Jean-Luc Nancy – Nella musica la tenuta dell’istante.

Jean-Luc Nancy 01
Stampa fotografica siglata D.E.H. tratta da «Musica e cartoline», Edicart.

Jean-Luc Nancy

Nella musica la tenuta dell’istante

 

È possibile che chi ascolta la musica senza conoscerla – come si dice di quelli che non dispongono di alcun tipo di cultura musicale – e dunque senza essere capace di interpretarla, l’ascolti effettivamente e non sia piuttosto ridotto soltanto a sentirla? Oppure, se il termine «sentire» non dovesse significare altro che una percezione sonora priva di forma, dal momento che non verrebbe più percepito alcun segnale della vita corrente, è possibile che un tale tipo di ascolto superi il livello di un’apprensione immediata delle pulsioni, dei movimenti e delle risonanze affettive che confusamente dipendono da abitudini acquisite in materia di ritmo e di tonalità (velocità o lentezza, modi maggiori e minori …)?
Senza alcun dubbio l’ascolto competente permette di legare l’apprensione sensibile all’analisi della composizione e dell’esecuzione, come pure di giustificare per suo tramite tutte le inflessioni della sensibilità che vanno dalla comprensione globale di un’opera fino al dettaglio dei suoi momenti o dei suoi registri. Senza alcun dubbio un ascolto musicale degno di questo nome non può consistere che nella giusta combinazione dei due atteggiamenti o delle due disposizioni, quella compositiva e quella sensibile.
Resta il fatto che determinare la giusta misura in questione non è cosa che dipenda da alcuna criteriologia, sia essa musicologica o estetica. Così, l’insieme dei problemi che qui vengono posti non cessa di dare luogo a ricerche molto dotte e complesse, che tuttavia lasciano intatto un nucleo d’oscurità infinitamente fragile ma resistente: come si dividono o come si mescolano il musicista e il musicale? È sufficiente d’altra parte porre la domanda in questi termini per comprendere che essa non riguarda solo il problema dell’ascolto, ma anche quello della composizione e dell’esecuzione. La scienza o la tecnica del musicista non comportano di per sé la musicalità più profonda, più originale o più convincente. Certo non ci sono esempi – o ce ne sono molto pochi – di musicisti naïf nel senso in cui lo è Rousseau il Doganiere (per quanto questo essere naïf non sia affatto sprovvisto di tecnicità e di abilità), ma ce ne sono molti, invece, di tecnici dotati, la cui facoltà musicale si avvizzisce in composizioni scolastiche.
Potrebbe anche essere che questo problema della divisione fra il musicista e il musicale non sia diverso da quello della divisione fra un’apprensione tecnica e un’apprensione sensibile che ritroviamo in tutti i campi dell’arte: nella pittura, nella danza, nell’architettura o nel cinema. In realtà, si tratta ogni volta – con delle modalità molto diverse – dello scarto fra ciò che riconduce un’opera ai suoi mezzi, alle sue condizioni, ai suoi contesti regolati, e ciò che la fa esistere come tale, nella sua unità indivisibile (che del resto non è altro dall’unità indivisibile di un insieme e delle unità discrete, altrettanto indivisibili, delle sue parti, momenti, componenti, aspetti …)
Ciò che fa l’opera non è nient’altro: ciò che la fa nella sua totalità e che la rende un «tutto» non è presente in nessun altro luogo che non siano le sue parti o i suoi elementi. La sensibilità per l’opera, allo stesso modo, si distribuisce, restando indivisa, in ogni parte, in ogni modalità e in ogni regione dell’opera. Quel che chiamiamo «opera» è assai meno una produzione compiuta che non questo movimento, il quale non «produce» ma apre l’opera e non smette di tenerla aperta – o più precisamente di mantenere l’opera in questa condizione di apertura che la costituisce in modo essenziale, e di farlo fino alla sua conclusione, persino se prende forma da quello che la musica chiama risoluzione.

Ascoltare, così come guardare o contemplare, è toccare l’opera in ogni parte – oppure essere toccati da lei, il che è lo stesso. Indubbiamente non c’è una gran differenza fra la coppia formata dal musicista e dal musicale e la coppia dell’iconologico e del pitturale – se è lecito servirsi così di questi termini –, o la coppia del poesiologico e del poetico (identica osservazione), e questo vale per tutte le altre coppie che possiamo definire in qualsiasi campo estetico. Ogni volta non può che trattarsi di una stretta combinazione dell’analisi e del tatto, dove ciascuno dei due acutizza e fortifica l’altro. Un’intima e delicata alleanza fra la sensazione (o il sentimento, è tutt’uno) e la composizione del sensibile.
Quel che distingue la musica, tuttavia, è che la composizione come tale e le sue procedure di assemblaggio non cessano mai di essere in anticipo sul loro proprio sviluppo e di far attendere in qualche modo la risultante – se non il risultato – delle loro sistemazioni, dei loro calcoli, delle loro (musico)logiche. Che sia o non sia musicista, colui che ascolta, nel momento preciso in cui una sonorità, una cadenza, una frase lo tocca (qualcosa che, se è musicista, può determinare in termini di valore, di misura e così via ), viene condotto in un’attesa, spinto verso un presentimento.
Là dove la pittura, la danza o il cinema trattengono sempre in un certo presente – sia pure evanescente – il movimento e l’apertura che costituiscono la loro anima (il loro senso, la loro verità), la musica invece non smette di esporre il presente all’imminenza di una presenza differita, più «a venire» di qualsiasi «avvenire». Presenza non futura, ma solamente promessa, presente solo per via del suo annuncio, della sua profezia nell’istante. Profezia nell’istante e dell’istante: annuncio in questo istante della sua destinazione fuori del tempo, in una eternità. Ad ogni momento la musica non promette uno sviluppo se non per meglio tenere e aprire l’istante – la nota, il levare, il battere – fuori dallo sviluppo, in una coincidenza molto singolare del movimento e della sospensione.
Si tratta di una speranza: non di una previsione che si promette dei futuri possibili, ma di quest’attesa che senza attendere nulla lascia venire e ritornare un tocco di eternità. Questo deve tutto e non deve niente alla successione, all’incorporazione del movimento già passato e all’anticipazione del suo proseguimento. Piuttosto, essa riprende ogni volta il suo stesso cominciamento: l’ouverture, l’ attacco del suono, quell’idea secondo cui il suono modulato già si precede e si succede senza che sia mai possibile fissare un punto zero. È ciò in cui il suono risuona; esso pone in questione se stesso per essere ciò che è: sonoro.
Musica è l’arte della speranza della risonanza: un senso che non produce senso se non in ragione del suo ripercuotersi in se stesso. Si chiama e si ricorda, ricordando in sé e a se stesso, ogni volta, la nascita della musica, vale a dire l’apertura di un mondo in risonanza; un mondo sottratto alle disposizioni degli oggetti e dei soggetti, ricondotto alla propria ampiezza e che non produce senso, o meglio non ha la sua verità, se non nell’affermazione che modula questa ampiezza.
Non è dunque un uditore che ascolta, e al limite poco importa che sia o no musicista. L’ascolto è musicale quando è la musica ad ascoltare se stessa. La musica se ne torna, si ricorda, si risente come la risonanza stessa: un rapporto a sé deprivato, spogliato di ogni egoità e di ogni ipseità. Né «se stesso» né l’altro; né l’identità, né la differenza, ma l’alterazione e la variazione, la modulazione del presente che lo cambia in attesa della propria eternità, sempre imminente e sempre differita; poiché essa non risiede in alcun tempo. Musica è l’arte di far ritornare in ogni tempo il di fuori dal tempo, in ogni momento il cominciamento che si ascolta cominciare e ricominciare. Nella risonanza si esegue – e dunque si ascolta – l’inesauribile ritorno dell’eternità. Questo ritorno, questa revenance, non è inesauribile se non per il fatto che il cominciamento, quando comincia, si perde. Il tremito che lo rende possibile e apre la sospensione, la tenuta dell’istante, è anche l’inadempimento che lo esaurisce e lo destina all’oblio. Il cominciamento ritorna con l’oblio del cominciamento e con l’imminenza di una sparizione sempre rinnovata.
Ascoltandosi, la musica arriva ad ascoltare la singolarissima risonanza della fine nella nascita e della pena nella gioia, l’una e l’altra che si alterano senza confondersi né snaturarsi. Non si verifica qui nessuna unione dei contrari, perché non ci sono contrari, nessuna opposizione. C’è solo contrapposizione, contrappunto del canto e del discanto che si inseguono giro dopo giro in ciò che si vorrebbe, senza tuttavia osarlo, chiamare un incantamento.

 

Jean-Luc Nancy, Nella musica la tenuta dell’istante, il manifesto, 28 settembre 2006, p. 13.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Ludwig Feuerbach (1804-1872) – Il fine è il condimento di un Esserci e di una vita. Solo il fine tiene distante il Nulla. Ogni istante è una sorsata che vuota fino in fondo il calice dell’infinità. In quanto ente che ha coscienza, sei nella coscienza. In quanto ente che pensa, sei nello Spirito.

Feuerbach Ludwig 01

Senza differenza non v’è alcun fine; il fine esclude l’eguale.
Il fine è il condimento di un Esserci e di una vita.
Solo il fine tiene distante e trattiene qualcosa dal Nulla.
Tutto ciò che è non è senza una fine e senza dei limiti.
Solo il Nulla è privo di limite

Una cosa indifferente è una cosa priva di contenuto o priva di determinazione.
Sii Qualcosa, ed allora sarai Tutto.
La vita stessa, in sé e per sé, in quanto Essere pieno di significato
e ricco di contenuto, assolutamente determinato ed effettuale, è vita eterna, immortale
.

Ogni istante della vita è Essere realizzato.
Ogni istante è una sorsata che vuota fino in fondo il calice dell’infinità.

Un Essere indifferente non è nient’altro che un semplice Essere temporale.
È il contenuto, non il tempo, che differenzia il tempo.
Ogni istante pieno, in quanto pieno, è eternità ed infinità.

 

Eternità è forza, energia, azione attiva, vittoria vincente.
È azione attiva solo se nel tempo è oltre il tempo.
Vincente è solo colui che si eleva oltre l’infelicità, non colui che sonnecchia.

In quanto ente che ama, tu sei nell’amore.
In quanto ente che ha coscienza, sei nella coscienza.

In quanto ente che pensa, sei nello Spirito.
In quanto ente che vive, sei nella vita infinita stessa.

«[…] se due oppure alcuni si eguagliano nel fatto di contenere la stessa vita, allora sempre soltanto uno di essi sarà necessario e non sarà invano, poiché di due cose che sono perfettamente eguali una è priva di fine. Se io sapessi che già una volta sono esistito sulla Terra, che vi è stato un secondo ente del tutto identico a me, subito mi precipiterei nell’abisso del Nulla, nella persuasione di essere un ente privo di fine; non potrei sopportare questo orrendo scherno e questo ghigno satanico verso me stesso. Infatti, senza differenza non v’è alcun fine; il fine esclude l’eguale, il semplicemente plurale, la ripetizione duplice [Zweimal], il doppio; soltanto nella mia particolarità, nella mia determinatezza, nel mio differenziarmi risiede il fondamento, il fine, la ragione del mio Esserci.
Una cosa ha bisogno di esistere solo una volta; se esiste una seconda volta in maniera del tutto identica, allora è priva di fine.
Il fine è il condimento di un Esserci e di una vita; è esclusivamente attraverso questo condimento che l’Esserci e la vita acquistano sapore; ma l’Esserci e la vita hanno condimento e sapore soltanto se sono una volta sola.
Se la Terra avesse tra le stelle un fratello tanto eguale, un tale alter ego, piena di collera per questo suo Esserci privo di sapore e di gusto si precipiterebbe, senza dubbio, nel baratro del Nulla; infatti solo il fine tiene distante e trattiene qualcosa dal Nulla. […] È certamente indubitabile che si possano rappresentare, cioè che si possano immaginare, enti superiori, poiché l’immaginazione è, appunto, priva di confini e perciò priva di ragione; ma se questi enti immaginati esistano in altro luogo che non nell’immaginazione, e se questi immaginati enti superiori siano effettivamente superiori, è una questione alla quale senza dubbio si deve rispondere negativamente, ove si seguano i limiti e le leggi che la realtà effettiva, la ragione e la verità prescrivono. Infatti quella immaginazione non è appunto nient’altro che una immaginazione e perciò, tanto nelle sue conseguenze quanto nel suo fondamento, priva di ragione. Se, infatti, si oltrepassa l’uomo, se si oltrepassa l’effettivo confine dell’ente vivente individuale, allora ogni confine che viene posto è un confine assunto solo arbitrariamente, un confine solo immaginato» (pp. 91-92).

«Tutto ciò che è non è senza una fine e senza dei limiti […]. Essere, determinatezza, limite sono posti contemporaneamente, l’un con l’altro; solo il Nulla è privo di limite. […] V’è soltanto un’arma contro il Nulla, e questa arma è il confine; esso è l’unico punto d’arresto di una cosa, la trincea del suo Essere. Il limite, infatti, non è un qualcosa di esterno […]». (p. 101)

«[…] l’indifferenza o la non-indifferenza d’una cosa dipende esclusivamente dalla sua mancanza di contenuto o dal suo contenuto. Una cosa indifferente è una cosa priva di contenuto o priva di determinazione. […] Essere immortale vuol dire, in verità, Essere-qualcosa, poiché con il Qualcosa è superata la mancanza di significato, con il superamento della mancanza di significato è superata l’indifferenza e la casualità, e con il superamento di queste è superata la mortalità. Soltanto la peculiarità ha significato; la fine o l’assenza di fine sono senza interesse, sono privi di senso e privi di significato per la peculiarità. Sii Qualcosa, ed allora sarai Tutto. La fine è una negazione priva di Spirito e di intelletto, la mancanza della fine è una affermazione priva di Spirito e di intelletto. Ma la vita stessa, in sé e per sé, […], in quanto Essere pieno di significato e ricco di contenuto, assolutamente determinato ed effettuale, è vita eterna, immortale. Immortale è ciò che è fine a se stesso. Il fine di una cosa è il suo significato, il suo significato è ciò che la costituisce ed il suo valore, ciò che la costituisce e il suo contenuto, il suo contenuto sono le sue determinazioni; ma la vita è l’Essere che in sé e per sé, già in quanto Essere, ha in sé il suo valore, il suo dato costitutivo [Gehalt] ed il suo significato, che in questa sua unità con il suo significato è, dunque, fine a se stessa, e, conseguentemente, immortale.
Ogni istante della vita è Essere realizzato, di significato infinito, posto di per se stesso attraverso se stesso, soddisfatto in se stesso, pienezza conchiusa e appagata della effettualità, affermazione illimitata di se stesso; ogni istante è una sorsata che vuota fino in fondo il calice dell’infinità, un calice che, come il calice miracoloso di Oberon, sempre si riempie ogni volta da solo. La vita è musica celeste che il sublime artista dell’universo fa magicamente apparire dallo strumento della natura. Gli stolti dicono che la vita sia un semplice e vuoto suono, che essa passi come il fiato, che si disperda come il vento.
Ma la vita è musica ed ogni istante è una melodia oppure un suono pieno, colmo di anima e ricco di Spirito. Il vento sibila nelle mie orecchie, ma è senza contenuto e significato; la sua essenza è caducità priva di essenza e di contenuto, un soffiare ed un disperdersi senza interesse, indifferente. Il suono, invece, è musica, è pienezza, è Essere pieno, fondamento di se stesso, fine, contenuto che sussiste in se stesso. Anche i suoni della musica passano, ma ciascun suono è pieno di Essere, ha significato in quanto suono; di fronte e questo significato intimo, di fronte all’anima del suono, svanisce, come un Nulla e come un qualcosa di insignificante, la caducità. Il vuoto suono è compreso solo nel flusso del passare; infatti il momento presente, nel suono, non si distingue dal momento passato e da quello futuro, ed a causa di questa uniformità priva di distinzioni, a causa di questa ripetizione dell’uno e medesimo, il suono stesso è caducità indifferente e finitudine. Al contrario, il suono in quanto istante pieno, colmo di contenuto, è un momento temporale determinato, differenziato; questa pienezza, questo contenuto, è il suo fine ed il suo significato; con questa sua differenza, con questa sua peculiarità e con questo suo contenuto svanisce l’indifferenza del suo Esserci, e con lo svanire della sua indifferenza svanisce la sua semplice temporalità, poiché l’indifferenza dell’Essere è la semplice temporalità del medesimo: un Essere indifferente non è, in verità, nient’altro che un semplice Essere temporale. Un Essere solo temporale è un Essere nel quale l’esser-presente, l’esser-futuro e l’esser-passato non si distinguono l’un dall’altro, poiché nel tempo in quanto tale non v’è alcuna differenza; il momento temporale presente, in quanto semplice momento temporale, non è né distinto né separato dal momento temporale passato. È il contenuto, non il tempo, che differenzia il tempo. Esclusivamente attraverso la sua peculiarità il momento presente è un momento determinato, in quanto è un momento differenziato.
Ogni Qualcosa, ogni contenuto è perciò intemporale ed oltretemporale, ogni confine nel tempo è un confine, una negazione, del tempo stesso, ogni istante pieno, in quanto pieno, è eternità ed infinità.
L’eternità non è nient’altro che la pienezza, la peculiarità e la determinazione del tempo, in quanto è la negazione attiva, effettuale, del tempo nel tempo; è appunto pienezza, determinazione del tempo. Eternità è forza, energia, azione attiva, vittoria vincente.
Ma essa è azione attiva solo se nel tempo è oltre il tempo, solo se nel tempo nega il tempo.
Vincente è solo colui che si eleva oltre l’infelicità, solo colui che nell’infelicità nega e sconfigge l’infelicità, ma non colui che sonnecchia, aldilà dell’infelicità, nel molle grembo della Fortuna.
Il suono è suono solo per il fatto che nel passare è la negazione del passare, per il fatto che è un suono non semplicemente temporale, bensì, nella sua temporalità, un suono determinato, pieno di contenuto, negatore della temporalità medesima.
Certo, il suono è breve oppure lungo; ma non è nient’altro che breve o lungo? Certo, passa anche questa sonata stessa, in essa questi singoli suoni sono ora brevi ora lunghi; essa non viene suonata in eterno. Ma io ti domando, come chiameresti colui che, mentre la sonata viene eseguita, non ascoltasse bensì si limitasse a calcolare la durata dei suoni separatamente dal loro contenuto, e che, in questa separazione, facesse della temporalità suo proprio oggetto e, allorché la sonata fosse terminata, facesse del quarto d’ora della sua durata il predicato del suo giudizio sulla sonata medesima e, mentre gli altri, incantati dalla meraviglia del suo contenuto cercassero di designarne il significato con parole appropriate, la caratterizzasse come una sonata d’un quarto d’ora? Senza alcun dubbio troveresti il predicato “folle” ancor troppo demente per designare un individuo simile.

Come si dovrebbero allora chiamare coloro che fanno della caducità un predicato di questa vita, coloro che credono di dire qualcosa, di esprimere un giudizio sulla vita, quando dicono che è temporale, che è transitoria? Col che, nulla si dice, nulla si pensa, nulla si designa; nulla di nulla!
Come si dovrebbero chiamare coloro che fanno di ciò che è Nulla loro oggetto e che, col fare del Nulla loro oggetto, ad esso conseguentemente danno significato e realtà, in modo tale che annientano il Qualcosa, l’effettivamente effettuale, oppure lo perdono di vista?
Essi medesimi chiamano se stessi devoti, razionalisti e persino anche filosofi. Ma lascia che i morti seppelliscano i morti!
Dio è la vita, l’amore, la coscienza, lo Spirito, la natura, il tempo, lo spazio stessi, il Tutto tanto nella sua unità quanto nella sua differenza.
In quanto ente che ama, tu sei nell’amore di Dio; in quanto ente che ha coscienza, sei nella coscienza di Dio; in quanto ente che pensa, sei nello Spirito di Dio; in quanto ente che vive, sei nella vita infinita stessa, nel tempo oltre il tempo, nello spazio al di fuori dello spazio. Dio è immortale, e nell’immortale non vi è che l’immortale. Tu sei in Dio, quindi tu stesso sei immortale; la verità, infatti, vien còlta ed espressa nella verità ed in quanto verità, non nell’ opposizione ed in quanto opposizione.
Dio è la coscienza, la vita, l’essenza, ma è l’amore, in quanto amore infinito ed eterno per coloro che hanno coscienza, amore eterno per gli enti e per coloro medesimi che vivono eternamente. Oggetto dell’ eterno è, infatti, solo ciò che è eterno» (pp. 229-233).

 

Ludwig Feuberbach, Pensieri sulla morte e sull’immortalità, a cura di Fabio Bazzani, Editori Riuniti, Roma 1997.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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