Chimamanda Ngozi Adichie – Le ragazze diventano donne che non sanno di avere dei desideri. Crescono e diventano donne che si reprimono. Crescono e diventano donne che non possono dire ciò che pensano. Crescono – ed questa è la cosa peggiore – e diventano donne che fanno della finzione un’arte.

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Questa è la versione rivista di un intervento che ho tenuto nel dicembre del 2012 alla TEDxEuston Conference, un incontro annuale dedicato all’Africa in cui oratori provenienti da varie discipline pronunciano brevi discorsi con l’obiettivo di scuotere e ispirare un pubblico formato da africani e amici dell’Africa. Qualche anno prima avevo partecipato a un’altra TED Conference con un intervento intitolato The danger of the single story, in cui mostravo come gli stereotipi limitano e plasmano il nostro modo di pensare, soprattutto riguardo all’Africa. Ho l’impressione che la parola «femminista», e l’idea stessa di femminismo, siano altrettanto limitate dagli stereotipi. Quando mio fratello Chuks e il mio migliore amico Ike, entrambi organizzatori della TEDxEuston Conference, hanno insistito perché partecipassi, non ho potuto rifiutare. Ho deciso di parlare di femminismo perché è una cosa che mi tocca da vicino. Avevo il sospetto che non fosse un tema molto popolare, ma speravo di avviare un confronto necessario. E cosí quella sera, sul palco, mi sembrava di avere di fronte dei parenti: un pubblico benevolo e attento, ma che avrebbe potuto non apprezzare l’argomento del mio discorso. Alla fine, la loro standing ovation mi ha dato speranza.


In questo saggio molto personale, scritto con grande eloquenza – frutto dell’adattamento di una conferenza TEDx dal medesimo titolo di straordinario successo – Chimamanda Ngozi Adichie offre ai lettori una definizione originale del femminismo per il XXI secolo. Attingendo in grande misura dalle proprie esperienze e riflessioni sull’attualità, Adichie presenta qui un’eccezionale indagine d’autore su ciò che significa essere una donna oggi, un appello di grande attualità sulle ragioni per cui dovremmo essere tutti femministi. In un contesto in cui il femminismo era considerato un ingombrante retaggio del secolo scorso, la posizione di Adichie ha cambiato i termini della questione. Alcuni brani della sua conferenza sono stati campionati da Beyoncé nel brano Flawless e hanno fatto il giro del mondo. La scritta FEMINIST a caratteri cubitali come sfondo della performance dell’artista agli Mtv Video Music Awards e il famoso discorso dell’attrice Emma Watson alle Nazioni Unite in cui si dichiara femminista sono segni evidenti del fatto che c’è un prima e un dopo “Dovremmo essere tutti femministi”.
 
Ecco alcuni stralci di un intervento di questa scrittrice nigeriana al TED X talk
 

Ma la cosa di gran lunga peggiore che facciamo agli uomini, è costringerli a pensare di dover essere dei duri e il lasciarli con un ego molto fragile. Più gli uomini sentono di dover essere degli “uomini duri” più il loro ego è debole. Facciamo un danno anche più grande alle ragazze perché le educhiamo a compiacere il fragile ego degli uomini. Insegniamo loro a limitarsi, a farsi più piccole, diciamo alle ragazze: “Puoi essere ambiziosa, ma non troppo.”
“Dovresti ambire ad avere successo, ma non troppo, altrimenti minaccerai l’uomo.” Se sei colei che porta i soldi a casa in una relazione devi far finta di non esserlo, specialmente in pubblico, altrimenti lo castreresti.

E se rimettessimo in discussione la premessa? Perché il successo di una donna deve essere una minaccia per un uomo? Se decidessimo di liberarci semplicemente di questa parola, non c’è parola in inglese che io detesti di più di “castrazione”. Un conoscente nigeriano mi ha chiesto una volta se non avessi paura di intimidire gli uomini. Non ero per niente preoccupata. Non ho mai avuto questa preoccupazione perché un uomo che si sente intimidito da me è proprio il tipo di uomo che non mi interessa affatto.

Tuttavia questa domanda mi ha colpita. Dato che sono una donna, ci si aspetta che aspiri al matrimonio. Ci si aspetta che prenda le mie decisioni tenendo sempre in mente che il matrimonio è la più importante. Il matrimonio può essere una buona cosa: una fonte di gioia, di amore e di supporto reciproco. Ma perché insegniamo alle ragazze ad aspirare al matrimonio e non lo insegniamo ai ragazzi?

Conosco una donna che ha deciso di vendere casa perché non voleva intimidire l’uomo che avrebbe potuto sposarla. Conosco una donna non sposata in Nigeria che, quando va alle conferenze, porta una fede al dito perché in questo modo vuole che gli altri partecipanti le “diano rispetto”. Conosco molte donne giovani che subiscono la pressione della famiglia, degli amici, anche al lavoro perché si sposino e sono spinte a fare delle scelte terribili. A una certa età una donna che non è sposata è spinta dalla società a sentire un enorme senso di fallimento personale. Di un uomo che a una certa età non è ancora sposato, pensiamo solo che non si sia ancora deciso a scegliere. È facile dire: “Le donne sono libere di dire no a tutto questo”. La realtà è più difficile e più complessa di così. Siamo tutti esseri sociali. Assimiliamo le idee dalla nostra società. Persino il linguaggio che usiamo quando parliamo di matrimonio e relazioni lo dimostra. Il linguaggio del matrimonio è spesso la lingua della proprietà piuttosto che della collaborazione. Usiamo la parola “rispetto” per descrivere qualcosa che una donna mostra a un uomo ma spesso non ciò che un uomo mostra a una donna.

Così le ragazze diventano donne che non sanno di avere dei desideri. Crescono e diventano donne che si reprimono. Crescono e diventano donne che non possono dire ciò che pensano. Crescono – ed questa è la cosa peggiore – e diventano donne che fanno della finzione un’arte.



Eschilo (525-456 a.C.) – C’è bisogno di un pensiero profondo, salvifico, che si immerga nell’abisso come un tuffatore dallo sguardo limpido, sgombro dall’ebrezza del vino, così che rovina non tocchi la città …

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C’è bisogno di un pensiero profondo,
salvifico, che si immerga nell’abisso
come un tuffatore dallo sguardo limpido,
sgombro dall’ebrezza del vino,
onde rovina non tocchi la città …

 

Eschilo, Supplici, 407 ss.

 

Le Danaidi di J.W. Waterhouse

Eschilo (525-456 a.C.) – «Specchio dell’immagine è il bronzo, ma il vino lo è della mente».
Eschilo (525-456 a.C.) – «È bello anche da vecchio imparare la saggezza».

William H. Davies (1871-1940) – Che cos’è la vita se non abbiamo il tempo di fermarci e sostare? Nessun tempo per vedere fiumi pieni di stelle, come i cieli di notte. È una vita povera questa.

Davies William H. 01
Tempo liberato

Che cos’è la vita se, piena di preoccupazioni,
non abbiamo il tempo di fermarci e sostare?
[…]
Nessun tempo per vedere, quando si attraversano i boschi
dove gli scoiattoli nascondono le noci nell’erba.
Nessun tempo per vedere, in pieno giorno
fiumi pieni di stelle, come i cieli di notte.
[…]
È una vita povera questa, se piena di preoccupazioni
non abbiamo il tempo di fermarci e sostare.

William H. Davies

da Songs of Joy and Others (1911)

Henry David Thoreau (1817-1862) – È impossibile descrivere l’infinita varietà di sfumature della natura. Per descrivere queste foglie si dovranno usare parole colorate.

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È impossibile descrivere l’infinita varietà di sfumature, toni e gradazioni perché la nostra lingua non ha nomi per tutti e noi siamo costretti ad usare lo stesso termine per designare venti cose diverse. Se potessi mostrare altrettanti alberi diversi o anche foglie diverse, l’effetto potrebbe essere differente, ma il fatto è che anche quando i colori sono gli stessi, essi variano talmente in purezza e in delicatezza che la nostra tavolozza, non solo dovrebbe essere straordinariamente arricchita per descriverli, ma addirittura tingersi degli stessi colori e poter così parlare all’occhio non meno che all’orecchio […]. Per descrivere queste foglie si dovranno usare parole colorate.

Henry David Thoreau, Vita di uno scrittore (I Diari), a cura di Biancamaria Tedeschini Lalli , Ed. Neri Pozza, Vicenza 1963, pp. 300-302.


Henry David Thoreau (1817-1862) – Questa è la biblioteca, ma il mio studio è là fuori, oltre la porta. Credo che non esista niente – neppure il crimine – maggiormente contrario alla poesia, alla filosofia e alla vita stessa che questa incessante smania per il business.


Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Cosa di più bello avrei potuto fare nella mia vita se non affidare alla scrittura ciò che è di grande utilità per gli uomini e portare alla luce per tutti la vera natura delle cose?

Platone Lettera VII 01

 

[…] εἰ δέ μοι ἐφαίνετο γραπτέα θ’ ἱκανῶς εἶναι πρὸς τοὺς πολλοὺς καὶ ῥητά, τί τούτου κάλλιον ἐπέπρακτ’ ἂν ἡμῖν ἐν τῷ βίῳ ἢ τοῖς τε ἀνθρώποισι μέγα ὄφελος γράψαι καὶ τὴν φύσιν εἰς φῶς πᾶσιν προαγαγεῖν;

«Se davvero pensassi che sia possibile scrivere queste cose esprimendole in modo adatto a molti lettori, che cosa di più bello avrei potuto fare nella mia vita se non affidare alla scrittura ciò che è di grande utilità per gli uomini e portare alla luce per tutti la vera natura delle cose [καὶ τὴν φύσιν εἰς φῶς πᾶσιν προαγαγεῖν]?».

Platone, Lettera VII, 341 d.

Platone, «Filebo» – Senza possedere né intelletto né memoria né scienza né opinione vera, tu saresti vuoto di ogni elemento di coscienza
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Coloro che sono privi della conoscenza di ogni cosa che è, e che non hanno nell’anima alcun chiaro modello, non possono rivolgere lo sguardo verso ciò che è più vero e non possono istituire norme relative alle cose belle e giuste e buone.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Le relazioni con gli stranieri sono atti di particolare sacralità. Lo straniero si trova ad essere privo di amici e parenti, e quindi è affidato in modo particolare alla solidarietà degli dei e degli uomini. Non c’è colpa peggiore per un uomo che un torto fatto ai supplici
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Non esiste male maggiore che un uomo possa patire che prendere in odio i ragionamenti. L’odio contro i ragionamenti, e quello contro gli uomini, nascono nella stessa maniera.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – È questo il momento nella vita che più di ogni altro è degno di essere vissuto da un essere umano: quando contempla il bello in sé. La misura e la proporzione risultano essere dappertutto bellezza e virtù.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – L’educazione è l’orientamento dell’anima alla virtù. La virtù è il piacere verso ciò che bisogna amare e l’avversione verso ciò che bisogna odiare
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Non il vivere è da tenere in massimo conto, ma il vivere bene. E il vivere bene è lo stesso che vivere con virtù e con giustizia. Per nessuna ragione si deve commettere ingiustizia.
Platone & Aristotele – Il principio della filosofia non è altro che esser pieni di meraviglia, perché si comincia a filosofare a causa della meraviglia.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – È infatti la costituzione dello Stato che forma gli uomini, buoni, se essa è buona, malvagi in caso contrario.


Salvatore Bravo – La libertà è solo nella verità. L’alternativa è l’eristica, l’argomentare/battagliare sofistico e liberticida. La libertà è l’armonia dialettica tra soggetto e comunità. Libertà è relazione tra teoria e prassi. Senza la verità non vi è libertà.

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Salvatore Bravo

La libertà è solo nella verità.
L’alternativa è l’eristica, l’argomentare/battagliare sofistico e liberticida.

La libertà è l’armonia dialettica tra soggetto e comunità.
Libertà è relazione tra teoria e prassi.

Senza la verità non vi è libertà.

 

 

Democrazia e capitalismo assoluto
I processi di dominio ed alienazione sono la verità del capitalismo assoluto. La pratica del capitalismo assoluto agisce secondo due direzioni convergenti: la struttura e la sovrastruttura speculari l’una all’altra. Il fine è non lasciare tempo e spazio per il pensiero e sostituirlo con il calcolo. La fase del rispecchiamento del capitalismo diviene così totalitaria. In assenza di discrepanze tra struttura e sovrastruttura non resta che il pensiero omologato e la necrosi della democrazia. Se la democrazia sopravvive perché è usata come mezzo ideologico contro i sovvertitori dell’ordine mondiale, la motivazione è da riscontrarsi nella sua riduzione a forma giuridica privata di ogni partecipazione sostanziale.
La “democrazia del capitale” rende sostanziale i diritti delle merci ed il loro feticismo, infatti possono circolare senza limiti nello spazio concreto e virtuale, attraversano l’etere per colonizzare le menti mediante le tecnologie. L’atmosfera al tempo del capitalismo assoluto è inquinata dall’invisibile circolazione di frequenze che trasportano messaggi commerciali; il capitalismo non lascia nessuno spazio libero: visibile ed invisibile si ritrovano accumunati nella densità quantitativa e calcolante.
Nel Timeo il Demiurgo soffiava nel corpo del cosmo per vivificarlo, donandogli un’anima unica che tutti accomuna; il capitalismo assoluto soffia nello spazio e nel tempo per dividere, per frammentare e lasciare dietro di sé un mondo fatto unicamente di cose. L’effetto di tale pratica non è solo la divisione e la formazione di individui anti-comunitari, ma una miriade di specializzazioni che consentono di acquisire un numero notevole di informazioni tecniche, ma inibiscono ogni pensiero della totalità.
Democrazia senza verità e senza prassi.
Pertanto, non resta che il calcolo nichilistico delle tecniche di produzione e controllo, a cui si è passivamente sussunti.
György Lukács coglie la profondità della crisi della democrazia occidentale, e nel contempo analizza nell’Unione Sovietica l’altro volto della stessa crisi: il neopositivismo imperante della burocrazia di Stato che, mentre controlla, nega la libertà consapevole della prassi, il farsi della libertà nelle circostanze storiche in cui gli esseri umani vengono a trovarsi. Il comunismo avrebbe dovuto fondare il regno della libertà, ma al suo posto non vi è che il potere sovietico speculare, seppure in in modo differente, al potere del capitalismo.

Verità e democrazia sostanziale
L’arsura della libertà è globale. G. Lukács ne analizza il suo realizzarsi per riflettere sulla grande possibilità della Rivoluzione russa di fondare una democrazia sostanziale trascendendo i limiti della democrazia borghese. La scomposizione del mondo in settori tecnici riafferma un mondo in cui non solo i settori della conoscenza, ma anche l’essere umano è disperso in funzioni, le quali alimentano il pensiero calcolante incompatibile con la partecipazione politica, la quale presuppone la capacità di intendere la totalità-verità, in modo da mettere in pratica processi collettivi trasformativi. Il pensiero calcolante e positivista è profondamente conservatore, poiché consente – al capitale come al comunismo burocratizzato – di ipostatizzarsi:

«Il processo si trasforma in una riunione obbiettiva di sistemi razionalizzati parziali, la cui unità è determinata soltanto calcolisticamente e che debbono quindi presentarsi in una reciproca accidentalità. La scomposizione razional-calcolistica del processo lavorativo annienta la necessità organica delle operazioni parziali che sono reciprocamente collegate e che arrivano ad unificarsi nel prodotto. L’unità del prodotto come merce non coincide più con la sua unità come valore d’uso: l’autonomizzazione tecnica delle manipolazioni parziali nelle quali essa sorge, mentre la società si trasforma da parte a parte in senso capitalistico, si esprime anche sul terreno economico come autonomizzazione delle operazioni parziali, come relativizzazione crescente del carattere di merce di un prodotto ai diversi gradi della sua produzione. Ed a questa possibilità di operare una scissione spazio-temporale nella produzione di un valore d’uso è di solito associata la connessione spazio-temporale di manipolazioni parziali che si riferiscono a loro volta a valori d’uso del tutto eterogenei».[1]

 

Rivoluzione russa: Trockij
La Rivoluzione russa è stata il luogo politico in cui le scissioni potevano risolversi per ricostituire l’unità aprendo alla libertà. Le condizioni storiche terribili in cui la Rivoluzione al suo esordio ha dovuto operare non ha impedito la discussione interna e il confronto tra modelli politici diversi di sviluppo della democrazia. Trockij proponeva non solo l’industrializzazione veloce – in quanto l’Unione Sovietica era in fortissimo ritardo rispetto all’Occidente aggressore – ma sosteneva specialmente la burocratizzazione dei sindacati, poiché la classe operaia non necessitava di corpi medi di discussione, in quanto Stato comunista.
Il comunismo era, in realtà, soltanto formale, perché l’uomo comunista doveva ancora delinearsi. Il potere politico formale non corrispondeva alla realizzazione effettiva dell’uomo e della donna comunisti, in quanto solo un lungo processo storico di crescita collettiva può formare ad una nuova prassi delle relazioni umane. Anche in questo caso le circostanze storiche ostili inducono ad una scelta che deve rispondere ai bisogni immediati degli uomini e delle donne e specialmente alla difesa dello Stato comunista:

«Poiché Trockij aveva divulgato un progetto d’una sorta di statalizzazione dei sindacati, così da poterne utilizzare le possibilità organizzative per elevare la produzione, cosa che a lui sembrava fattibile in quanto riteneva che in uno Stato operaio fosse superfluo proteggere specificatamente i lavoratori dal proprio Stato, Lenin precisò che in realtà quello era “uno Stato operaio con una deformazione burocratica”».

 

Lenin
Lenin dinanzi alla proposta politica di Trockij dimostra una maggiore consapevolezza. Il comunismo può sopravvivere solo se tiene fede al progetto politico in cui uomini e donne credono e sperano nel regno della libertà. Se tradirà le sue premesse, se non sarà capace di mediare le condizioni storiche con la teleologia ideale comunista, il fallimento sarà probabile. Lo sguardo politico di Lenin si volge dal presente verso il futuro. Il comunismo può diventare un’opportunità di riscatto universale solo se conserva, malgrado gli arretramenti e le contraddizioni, la chiarezza degli obiettivi. Se ricade in forme di dominio dell’uomo sull’uomo, non è che una diversa versione del capitalismo che si connota per lo sfruttamento. Nel comunismo e nell’estinzione dello Stato si addensano le speranze di millenni di storia umana:

«Nella sua opera principale in tema di democratizzazione socialista, Stato e rivoluzione, agli a un certo punto si trova a parlare del concetto di “estinzione” dello Stato: questa può luogo solo perché, “liberati dalla schiavitù capitalistica, dagli innumerevoli orrori, barbarie, assurdità, ignominie dello sfruttamento capitalistico, gli uomini si abituano a poco a poco a osservare le regole elementari della convivenza sociale, da tutti conosciute, ripetute da millenni in tutti i cambiamenti, a osservarle senza violenza in tutti i cambiamenti, senza costrizione, senza sottomissione, senza quello speciale apparato di costrizione che si chiama Stato”». [2]

La prassi non può che concretizzarsi con un lungo processo, in cui le difficoltà necessitano di soluzioni che spesso possono contraddire apparentemente gli obiettivi. La grande sfida del comunismo, l’azzardo dialettico che esso ha tentato di mettere in opera, esigono energie immense, sacrifici titanici e specialmente un grandioso senso storico. Le difficoltà storiche e il sistema produttivo industriale inadatto ai grandi obiettivi del comunismo necessitano di grandezza ideologica e politica per portare l’Unione Sovietica verso il “nuovo mondo”.

Il possibile
Emerge la categoria del possibile, in cui si confrontano una serie di soluzioni alle circostanze storiche in cui l’Unione Sovietica si è trovata ad operare. Le soluzioni dallo sguardo corto o gli estremismi sono perniciose alla stessa Rivoluzione che per avanzare deve vivere su piani diversi e rispondere all’immediato storico senza privarsi dei grandi orizzonti, senza i quali la Rivoluzione è messa in pericolo, poiché il congelamento della Rivoluzione, la burocratizzazione del potere, inevitabilmente procurerebbe uno scollamento tra il vertice e la base. L’educazione, la formazione e la sconfitta dell’anafalbetismo sono la corrente calda che deve vivificare il popolo, prepararlo alla partecipazione, a neutralizzare i rischi dello statalismo. L’uomo e la donna comunista devono formarsi mediante nuove abitudini educandosi collettivamente a superare categorie del vecchio sistema zarista e capitalista che non sono scomparse con la Rivoluzione, anzi rischiano di riemergere velocemente.
L’abitudine ad una nuovo consapevolezza, non è meccanico automatismo, ma educazione graduale ad una nuova emotività, ad un lento riorientamento gestaltico emotivo e razionale che gradualmente devono coincidere, superando la scissione, sempre foriera di processi di reazione ed alienazione:

«Qui restiamo alla questione per noi centrale: come la democrazia socialista possa affermarsi nella vita quotidiana degli uomini. Lenin parla dell’abitudine come del motore più importante della estinzione dello Stato, in quanto essa rende gli uomini capace di andare avanti convivendo con il prossimo “senza violenza, senza costrizione, senza sottomissione”. Ora l’abitudine è indubbiamente una categoria “sociologica” generalissima che non può non avere una parte rilevante in una società, e tuttavia, considerato così in generale è del tutto neutrale nei confronti di ciò cui ci si abitua e del modo in cui essa, per conseguenza, agisce sulla prassi della quotidiana degli uomini. Quel che Lenin ha in mente va, perciò, molto oltre una tale generalità sociologica “astratta”. Egli allude a un processo socio-teleologico nel quale tutte le azioni, le istituzioni, ecc. dello Stato e della società mirano ad abituare gli uomini a comportamenti da lui descritti».[3]

 

Nuove abitudini
Le nuove abitudini dell’uomo nuovo sono il motore della democrazia, devono esplicarsi nelle istituzioni come nelle banali azioni della vita. Le scissioni della vita borghese tra vita privata e vita pubblica devono saltare per unificarsi in una visione dell’esistenza e della politica. Il pericolo della Rivoluzione è di collassare sotto la pressione delle tragiche contingenze della storia, è il ritorno del passato nella forma della burocratizzazione. Il timore sempre vivo per un vero rivoluzionario dev’essere l’attenzione a scrutare il presente per cogliere le metamorfosi del passato, la democrazia socialista non è mai definitiva ed anche le buone abitudini possono perdersi sotto la pressione degli automatismi. L’abitudine di Lenin non è mai meccanica, ma sempre mediata dalla razionalità, è un lavoro continuo su se stessi, è interiorità che prende forma nella libertà e si estrinseca in prassi istituzionale:

«La sua battaglia appassionata contro le tendenze democratiche si fonda non solamente sulla sua precocissima percezione, estremamente critica, dell’impotenza ultima della manipolazione burocratica, ma anche in termini soggettivi, forse soprattutto sulla consapevolezza che, a causa della routine che scaturisce da una prassi tanto programmata, ogni burocratizzazione cela in sé per forza di cose la tendenza a rinsaldare il dominio del passato sul presente. Per questo nel movimento che dà vita ai cosiddetti sabati comunisti egli vede l’intenzione di andare verso l’autogestione dell’agire sociale delle persone che conduce oltre il dominio del passato, un’intenzione che può a suo volta condurre alla democrazia socialista, alla preparazione del “regno della libertà” e, attraverso un processo necessariamente lungo, ricco di contraddizioni e ritorni indietro, alla sua realizzazione».[4]

 

Sabati comunisti
Il 1 Maggio 1920 il partito comunista annunciava il primo sabato comunista. I sabati comunisti erano la premessa del mondo che verrà, del regno della libertà. In essi il lavoro è liberato dal valore di scambio, per diventare espressione dello spirito comunitario degli esseri umani. È lavoro che umanizza, in cui il soggetto si riconosce, ed in cui scopre che la prassi è servizio per gli altri, è gioia del dono:

«Ecco perché Lenin, a proposito della sostanza sociale dei sabati comunisti, dice: “Ma nel nostro regime economico non vi è ancora nulla di comunista. L’elemento ‘comunista’ incomincia soltanto quando appaiono i sabati comunisti, cioè il lavoro gratuito, che non è regolato da alcun potere, da alcuno Stato, il lavoro su larga scala di singole persone a vantaggio della società”».[5]

 

Il sabato comunista rientra nella strategia pedagogica e rivoluzionaria di Lenin, era finalizzato a destrutturare le incrostazioni della sovrastruttura capitalistica che sopravvivono alla caduta del capitalismo. Il regno della libertà non è l’effetto meccanico delle leggi della storia, ma necessita della libera mediazione razionale che si concretizza nell’azione educativa ed istituzionale. Il sabato comunista è la manifestazione aurorale dell’essere umano liberato dalle anguste categorie della valorizzazione. Ai sabati comunisti partecipavano lavoratori di ogni classe sociale accumunati da un unico fine: il bene della collettività. In modo simbolico anche i capi erano presenti, l’intento era di superare la scissione tra vertice e base. Il sabato comunista era parte di una pedagogia rivoluzionaria senza la quale la Rivoluzione rischiava di diventare patrimonio culturale e politico dei soli intellettuali e dei gruppi che in modo attivo avevano fondato l’Unione Sovietica. La cittadinanza attiva doveva essere parte imprescindibile dell’iter rivoluzionario, la strategia in tal modo non cadeva nel tatticismo.

 

Tatticismo staliniano
La strategia della libertà, non cade mai nel tatticismo, il quale è ideologico, ha lo scopo di difendere il potere e rispondere in modo semplicistico alle problematiche politiche. Stalin è abile nella tattica, esprime una diversa soluzione rispetto alle precedenti simili situazioni storiche: la difesa dell’ideologia comunista diventa un mezzo per eliminare l’opposizione e solidificare posizioni di potere e scelte indiscutibili:

«Così, quando Stalin nella seconda metà degli anni Venti ebbe tatticamente bisogno di dire che i suoi rivali, anche nel caso di minime differenze di principio, erano da smascherare come nemici della rivoluzione socialista, nacque la “teoria” secondo cui le divergenze d’opinione apparentemente piccole costituivano il pericolo massimo, essendo in realtà un raffinato mascherarsi del nemico Questo bisogno tattico ebbe poi l’incarnazione teorica di maggior rilievo nel movimento operaio internazionale, dove i socialdemocratici vennero dichiarati “fratelli gemelli” dei fascisti e l’ala sinistra della socialdemocrazia venne considerata la corrente ideologica più pericolosa all’interno del movimento operaio. (La critica di questo metodo è molto importante e attuale. Infatti esso compare oggi con la stessa frequenza che ai tempi di Stalin)». [6]

Il tatticismo è manipolazione, si disarciona la dialettica per sostituirla con il determinismo del materialismo dialettico, i margini del possibile sono cancellati a favore di un neopositivismo in cui costringere la vitalità storica. Nuovamente i soggetti diventano sudditi del potere, ogni partecipazione è negata in nome della teoria non solo indiscutibile, ma scientifica e pertanto la storia è predeterminata, ogni oppositore p inodore di follia, in quanto non intende l’inevitabile. Il passato ritorna ed il sogno sfuma, ogni corpo medio è sciolto, ogni discussione è oggetto di sospetto ed indagine. Il tatticismo burocratico ed economicistico toglie alla Rivoluzione l’anima per renderla struttura di potere in competizione con le democrazie manipolatrici:

«Per Stalin invece l’ideologia viene “liquidata” e basta, cioè è semplicemente oggetto di una dinamica sociale: per l’appunto la manipolazione staliniana. La spinta intrinseca alla manipolazione ci si rileva nella maniera più evidente davanti alla questione vitale dello smantellamento staliniano della struttura consiliare dello Stato socialista In precedenza abbiamo tentato di mettere in luce come un connotato fortemente innovativo del sistema consiliare fosse proprio il superamento sociale dell’idealismo del citoyen, caratteristico della società borghese. Il cittadino attivizzato secondo l’essenza del socialismo dalla pratica burocratica dei problemi generali della società non doveva più essere una entità “ideale” separata dall’uomo reale (l’homme delle costituzioni democratiche), alla quale entità corrispondeva nella vita quotidiana, come sua fondazione, l’uomo materiale, egoista, della società civile, ma al contrario doveva essere un uomo teso a realizzare materialmente, fattualmente, in cooperazione collettiva con i suoi consimili la propria socialità nella vita quotidiana, dalle immediate questioni quotidiane agli affari di Stato. […] La soluzione tattica dei problemi del tempo fu lo smantellamento radicale, burocratico, di ogni propensione che potesse trasformarsi in atto preparatorio di una democrazia socialista. Il sistema dei Consigli cessò in pratica di esistere».[7]

 

Sistemi a confronto
Lukács trova nel regime sovietico e nel “capitalismo democratico” la stessa verità, ovvero la manipolazione. Con Levinas potremmo utilizzare l’espressione il y a: la libertà è l’armonia dialettica tra soggetto e comunità; nei totalitarismi – riconosciuti e non –, il popolo diventa massa, un corpo indifferenziato pronto ad essere utilizzato per fini eteronomi. La denuncia del pensatore ungherese è ad ampio orizzonte. La storia dell’Unione Sovietica serve per leggere la storia del sistema che si dichiara democratico, ma che in realtà nasconde tra le sue pieghe problemi e limiti simili, ma espressi con mezzi tecnici e ideologici differenti. Pertanto la semplice contrapposizione, ha permesso la sopravvivenza dei due sistemi, e non di rielaborare criticamente il superamento dialettico di entrambi. Perché si possano riallacciare i sentieri interrotti della democrazia sostanziale e socialista, è necessario rileggere il pensiero marxiano e riattivare la categoria della prassi e della logica della modalità, le quali introducono nella storia la libertà, il possibile decisionale storico contro le forme di positivismo che naturalizzano il capitalismo ed in passato sono servite per congelare la storia dei paesi comunisti.

 

Prassi e libertà
La filosofia della prassi è già politica, in quanto la consapevolezza che la storia non segue le leggi naturali, ma è lo spazio ed il tempo in cui gli esseri umani decidono responsabilmente e rispondono dei loro errori, libera dai ceppi ideologici del positivismo. Bisogna rimettere al centro la libertà, la qualità della libertà contro il liberticidio dell’edonismo tecnocratico; libertà è relazione tra teoria e prassi senza la quale l’essere umano non è che un suddito dei poteri trascendenti, a cui deve obbedire negando la sua essenza (Gattungswessen).
Il tatticismo è la negazione della verità della politica, poiché non ha finalità universali da mediare nelle contingenze, ma si limita alla difesa ideologica del particolare, di interessi immediati. Non vi è conseguentemente un progetto comune, ma solo razionalità strumentale senza razionalità oggettiva. Il tatticismo prepara la gabbia d’acciaio, in quanto è l’eternizzarsi del presente, mentre la libertà è il movimento della storia. La storia senza dialettica è la negazione dell’essere umano e prepara la disperazione del presente:

«Proprio questo legame del regno della libertà con la sua base socio-materiale, con il regno economico della necessità, mostra come la libertà del genere umano sia il risultato della propria attività. La libertà, e anche la possibilità di essa, non è qualcosa che sia dato per natura, né un dono dall’ “alto”, e neppure parte integrante – d’origine misteriosa – dell’essere umano».[8]

Se nella storia si forma il nuovo, e si riconosce la verità, nessuna teoria può profetizzare il nuovo con esattezza. Ma senza la teorizzazione politica la storia è consegnata al caos; la teoria in contatto con la prassi mette in atto la libertà e la responsabilità dell’essere umano, in quanto la libertà è l’attività che deve fare interagire teoria e prassi.

La libertà è solo nella verità. L’alternativa è l’eristica (dal greco ἐριστική τέχνη), l’argomentare/battagliare sofistico e liberticida. Senza la verità non vi è libertà, poiché la verità pone il limite, permette alle pluralità di riconoscersi sul comune confine. La verità è nella storia, è metafisica del quotidiano senza il quale non vi è che la violenza dell’alienazione.

Salvatore Bravo

[1] György Lukács, Storia e coscienza di classe, Mondadori, Milano 1973, p. 115.

[2] Ibidem, p. 64.

[3] Ibidem.

[4] Ibidem, p. 66.

[5] Ibidem, pp. 66-67.

[6] Ibidem, pp. 96-97.

[7] Ibidem, pp. 98-99.

[8] György Lukács, L’uomo e la rivoluzione, Punto rosso, Milano 2013, p. 22.




György Lukács (1885-1971)  –  «Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna». Il momento puramente soggettivo, l’estraniarsi da ogni collettività, il disprezzare ogni comunità annulla ogni vincolo con la società e nell’opera stessa: autodissoluzione dell’arte in seguito a quella lontananza dalla vita ch’essa si pone per principio.
György Lukács (1885 – 1971) – Il fuoco che arde nell’anima partecipa all’essenza delle stelle. Perché il fuoco è l’anima di ogni luce, e nella luce si avvolge il fuoco.
György Lukács (1885-1971) – Questo trasformarsi in merce di una funzione umana rivela con la massima pregnanza il carattere disumanizzato e disumanizzante del rapporto di merce.
György Lukács (1885-1971) – Considerazioni su «Marx, il cinema e la critica del film», un libro di Guido Aristarco (1918-1996). La tendenza generale è il dominio della manipolazione, a cui in misura sempre più vasta si va assoggettando anche, e tutt’intero, il campo dell’arte.
György Lukács (1885-1971) – Uno dei tratti più fecondi e caratteristici di Lenin è che egli non cessò mai di imparare teoricamente dalla realtà e che in pari tempo era sempre pronto ad agire.

Donatella Di Cesare – La veglia è il preludio della filosofia. L’armonia nascosta che governa il cosmo è racchiusa nel lógos. Ma chi vorrà ascoltare il lógos? molti Vivono ripiegati su di sé, come se dormissero, prigionieri della propria privatezza. Eraclito denuncia ciò che impedisce di accedere a quel che è comune, restando nell’isolamento della notte, precludendosi la partecipazione al giorno comune e al mondo comune.

Donatella Di Cesare 01

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«I filosofi sono i sublimi migranti del pensiero»

La veglia è stata sin dall’inizio tema peculiare della filosofia.
Al punto da divenirne la rappresentazione simbolica, la metafora perspicua che la precede, prima ancora che la filosofia abbia un nome. Misterioso sorgere del lume interiore che segna il riaffiorare dalla notte, forza del richiamo, stupore della vita che si desta, ritorno a sé: questo è anzitutto la filosofia.
A sciogliere dal mito il chiarore diurno, innalzandolo a categoria metafisica, è stato Eraclito, detto l’«oscuro», per il suo stile enigmatico e oracolare. Si inaugura così l’avventura del pensiero che, guidato dalla luce del lógos, articola il mondo, che diventa cosmo, dispiegandosi in un superamento ininterrotto del proprio angusto, infimo raggio, verso una sfera sempre più vasta, elevata e comune.
Ben poco si sa della vita di Eraclito. I biografi antichi gli attribuirono stirpe regale. Diogene Laerzio dice che fu «altero quant’altri mai e superbo» (IX, i – A i). Quel suo atteggiamento, quasi sprezzante, era dovuto a un dissidio con i concittadini, ai quali rimproverava l’esilio imposto al suo amico Ermodoro dopo la fallita rivoluzione democratica. Efeso, città della Ionia, al confine tra la costa turca e il mare europeo, non era ancora Atene. Ma le tensioni non mancavano. Eraclito si estraniò, risentito, dalla vita politica, rifiutò la richiesta di dare leggi alla polis, che gli appariva oramai governata da una cattiva Costituzione. Si ritirò nel tempio di Artemide, dove la leggenda vuole che deponesse il suo grande libro suddiviso in tre discorsi: il primo sul tutto, il secondo politico, il terzo teologico. Qualcuno in seguito diede all’opera un titolo ricorrente: Perì phúseos. Quasi che Eraclito avesse scritto un trattato sulla phúsis, sulla natura intesa come principio e sostanza di tutte le cose. A consolidare questa visione, fuorviante e riduttiva, contribuì Aristotele. Esiste, tuttavia, un’antica tradizione, impersonata ancora dallo stoico Diodoto, secondo cui il libro di Eraclito, a parte alcuni esempi, non aveva nulla a che fare con la natura e affrontava invece argomenti politici: perì politeías.

D’altronde non è difficile riconoscere, su uno sfondo numinoso, l’ispirazione politico-tragica del pensiero di Eraclito negli oltre centoventi frammenti che restano della sua opera. A parlare non è tanto l’indagatore del cosmo, quanto il severo guardiano della città, l’interprete del pólemos, quel conflitto, «padre» di tutte le cose, che su tutte regna (B 53). La contesa della pólis viene proiettata sulla realtà per scrutarne a fondo la legge che la governa, per collegare ciò che è apparentemente sparso e molteplice nella sua unità, per cogliere la palíntropos harmoníe, la «discorde armonia» dei contrari (B 51). È la città a offrire il paradigma ermeneutico del mondo.
Percepire in ogni differenza l’uno: questo è il merito di Eraclito, precursore riconosciuto della dialettica. Così ha scritto Hegel: «qui vediamo finalmente terra: non c’è frase di Eraclito che io non abbia accolto nella mia Logica». Occorre tuttavia evitare forzature di prospettiva storica. La concordia degli opposti, quell’enigmatico legame eli cui parla Eraclito, non è l’unità speculativa, ma piuttosto il passaggio repentino per cui l’uno si muta incessantemente nell’altro: vita e morte, giorno e notte, veglia e sonno, estate e inverno, pace e guerra. Erroneamente questa visione è stata irrigidita in una dottrina del divenire perenne, del fluire, quel pánta rheî, di cui non si rinviene traccia nei frammenti di Eraclito, il quale ricorda sì il fiume – in cui «entriamo e non entriamo, siamo e non siamo» (B 49a) – per insistere, però, sull’alternarsi delle acque sempre diverse. Non sorprende che sia in particolare il fuoco, che vive trasformandosi, che muta a seconda dei profumi con cui si mescola, a restituire visivamente la concorde armonia degli opposti.
A questa legge non si sottraggono neppure i nomi che, anzi, portano alla luce le opposizioni. Eraclito inaugura la schiera di quei pensatori che guardano al linguaggio per comprendere la realtà. L’armonia nascosta, che governa il cosmo, è racchiusa nel lógos, secondo cui tutto accade, legge eterna e universale, capace di regolare il divenire, che non è un cieco precipitare, bensì un sapiente trascorrere da un contrario all’altro.
Ma chi vorrà ascoltare il lógos?
[…] Ecco la domanda di Eraclito, che contiene già un monito.
Sordi, assenti, quasi assopiti, preda di flussi onirici e opinioni particolari, lontani da ciò che è saggio, sophón, i mortali si sottraggono all’ascolto. Vivono ripiegati su di sé, come se dormissero, prigionieri della propria privatezza, della loro asfittica meschinità.
Così viene denunciata l’idiozia, che etimologicamente – idiótes deriva da ídios, proprio – in greco rinvia alla proprietà.
Impossibile allora accedere a quel che è comune, koinón.
Eraclito usa la forma ionica xunón che, con un gioco di parole, riconduce a xùn nôi, cioè con il noûs, «con la ragione» (B 114).
Non solo l’intelligenza è comune, ma è sull’intelligenza che si basa ciò che è comune.
Non si tratta di intuizione immediata, bensì di conoscenza ordinatrice del cosmo che si articola e si raccoglie nel lógos.
Idiota è chi rifiuta l’ascolto, chi resta nell’isolamento della notte, precludendosi la partecipazione al giorno comune e al mondo comune.
Così suona la sentenza di Eraclito: «unico e comune è il mondo per coloro che sono desti, mentre nel sonno ciascuno si rinchiude in un mondo suo proprio e particolare» (B 89).

[…] La veglia è il preludio della filosofia.

Il richiamo alla veglia torna incessante nei frammenti. In seguito la filosofia farà sua questa esortazione.
Pensare è aver parte alla vigilanza del lógos che accomuna.
La «saggezza privata», idía phrónesis, è un ossimoro, perché quel che affiora nel singolo, sogni, immagini, opinioni, idee, non è che vuota, morta illusione. Tale è destinata a rimanere, finché non trovi la via della comunanza.
Dunque no, non dormite!
Non lasciatevi andare al sonno dell’idiozia privata!
Così ripete Eraclito rivolto ai più che vivono nel torpore. «Non bisogna agire e parlare come se si stesse dormendo», ingiunge perentorio (B 73).

 

Donatella Di Cesare, Sulla vocazione politica della filosofia, Bollati Boringhieri, Torino 2018, pp. 16-20.

 

 

 

 

Quarta di copertina
È tempo che la filosofia torni alla città. Anzitutto per risvegliarla da quel sonnambulismo che la narcosi di luce del capitale ha provocato. Ma quale margine ha il pensiero nel mondo globalizzato, chiuso in se stesso, incapace di guardare fuori e oltre? Mentre viene richiamata alla sua vocazione politica, la filosofia è spinta a non dimenticare la sua eccentricità, la sua atopia. Nata dalla morte di Socrate, figlia di quella condanna politica, sopravvissuta a salti coraggiosi e rovesci epocali, come nel Novecento, la filosofia rischia di essere ancella non solo della scienza, ma anche di una democrazia svuotata, che la confina a un ruolo normativo. In questo libro, dove traccia le linee del proprio pensiero, tra esistenzialismo radicale e nuovo anarchismo, Donatella Di Cesare riflette sul rientro della filosofia nella pólis, divenuta metropoli globale. Non bastano la critica e il dissenso. Memori della sconfitta, dell’esilio, dell’emigrazione interna, i filosofi tornano per stringere un’alleanza con gli sconfitti, per risvegliarne i sogni.

Donatella Di Cesare


Epicuro (342 a.C. – 270 a.C.) – Né quando uno è giovane esiti a filosofare, né quando è vecchio si stanchi di dedicarsi alla filosofia.

Μήτε νέος τις ὢν μελλέτω φιλοσοφεῖν, μήτε γέρων ὑπάρχων κοπιάτω φιλοσοφῶν. οὔτε γὰρ ἄωρος οὐδείς ἐστιν οὔτε πάρωρος πρὸς τὸ κατὰ ψυχὴν ὑγιαῖνον. ὁ δὲ λέγων ἢ μήπω τοῦ φιλοσοφεῖν ὑπάρχειν ὥραν ἢ παρεληλυθέναι τὴν ὥραν, ὅμοιός ἐστιν τῷ λέγοντι πρὸς εὐδαιμονίαν ἢ μὴ παρεῖναι τὴν ὥραν ἢ μηκέτι εἶναι. ὥστε φιλοσοφητέον καὶ νέῳ καὶ γέροντι, τῷ μὲν ὅπως γηράσκων νεάζῃ τοῖς ἀγαθοῖς διὰ τὴν χάριν τῶν γεγονότων, τῷ δὲ ὅπως νέος ἅμα καὶ παλαιὸς ᾖ διὰ τὴν ἀφοβίαν τῶν μελλόντων· μελετᾶν οὖν χρὴ τὰ ποιοῦντα τὴν εὐδαιμονίαν, εἴπερ παρούσης μὲν αὐτῆς πάντα ἔχομεν, ἀπούσης δὲ πάντα πράττομεν εἰς τὸ ταύτην ἔχειν.

 

Né quando uno è giovane esiti a filosofare, né quando è vecchio si stanchi di dedicarsi alla filosofia. Infatti nessuno è né prematuro né fuori stagione per ciò che rende sani nella mente. Invece colui che dice o che non è ancora presente la stagione del praticare la filosofia o che è passata la stagione è simile a colui che dice che per la felicità o non è arrivata la stagione o non c’è più. Cosicché è necessario che pratichi la filosofia sia il giovane sia il vecchio, questo affinché invecchiando resti giovane per gli aspetti positivi della vita grazie alla soddisfazione delle cose passate, l’altro invece affinché sia giovane e nello stesso tempo vecchio per la mancanza di timore delle cose future; bisogna dunque esercitare le attività che determinano la felicità, se è vero che, quando essa è presente abbiamo tutto, quando invece è assente facciamo tutto allo scopo di averla.

 

Epicuro, Epistola a Meneceo, 122.

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Lettera a Meneceo


Epicuro, busto marmoreo, copia romana dell’originale greco (III secolo-II secolo a.C.), Londra, British Museum.
Epicuro (342 a.C. – 270 a.C.) – Con maggior piacere gode dell’abbondanza chi meno di essa ha bisogno

Amnon Kapeliouk (1930-2009) – 16 settembre 1982. «Sabra e Chatila. Inchiesta su un massacro». Il paesaggio sfida qualsiasi descrizione. Un’incarnazione dell’orrore, una visione dopo un uragano. dimensione di barbarie È questo spettacolo spaventoso. Un puzzo acre di cadaveri aleggia sulle macerie.

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16 settembre 1982

امذبحة صبرا وشاتيل

madhbaḥa Ṣabrā wa-Shātīlā


Amnon Kapeliouk

Sabra e Chatila. Inchiesta su un massacro

Presentazione di Helarion Capuci. Introduzione di Stefano Chiarini

a cura di Giancarlo Paciello e Carmine Fiorillo

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In copertina:
Pittogramma arabo del poeta Mouhamad Hamza Ganayem che significa
«... verso il cielo che piange/una pioggia leggera e tranquillizzante/su un mare di rifugiati…».

Quando, nel 1983, decidemmo di pubblicare per la prima volta in italiano questo libro motivammo così la nostra scelta: «Il testo che pubblichiamo si inserisce nel quadro di una pubblicistica sempre più rara, una pubblicistica che fa della verità e dell’indipendenza di giudizio la base irrinunciabile di ogni attività di documentazione e di analisi della realtà. Pensiamo a chi, sia pure da un ben preciso punto di vista, sappia e voglia attenersi ai fatti, ignorando le interpretazioni di comodo della realtà». E Amnon Kapeliouk, che aveva scritto in meno di due mesi l’inchiesta su quell’orribile carneficina che si svolse nei campi profughi di Sabra e Chatila, a Beirut, apparteneva di diritto a simile pubblicistica, con il suo esempio di impegno e di dignità intellettuale innanzitutto nei confronti del popolo palestinese martoriato e misconosciuto.

Nel 2002, dopo più di vent’anni, quando pubblicammo in seconda edizione il libro, questo popolo subisce, sulla sua terra, ancora violenze e distruzioni. Nel 2002, come più di vent’anni prima, Amnon Kapeliouk era lì, ancora una volta con il suo coraggio e la sua dignità di uomo.  A pochi giorni dall’incubo vissuto nei campi profughi di Jenin da più di quattordicimila palestinesi asserragliati in un chilometro quadrato e bombardati da carri armati a da elicotteri da combattimento Cobra, è andato di persona a Jenin, per un’altra inchiesta. E, su Le Monde Diplomatique di maggio 2002, in un articolo dal titolo Jénine, enquete sur un crime de guerre, comincia così: «Il paesaggio sfida qualsiasi descrizione. Un’incarnazione dell’orrore, una visione dopo un uragano. Case distrutte, un tutto o in parte, rottami di cemento e di ferro, grovigli di fili elettrici. Auto polverizzate dai carri armati o dai missili aggiungono una dimensione di barbarie a questo spettacolo spaventoso. Un puzzo acre di cadaveri aleggia sulle macerie. Non resta nulla delle infrastrutture».

Vogliamo  sottolinearne due aspetti. Il primo è relativo alla sua capacità di Kapeliouk di andare a fondo, di cogliere l’essenziale della mostruosità. Riesce a farsi raccontare come tutto il campo profughi fosse diventato un bersaglio estremamente differenziato. Con il satellite, sono state rilevate le posizioni delle 1100 case e a ciascuna di esse è stato assegnato un numero, di quattro cifre precisa l’interlocutore. Sopra Jenin volavano sempre due Cobra, e i piloti di turno ricevevano un numero, più semplice di così! Il secondo aspetto riguarda la qualifica di questi attacchi, che nonostante tutto hanno richiesto otto giorni per vincere la resistenza del popolo palestinese di Jenin. Kapeliouk non ha dubbi, si tratta di un crimine di guerra dello Stato d’Israele. Un terrorismo di stato in piena azione, ci viene di concludere.

L’edizione del 2002 è in tutto identica alla precedente, fatte salve evidentemente la presentazione di monsignor Helarion Capucci e l’introduzione di Stefano Chiarini. Anche l’appendice, nella quale l’autore esprime le sue critiche e le sue riserve al documento conclusivo della commissione d’inchiesta israeliana sui massacri di Sabra e Chatila, il famoso rapporto Kahane, è di Amnon Kapeliouk, ed era presente nella prima edizione.

Oggi, nel 2019, 37 anni dopo, di fronte all’oblio generalizzato, noi vogliamo far memoria di quella strage e di tutte quelle altre che sono state perpetrate sul popolo palestinese in lotta per la propria dignità, per la propria terra, per la propria indipendenza.

Viva il popolo palestinese !!

Giancarlo Paciello

Carmine Fiorillo

La prima edizione italiana del testo di Kapeliouk, nella traduzione di Giancarlo Paciello, compare nel giugno 1983 come supplemento al nn. 20/22 di Corrispondenza Internazionale, periodico di documentazione culturale e politica, Anno VII. Nella redazione: Carmine Fiorillo e Giancarlo Paciello.



Giancarlo Paciello – Ci risiamo: ancora l’infame riproposizione “Processo di pace” e “Due popoli, due Stati!”
Giancarlo Paciello – La Costituzione tradita. Intervista a cura di Luigi Tedeschi
Giancarlo Paciello – Ministoria della Rivoluzione cubana
Giancarlo Paciello – Diciamocelo: un po’ di storia non guasta. Dalle “battaglie dell’estate” del 1943 in Europa, all’avvento dell’Italia democristiana nel 1949
Giancarlo Paciello – Oggi 29 novembre! Oggi, ancora, solidarietà per il popolo palestinese.
Giancarlo Paciello – Uno scheletro nell’armadio dello Stato: la morte di Pinelli.
Giancarlo Paciello – Per il popolo palestinese. La trasformazione demografica della Palestina. Cronologia (1882-1950). Ma chi sono i rifugiati palestinesi? Hamas, un ostacolo per la pace? L’unico vero ostacolo: occupazione militare e colonie.
Giancarlo Paciello – Ascesa e caduta del nuovo secolo “americano” (Potremo approfittarne? Sapremo approfittarne?)
Giancarlo Paciello – Considerazioni sul sistema elettorale e dintorni. Da tempo ormai, il campo elettorale non è più un vero e proprio luogo di rappresentanza di interessi economici e sociali, ma è una protesi artificiale di apparente pluralismo.
Giancarlo Paciello – La rivolta o meglio, la rivincita del popolo, o meglio ancora, del demos
Giancarlo Paciello, legge il libro «I bianchi, gli ebrei e noi». L’amore rivoluzionario di Houria Bouteldja.
Giancarlo Paciello – Elogio sì, ma di quale democrazia? La rivolta o forse la rivincita del demos.
Giancarlo Paciello – 30 Marzo. Yom el-Ard, la “Giornata della terra palestinese”.
Giancarlo Paciello – Si può essere ebrei, senza essere sionisti? Note a margine di un articolo di Moni Ovadia dal titolo “L’ANTISIONISMO NON È ANTISEMITISMO”


Salvatore Bravo – Tra “oti” e “dioti”. Una civiltà si giudica dalla pratica della verità con la quale si autofonda. Senza radicamento comunitario non vi è futuro per il singolo come per l’umanità, il bisogno di radicamento è il paradigma che distingue la vita buona dalla non vita.

Simone Weil 034

Salvatore Bravo

Tra “oti” e “dioti”

Una civiltà si giudica dalla pratica della verità con la quale si autofonda, il dioti /propter quid (il perché) deve vivere in tensione con l’oti /quod est (il che). Se tra il perché ed il che non vi è dialettica, ci si trova di fronte a forme di integralismo dogmatico. L’oti descrive il fenomeno, lo rappresenta separato dalla totalità senza intenderne il senso, il telos a cui tende. La descrizione è finalizzata al risultato ed all’utile. Il dioti interpreta in profondità, umanizza e spalanca le porte al vivere comunitario, in quanto coglie con la razionalità la verità, senza la quale non vi è politica, non vi è prassi, non vi è comunità. Se l’oti consente di misurare per usare, la verità è la precondizione per un comune progetto: senza il dioti non vi è umanesimo, ma solo tecnocrazia. La verità è al plurale, essa è nella storia di una comunità e dell’umanità. Il tempo della storia svela le contingenze distinguendole dall’eterno. Altra è l’esattezza che quantifica e consente di prevedere la ripetizione del fenomeno. Senza verità la vita di un essere umano è esposta agli eventi, è determinata dalle strutture di calcolo, è sussunta divenendo ente da misurare per essere controllato come semplice fondo di investimento (il capitale umano).
La verità si rivela nella razionalità dialogica in modo sempre perfettibile e pone l’essere umano in una posizione di attività e di cura verso l’ambiente, in tal maniera il tempo da cronologico (χρόνος-chronos) diviene qualitativo (καιρός-kairos).
Il tempo del kairos è tempo speciale, tempo nel quale gli attimi non si succedono eguali ed anonimi, ma rivelano la verità individuale ed universale senza contrapporle, ma fondendole nel tripudio della vita che si ritrova nel pensiero, che si umanizza nel concetto (Begriff) senza il quale non vi è che la dispersione, l’emorragia degli attimi e delle vite.

Diritti e doveri
Simone Weil distingue i doveri dai diritti, i primi sono necessità oggettivamente presenti nell’essere umano, mentre i diritti dipendono dalle contingenze e dal reciproco riconoscimento degli esseri umani. Senza il dovere il diritto non è che abuso, arbitrio, in quanto il riconoscimento dei doveri è la conditio sine qua non per un’esistenza degna di essere giudicata tale. Non vi è comunità senza il riconoscimento dei bisogni autentici degli esseri umani. Il dovere precede il diritto e continuerebbe ad esistere anche senza il riconoscimento degli esseri umani: è la verità di ciascuno, a cui non si può sfuggire.
Il dovere rispetto alla verità, ai beni collettivi, all’ordine armonico, umanizzano e sono propri dell’essere umano: senza di essi anche la civiltà più avanzata non si distingue dallo stato ferino. Simone Weil riflette con inquietudine, durante la seconda guerra mondiale sul mondo che verrà, un mondo di cui profetizza il trionfo dei diritti sui doveri, uno sbilanciamento che raffigura il concretizzarsi di nuove forme di violenze.
Il dovere di riconoscere i bisogni autentici è sostituito dai diritti contingenti (ed unicamente da questi): si è dinanzi ad un fenomeno di degradazione della natura umana. I soli diritti non possono che degenerare in desideri, in individualismo e dismisura. Il disordine della psiche è così istituzionalizzato, e l’essere umano è consegnato al disordine dei desideri indotti dalla struttura economica e dai poteri tecnocratici. Il diritto deve trovare il suo senso ed il suo limite proficuo nei bisogni della persona:

«Il primo criterio di distinzione dei bisogni dai desideri, dalle fantasie e dai vizi, dei cibi dalle ghiottonerie e dai veleni è che i bisogni sono limitati quanto i cibi corrispondenti. Un avaro non ha mai abbastanza oro, ma per ogni uomo, cui venga dato pane a volontà, verrà il momento della sazietà. Il nutrimento porta alla sazietà. Avviene lo stesso col nutrimento dell’anima. Il secondo criterio, legato al primo, è che i bisogni si dispongono per coppie di contrari e devono combinarsi in un equilibrio. L’uomo ha bisogno di nutrimento, ma anche di un intervallo fra i pasti; ha bisogno di caldo e di fresco, di riposo e di esercizio. Avviene lo stesso per i bisogni dell’anima».[1]

I desideri si connotano per essere illimitati, occupano ogni spazio psichico provocando lo sradicamento da sé e dalla comunità, sono gli alfieri del diritto a tutto, provocano l’isolamento dell’essere umano da sé e dal mondo. Il ripiegamento su se stessi è la forza con cui i poteri tecnocratici conservano il loro potere. Il desiderio si presenta come paradigma di valutazione della vita provocando la perenne rincorsa ai consumi ed alla frustrazione di massa.
I bisogni autentici disegnano un ordito di senso intorno ai diritti socialmente riconosciuti, e specialmente consentono di discernere il bisogno dai desideri, mettendo in moto i processi di disalienazione. La misura disegna l’equilibrio nell’anima e nella comunità.

Verità
Il primo bisogno per un essere umano è la verità, dalla verità verso se stessi, alla verità dell’informazione. Una comunità nazionale che non riconosce il bisogno alla verità recide in ogni essere umano la prima radice che lo tiene in vita e che lo tiene legato agli altri, al proprio tempo, alla propria storia. L’essere umano necessita di molte radici, di piani di verità che si integrano, senza i quali la vita non è che anomia ed è vissuta come priva di valore: è il regno del grigiore delle passioni debilitanti. Se la verità è sostituita dalla menzogna, si diffonde un profondo senso di scoramento e smarrimento, ci si rifugia in mondi paralleli, in oppiacei che se nell’immediato sono di ausilio per sopportare l’insopportabile, sul lungo periodo riducono l’essere umano ad atomo insignificante:

«Il bisogno di verità è il più sacro di tutti. Eppure non se ne parla mai. La lettura fa spavento, quando ci si sia resi conto della quantità e dell’enormità di menzogne materiali, diffuse senza vergogna anche nei libri degli autori più stimati. E così leggiamo come se si bevesse acqua di un pozzo sospetto. Ci sono uomini che lavorano otto ore al giorno e che, di sera, compiono l’enorme sforzo di leggere per istruirsi. Non possono concedersi il lusso di effettuare ricerche e verifiche nelle grandi biblioteche. Al libro che leggono, essi prestano fede. Non abbiamo il diritto di nutrirli di menzogne. Che senso può avere opporre la buona fede degli autori? Essi non lavorano fisicamente otto ore al giorno. La società li nutre perché abbiano tempo e modo per sforzarsi di evitare gli errori. Un addetto agli scambi che abbia provocato un deragliamento troverebbe una pessima accoglienza se volesse scusarsi dicendo di essere stato in buona fede».[2]

Il bisogno di verità non è riconosciuto nell’epoca del totalitarismo capitalista. Ci si sofferma sul diritto ad essere informati della giusta quantificazione, nei migliori dei casi, ma la verità è trattata con aria di sussiego come un limite all’esattezza, all’espansione economica illimitata. E comunque nessuno deve discutere la “verità” dell’espansione economica, il fondamento che la dinamizza. Senza la verità non vi è comunità democratica, perché solo il fine veritativo mediato dalla ragione – e dunque compreso – permette di cambiare rotta, di deviare in modo consapevole da una “verità” che si rivela come contingente e posticcia.
La verità è negata anche a livello personale. Ciascun individuo è portatore di un universo, di un’indole che si determina storicamente: il radicamento in se stessi è la condizione per partecipare e dialogare alla vita comunitaria, lo sradicamento dalla propria verità personale è la necrosi di un essere umano, che si ritrova nella gettatezza distante da sé e da tutti, esposto agli eventi e dunque manipolabile.

L’appartenenza patria
Le radici sono al plurale, il bisogno di radicamento si esplica nella viva tradizione della comunità patria in cui ci si riconosce, di cui si condivide il destino storico e dunque verso la quale ci si responsabilizza. Le radici si nutrono dello spirito, della cultura. Senza tale nutrimento le radici avvizziscono, il soggetto umano non ha la possibilità di formarsi e di pensare in modo divergente. Le radici gemmano, producono nuovi rizomi, se ogni individuo sente il legame non come catena, ma come l’esserci di senso, si riconosce in una storia per riplasmarla nuovamente. Il cosmopolitismo, il relativismo sempre più spinto verso il nichilismo passivo depaupera l’essere umano del suo bisogno di appartenenza, della sua disposizione al dono. Lo si deresponsabilizza in modo da ripiegarlo su se stesso, rendendolo indifferente alla vita altrui. L’indifferenza slega, è il sentimento antipolitico per eccellenza:

«Non è possibile soddisfare l’esigenza di verità di un popolo se a tal fine non si riesce a trovare uomini che amino la verità. Il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell’anima umana. È tra i più difficili da definire. Mediante la sua partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro, l’essere umano ha una radice. Partecipazione naturale, cioè imposta automaticamente dal luogo, dalla nascita, dalla professione, dall’ambiente. Ad ogni essere umano occorrono radici multiple. Ha bisogno di ricevere quasi tutta la sua vita morale, intellettuale, spirituale tramite gli ambienti cui appartiene naturalmente». [3]

Le radici multiple magnificano l’essere umano, trasformano frustrazioni ed aggressività, le sublimano in attività creatrice. Senza radici multiple la persona è fragile e riempie il suo tempo di merci e desideri. Si limitano, così, le capacità di creare spazio per nuove possibilità concettuali. Il tempo senza radici è colmo di cose, di desideri indotti, è tempo del sistema che si installa nella carne.

Beni collettivi
I beni collettivi rivelano che la persona è per essenza comunitaria. Nel bene collettivo l’essere umano vive in modo concreto l’appartenenza alla storia, alla grande famiglia della comunità patria. Lo spazio comune forma personalità solidali, pronte all’incontro. I beni collettivi sono l’agorà dove la parola è comunicazione. Senza beni pubblici non vi è vita civica, ma solo frammentazione competitiva e narcisistica:

«Un bisogno altrettanto importante è la partecipazione ai beni collettivi, partecipazione che non consiste in una fruizione materiale, ma in un sentimento di proprietà. Si tratta più di uno stato spirituale che di una disposizione giuridica. Là dove esiste veramente una vita civica, ognuno si sente personalmente proprietario dei monumenti pubblici, dei giardini, della magnificenza esibita nelle cerimonie; e così, il lusso che quasi ogni essere umano desidera è concesso persino ai più poveri. Ma non solo lo stato bensì qualsiasi specie di collettività ha il dovere di fornire la soddisfazione di questo bisogno».[4]

Lo sradicamento
La prima forma di sradicamento nel capitalismo avanzato è la precarizzazione del lavoro. Il precario ha un solo pensiero: il denaro. Per il precario non vi è possibilità di radicamento e di buona vita, perché è ossessionato dal denaro, dal timore di non poter soddisfare il minimo vitale, sempre esposto al ricatto della disoccupazione e della facile sostituzione dei lavoratori. Nel precario si consuma la tragedia del capitalismo, ma ne svela, anche, la verità violenta: il fine del capitalismo è lo sfruttamento ed il plusvalore:

«Esiste una condizione sociale – il salariato – completamente e perpetuamente legata al danaro, soprattutto da quando il salario a cottimo costringe ogni operaio ad essere sempre teso mentalmente alla busta paga. La malattia dello sradicamento raggiunge il massimo di gravità proprio in questa condizione sociale. Bernanos ha scritto che i nostri operai, almeno, non sono gente immigrata come quelli del signor Ford. Ma la principale difficoltà sociale del nostro tempo deriva dal fatto che essi, in un certo senso, lo sono. Benché geograficamente non abbiano mutato dimora, sono stati sradicati moralmente, esiliati e poi riammessi di nuovo, quasi per tolleranza, come carne da lavoro. La disoccupazione, beninteso, è uno sradicamento alla seconda potenza. Non si sentono in casa propria né in fabbrica, né nelle loro abitazioni, né nei partiti e sindacati che si dicono fatti per loro, né nei luoghi di divertimento, né nella cultura intellettuale, qualora tentino di assimilarla». [5]

 

Violenza e sradicamento
Lo sradicamento è vettore di violenza, la centuplica: lo sradicato non ha vincoli e pertanto è disponibile ad essere veicolo di sradicamento. Lo sradicato non ha storia, non ha riferimenti etici, si sente gettato al mondo, non se ne sente parte o accolto, per cui l’aggressività è la sua difesa, la rabbia covata a lungo è pronta scaricarsi senza mediazione del logos:

«Da alcuni secoli, gli uomini di razza bianca hanno distrutto dovunque il passato, stupidamente, ciecamente, nelle loro patrie e nelle patrie altrui. Se ciò nonostante c’è stato, per taluni aspetti, un reale progresso nel corso di questo periodo, ciò non è accaduto per merito di questa furia distruttiva, ma suo malgrado, per l’impulso di quel poco di passato che sopravviveva. Il passato distrutto non torna mai più. La distruzione del passato è forse il delitto supremo. Ai giorni nostri, la conservazione di quel poco che resta dovrebbe diventare quasi un’idea fissa. Bisogna arrestare il terribile sradicamento che viene continuamente prodotti dai metodi coloniali europei, persino quando assumono le forme meno crudeli. Bisogna astenersi, dopo la vittoria, dal punire il nemico vinto, perché così lo si sradicherebbe anche di più. Poiché non è possibile né desiderabile sterminarlo, aggravare la sua follia vorrebbe dire essere più pazzi di lui. In qualsiasi innovazione politica, giuridica o tecnica suscettibile di ripercussioni sociali, bisogna anzitutto mettere in programma provvedimenti che consentano agli esseri umani di riavere radici». [6]

L’alternativa alla violenza per lo sradicato è l’indifferenza, la malinconia depressiva dovuta al sentirsi nulla, all’estraneità al mondo. I cosiddetti Neet, giovani che consumano la loro esistenza nell’indifferenza e nella passività, denunciano la disumanità dello sradicamento, il silenzio di un mondo che, mentre offre l’esattezza nega i bisogni primi senza i quali non vi è che il vuoto alienante dei giorni che si susseguono eguali.

Senza radicamento comunitario non vi è futuro per il singolo come per l’umanità, il bisogno di radicamento è il paradigma che distingue la vita buona dalla non vita:

«L’anima umana ha bisogno più d’ogni altra cosa di essere radicata in molteplici ambienti naturali e di comunicare con l’universo per il loro tramite. La patria, gli ambiti definiti dalla lingua, dalla cultura, da un passato storico comuni, la professione, il paese, sono esempi di ambienti naturali. È criminale ciò che ha per effetto di sradicare un essere umano o di impedire che metta radici». [7]

La globalizzazione riduce le radici, le assottiglia, sradica in senso orizzontale e verticale. Non resta che lo spazio ed il tempo da attraversare, da fendere in modo continuo. Si assiste ad una rivoluzione antropologica che vorrebbe negare ogni forma di umanesimo in nome dei soli diritti formali ed individuali. Simone Weil comprese che la fine del conflitto comportava nuovi pericoli e controcorrente pose al centro del suo testo la necessità di praticare i bisogni che permettono all’essere umano la buona vita.

Salvatore Bravo

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[1] Simone Weil, La prima radice, traduzione di Franco Fortini, Mondadori, Milano, p. 6.

[2] Ibidem.

[3] Ibidem, p.21

[4] Ibidem, p. 18

[5] Ibidem, p. 22

[6] Ibidem, p. 25

[7] Simone Weil, Écrits de Londres et dernières lettres, Éditions Gallimard, Paris 1957, p. 83.

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