loro contenuti in una società in cui le capacità sono ritenute scarse e devono essere prodotte economicamente».[1]

L’inclusione è nel segno della riduzione della persona e delle differenze ad inclusione per la competizione. Tutti devono essere messi al nastro di partenza pronti ad una lotta darwiniana. La sofferenza, il disagio dei resistenti, gli alunni che devono forzare la loro natura per riorientarla secondo i dettami dell’economia, è un problema mai affrontato. Nelle scuole si spendono risorse contro il bullismo, per proiettare la violenza su pochi adolescenti disagiati e non svelare che l’inclusione è l’istituzionalizzazione del bullismo. L’orientamento scolastico è fortemente indirizzato verso alcune facoltà, mentre l’orientamento verso le facoltà umanistiche è ridotto a presenza burocratica veloce.
L’inclusione deve formare all’economia, il neoliberismo esige e caldeggia le libertà delle merci, ma non delle persone che le devono servire: tutti servi, tutti uguali.

L’emancipazione
L’emancipazione è parola scomparsa. Essa è, invece, costitutiva della nostra costituzione rispettosa della volontà di ciascuno, è la libertà dai condizionamenti, dai recinti sociali e cognitivi in cui le persone sono costrette. In particolare gli articoli 46 e 47 della Costituzione, per emancipare il soggetto dall’economia, dal suo determinismo, prevedono la partecipazione alla gestione dell’azienda, in modo che vi sia democrazia integrale:

«Art. 46.
Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende».
«Art. 47.
La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito. Favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese».

L’emancipazione è libertà implicante coscienza sociale collettiva, nella quale si concretizza la libertà. L’esperienza della libertà è attività, partecipazione, mentre l’inclusione è passività: il soggetto non discute il sistema, è immesso al suo interno senza la possibilità di scegliere. La terribilità della condizione attuale è che, malgrado le violenze delle controriforme, i lavoratori, le classi medie, non concepiscono minimamente la possibilità di discutere il sistema che li aliena, anzi talvolta sono il veicolo più immediato che puntella il sistema. Naturalmente una delle cause è l’istruzione per come oggi viene intesa e praticata: essa deve formare l’imprenditore, per cui quest’ultimo è giudicato intoccabile, figura semimetafisica ed astratta. L’istruzione, invece, nel dettato costituzionale, è libera dai condizionamenti del mercato, perché deve formare la persona: essa ha il compito di liberare dai condizionamenti. Il dettato costituzionale è nell’ottica dell’emancipazione e non dell’inclusione. Così recita l’articolo 3:

«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale [cfr. XIV] e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso [cfr. artt. 29 c. 2, 37 c. 1, 48 c. 1, 51 c. 1], di razza, di lingua [cfr. art. 6], di religione [cfr. artt. 8, 19], di opinioni politiche [cfr. art. 22], di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Gioverebbe dunque ripartire dalla lettera e dallo spirito antieconomicistico e umanistico del dettato costituzionale in merito, e dal concetto di emancipazione che sostanzia i suoi articoli, mentre i manutengoli del capitalismo mondializzato nel nostro Paese si fondano sul regime dell’inclusione che rendono le persone strumenti passivi di forze economiche ipostatizzate.

Salvatore A. Bravo

[1] Ivan Illich, Genere. Per una critica storica dell’uguaglianza, Gender, 1982, pp. 32-33; Neri Pozza, Vicenza 2013.


Ivan Illich (1926-2002) – Lo studio porti il lettore alla sapienza e non ad accumulare conoscenze al solo scopo di farne sfoggio. Il lettore è uno che si è volontariamente esiliato per concentrare tutta la propria attenzione e il proprio desiderio sulla sapienza.

Ivan Illich (1926-2002) – Eutrapelìa. Due sono le chiavi di questa virtù: il sorriso e la misura. L’austerità non significa isolamento o chiusura in se stessi. L’austerità fa parte di una virtù più fragile, che la supera e la include, ed è la gioia, l’eutrapelìa, l’amicizia.


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Plotino (203-270 d.C.) – Realizzando una vita più nobile siamo parte di una sorte più elevata.

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Enneadi

«Più di una volta mi è capitato di riavenni, uscendo dal sonno del corpo, e di estranianni da tutto, nel profondo del mio io. In quelle occasioni godevo della visione di una bellezza tanto grande quanto affascinante che mi convinceva, allora come non mai, di fare parte di una sorte più elevata, realizzando una vita più nobile: insomma di essere equiparato al divino, costituito sullo stesso fondamento di un dio».

Plotino, Enneadi, IV, 8, 1, tr. di Roberto Radice, Mondadori, Milano 20032, p. 1123.

 


Plotino (203-270 d.C.) – Cominciamo col fare del bello e del bene un solo e identico principio. Togli il superfluo, raddrizza ciò che è storto, lucida ciò che è opaco perché sia brillante, e non cessare mai di scolpire la tua statua, finché alla tua vista interiore appaia la temperanza.


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Emily Dickinson (1830-1886) – La bellezza e la verità sono una cosa sola. Bellezza è verità, verità è bellezza.

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Tutte le poesie

Tutte le poesie

 

 

Bellezza è verità, verità è bellezza; questo
è tutto ciò che voi sapete sulla terra, e tutto ciò che avete bisogno
di sapere.

John Keats*

 

Morii per la bellezza – ma non m’ero ancora abituata alla mia tomba
quando un altro – morto per la verità – fu adagiato nel sepolcro
vicino.
Piano mi domandò perché ero morta –
«Per la bellezza» – gli risposi – e lui: «E io per la verità – loro sono
una cosa sola e noi siamo fratelli», disse.
Così, come congiunti che s’incontrano di notte, conversammo
dall’una all’altra stanza
finché il muschio raggiunse le nostre labbra e coprì i nostri nomi.

 

Emily Dickinson, Morii per la bellezza, poesia n. 449, in Tutte le poesie, a
Cura di Marisa Bulgheroni, Mondadori , Milano 2001, p. 495.

****
***
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  • John Keats, dipinto di William Hilton

    John Keats, dipinto di William Hilton

  • John Keats, Ode su un’urna greca [1819]. versi 49-50, in Iperione,odi e sonetti, a cura di Raffaello Piccoli, Sansoni, Firenze 1984, p. 67.

    Iperione, odi e sonetti, 1949

    Iperione, odi e sonetti, 1949

 


Emily Dickinson – Un’anima al cospetto di se stessa

Emily Dickinson (1830-1886) – La parola comincia a vivere soltanto quando vien detta.

Emiliy Dickinson (1830-1886) – Ciò che è lontano e ciò che è vicino

Emily Dickinson (1830-1866) – Semi che germogliano nel buio

Emily Dickinson (1830-1866)  – Dedicata agli esseri umani in fuga dalla mente dell’uomo

Emily Dickinson (1830-1866) – Distilla un senso sorprendente da ordinari significati


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Antonio Vigilante – L’essere e il tu. Aldo Capitini in dialogo con Nishitani Keiji, Enrique Dussel e Murray Bookchin.

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Antonio Vigilante

L’essere e il tu

Aldo Capitini in dialogo con Nishitani Keiji, Enrique Dussel e Murray Bookchin

ISBN 978-88-7588-166-5, 2019, pp. 144, Euro 15.

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Filosofo della nonviolenza, teorico (con Guido Calogero) del liberalsocialismo prima e del potere di tutti poi, oppositore del fascismo ma anche critico delle insufficienze della democrazia rappresentativa, Aldo Capitini (1899-1968) ha tracciato per un trentennio un percorso filosofico, etico, politico, religioso e pedagogico tra i più radicali del Novecento Italiano. Ma è stato anche il filosofo che con maggiore forza ha affermato la necessità del dialogo a livello interpersonale, comunitario, internazionale e interculturale, negli anni del conflitto ideologico e della Guerra Fredda. Interpretando questo aspetto centrale del suo impegno intellettuale e politico, Antonio Vigilante fa dialogare il pensiero capitiniano con quello di tre autori provenienti da mondi culturali diversi tra loro e dal contesto italiano: Nishitani Keiji, Enrique Dussel e Murray Bookchin.

Aldo Capitini

Aldo Capitini

Nishitani Keiji

Nishitani Keiji

Enrique Dussel

Enrique Dussel

Murray Bookchin

Murray Bookchin

Aldo Capitini

Aldo Capitini

Il confronto con Nishitani, tra i più importanti filosofi giapponesi contemporanei, porta in primo piano le tematiche religiose e la metafisica pratica della compresenza, il più alto esito della filosofia capitiniana, interpretata alla luce della vacuità buddhista, mentre il dialogo con Dussel e Bookchin permette di definire la particolarità della rivoluzione nonviolenta di Capitini, che ha significativi punti di contatto sia con la filosofia della liberazione del primo che con il municipalismo libertario del secondo. Se ne distingue per una persuasione religiosa che lo porta a spingere la prassi etica e politica contro i limiti stessi del reale, come protesta metafisica e invocazione di una possibilità pura. La relazione tra l’io e il tu, liberata dalla logica della potenza, diventa la chiave per interpretare in modo nuovo, aperto l’essere, e per ripensare l’agire politico alla luce di questa apertura pratico-metafisica.


Antonio Vigilante vive a Siena. Si occupa di teoria della nonviolenza, pedagogia, filosofia morale e interculturale. Tra i suoi libri: Il Dio di Gandhi (2009), La pedagogia di Gandhi (2010), Ecologia del potere. Studio su Danilo Dolci (2012), L’educazione è pace. Scritti per una pedagogia nonviolenta (2014), A scuola con la mindfulness (2017). Con Petite Plaisance ha pubblicato: Dell’attraversamento. Tolstoj, Schweitzer, Tagore (2018).


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Antonio Vigilante

Dell’attraversamento. Tolstoj, Schweitzer, Tagore

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Tra gli ultimi anni dell’Ottocento e i primi due decenni del Novecento si assiste al repentino passaggio dalla fiducia incondizionata nei mezzi della scienza e della tecnica all’inquieta consapevolezza delle crisi della civiltà. Lev Tolstoj, Albert Schweitzer e Rabindranath Tagore, pur osservando la crisi da punti di vista diversi, concordano nel denunciare la violenza, il fanatismo identitario, l’alienazione della macchina, l’eclissi dello spirito. Ma non si limitano alla denuncia, né si chiudono in un rifiuto sdegnoso del mondo moderno. In opere dimenticate come Della vita e Il Regno di Dio è dentro di voi, il grande scrittore russo indica la via di un amore radicale e rivoluzionario, che attacca l’ordine costituito con la forza della sola persuasione morale. In Africa Albert Schweitzer, filosofo, teologo e medico missionario, ha l’intuizione del rispetto per la vita, una nuova visione morale che supera i confini di specie ed afferma il valore e il diritto al rispetto di ogni essere vivente. In Bengala Tagore, pur rivendicando l’identità culturale del suo popolo aggredito dal colonialismo, cerca una nuova civiltà mondiale, nata dal dialogo e dalla sintesi tra il pensiero scientifico occidentale e la spiritualità indiana.

Tre pensatori che in forme diverse, ma anche con singolari convergenze, combattono le chiusure fanatiche ed i nazionalismi che tante tragedie causeranno nel Novecento. Alla base di questa apertura interculturale c’è un atto esistenziale radicale: l’attraversamento del proprio ego, dell’identità con le sue consolazioni ed i suoi attaccamenti, e la conquista di una visione transpersonale che porta nella società la luce di una razionalità etica alternativa alla ratio dell’economicismo capitalistico.


Altri libri di Antonio Vigilante

 

2009Il Dio di Gandhi. Religione, etica e politica

Il Dio di Gandhi. Religione, etica e politica, 2009

“Si è inteso mettere in evidenza lo straordinario valore della proposta politica di Gandhi presentandola come una proposta laica, valida al di là delle personali convinzioni religiose. E per molti versi essa lo è. E’ anche vero, tuttavia, che la religione non è una dimensione della vision del mondo gandhiana che si possa marginalizzare o trascurare. Al contrario, essa fonda la politica. Non c’è nonviolenza senza fede in Dio, ha sostenuto più volte Gandhi, con una chiarezza che non lascia spazio a interpretazioni. Quel Dio che fonda la non violenza è un Dio-Verità, un Dio che nelle intenzioni di Gandhi può essere toccato, cercato, avvertito anche dagli atei, e tuttavia resta un Dio da pregare, da invocare nei momenti di difficoltà, in cui confidare”. (dalla premessa di Antonio Vigilante)

Come una perla il libro di Antonio Vigilante si aggiunge alla preziosa collana dei più accreditati studi gandhiani. Vigilante ha praticato la gadameriana Wirkungsgeschichte. Un’opera genera effetti, conseguenze che l’autore non vede e non può vedere, ma che determinano le condizioni ermeneutiche per rileggere l’opera. Vigilante rilegge l’opera gandhiana sotto la luce della storia degli effetti non solo etico-politici ma anche dei più meditati e recenti studi, soprattutto italiani, su Gandhi. Raffinato e acuto studioso della non-violenza, l’Autore ci fa entrare criticamente nel complesso mondo filosofico, etico-sociale e religioso di Gandhi. Ne risulta un’opera puntuale nella tematizzazione del pensiero di Gandhi e al tempo stesso attenta a cogliere le sue aporie e contraddizioni.
Lo studio di Vigilante è davvero un serio e originale contributo non solo agli studi gandhiani, ma anche al dibattito in corso sulla teologia ecumenica. Ha scritto Hans Küng: “non c’è sopravvivenza senza un ethos mondiale. Non c’è pace mondiale senza pace religiosa, come non c’è pace religiosa senza dialogo religioso”. Grazie a questo lavoro, è possibile apprezzare e riconsiderare il contributo di Gandhi sia al dialogo tra le grandi religioni, confutando impostazioni egemoniche e conflittuali, sia alla costruzione di un’etica universale, divenuta indispensabile per la stessa sopravvivenza umana.

Francesco Bellino, Ordinario di Filosofia morale, Università di Bari

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2010La pedagogia di Gandhi. Con testi scelti

La pedagogia di Gandhi. Con testi scelti, 2010

Questo libro ricostruisce lo sviluppo del pensiero e della prassi pedagogica di Gandhi dagli anni di studio in Inghilterra fino alla conferenza di Wardha, con la quale presenta all’India il Nai Talim, uno schema di educazione popolare caratterizzato dalla centralità del lavoro manuale. In un ‘ottica di educazione comparata, vengono evidenziati gli aspetti della pedagogia gandhiana che possono contribuire alla riflessione sulla crisi attuale della scuola e dell’educazione, ma anche le contraddizioni ed i problemi di una concezione educativa che appare ancora segnata dall’aspirazione indiana alla liberazione dalla condizione fenomenica attraverso la rinuncia e l’ascesi. Completa il volume una raccolta di scritti gandhiani sull’educazione, appositamente scelti e tardotti.

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2011 Pedagogie della liberazione. Freire, Boal, Capitini, Dolci

Pedagogie della liberazione. Freire, Boal, Capitini, Dolci

Scritto nel 2011con Paolo Vittoria, questo libro mette l’accento sulla pedagogia sociale, dando risalto a esperienze che hanno il potenziale di trasformare le vite delle persone e delle loro società. Dà spunti per una pedagogia del sud globale, mettendo a fuoco situazioni e proposte pedagogiche e politiche che emergono da due contesti diversi, ma hanno a che fare con il mondo meridionale.

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Ecologia del potere. Studio su Danilo Dolci, 2012

Ecologia del potere. Studio su Danilo Dolci, 2012

In che modo è possibile vivere da fratelli? Cos’è il potere? Cosa vuol dire comunicare? Come è possibile combattere la povertà, l’ignoranza, l’abbandono? Come può una comunità smarrita ritrovare la sua via? Come si possono sconfiggere le mafie? Come può l’uomo essere creatura tra le creature, rapportandosi armonicamente con tutto ciò che vive? Sono queste le domande che nell’arco di un quarantennio, dal 1952 (anno dell’arrivo in Sicilia) fino alla morte, hanno guidato la ricerca e la prassi appassionata e feconda di Danilo Dolci. Questo studio ricostruisce nella prima parte la sua storia, che è legata indissolubilmente alla storia del nostro paese in un periodo che ha visto il passaggio fin troppo rapido dalla civiltà contadina a quella industriale e consumistica, e nella seconda parte ne analizza il pensiero, con particolare attenzione ai temi del potere e della comunicazione. Non si tratta solo di recuperare un pezzo importante del nostro passato recente, ma anche e soprattutto di riscoprire un messaggio ed un metodo, quello della maieutica reciproca, che possono contribuire in modo essenziale alla chiarificazione dei problemi della società postmoderna.

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L'educazione è pace, 2014

L’educazione è pace, 2014

L’educazione è pace. Scritti per una pedagogia nonviolenta

L’educazione ha a che fare, in modo essenziale, con la pace. Non nel senso che la pace sia il fine o uno dei fini dell’educazione, ma in un altro, più radicale: educare vuol dire fare in modo che accadano, qui ed ora, situazioni di pace. La pace non è uno scopo dell’educazione, ma è tutt’uno con l’educazione stessa. Se c’è pace, c’è educazione. Ogni volta che entra la pace nella quotidianità di una persona, si può dire che quella persona si sta educando.

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A scuola con la Mindfulness, 2017

A scuola con la Mindfulness, 2017

Cinque secoli prima di Cristo Siddhartha Gautama, il Buddha storico, ha elaborato un sistema di meditazione (vipassana) basato sull’analisi di sé stessi, del proprio corpo e dei contenuti mentali. Negli anni Settanta il medico statunitense Jon Kabat-Zinn ne ha tratto un protocollo scientifico per la cura dello stress. È nata così la mindfulness, una pratica che ha rivoluzionato il mondo della psicoterapia. Questo libro suggerisce che l’introduzione della mindfulness nelle scuole, associata alla pratica occidentale del dialogo filosofico, rappresenta l’occasione per un cambiamento di paradigma in campo educativo. La mindfulness può essere uno strumento efficace per affrontare problemi sempre più diffusi nelle nostre scuole, come violenza e bullismo, disattenzione, difficoltà di concentrazione, burnout dei docenti. Per Vigilante, tuttavia, essa attua tutte le sue potenzialità solo se inserita in un progetto educativo più complesso. L’Educazione Basata sulla Consapevolezza (EBAC) Umanistica proposta dall’autore è un programma di formazione che, attraverso la ricerca interiore e il dialogo con gli altri, intende approfondire la consapevolezza come sapere di sé (dimensione esistenziale), sapere dell’altro (dimensione etica), coscienza dei problemi comuni (dimensione politica). Il libro è completato da una guida pratica, con esercizi pensati appositamente per studenti e insegnanti.


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Alexis de Tocqueville (1805-1859) – È questo un potere che non spezza la volontà, la fiacca, la piega e la domina. Non distrugge, impedisce di nascere.

Alexisi de Toqueville 001
La democrazia in America

La democrazia in America

 

Se cerco di immaginarmi il nuovo aspetto
che il dispotismo potrà avere nel mondo,
vedo una folla innumerevole di uomini eguali,
intenti solo a procurarsi piaceri piccoli e volgari,
con i quali soddisfare i loro desideri.

A. de Toqueville

 

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«Si crede che le società nuove mutino faccia ogni giorno; io invece per parte mia temo che finiscano con l’essere troppo invariabilmente fissate nelle stesse istituzioni, negli stessi pregiudizi, negli stessi costumi, così che il genere umano si arresti e si limiti, che lo spirito si pieghi e si ripieghi eternamente su se stesso senza produrre idee nuove, che l’uomo si esaurisca in piccoli movimenti solitari e sterili e che, mentre tutto di continuo si muove l’umanità non progredisca più […].

Sopra di essi un potere tutelare e forte si incarica unicamente di procurar loro delle gioie e di vegliare sulla loro sorte. Esso è assoluto, pervasivo, previdente e dolce […]. Sembra quasi ricordare il potere paterno se, al pari di questo, avesse per scopo quello di educarli all’età adulta. In realtà e al contrario, questi non mira che a farli restare eternamente nell’infanzia. […] È un potere che non spezza la volontà, la fiacca, la piega e la domina; raramente obbliga all’azione, ma si oppone continuamente al fatto che si agisca; non distrugge, impedisce di nascere; non tiranneggia, ostacola, comprime, spegne, inebetisce e riduce infine ogni nazione a non essere più che un gregge timido e industrioso, di cui il governo è il pastore».

Alexis de Tocqueville, La democrazia in America [1835], Rizzoli, Milano 1992, p. 324.

Tocqueville ritratto da Théodore Chassériau

Alexis de Tocqueville ritratto da Théodore Chassériau.


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Domenico Losurdo (1941-2018) – Le civiltà storiche si staccano dalle loro radici e precipitano nel mondo tecnico ed economico e in vuota intellettualità. Una lettura di «La comunità, la morte, l’Occidente, Heidegger e l’ideologia della guerra». Integralismo economico e culto dell’astratto.

Domenico Losurdo 003
La comunità, la morte, l'Occidente

La comunità, la morte, l’Occidente

Salvatore A. Bravo

Integralismo economico e culto dell’astratto

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Domenico Losurdo nel 1991 pubblica il testo La comunità, la morte, l’Occidente, Heidegger e l’ideologia della guerra. È l’anno della fine dell’Unione sovietica, è il trionfo del liberismo. La storia – da quel momento – cambia ad Oriente e ad Occidente: si accelerano i processi di economicizzazione delle comunità. L’Unione sovietica, con la sua presenza, era apparsa un mondo di valori altri rispetto all’americanismo mercatile e – specialmente nell’Occidente – sembrava limitare l’esiziale avanzata del liberismo. Il testo del 1991 è profetico nelle sue intenzioni: con la fine dell’Unione sovietica ogni ideale internazionale – politico ed antropologico – scompare dall’orizzonte culturale. L’economicizzazione livellatrice avanza, i trattati europei si avvicendano, si viaggia in direzione euro, tutto avviene per opera di plutocrati, mentre i popoli – senza punti di riferimento partitici ed ideologici – assistono alle (e soprattutto subiscono le) trasformazioni, spesso senza consapevolezza. L’integralismo economico è vincente, la globalizzazione inaugura un nuovo tipo di umanità dedita al valore di scambio a livello planetario, umanità astratta in quanto sradicata da ogni tradizione, da ogni storia, un essere umano senza volto con l’unico intento prometeico di dominare sui mercati. L’onnipotenza mercantile – trascorso l’ottundimento iniziale dei primi anni – comincia a mostrare le proprie contraddizioni. La solitudine dell’uomo globale, lo sradicamento dovuto al livellamento in nome del mercato, espone gli esseri umani ad uno stato di continua precarietà ed angoscia. Il livellamento coatto non riesce a dare un senso alle esistenze, ed aggrava le sperequazioni materiali. Il mercato promette false utopie pronte a rovesciarsi in distopie. Mercato ed economia, liberi dai residui vincoli della politica, applicano il darwinismo a livello globale: l’essere umano è solo un accidente, un dettaglio nei giochi dell’economia.

La scissione economia-politica
Domenico Losurdo ci invita a riflettere sui pericoli attuali, analizzando la condizione europea tra le due guerre, nel regno degli anni ruggenti dove alla crematistica succede la crisi del 1929, con i suoi effetti. Ci sono modelli che nella storia si ripetono in modo simile, mai in modo eguale. L’economia, nei decenni successivi alla dissoluzione dell’Unione sovietica, scissa dalla politica, innescando processi di omologazione, crea un essere umano astratto, globale, che nei decenni della crisi diviene il nemico da abbattere in nome di una riconquistata identità non mediata da nessun valore universale. L’universalismo è invece associato al liberismo più aggressivo, come nei decenni tra le due guerre:

«D’altro canto, la denuncia del mondo contemporaneo, devastato da “un processo di livellamento che ispira orrore” e “caratterizzato dalla superficialità, dalla nullità, e indifferenza” e soprattutto dal fatto che le civiltà storiche si staccano dalle loro radici e precipitano nel mondo tecnico ed economico e in vuota intellettualità, questa denuncia chiama esplicitamente in causa l’influenza rovinosa del “positivismo anglosassone”». [1]

La decadenza degli intellettuali
Gli intellettuali restano inascoltati in quanto rappresentanti dell’universalismo astratto, dell’economia che ha causato l’iperinflazione trasformando i popoli in moltitudini di sradicati, di alienati dalla propria storia. In assenza di valori universali, ci si rifugia nei particolarismi nazionali, nella storicità dei popoli devitalizzata dall’economia. I singoli che vivono uno stato di nullità dinanzi all’economia che tutto decide senza nessuno ascoltare, trovano sollievo all’angoscia che li attraversa fondendosi nella propria comunità di destino, radicandosi in comunità chiuse e rifiutando ogni mediazione razionale intellettuale che cerchi, nella contingenza della storia, l’universale. Il destino è la propria comunità:

«Sì, il destino rinvia in qualche modo all’essenza o essenzialità, ma “è solo un pregiudizio dell’intelletto e della sola logica ritenere che l’essenza debba sempre essere universale e generica (gattungsmäßig)”. Il destino è l’essenza, in quanto rappresenta l’elemento stabile nelle alterne vicende di una comunità storica, cioè ma determinata, ma, proprio per questo, esso è sinonimo non di universalità ma di irriducibile peculiarità. La “vera comunità popolare” chiarisce in testo più immediatamente politico si tiene a debita distanza da una “inconsistente e disimpegnato affratellamento universale”». [2]

 

La comunità come salvezza dall’angoscia
L’economia/crematistica minaccia l’esistenza, espone l’essere umano ad un senso di nullità, solo il particolarismo e la fusione senza mediazione può risolvere la solitudine del soggetto gettato tra le fauci dell’economia. Non ci si salva da soli dalle forze violente che sbriciolano e disperdono comunità millenarie, la morte biologica e specialmente morale trova nella fusione con la comunità, nel sacrificarsi per la comunità, la sua soluzione esistenziale:

«Il saper affrontare la morte in tanto può produrre l’autentica comunità in quanto è elemento costitutivo dell’autentica individualità. Ma questo è un tema largamente presente in Essere e tempo che insiste sul fato che l’angoscia singolarizzata, lungi dal ridursi a presenza isolata (isoliert), è essa solo capace di realizzarsi come autentico “essere nel mondo” e quindi in una storicità e comunità determinata». [3]

L’essere umano è un animale simbolico e relazionale. Necessita di definirsi nella storia e nella relazione con gli altri. Ogni definizione universale destoricizzata è foriera di ansie, è negatrice di un bisogno autentico negato: l’identità. Tra le due guerre, nella vecchia Europa aggredita dai fascismi quali sintomi di un male profondo che nessuno vuol guardare e capire, come nei nostri tempi, ogni universalismo è rifiutato in quanto flatus vocis, poiché l’essere umano comunitario per natura reagisce all’anonimato dell’economia con il radicamento nella propria storia:

«E come Spengler dichiara che parlare di genere in riferimento all’uomo significa far un uso in realtà di un “concetto zoologico”, così Heidegger afferma che ciò comporterebbe la riduzione dell’uomo a semplice ente intramondano, a cosa». [4]

Storicità e destino
Ogni ideale internazionale è tacciato di essere distruttore delle comunità. Il nazifascismo è stato il sintomo della malattia: l’integralismo economico. Il nazifascismo è parso un’ancora di salvezza, il ristabilimento dell’equilibrio nazionale mediante l’economia posta sotto il controllo della politica:

«Potremmo dire, facendo ricorso caro soprattutto ad altri autori minori di questo periodo, che all’ebreo manca il senso della “storicità” e di “destino” alla stessa stregua dei nemici della Germania. Si potrebbe dire che è il tipico rappresentante della Zivilisation. Non a caso si entusiasma per la parola “internazionale”: è per questo che finisce con agire oggettivamente in senso “distruttore” sulla cultura del paese in cui vive, allo stesso modo in cui “distruttrice” si presenta la “cultura occidentale nei suoi territori coloniali”».[5]

L’universalismo è la forma deteologizzata dell’universalismo cristiano, dietro il paravento dell’universalismo i popoli colgono un ordito ben preciso, l’intervento di potenze straniere per dominare popoli, per renderli sudditi privandoli della loro storia, della loro lingua, del suolo e del sangue:

«Anche per un altro ideologo del regime, Heyse, universalismo, che affonda le sue radici sempre nella tarda antichità e nel cristianesimo, cancella progressivamente “le differenze individuali degli uomini e dei popoli”. Il tema è poi onnipresente, e con una dimensione nettamente politica, Schmitt. Universalismo è qui sinonimo puro e semplice d’intervenzionismo e di <<pretesa d’ingerenza mondiale”». [6]

 

Contro la metafisica nichilistica: storia dei popoli ed universalismo
L’universale è così sostituito dal nichilismo metafisico, ovvero il fondamento di un essere umano è il destino del suo popolo, per il quale deve lottare fino alla morte, la lotta è la difesa del proprio popolo, della propria comunità dalle forze economiche internazionali che in nome di valori astratti entrano nel suolo-comunità dei popoli per infeudarli. L’Europa ed il mondo attuale vivono un clima simile a quello descritto da Losurdo tra le due guerre. La storia è sempre maestra di vita, anche se come affermava Gramsci pochi l’ascoltano. Dinanzi all’avanzare dei particolarismi senza fondamento universale, ci è di ausilio la tradizione filosofica. Herder ci ricorda che tutti gli esseri umani condividono la stessa umanità, le stesse potenzialità, ma nella storia il potenziale simbolico si storicizza nei singoli popoli che non perdono l’unità della loro comune umanità pur nella differente espressione:

«Tutti quanti siamo uomini, e come tali rechiamo in noi il genere umano, ovvero al genere umano noi apparteniamo. […] Umanità è il carattere della nostra specie; ma esso ci é innato solamente come predisposizione, e propriamente richiede di venir educato. Eppure è necessario ch’esso sia, nel mondo, la meta delle nostre aspirazioni, la somma delle nostre azioni, il nostro valore: non conosciamo infatti nessuna angelicità insita nell’uomo, e se il demone che ci governa non è un demone umano, allora noi diventiamo tormentatori degli uomini. L’elemento divino che c’è nel nostro genere è dunque l’educazione all’umanità. […] Umanità è il patrimonio e il risultato di tutti gli sforzi umani, è per così dire l’arte della nostra specie. L’educazione all’umanità è un’opera che deve essere continuata incessantemente; altrimenti tutti noi, che si appartenga ai ceti superiori o a quelli inferiori, ripiombiamo nella rozza animalità, nella brutalità». [7]

 Il nichilismo metafisico, il particolarismo senza fondamento universale è uno spettro che si aggira per l’Europa ed è il veicolo concreto dell’integralismo economico e dello Stato ad esso asservito che lascia i singoli al loro destino di solitudine, mentre sovvenziona il mondo imprenditoriale. A tale urgenza la filosofia deve rispondere senza compromessi. Senza risposte libere dal conformismo non può che scomparire nell’astratto mondo del totalitarismo economicistico e con essa scompare anche la speranza della prassi. Senza risposte mediate dalla razionalità filosofica la politica non saprà fronteggiare in modo adeguato le spinte reazionarie che si stanno delineando in Europa. Solo il ristabilirsi di un nuovo umanesimo in cui gli esseri umani sono riconosciti nella loro concretezza e nel contempo nella loro universalità può limitare l’avanzata dell’inverno dello spirito.

Salvatore A. Bravo

[1] Domenico Losurdo, La comunità, la morte, l’Occidente, Heidegger e l’ideologia della guerra, Bollati Boringhieri, 1991, pag. 28.

[2] Ibidem, pag. 37.

[3] Ibidem, pag. 48.

[4] Ibidem, pag. 57.

[5] Ibidem, pag. 99.

[6] Ibidem, pag. 83.

[7] Herder www.filosofico.net


Stefano G. Azzarà – Domenico Losurdo (1941-2018), in memoriam.


Losurdo nell'aprile 2011

Domenico Losurdo nell’aprile 2011

Domenico Losurdo

(1941-2018), in memoriam

di Stefano G. Azzarà

Università di Urbino

 

Sinistrainrete

 

A chi, per lusingarlo o con sincera ammirazione, gli faceva notare quanto originale e personale fosse il suo modo di pensare, Hegel rispondeva che se mai fosse stato presente qualcosa di esclusivamente personale nel suo sistema, questa cosa sarebbe stata senz’altro sbagliata. È un episodio che Domenico Losurdo era solito raccontare spesso ai propri allievi, per spiegare quale fosse il giusto atteggiamento conoscitivo degli studiosi e in particolare degli storici della filosofia. Ma è anche una citazione che sintetizza in maniera assai efficace il modo di praticare il lavoro filosofico al quale Losurdo stesso ha sempre cercato di attenersi. A differenza di molti altri intellettuali, i quali anche quando parlano del mondo finiscono in realtà per parlare in primo luogo di se stessi e della propria distinzione nei suoi confronti, in Losurdo era infatti assolutamente preminente il rigore dell’oggettività. La volontà pervicace, cioè – radicata in una scelta argomentata sul piano teoretico in favore della “via hegeliana” rispetto alla “via fichtiana” – di concepire tale lavoro come uno sviluppo il più possibile coerente delle determinazioni inscritte nell’oggetto, ovvero nella cosa stessa. L’idea che il movimento storico, la cui comprensione era ciò che gli stava più a cuore, scaturisse non dall’attività produttiva della coscienza che incontra il reale e se ne appropria o lo risolve in se stessa, oppure se ne tiene a distanza e lo deplora per specchiarsi nella propria superiore immacolatezza, ma da una contraddizione che è inscritta già nell’oggettività. In un tessuto ontologico, cioè, che è intrinsecamente lacerato, scisso. Agitato da una conflittualità immanente che con la sua trama tragica costituisce il presupposto del dolore del negativo e che, trasmettendosi semmai al soggetto che se ne fa carico nella relazione, chiama sempre di nuovo all’appello la fatica del concetto.

Sebbene lui stesso si sarebbe con ogni probabilità sottratto a questo genere di considerazioni, c’è però, a guardar bene, qualcosa di decisamente personale che possiamo comunque richiamare, a proposito di questo lavoro di ricerca giunto all’improvviso a conclusione dopo cinquantun anni (al 1967 risalgono la sue prime pubblicazioni); qualcosa cioè che può assumere un valore generale che vada al di là dell’esperienza soggettiva di un singolo. Losurdo, infatti, ha dovuto faticare e lottare con enorme determinazione per il riconoscimento delle proprie posizioni, sia in ambito accademico che in altri contesti. Ma questo sforzo necessario non è stato il marchio del suo percorso individuale, bensì la presa di coscienza del fardello che era ricaduto su un’intera generazione di intellettuali costretti dalla storia a fare i conti con il tramonto di un’epoca e di un intero mondo etico. E destinati ad affrontare questa crisi in maniere profondamente diverse e ad uscirne lungo percorsi che alla fine si riveleranno divergenti.

Da hegeliano e da marxista, Losurdo era assolutamente convinto della politicità intrinseca della filosofia: la filosofia è in primo luogo il nostro tempo appreso nel concetto e proprio per questo motivo la politica ne costituisce il primo e più importante banco di prova. Non certamente nel senso che questa disciplina debba limitarsi a una mera descrizione del mondo, o addirittura a una sua giustificazione, come sempre gli rimproveravano gli interpreti malevoli del motto di Hegel su reale e razionale: anche volendo, questo non sarebbe possibile perché la filosofia, quando è realmente tale, conserva sempre una missione di trascendenza che è la conseguenza inevitabile della sua potenza discorsiva universalistica. Lo è, piuttosto, nel senso che il giudizio politico è il vero experimentum crucis della ragione. E la capacità di esercitarlo in maniera corretta può al limite falsificare intere filosofie, fino a dimostrare, spesso, la meschinità delle costruzioni teoriche anche più grandiose.

Enorme è stata ad esempio la profondità filosofica di Nietzsche nel confrontarsi con i conflitti della propria epoca e nel rivelare l’ipocrisia dei sentimenti morali e dello spirito del progresso, dietro i quali si cela spesso nient’altro che una diversa forma di volontà di potenza, per quanto priva del coraggio e della buona coscienza di chi sa riconoscere la necessità della forza e persino della schiavitù. Oppure quella di Heidegger nel denunciare nel cuore della metafisica soggettocentrica della modernità e nello sviluppo della tecnica e delle forze produttive capitalistiche un progetto che ha i caratteri del dominio. Oppure ancora la lucidità di Schmitt nel mettere a nudo le aporie di quel pacifismo idealistico wilsoniano e liberale dietro il quale, ancora ai nostri giorni, si muove l’idea di un nuovo ordine mondiale tipicamente imperiale; un ordine che supera in una direzione globale ogni localizzazione e ha già posto fine all’ordinamento eurocentrico della terra per sostituirlo con un ordinamento diverso ma non meno aggressivo. Tuttavia, nel momento in cui questi intellettuali dalla statura gigantesca sono stati posti dagli eventi davanti alla necessità del giudizio politico, alla scelta di fronte al corso del mondo, ecco che proprio la loro pretesa di trascendenza filosofica è venuta immediatamente meno. E alle molteplici contraddizioni dell’universalismo, nella cui esplosione si annunciava già all’epoca la crisi della modernità, non sono riusciti a contrapporre nient’altro che una miserevole apologia del particolarismo. Ragion per cui, concludeva Losurdo, «nonostante la sua radicalità e gli straordinari risultati conoscitivi che permette di conseguire», la loro dirompenza decostruttiva, e cioè «la distruzione dei fiori immaginari» esercitata da quelle celebrate filosofie, finiva in realtà «col rinsaldare le catene della schiavitù salariata e della schiavitù vera».[1] Così che quei potenti dispositivi si rivelavano essere una critica dell’ideologia raffinatissima ma di natura tutta reazionaria.

La politica come “dissacrazione” del discorso filosofico e riconduzione alla sua sostanza, dunque. O forse meglio: come quella sua mondanizzazione che, facendola scendere dal cielo delle idee alla terra del conflitto secolare, esalta semmai, anche richiamandola al suo compito, le potenzialità umanistiche di questa forma di sapere, la sua natura progettuale. «Se Hegel ha insegnato l’ineludibilità della situazione storica», insomma, «Marx insegna l’ineludibilità in essa dei conflitti politico-sociali» e in questo modo definisce da quel momento «la qualità nuova del discorso filosofico»;[2] il quale adesso, di fronte a tali conflitti, è obbligato in quanto tale – e non in virtù delle sue eventuali ricadute morali – a prendere posizione. Ebbene, poiché ha praticato in prima persona questo «engagement oggettivo» in tempi che per la politica erano divenuti assai difficili – in tempi di riflusso nei quali ogni possibilità di trasformazione del mondo era stata negata e il lavoro intellettuale veniva sempre più ad essere concepito come apologia, edificazione, consolazione e supplemento d’anima rispetto alla mera amministrazione di ciò che è esistente –, a Domenico Losurdo come ad altri intellettuali della sua generazione questo prendere posizione è spesso valso le diffidenze e i sospetti di chi, dietro ogni ragionamento che non occulti la propria politicità militante, avverte subito il sentore della propaganda. Di una propaganda fuori luogo e fuori tempo massimo, oltretutto, visto che alle sue spalle – e cioè in quel campo filosofico-politico che a lungo si era richiamato all’emancipazione del genere umano – si poteva riconoscere non il fragore di un’avanzata trionfale ma il tono sordo di un esercito in rotta che nella sua fuga dal marxismo (ma anche dalla storia stessa) si andava disperdendo in mille direzioni.

Proprio per questo allora, proprio perché teneva sempre unite filosofia e politica in un’epoca che aveva voltato le spalle alla rivoluzione, proprio perché, dato lo spirito dei tempi, l’accusa di parzialità o partigianeria sarebbe stata sempre dietro l’angolo non meno di quella di giustificazionismo, Losurdo sapeva che per farsi riconoscere sul terreno accademico avrebbe dovuto essere assolutamente impeccabile proprio su quel presunto piano filosofico “puro”, e in apparenza asettico rispetto ad ogni conflitto, del quale i suoi critici interlocutori culturali – sempre pronti a denunciare l’ideologia ovunque tranne che presso se stessi – si ergevano a custodi. Solo in questo modo, solo anticipando ogni obiezione e scavando minuziosamente tra le fonti, solo padroneggiando a menadito gli autori di cui si occupava – e senza sottrarsi alle questioni teoretiche più sottili – poteva permettersi di portare la filosofia sul terreno di una politica intesa come la trasposizione sul terreno culturale della contesa tra emancipazione e de-emancipazione. Anche grazie a una cultura sterminata, va aggiunto, che gli consentiva di spaziare lungo due millenni e più di una storia universale che al suo sguardo abbracciava anche quel mondo negletto e misconosciuto che sta al di là dei confini dell’Occidente. Ecco, allora, che coloro che prima ancora che le posizioni particolari ne mettevano in discussione il metodo raramente hanno avuto il coraggio di sfidarlo in pubblico, ben sapendo che chi lo aveva fatto ne era uscito per lo più con le ossa rotte. Ecco, ad esempio, che anche i più rinomati specialisti di Hegel, e soprattutto quelli più risoluti nel rinchiudere il discorso del filosofo tedesco in una dimensione conservatrice e prevalentemente coscienzialista, ne rispettavano il giudizio e si dimostravano improvvisamente concilianti quando gli capitava di confrontarsi con lui.

Torniamo sul terreno dell’oggettività, allora, dal quale abbiamo preso le mosse. Losurdo è stato uno degli studiosi italiani più noti e tradotti al mondo. Si è confrontato anzitutto con la filosofia classica tedesca sulla scorta dell’eredità di Arturo Massolo e Pasquale Salvucci e del loro impianto hegelo-marxiano e di quel periodo storico e filosofico ha cambiato per sempre la nostra conoscenza.

Con Autocensura e compromesso nel pensiero politico di Kant ha sottratto il filosofo tedesco alla «rispettabilità borghese e filistea»[3] consacrata dalla storiografia filosofica e cioè all’ambito del conservatorismo o del moderatismo politico nel quale era stato inscritto dalla tradizione degli studiosi liberali ma anche, nonostante Engels, da quella degli studiosi marxisti: in realtà, la «negazione del diritto di resistenza» in Kant rispondeva certamente all’opportunità di «rassicura[re] le corti tedesche» ma era soprattutto una mossa che «permetteva di affermare l’irreversibilità della Rivoluzione francese e quindi di condannare i tentativi di restaurazione».[4] Contro le insorgenze reazionarie come la Vandea e contro ogni tentativo di riscossa feudale, perciò, il filosofo tedesco continuerà ad essere “giacobino” perché continuerà ad aspettarsi, persino con troppa ingenuità, che «in seguito alla trasformazione prodotta da alcune rivoluzioni [nach manchen Revolutionen der Umbildung] sorga finalmente quello che è il fine supremo della natura, cioè un generale ordinamento cosmopolitico, che sia la matrice, nella quale vengano a svilupparsi tutte le originarie disposizioni della specie umana».[5]

Con saggi come Fichte, la rivoluzione francese e l’ideale della pace perpetua,[6] oppure Fichte, la resistenza antinapoleonica e la filosofia classica tedesca[7] o ancora Fichte e la questione nazionale tedesca,[8] Losurdo ha scandagliato poi la dialettica che ha animato la parabola filosofico-politica di una figura chiave della storia culturale e politica tedesca ma, più in generale, dell’ideologia europea: se in un primo momento «alla Francia rivoluzionaria, Fichte guarda […] come al paese che non solo avrebbe potuto o dovuto aiutare la Germania a scuotere il giogo del feudalesimo e dell’assolutismo monarchico, ma che avrebbe anche contribuito in modo decisivo alla realizzazione di una pace duratura o perpetua in Europa e nel mondo», ecco che con l’invasione napoleonica e i Befreiungskriege, al modificarsi della situazione concreta, si produce un mutamento netto. Un mutamento all’insegna della gallofobia e della teutomania, però; un mutamento che lo porterà lontano da ogni equilibrio critico e a respingere in toto, assieme all’inviso napoleonismo, anche lo spirito del 1789 in un primo momento esaltato. E a contestare dunque la rivoluzione politica ma soprattutto quell’universalismo filosofico che ne era alla base, e che dagli esiti della rivoluzione era stato tradito, dando vita in tal modo alla lunga stagione del particolarismo culturale tedesco, con le sue drammatiche ripercussioni tra le due guerre mondiali.

Ed eccoci a Hegel, infine, studiato in testi come Hegel, questione nazionale, Restaurazione,[9] Tra Hegel e Bismarck,[10] La catastrofe della Germania e l’immagine di Hegel,[11] Hegel e la libertà dei moderni[12] e infine Hegel e la Germania:[13] non solo per questo grande filosofo «La libertà della persona è un diritto inalienabile e imprescrittibile e non c’è positivo ordinamento giuridico che possa annullarlo»,[14] farà notare Losurdo, ma questa posizione andrà anche molto al di là del contrattualismo dell’epoca. Già nelle lezioni sulla Filosofia del diritto, per Hegel «Il Notrecht [era] diventato il diritto del bisogno estremo, dell’affamato che rischia ti morire d’inedia e che pertanto non solo ha il diritto, ma “il diritto assoluto”» di rubare il pezzettino di pane capace di assicurargli la sopravvivenza, “il diritto assoluto” di violare il diritto di proprietà, la norma giuridica che condanna comunque il furto».[15] Lungi dall’essere il difensore filosofico della Restaurazione e l’ispiratore del militarismo prussiano, dobbiamo riconoscere in lui, in questa prospettiva, lo scopritore di un continente filosofico e politico interamente nuovo, un continente che va molto al di là del liberalismo e che toccherà poi a Marx, non per caso, esplorare a fondo.

Ma proprio con il liberalismo, ossia con le posizioni culturali che sono risultate vincitrici alla fine di quella ulteriore guerra mondiale che è seguita alla Seconda guerra dei Trent’anni, Losurdo andava affrontando nel frattempo un corpo a corpo che si sarebbe rivelato ultracedennale. A metà degli anni Novanta ne Il revisionismo storico sottolineava l’emergere di una «gigantesca rilettura del mondo contemporaneo» il cui obiettivo era in realtà «la liquidazione della tradizione rivoluzionaria dal 1789 ai giorni nostri» e che rappresentava dunque una «svolta storiografica e culturale epocale»[16] che era al contempo anche una svolta interna al liberalismo stesso. Il quale, assorbito «il radicale mutare dello spirito del tempo nel passaggio dalla grande coalizione antifascista alla Guerra fredda» e maturata «la conseguente elaborazione di un’ideologia “occidentale”»,[17] si liberava adesso delle componenti democratizzanti acquisite nel corso del suo confronto storico con il movimento radicale e con quello socialista per tornare al proprio passato e riorientarsi in chiave nettamente conservatrice. Quando dieci anni più tardi questo percorso sarà compiuto, e cioè quando l’affermazione del neoliberalismo si sarà consolidata, ecco allora la Controstoria del liberalismo, un testo con il quale viene definitivamente confutata la classica definizione del liberalismo come teoria della libertà e dei diritti individuali: il liberalismo rappresenta semmai sul piano culturale «un’auto- designazione orgogliosa, che ha al tempo stesso una connotazione politica, sociale e persino etnica».[18] Con esso, cioè, «Siamo in presenza di un movimento e di un partito che intende chiamare a raccolta le persone fornite di un’”educazione liberale” e autenticamente libere, ovvero il popolo che ha il privilegio di essere libero, la “razza eletta”[…] la “nazione nelle cui vene circola il sangue della libertà”». La teoria liberale è dunque in primo luogo l’autocoscienza della comunità dei liberi, dei «ben nati»,[19] la quale crea uno spazio sacro che distingue uomini e sottouomini a partire da precise clausole d’esclusione fondate sul censo, sull’etnia, sul genere.

Ecco allora che proprio la tanto celebrata «limitazione del potere» consente alla società civile di sfuggire alla mediazione dello Stato o di neutralizzare quella sua universalità formale che, per quanto spesso posta a copertura di un blocco di interessi di classe, è comunque diversa dal mero nulla. E si configura perciò come la mossa politica che sollecita nel sistema dei bisogni l’«emergere di un potere assoluto senza precedenti», invitando a una delimitazione della comunità dei liberi che si contrappone a quella dei servi non solo sul piano filosofico ma anche sul piano concretamente materiale e geografico. E fungendo infine da legittimazione di una conquista coloniale che attraversa tutta l’età moderna e che con le sue pratiche di sterminio liquida ogni pretesa liberale di “individualismo”.

Proprio la volontà pervicace di limitare la dignità umana al solo Occidente e l’incapacità di pensare il concetto universale di uomo, tra l’altro, è il terreno filosofico che Losurdo mostrerà accomunare il liberalismo e il pensiero reazionario, del quale si è occupato una prima volta con La comunità, la morte e l’Occidente e una seconda con il suo monumentale Nietzsche, il ribelle aristocratico. Con la sua «polemica contro la modernità e il presente»,[20] il filosofo considerato a lungo “inattuale” si collocava in realtà inizialmente in tutto e per tutto sul terreno del liberalismo europeo e della sua denuncia, oggi ignorata o rimossa, dell’avanzata massificante dei movimenti socialisti e democratici, e si identificava con la concomitante esaltazione liberale del primato dei popoli europei sui sottouomini delle colonie, destinati ad essere sottomessi e a erogare lavoro servile. E saranno semmai la pavidità e la debolezza del liberalismo stesso, ormai in difficoltà e disposto al compromesso di fronte alla rivolta dei barbari proletari e alle loro grida rivoluzionarie, a spingerlo, sul finire della sua vita cosciente, al «radicalismo aristocratico» e all’ideazione di quel «partito della vita» che, per la salvezza della civiltà occidentale, arriverà ad auspicare l’«annientamento di milioni di malriusciti»[21] e delle «razze decadenti». Ma anche il pensiero di Heidegger, del resto, non può minimamente essere compreso senza far riferimento a quel «pathos dell’Occidente»[22] che all’epoca della Prima guerra mondiale si accompagnava all’esaltazione della Gemeinschaft, della Entscheidung e della morte e che era condiviso da entrambe le «ideologie della guerra» in campo. Né la sua duratura adesione al nazismo può essere spiegata senza tener conto di come quel movimento fosse anzitutto la prosecuzione, radicalizzata e proiettata sul continente europeo, della lunga avventura coloniale dell’Europa stessa, con le sue pratiche di de-umanizzazione e di sterminio fondate sulla riduzione del genere umano a una mera specie zoologica già su un piano che pretendeva di essere filosofico.

Non possiamo che ricostruire per sommi capi qui una produzione intellettuale gigantesca, che ha scandagliato i più diversi aspetti della tradizione filosofico-politica europea (31 sono le monografie pubblicate, altrettanti i volumi da Losurdo curati, 200 i saggi usciti su rivista, come attesta la bibliografia che egli stesso aveva approvato e che riportiamo in appendice a questo testo). Rimane però fermo – e ci sarà modo in futuro di precisarlo meglio – che in tutto questo lavoro l’impegno principale della sua esperienza intellettuale è stato dedicato a quel momento di questa tradizione che certamente più gli stava a cuore e cioè all’auto-critica e alla ricostruzione del materialismo storico. Se la storia del marxismo è la storia di un’ininterrotta catena di “crisi” che inizia già con Marx e che più volte si sono manifestate nel corso del Novecento, muovendo da posizioni e con intenzioni ed esiti diversi Losurdo e la sua generazione si sono scontrati infatti con la più importante di queste crisi, con la crisi ultima e forse definitiva. Perché la loro riflessione sulla tradizione storica e culturale del movimento operaio è avvenuta quando questo movimento e i suoi apparati intellettuali erano ormai a pezzi e non sembrava sensato né produttivo avventurarsi per quella via: dopo cioè la sconfitta di sistema intervenuta dalla fine degli anni Ottanta del Novecento.

Losurdo lo ha fatto in numerosi libri: Marx e il bilancio storico del Novecento,[23] Utopia e stato d’eccezione,[24] Antonio Gramsci dal liberalismo al «comunismo critico,[25] Fuga dalla storia?,[26] La lotta di classe[27] e infine Il marxismo occidentale,[28] oltre che in ancor più numerosi saggi. E lo ha fatto, soprattutto, evitando la strada consolatoria e auto-assolutoria di chi, la maggioranza, spiegava le ragioni di un fallimento scaricando le colpe su un unico individuo (Stalin. Storia e critica di una leggenda nera)[29] e scegliendo semmai – scandalosamente – di andare al cuore del problema, dissodando in maniera impietosa i limiti interni al marxismo stesso, senza risparmiarne i fondatori.

Losurdo ricorderà più volte, di fronte al nichilismo e alla autofobia che dilagavano a sinistra dopo la fine dell’Unione Sovietica – e che rendevano anche questo campo non meno ostile alle sue tesi di quanto non fosse il campo liberale –, quanto l’esperienza del marxismo e del comunismo storico avessero cambiato in profondità le sorti del mondo e dello stesso Occidente capitalistico, costringendo quest’ultimo a un percorso di democratizzazione che aveva in parte dovuto accogliere persino il programma del Manifesto comunista.[30] Tuttavia, non esitava a riflettere sulle ragioni di una sconfitta inequivocabile, le cui radici andavano individuate nell’incapacità del marxismo di farsi istituzione e di dar vita, nel consenso più ampio possibile, a quella stabilizzazione che sarebbe stata indispensabile per una normalità socialista e per un suo funzionamento rispettoso degli stessi diritti individuali. Animato da un insormontabile afflato messianico, desideroso di una palingenesi totale del mondo, il marxismo novecentesco non aveva in realtà tagliato i ponti sino in fondo con l’anarchismo. E, nel suo sogno di una società completamente “altra” rispetto a quella esistente, aveva immaginato la fine delle nazioni, del mercato, del denaro, del potere, lo svanire del conflitto stesso, rivelandosi – ogni volta che l’utopia sognata si scontrava infine con le durezze della storia e del conflitto – incapace di fuoriuscire da un perpetuo stato d’eccezione e di farsi Stato all’insegna del governo della legge, conciliando comunità e individuo. Non sarà sufficiente, in questo senso, la rivoluzione filosofica e politica operata da Lenin, il quale porterà per la prima volta il marxismo fuori dai propri limiti eurocentrici coniugando la lotta di classe del proletariato europeo con le lotte di emancipazione nazionale dei paesi colonizzati dall’Occidente e comprendendo al tempo stesso la complessità di un processo rivoluzionario che, in un mondo tanto ostile, continuava in forme nuove anche dopo la conquista del potere.

Da qui la scelta di Losurdo di andare controcorrente anche rispetto ai propri compagni, sfidando con caparbietà il rischio dell’isolamento fino, alla lunga, a sconfiggerlo. La scelta di criticare a fondo il marxismo occidentale, a partire da quella insuperata subalternità nei confronti del liberalismo che si esprimeva in maniera macroscopica nella sua crescente indifferenza verso la questione coloniale e che aveva costretto l’intera sinistra a rendersi ad un certo punto «assente». Da qui soprattutto, anche alla luce del diverso esito dell’esperienza del socialismo cinese (da lui sempre rispettato e osservato con attenzione simpatetica) rispetto a quello russo e occidentale, la necessità di ripensare integralmente i fondamenti del marxismo. A partire da una rilettura della lotta di classe che fosse capace di oltrepassare lo schematismo binario e economicistico di chi, ad ogni livello, vede un’unica e sola contraddizione, quella di un proletariato mai ben definito contro una borghesia non meno malintesa, per riproporla invece come una teoria generale del conflitto che presiede ad ogni processo di emancipazione (e che ha a che fare in primo luogo con la lotta per il riconoscimento della propria dignità umana da parte dei gruppi esclusi e discriminati). Una teoria in grado di illuminare le grandi crisi storiche, inoltre, quelle accelerazioni nelle quali non c’è mai un’unica dimensione ma sempre la compresenza di una pluralità di contraddizioni oggettive. E in grado di comprendere, da questa prospettiva, l’intreccio indissolubile tra questione sociale e questione nazionale, o questione di genere, come quello tra universale e particolare, alla ricerca di un universalismo concreto che consenta di pensare la comune umanità fuori da ogni astrattezza irenistica.

La durezza del conflitto di classe, ma anche quella della guerra civile europea o internazionale e dello stato di guerra mondiale permanente che aveva accompagnato il processo di decolonizzazione, avevano inevitabilmente esaltato e cristallizzato la dimensione religiosa e messianica del marxismo, quella componente che pure si era rivelata indispensabile nei processi di mobilitazione delle masse necessari in quella lunghissima fase. A lungo persuasi dell’imminenza di una rottura rivoluzionaria che sarebbe presto dilagata in tutto il pianeta a partire dai punti alti dello sviluppo industriale, e ancora più a lungo accerchiati sul piano geopolitico ma anche su quello culturale e psicologico dalla potenza egemonica del mondo capitalistico, i marxisti avevano perduto il senso della storia e disimparato la dimensione dei tempi lunghi che sono propri dei movimenti reali. Il fatto cioè che la trasformazione non ha la struttura temporale dell’attimo e non conduce a un’immediata coincidenza tra il corso degli eventi e il loro significato, a una totale riappropriazione, trasparenza e pienezza di senso, ma è essa stessa il percorso di una faticosa catena di contraddizioni, fatta di conquiste e retrocessioni legate ai rapporti di forza e in cui ogni tappa non è mai assicurata una volta per tutte. Negli auspici di Losurdo, alla luce del bilancio storico del XX secolo e delle sue tragedie, il marxismo doveva affrontare perciò un processo di secolarizzazione complicato e non indolore, per proseguire quel passaggio dall’utopia alla scienza (intesa come la Wissenschaft hegeliana) che era stato indicato da Engels ma si era interrotto per via delle urgenze del conflitto permanente dell’età contemporanea. Per riscoprire, cioè, quella forma di coscienza che al suo sorgere ne aveva rappresentato la radicale novità: quel peculiare e quasi miracoloso equilibrio tra critica e legittimazione del moderno che nessun’altra tendenza filosofico-politica è mai riuscita sinora ad elaborare.

Pensiero dialettico significa comprensione della processualità della storia e della conoscenza umana. Ma è anche comprensione della loro natura strutturalmente conflittuale e perciò è anche consapevolezza della totalità sempre lacerata alla quale il conflitto allude. È per questo che l’Aufhebung toglie e conserva a un tempo, integrando ad un nuovo livello e in una nuova posizione anche quella parte di verità che è sempre presente persino presso il nemico assoluto. Marxismo, alla luce di questa considerazione e cioè come materialismo storico, non significa rifiuto indeterminato della realtà ma, a partire dalla comprensione della dimensione strategica e razionale della sua struttura più profonda, è negazione sempre determinata. Enormi e a volte indicibili sono le contraddizioni della modernità e del progresso, a partire dal dominio totale espresso già nell’accumulazione originaria, passata per la brutale de-umanizzazione di intere classi sociali e di interi popoli e sfociata non di rado nello sterminio, e inaccettabile è ancora oggi l’ingiustizia dell’ordine borghese all’interno e al di fuori della metropoli. Tuttavia, questa stessa modernità è l’epoca che ha scoperto il concetto universale di uomo e che persino nel dolore del diventare-astratto di ogni rapporto sociale o persino semplicemente umano, ha saputo distillare quel progresso che consiste nel superamento dei vincoli di dipendenza personale e diretta dell’uomo sull’uomo, lasciandosi alle spalle il feudalesimo e mettendo in discussione la schiavitù. Quell’epoca che ha sviluppato le forze produttive materiali integrali del genere umano, spezzando la ristrettezza dei bisogni ma anche delle soggettività e dando vita a un’ininterrotta circolazione delle idee.

Non si torna indietro rispetto ad essa. La critica della modernità, come comprensione delle sue condizioni di possibilità e dei suoi limiti, è dunque possibile solo a partire dal riconoscimento delle sue conquiste. Dall’eredità, cioè, dei punti alti di una tradizione che ha certamente a che fare con l’orrore ma che è anche quella civiltà che, attraverso i suoi esponenti più lungimiranti, ha saputo vedere il proprio orrore e denunciarlo. Muovendo dalla conoscenza di queste contraddizioni, ma anche di quelle che accompagnano la storia del marxismo e del comunismo storico, bisogna perciò intraprendere un percorso di apprendimento che tagli definitivamente i ponti con il dogmatismo degli assoluti senza al contempo cadere nel relativismo del postmoderno e della sua impotente negazione ermeneutica di ogni oggettività e cioè della politica e della trasformazione del mondo.

Domenico Losurdo – al quale dobbiamo tra l’altro l’ispirazione iniziale che ha dato vita a questa rivista e che di “Materialismo Storico” presiedeva il Comitato scientifico – ci ha lasciati nel momento più difficile. Nel momento cioè in cui la crisi della democrazia moderna in Occidente e nel resto del mondo sembra piegare in direzione di una inquietante ridefinizione delle forme politiche che promuove nuove modalità di esclusione e discriminazione, all’interno di ciascun paese come su scala internazionale. In un’epoca nella quale la ricolonizzazione del pianeta, che parla nei termini di quel Linguaggio dell’impero[31] da lui così accuratamente decostruito e che ha fatto seguito alla delegittimazione della rivoluzione anticoloniale, fa svanire sempre più in lontananza le speranze di un’epoca di pace espresse in un libro come Un mondo senza guerre.[32] Ci ha lasciati però con gli strumenti migliori e più affilati per fronteggiare questo mondo a partire dai suoi conflitti cruciali e per criticarlo, ovvero per comprenderne le ragioni, le condizioni di possibilità. E per contrapporgli infine uno scenario diverso, per quanto sempre fondato nell’oggettività di ciò che è reale e e razionale non nei sogni e nei desideri di chi pensa di potersi permettere di ignorare la durezza del mondo: come scriveva Marx a Ruge – un’altra citazione molto amata da Losurdo –, «Noi non anticipiamo il mondo ma dalla critica del mondo vecchio vogliamo trovare quello nuovo».

C’era un’ultima cosa che Losurdo ripeteva spesso ai suoi allievi, citandola criticamente come esempio negativo di intimismo, di soggettivismo narcisistico e «ipocondria dell’impolitico».[33] È una celebre poesia scritta da Ungaretti nel 1916, in piena guerra mondiale, dal titolo San Martino sul Carso:

Di queste case
Non è rimasto
Che qualche
Brandello di muro
Di tanto
Che mi corrispondevano
Non è rimasto
Neppure tanto
Ma nel cuore
Nessuna croce manca.
È il mio cuore
Il paese più straziato.[34]

Ebbene, il nostro cuore oggi è straziato ma, come già ai tempi del poeta, assai più gravi di quelli della nostra coscienza sono gli strazi che abbiamo attorno a noi: le guerre che continuano a dilaniare il pianeta, la sopraffazione imperialistica che non cessa, l’odio razziale che monta, il rischio di una crisi radicale di civiltà e del riemergere di pulsioni che ci eravamo illusi fossero state superate per sempre. Di fronte a questi pericoli non possiamo certo far rivivere Domenico Losurdo. Ma anche grazie a questa piccola rivista, alla quale tanto teneva, possiamo far durare ancora – e a lungo – il suo pensiero, cercando di esserne all’altezza.

Stefano Azzarà, Università di Urbino

[1] Domenico Losurdo, Le catene e i fiori. La critica dell’ideologia tra Marx e Nietzsche, «Hermeneutica» 6, 1987, p. 108.

[2] Domenico Losurdo, L’engagement e i suoi problemi, in G. M. Cazzaniga, D. Losurdo, L. Sichirollo, Prassi. Come orientarsi nel mondo, Urbino, QuattroVenti (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici), 1991, p. 128.

[3]Domenico Losurdo, Autocensura e compromesso nel pensiero politico di Kant, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici/Bibliopolis, Napoli 1983, p. 14.

[4] Ivi, p. 31.

[5] Immanuel Kant, Idee zu einer allgemeinen Geschichte in weltbürgerlicher Absicht [1784], tr. it.: Idea per una storia universale in prospettiva cosmopolitica. Testo tedesco a fronte, Mimesis, Milano 2015, citato in Domenico Losurdo, Autocensura e compromesso nel pensiero politico di Kant, op. cit., p. 27

[6] Domenico Losurdo, Fichte, la rivoluzione francese e l’ideale della pace perpetua, «Il Pensiero», pp. 131-78.

[7] Domenico Losurdo, Fichte, la resistenza antinapoleonica e la filosofia classica tedesca, «Studi storici» 1/2, pp. 189-216.

[8] Domenico Losurdo, Fichte e la questione nazionale tedesca, «Il cannocchiale. Rivista di studi filosofici» 1-2, pp. 53-79.

[9] Domenico Losurdo, Hegel, questione nazionale, Restaurazione. Presupposti e sviluppi di una battaglia politica, Pubblicazioni dell’Università, Urbino 1983.

[10] Domenico Losurdo, Tra Hegel e Bismarck. La rivoluzione del 1848 e la crisi della cultura tedesca, Editori Riuniti, Roma 1983.

[11] Domenico Losurdo, La catastrofe della Germania e l’immagine di Hegel, Guerini, Milano 1987.

[12] Domenico Losurdo, Hegel e la libertà dei moderni, Editori Riuniti, Roma 1992.

[13] Domenico Losurdo, Hegel e la Germania. Filosofia e questione nazionale tra rivoluzione e reazione, Guerini – Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Milano 1997.

[14] Domenico Losurdo, Hegel e la libertà dei moderni, op. cit., p. 74.

[15] Ivi, p. 115. Cfr. Domenico Losurdo, cura e trad. di G. W. F. Hegel, Le filosofie del diritto. Diritto, proprietà, questione sociale, Leonardo/Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Milano 1989.

[16] Domenico Losurdo, Il revisionismo storico. Problemi e miti, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 7.

[17] Ivi, p. 18.

[18] Domenico Losurdo, Controstoria del liberalismo, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 242.

[19] Ivi, p. 238.

[20] Domenico Losurdo, Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 326.

[21] Friedrich Nietzsche, citato in Domenico Losurdo, Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico, op. cit., p. 644.

[22] Domenico Losurdo, La comunità, la morte, l’Occidente. Heidegger e l’«ideologia della guerra», Torino, Bollati Boringhieri 1991, p. 89.

[23] Domenico Losurdo, Marx e il bilancio storico del Novecento, Bibliotheca, Roma 1993.

[24] Domenico Losurdo, Utopia e stato d’eccezione. Sull’esperienza storica del «socialismo reale», Laboratorio politico, Napoli 1996.

[25] Domenico Losurdo, Antonio Gramsci dal liberalismo al «comunismo critico, Gamberetti, Roma 1997.

[26] Domenico Losurdo, Fuga dalla storia? Il movimento comunista tra autocritica e autofobia, La Città del Sole, Napoli 1999.

[27] Domenico Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, Roma-Bari 2013.

[28] Domenico Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza, Roma- Bari 2017.

[29] Domenico Losurdo, Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, Carocci, Roma 2008.

[30] Cfr. Domenico Losurdo, Introduzione e traduzione (in collaborazione con Erdmute Brielmayer) di K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista, Laterza, Roma-Bari 1999.

[31] Domenico Losurdo, Il linguaggio dell’Impero. Lessico dell’ideologia americana, Laterza, Roma-Bari 2007.

[32] Domenico Losurdo, Un mondo senza guerre. L’idea di pace dalle promesse del passato alle tragedie del presente, Carocci, Roma 2016.

[33] Domenico Losurdo, Ipocondria dell’impolitico. La critica di Hegel ieri e oggi, Milella, Lecce 2001.

[34] Giuseppe Ungaretti, San Martino sul Carso, in Id., Vita d’un uomo. 106 poesie 1914-1960, Mondadori, Milano 1992, p. 36; ed. orig. In II Porto Sepolto, Stabilimento tipografico friulano, Udine, dicembre 1916.



Alcuni libri
di Domenico Losurdo

 

La catastrofe della Germania e l'immagine di Hegel

La catastrofe della Germania e l’immagine di Hegel

Editore: Guerini e Associati, 1988

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La comunità, la morte, l'Occidente

La comunità, la morte, l’Occidente

Editore: Bollati Boringhieri , 1991

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Democrazia o bonapartismo

Democrazia o bonapartismo. Trionfo e decadenza del suffragio universale

Editore: Bollati Boringhieri, 1993

Descrizione

Tormentata è la storia del suffragio universale, ostacolato, ancora in pieno Novecento, dalla discriminazione di censo, di razza, di sesso, che si è rivelata particolarmente tenace proprio nei paesi di più consolidata tradizione liberale. Un nuovo modello di democrazia sembra voler divenire il regime politico del nostro tempo. Gli Stati Uniti costituiscono il privilegiato paese-laboratorio del “bonapartismo-soft” che ora si affaccia anche in Italia e di cui ci parla Losurdo.

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La seconda Repubblica

La seconda Repubblica. Liberismo, federalismo, postfascismo

Editore: Bollati Boringhieri, 1994

Descrizione

Nonostante i toni spesso trionfalistici, la Seconda Repubblica è l’espressione di una crisi profonda: se revisionismo storico e postfascismo cancellano l’identità nazionale del nostro paese, le riforme elettorali e istituzionali in atto, sancendo il peso immediatamente politico della grande ricchezza e del potere multimediale, bandiscono ogni idea di democrazia intesa come partecipazione di massa. L’odierna crociata neoliberista mira a liquidare i “diritti economici e sociali”, promuovendo in pratica una sorta di redistribuzione del reddito a favore dei ceti più ricchi. Nei paesi a forti squilibri regionali tale redistribuzione passa attraverso l’autonomia “federale”. Liberismo, federalismo e postfascismo si mescolano così in una miscela esplosiva.

 

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Antonio Gramsci, dal liberalismo al ...

Antonio Gramsci, dal liberalismo al «Comunismo critico»

Editore: Gamberetti , 1997

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Dai Ffatelli Spaventa a Gramsci

Dai fratelli Spaventa a Gramsci.
Per una storia politico-sociale della fortuna di Hegel in Italia

Editore: La Città del Sole, 1997

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1997 - Nietsche e la critica della modernità

Nietzsche e la critica della modernità. Per una biografia politica

Editore: Manifestolibri, 1997

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2006 - Controstoria derl liberalismo

Controstoria del liberalismo

Editore: Laterza, 2006

 

Descrizione

Il liberalismo sottolinea il valore positivo della libertà individuale, l’autonomia del singolo, l’opposizione al conservatorismo sociale. Sorto come una giustificazione teorica della necessità della limitazione del potere statale, il liberalismo non è però riuscito a declinare in termini universalistici il suo discorso ideologico. Come per ogni movimento storico, si tratta di indagare sì i concetti ma anche in primo luogo i rapporti politici e sociali in cui esso si è espresso. E la storia dei paesi in cui il liberalismo ha gettato radici più profonde risulta inestricabilmente intrecciata con la storia della schiavitù e dello sfruttamento.

 

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2007 - Autocensura e compromesso nel pensiero politico di Kant

Autocensura e compromesso nel pensiero politico di Kant

Editore: Bibliopolis, 2007

Descrizione

Considerato da non pochi dei suoi contemporanei come un “democratico radicale “, Kant è stato in seguito stilizzato da una radicata e composita tradizione interpretativa a teorico dell’obbedienza all’autorità costituita, e questo a causa della sua negazione del diritto di resistenza. Punto di partenza della presente ricerca è proprio tale negazione: essa, mentre rassicurava le corti tedesche, al tempo stesso permetteva di affermare l’irreversibilità della Rivoluzione francese. Emerge qui con chiarezza la ricercata “ambiguità “, la ” doppiezza” di Kant, costretto ad un logorante esercizio di autocensura, ad una continua dissimulazione, tormentosa anche sul piano morale, per sfuggire al controllo delle autorità di censura e del potere politico. In questo quadro si procede ad una rilettura del pensiero politico di Kant; che, se è sufficientemente noto il difficile rapporto del filosofo con la censura, non sembra sia stata finora indagata la connessione tra “persecuzione e arte dello scrivere”; ma forse è solo questa indagine che può permetterci di sbarazzarci dell’oleografia tradizionale, per collocare Kant in una luce nuova, più umanamente drammatica e inquietante.

 

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2007 - Il peccato orginakle del Novecento

Il peccato originale del Novecento

Editore: Laterza, 2007

 

 

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2010 La non-violenza

La non-violenza. Una storia fuori dal mito

Editore: Laterza, 2010

 

Descrizione

Dopo un secolo tragicamente carico di violenza e di terrore, l’ideale della non-violenza esercita un fascino crescente sulle coscienze di donne e uomini. Ma quali sono stati i primi movimenti ad agitare questo ideale e quali difficoltà essi hanno dovuto affrontare in un periodo storico particolarmente ricco di guerre e rivoluzioni? Dalle organizzazioni cristiane che nei primi decenni dell’Ottocento si propongono negli Usa di combattere congiuntamente e in modo pacifico i flagelli della schiavitù e della guerra, fino ai protagonisti della non-violenza: Thoreau, Tolstoj, Gandhi, Capitini, Dolci, M.L. King, il Dalai Lama o i più recenti ispiratori delle ‘rivoluzioni colorate’. Costante è il confronto tra il movimento non-violento e il movimento anticolonialista e antimilitarista di ispirazione socialista e sono prese in considerazione anche le posizioni di illustri teologi cristiani (R. Niebuhr e D. Bonhoeffer) e filosofe di diverso orientamento ma entrambe autrici di importanti contributi sul problema della violenza, come Simone Weil e Hannah Arendt.

 

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2011 - Hgel e la libertà dei moderni

Hegel e la libertà dei moderni

Editore: La Scuola di Pitagora, 2011

 

Descrizione

Hegel legittima le rivoluzioni che hanno segnato la nascita del mondo moderno e rende omaggio alla rivoluzione francese quale “splendida aurora”; nel momento in cui la schiavitù fiorisce negli Usa e nelle colonie, egli condanna tale istituto come il “delitto assoluto”. Da un lato il filosofo sottolinea la centralità della libertà individuale, dall’altro teorizza i “diritti materiali” e il “diritto alla vita”, paragona ad uno schiavo l’uomo che rischia la morte per inedia ed esige l’intervento dello Stato nell’economia, in modo da porre fine a questa nuova configurazione del “delitto assoluto”. Alla luce di tutto ciò come appare ridicola la lettura di Hegel quale teorico della Restaurazione. Tradotto in più lingue e apparso anche negli Usa e in Cina, il libro di Losurdo analizza il contributo decisivo che il grande filosofo tedesco fornisce alla comprensione della libertà dei moderni e, misurandosi con le interpretazioni di Bobbio, Popper, Hayek, mette in evidenza i limiti di fondo del liberalismo vecchio e nuovo.

 

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2012 -Fuga dalla storia?

Fuga dalla storia? La rivoluzione russa e la rivoluzione cinese oggi

Editore: La Scuola di Pitagora, 2012

 

Descrizione

Nel 1818, in piena Restaurazione e in un momento in cui il fallimento della rivoluzione francese appariva evidente, anche coloro che inizialmente l’avevano salutata con favore prendevano le distanze dalla vicenda storica iniziata nel 1789: era stata un vergognoso tradimento di nobili ideali. In questo senso Byron cantava: “Ma la Francia si inebriò di sangue per vomitare delitti/ Ed i suoi Saturnali sono stati fatali/ alla causa della Libertà, in ogni epoca e per ogni Terra”. Dobbiamo oggi far nostra questa disperazione, limitandoci solo a sostituire la data del 1917 a quella del 1789 e la causa del socialismo alla “causa della libertà”? Confutando i luoghi comuni dell’ideologia dominante, Losurdo analizza e documenta l’enorme potenziale di emancipazione scaturito dalla rivoluzione russa e dalla rivoluzione cinese. Quest’ultima, dopo aver liberato prima dal dominio coloniale e poi dalla fame un quinto dell’umanità, mette oggi in discussione al tempo stesso l'”epoca colombiana” e il modo tradizionale di intendere la lezione di Marx.

 

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2014 - La sinistra assente

La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra

Editore: Carocci , 2014

Descrizione

Le promesse del 1989 di un mondo all’insegna del benessere e della pace non si sono realizzate. La crisi economica sancisce il ritorno della miseria di massa anche nei paesi più sviluppati e inasprisce la sperequazione sociale sino al punto di consentire alla grande ricchezza di monopolizzare le istituzioni politiche. Sul piano internazionale, a una “piccola guerra” (che però comporta decine di migliaia di morti per il paese di volta involta investito) ne segue un’altra. Per di più, all’orizzonte si profila il pericolo di conflitti su larga scala, che potrebbero persino varcare la soglia del nucleare. Più che mai si avverte l’esigenza di una forza di opposizione: disgraziatamente in Occidente la sinistra è assente. Come spiegarlo? Come leggere il mondo che si è venuto delineando dopo il 1989? Attraverso quali meccanismi la “società dello spettacolo” riesce a legittimare guerra e politica di guerra? Come costruire l’alternativa? A queste domande l’autore risponde con un’analisi originale, spregiudicata e destinata a suscitare polemiche.

 

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2015 - Il revisionismo storico

Il revisionismo storico. Problemi e miti

Editore: Laterza , 2015

 

Descrizione

Più volte ristampata e tradotta in un numero crescente di paesi, quest’opera è una rilettura originale della storia contemporanea, dove l’analisi critica del revisionismo storico – a cominciare dalle tesi di Nolte sull’Olocausto e di Furet sulla rivoluzione francese – si intreccia con quella di una serie di fondamentali categorie filosofiche e politiche come guerra civile internazionale, rivoluzione, totalitarismo, genocidio, filosofia della storia. Questa edizione ampliata analizza le prospettive del nuovo secolo. Da un lato il revisionismo storico continua a riabilitare la tradizione coloniale, com’è confermato dall’omaggio che uno storico di successo (Niall Ferguson) rende al tramontato Impero britannico e al suo erede americano, dall’altro vede il ritorno sulla scena internazionale di un paese (la Cina) che si lascia alle spalle il “secolo delle umiliazioni”. Sarà in grado l’Occidente di tracciare un bilancio autocritico o la sua pretesa di essere l’incarnazione di valori universali è da interpretare come una nuova ideologia della guerra?

 

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2015 - La lotta di classe

La lotta di classe. Una storia politica e filosofica

Editore: Laterza, 2015

Descrizione

La crisi economica infuria e si discute sempre più del ritorno della lotta di classe. Ma siamo davvero sicuri che fosse scomparsa? La lotta di classe non è soltanto il conflitto tra classi proprietarie e lavoro dipendente. È anche “sfruttamento di una nazione da parte di un’altra”, come denunciava Marx, e l’oppressione “del sesso femminile da parte di quello maschile”, come scriveva Engels. Siamo dunque in presenza di tre diverse forme di lotta di classe, chiamate a modificare radicalmente la divisione del lavoro e i rapporti di sfruttamento e di oppressione che sussistono a livello internazionale, in un singolo paese e nell’ambito della famiglia. A fronte dei colossali sconvolgimenti che hanno contrassegnato il passaggio dal XX al XXI secolo, la teoria della lotta di classe si rivela oggi più vitale che mai a condizione che non diventi facile populismo che tutto riduce allo scontro tra umili e potenti, ignorando proprio la molteplicità delle forme del conflitto sociale. Domenico Losurdo procede a una originale rilettura della teoria di Marx ed Engels e della storia mondiale che prende le mosse dal Manifesto del partito comunista.

 

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2015 - Rivoluzione d'Ottobre e democrazia nel mondo

Rivoluzione d’ottobre e democrazia nel mondo

Editore: La Scuola di Pitagora, 2015

Descrizione

“Se per ‘democrazia’ intendiamo quantomeno l’esercizio del suffragio universale e il superamento delle tre grandi discriminazioni (di genere, censitaria e razziale), è chiaro che essa non può essere considerata anteriore alla rivoluzione d’ottobre e non può essere pensata senza l’influenza che quest’ultima ha esercitato a livello mondiale”.

 

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2015 - Stalin

Stalin. Storia e critica di una leggenda nera

Editore: Carocci , 2015

Descrizione

C’è stato un tempo in cui statisti illustri – quali Churchill e De Gasperi – e intellettuali di primissimo piano – quali Croce, Arendt, Bobbio, Thomas Mann, Kojève, Laski – hanno guardato con rispetto, simpatia e persino con ammirazione a Stalin e al paese da lui guidato. Con lo scoppio della Guerra fredda prima e soprattutto col Rapporto Chruscev poi, Stalin diviene invece un “mostro”, paragonabile forse solo a Hitler. Darebbe prova di sprovvedutezza chi volesse individuare in questa svolta il momento della rivelazione definitiva e ultima dell’identità del leader sovietico, sorvolando disinvoltamente sui conflitti e gli interessi alle origini della svolta. Il contrasto radicale tra le diverse immagini di Stalin dovrebbe spingere lo storico non già ad assolutizzarne una, bensì a problematizzarle tutte. Ed è quanto fa Losurdo in questo volume, analizzando le tragedie del Novecento con una comparatistica a tutto campo e decostruendo e contestualizzando molte delle accuse mosse a Stalin. Con un saggio di Luciano Canfora.

 

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2016 - Un mondo senza guerre

Un mondo senza guerre.
L’idea di pace dalle promesse del passato alle tragedie del presente

Editore: Carocci , 2016

Descrizione

Nel 1989, la realizzazione di un mondo senza guerre sembrava a portata di mano; oggi, oltre al terrorismo e ai conflitti locali, torna a incombere il pericolo di una terza guerra mondiale. Come spiegare tale parabola? Losurdo traccia una storia inedita e coinvolgente dell’idea di pace dalla rivoluzione francese ai giorni nostri. Da questo racconto, di cui sono protagonisti i grandi intellettuali (Kant, Fichte, Hegel, Constant, Comte, Spencer, Marx, Popper ecc.) e importanti uomini di Stato (Washington, Robespierre, Napoleone, Wilson, Lenin, Bush Sr. ecc.), emergono i problemi drammatici del nostro tempo: è possibile edificare un mondo senza guerre? Occorre affidarsi alla non violenza? Qual è il ruolo delle donne? La democrazia è una reale garanzia di pace o può essa stessa trasformarsi in ideologia della guerra? Riflettere sulle promesse, le delusioni, i colpi di scena della storia dell’idea di pace perpetua è essenziale non solo per comprendere il passato ma anche per ridare slancio alla lotta contro i crescenti pericoli di guerra.

 

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2017 - Il marxismo occidentale

Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere

Editore: Laterza, 2017

 

Descrizione

Nato nel cuore dell’Occidente, con la Rivoluzione d’Ottobre il marxismo si è diffuso in ogni angolo del mondo, sviluppandosi in modi diversi e contrastanti. Contrariamente a quello orientale, il marxismo occidentale ha mancato l’incontro con la rivoluzione anticolonialista mondiale – la svolta decisiva del Novecento e ha finito col subire un tracollo. Ci sono oggi le condizioni per una rinascita del marxismo in Occidente?

 

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2018 - Marxismo e comunismo

Marxismo e comunismo

Editore: Affinità Elettive Edizioni, 2018

Descrizione

“La storia del movimento comunista è stata un grande capitolo di storia per abolire la schiavitù coloniale e per l’affermazione di un’autentica morale capace di rispettare ogni uomo”.



Alcuni libri
di
Stefano G. Azzarà

 

2006- Pensare la rivoluzione conservatrice

Pensare la rivoluzione conservatrice.
Critica della democrazia e «Grande politica» nella Repubblica di Weimar

Editore: La Città del Sole, 2006

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2011 - L'imperialismo dei diritti universali

L’ imperialismo dei diritti universali.
Arthur Moeller van den Bruck, la rivoluzione conservatrice e il destino dell’Europa

Editore: La Città del Sole, 2011

 

La fine della Prima guerra mondiale si accompagna alla perdita del potere per l’establishment liberalconservatore in Germania, nonostante il fallimento in extremis della rivoluzione comunista. In condizioni politiche ed economiche molto difficili, segnate dal forte condizionamento del Paese da parte delle potenze vincitrici, si tratta adesso di fronteggiare l’affermazione definitiva della società di massa e l’avvento del metodo democratico nella sfera pubblica. Comincia una riflessione tormentata, che costringerà le classi dirigenti e intellettuali tradizionali ad una rottura “rivoluzionaria” con il proprio passato e con ogni nostalgia verso la monarchia e la società agraria. Poco noto in Italia, Arthur Moeller van den Bruck è stato tra i principali ispiratori di un rinnovamento di categorie e forme politiche che porterà la destra tedesca – ma anche quella europea – a contendere alle sinistre rivoluzionarie come a quelle riformiste il terreno della politica di massa.

 

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2011 - Un Nietzsche italiano

 

Un Nietzsche italiano.
Gianni Vattimo e le avventure dell’oltreuomo rivoluzionario

Editore: Manifestolibri, 2011

 

Se il primo incontro di Gianni Vattimo con Nietzsche intendeva soprattutto denazificare il filosofo tedesco e recuperarlo in chiave esistenzialistica, ben più originale è la lettura degli anni Settanta, quando il padre dello Zarathustra assume le vesti tutte politiche di un autore libertario e “rivoluzionario”, diventando punto di riferimento per la sinistra. Il volume ripercorre criticamente la storia dell'”oltreuomo” dionisiaco, mettendola in relazione con l’uso pubblico che di Nietzsche è stato fatto nel periodo della contestazione sessantottina, dell’Autonomia e infine del terrorismo e del riflusso. Emerge in controluce la storia di una parte dell’intellighenzia critica italiana, alla ricerca di una via d’uscita “individualistica” dalla dialettica e dalla crisi del marxismo anche attraverso autori che, pur collocati a destra, mettevano in evidenza i limiti della società borghese e del pensiero universalistico. Con il rischio, però, di favorire quella mentalità neoliberale che costituisce oggi il più grave rischio per la democrazia moderna. Con un’intervista a Vattimo su “Nietzsche, la rivoluzione, il riflusso”.

 

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2014 - Friedrik Nietzsche

Friedrich Nietzsche.
Dal radicalismo aristocratico alla rivoluzione conservatrice.
Quattro saggi di Arthur Moeller van den Bruck

Editore: Castelvecchi, 2014

 

È la stessa cosa leggere Nietzsche quando è ancora vivo il ricordo della Comune di Parigi e leggerlo quando la lotta di classe cede il passo al conflitto tra la Germania e le altre potenze europee? Ed è la stessa cosa leggerlo dopo la guerra, quando una sconfitta disastrosa ha mostrato la fragilità del Reich? Questo libro ricostruisce le interpretazioni nietzscheane di Arthur Moeller van den Bruck, padre della Rivoluzione conservatrice e precursore di Spengler, Heidegger e Junger. Moeller ridefinisce la filosofia di Nietzsche adattandola ai salti della storia europea tra gli ultimi decenni del XIX secolo e la fine della Prima guerra mondiale. Il Nietzsche artista e profeta che tramonta assieme all’Ottocento rinasce così nel passaggio di secolo come il filosofo-guerriero di una nuova Germania darwinista; per poi diventare, nella Repubblica di Weimar, l’improbabile teorico di un socialismo mistico e spirituale. Tre diverse letture emergono perciò da tre diversi momenti della storia europea e stimolano il passaggio dal pensiero liberalconservatore alla Rivoluzione conservatrice. In appendice, la prima traduzione italiana dei quattro saggi di van den Bruck su Nietzsche.

 

 

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2014- Democrazia cercasi

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Democrazia cercasi.
Dalla caduta del muro a Renzi:
sconfitta e mutazione della sinistra,
bonapartismo postmoderno e impotenza della filosofia in Italia

Editore: Imprimatur, 2014

Possiamo ancora parlare di democrazia in Italia? Mutamenti imponenti hanno favorito una forma neobonapartistica e ipermediatica di potere carismatico e hanno relegato molti cittadini nell’astensionismo o nella protesta rabbiosa. In nome dell’emergenza economica permanente e della governabilità, gli spazi di riflessione pubblica sono stati sacrificati al primato di un decisionismo improvvisato.

 

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2017- Nonostante Laclau

Nonostante Laclau.
Populismo ed egemonia nella crisi della democrazia moderna

Editore: Mimesis, 2017

È il populismo di sinistra la risposta giusta alla crisi della democrazia? La decostruzione postmoderna delle identità storiche apre una nuova stagione di libertà e pluralismo oppure finisce per accettare un terreno di gioco regressivo, nel quale viene già precostituita l'”egemonia” delle tendenze più particolaristiche e la produzione di appartenenze naturalistiche? Stefano G. Azzarà si interroga sui conflitti del nostro tempo, tra neoliberalismo e ricerca di un nuovo orizzonte di progettualità politica.

 

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2018- Comunisti, fascisti e questione nazionale

Comunisti, fascisti e questione nazionale.
Fronte rossobruno o guerra d’egemonia?

Editore: Mimesis, 2018

Dopo decenni di entusiasmo per la globalizzazione e l’unificazione europea, l’emergere dei movimenti sovranisti e populisti in un’epoca di crisi organica sembra rendere di nuovo attuale la questione nazionale ed evoca la suggestione di un blocco trasversale di contestazione del capitalismo neoliberale e apolide che unisca tutti i “ribelli” della società borghese, lasciandosi alle spalle l’alternativa tra destra e sinistra. Anche nella Germania degli anni Venti, ai tempi delle riparazioni di guerra e dell’occupazione della Ruhr, questi temi erano all’ordine del giorno. L’appello di Karl Radek per un fronte unito dei lavoratori, aperto ai ceti medi e alla piccola borghesia patriottica e capace di difendere l’indipendenza del Paese dall’imperialismo straniero, non era però la proposta di un’alleanza totalitaria degli opposti radicalismi estremistici ma la dichiarazione di una furibonda guerra d’egemonia. Uno scontro ideologico che puntava semmai a bruciare il terreno sotto i piedi al fascismo nascente e a candidare la classe operaia tedesca, sulla scorta dell’esperienza bolscevica e del dibattito aperto nel Komintern da Lenin, alla guida della nazione e della sua rinascita. La disputa dei comunisti con Arthur Moeller van den Bruck e la Rivoluzione conservatrice tedesca sfata il mito dell’estraneità del materialismo storico agli interessi nazionali. Tuttavia, al contrario degli odierni equivoci eurasiatisti e socialsciovinisti, attesta l’insuperabile incompatibilità filosofica – prima ancora che politica e morale – tra il particolarismo naturalistico delle destre, con le loro persistenti pulsioni discriminatorie di stampo coloniale, e l’universalismo concreto del marxismo e del suo sogno di un mondo senza guerre.

 

 

 


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N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.


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Robert Musil (1880-1942) – Il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe essere. Solo se si è pronti a considerare possibile l’impossibile si è in grado di scoprire qualcosa di nuovo.

Robert Musil 001

«Nella vita
solo se si è pronti a considerare possibile l’impossibile
si è in grado di scoprire qualcosa di nuovo».

Johann Wolfgang von Goethe

 

L'uomo senza qualità

L’uomo senza qualità

«Se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci dev’essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità. Chi lo possiede non dice, ad esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere; ma immagina: qui potrebbe, o dovrebbe accadere la tale o tal altra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com’è, egli pensa: beh, probabilmente potrebbe anche esser diverso. Cosicché il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe essere, e di non dare maggior importanza a quello che è, che a quello che non è».

Robert Musil, L’uomo senza qualità [1930], Einaudi, Torino 2014, pp. 12-13.

Der Mann ohne Eigenschaften

Der Mann ohne Eigenschaften

 


Robert Musil (1880-1942) – Ogni grande libro spira amore per i destini dei singoli individui che non si adattano alle forme che la collettività vuol loro imporre. Abbiamo troppo poco intelletto nelle cose dell’anima.


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