Salvatore Bravo – Senza adeguata formazione assiologica e culturale, senza «urto qualitativo», la libertà diviene fuga dal limite, individualismo generalizzato e solitudine. La libertà è nel desiderio della qualità del vivere.

Libertà come urto qualitativo

Salvatore Bravo

L’integralismo non riconosciuto dell’Occidente

***
La libertà come urto qualitativo
La libertà come desiderio
La libertà come qualità del vivere

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Senza una adeguata formazione assiologica e culturale
la libertà diviene fuga dal limite, individualismo generalizzato e solitudine.

La libertà è nel desiderio della qualità
senza il quale ogni essere umano diviene solo consumatore senza essere e senza esserci



L’Occidente si fonda sul mito della libertà trasformatasi in una vera superstizione e dunque in dogma indiscutibile. La libertà è il principio sventolato in nome del quale sono possibili i bombardamenti etici come la competizione economica senza regole: la liberà è invocata, ma mai definita. Si usa la parola libertà, ma non la si conosce. In tal modo diviene un catalizzatore mitico, in cui convogliare forze, risorse e popoli da utilizzare per la conservazione e l’imperialismo economico. La “libertà ideologica” presuppone una linea divisoria nel mondo, lungo la quale scorre il filo spinato che designa il confine tra l’impero del bene ed il male assoluto. Il semplicismo mediaticamente organizzato consente la supina accettazione di ogni azione militare in nome della libertà. La propaganda a tamburo battente demonizza la controparte per impedire che si colgano complicità ed interessi lobbistici.

Vi è davvero politica soltanto se i cittadini definiscono il significato delle parole, le interrogano per verificare la coerenza tra la definizione e la realtà storica. Una società senza il “ti estì” (il che cos’è) è senza filosofia e senza politica. La definizione non solo astrae dall’immediato, ma traccia significati, discerne e dunque definisce e crea concetti. Senza giudizio non vi è pensiero, ma solo collettivismo, e nel nostro caso collettivismo consumistico. La libertà è lo shopping presso gli ipermercati, dove rivivere la tragedia della solitudine programmata.

È la fine della politica come categoria del dialogo tra alterità. Al suo posto regna la tracotanza del pensiero unico, che tollera senza capire e capirsi: è il regno della monade-capitale. Le nuove generazioni sono formate alle “libertà-libertinaggio”: ovvero promiscuità e consumo irrazionale sono le pratiche entro cui si connota la libertà.

La libertà – nel senso autentico del concetto – necessita della mediazione del pensiero; l’azione non dev’essere irriflessa, ma consapevole, responsabile e teleologicamente tesa alla verità. La libertà è il processo dialettico che procede verso la concettualizzazione, è operare l’epochè del mondo per pensarlo, ridefinirlo e significarlo. Il neoliberismo invece, diseduca alla libertà del pensiero per favorire le semplici pulsioni: è il regno animale dello spirito. Si pensi all’ultimo iphone che consente l’acquisto immediato col riflettere il viso nello specchio magico del mezzo: acquisti sempre più veloci, sempre meno pensati. È la logica del frattale del consumo, dall’individuo, alle comunità locali, allo Stato, alle comunità di Stati associati, è il ripetersi di logiche sempre uguali: liberi, ma solo di vendere e consumare. Se la borghesia tradizionale è ormai scomparsa con le sue regole e valori, bisogna, tuttavia, ammettere che tra la borghesia finanziaria anonima ed apolide attuale e l’alta borghesia di tradizione vi è comunque un asse che ancora le unisce, malgrado le faglie, ovvero entrambe credono e praticano il progresso dell’accumulo senza limiti. Marx ed Engels avevano tematizzato il mito dell’illimitato associandolo alla grande borghesia dell’Ottocento, che oggi è massimamente sviluppato nella borghesia della finanza:

«Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi, dappertutto deve creare relazioni. Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato una impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Le antichissime industrie nazionali sono state distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno. Vengono soppiantate da industrie nuove, la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, da industrie che non lavorano più soltanto materie prime del luogo, ma delle zone più remote, e i cui prodotti non vengono consumati solo nel paese stesso, ma anche in tutte le parti del mondo. Ai vecchi bisogni, soddisfatti con i prodotti del paese, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. All’antica autosufficienza e all’antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale».[1]

 

La fase imperiale del capitalismo divora la libertà, la quale è stata il vessillo da utilizzare contro le gerarchie feudali. Si assiste al rovesciamento delle logiche

 

La libertà come urto qualitativo
La libertà è conoscenza di sé, è valore maieutico, poiché nella libertà la persona rinasce e si conosce per progettare la vita, per tracciare percorsi significanti, in cui ritrovarsi. La libertà è un valore vitale che avvolge ritmicamente la vita per emanciparla dalle forme di alienazione in cui cade. La libertà è la categoria della qualità con la quale la quantità è governata e finalizzata ai reali bisogni della vita. Alla qualità si giunge, mediante il processo dialettico.
La dialettica di Fichte, con il suo lavoro quotidiano di autosuperamento, è il paradigma della libertà. La libertà è urto concettuale contro il non io, contro le rigidità superstiziosa del mondo, è prassi ed attività del pensiero:

«L’io è in tutto e per tutto attivo e puramente e semplicemente attivo, questo è il presupposto assoluto. Di qui deriva una passività del non io, in quanto esso deve determinare l’io come intelligenza; l’attività contrapposta a questa passività è posta nell’io assoluto, quale attività determinata, esattamente come quell’attività mediante cui il non io viene determinato».[2]

La Rivoluzione permanente in nome dei consumi è nel codice genetico dell’integralismo capitalistico. Ma, mentre in passato si poteva distinguere il borghese dal proletario, il proletario dal bracciante, si assiste all’omologazione totale, per cui tutti sono consumatori. L’integralismo dell’Occidente ha fondato la prima società omologata della storia dell’umanità, la differenza è data dal censo, ma tutti si ritrovano eguali sulla linea eterodiretta della post-democrazia consumistica.
La violenza integralista deturpa le coscienze, le aliena al punto che anche dinanzi alla verità lapalissiana dei fatti, si risponde con l’esiziale “Non c’è alternativa”. Pertanto l’integralismo si accompagna con il dogmatismo religioso, con l’asservimento alle merci delle persone, non più esseri umani, ma automi pronti al consumo, all’edonismo di massa. Ogni voce critica è accusata di voler impedire la libertà. Quest’ultima è intesa solo come pratica concorrenziale distruttiva ed autodistruttiva. La libertà senza cultura del dono e curvata all’economicismo è sempre più simile alla lotta per la sopravvivenza, con l’effetto di fondare la libertà sulla devastazione:

«La normalizzazione dell’informale tende a distruggere i legami sociali infranazionali e infrastatali su cui si basa il suo dinamismo. Essa introduce in effetti i fermenti più distruttivi della modernità: l’egoismo, l’individualismo e la concorrenza selvaggia. Per ciò stesso, essa corrode la base sociale della creatività endogena: le reti neoclaniche di solidarietà e di clientela. Risulterebbe così compromessa proprio il successo delle speranze di cui è portatore l’informale di un passaggio alla postmodernità».[3]

Bisogna dialettizzare il presente per ricominciare a pensare che le categorie con cui rielaboriamo i dati non sono enti naturali, ipostasi, ma sono dedotte storicamente e pertanto modificabili.

 

La libertà come desiderio
La libertà è desiderio senza rappresentazione. L’immaginario colonizzato produce desideri indotti, mentre la libertà, in quanto attività desiderante è relazione con cui il soggetto nell’urto conosce se stesso, per scoprire di sé profondità che solo successivamente può rappresentare e concettualizzare. L’attività è relazione, poiché solo la relazione duale è capace di far emergere in modo spontaneo la verità e l’individualità che si conosce nella comunione desiderante:

«Nel nostro mondo, in cui “il deserto sta crescendo” (Nietzsche) e “l’angoscia si diffonde”, specialmente a causa della “pianificazione di una felicità uguale per tutti” (Heidegger), l’esistenza dell’altro apre una breccia in un orizzonte da cui siamo oppressi come un’ombra plumbea o un crepuscolo in cui tutto diventa grigio. Tramite il desiderio risvegliato o rivitalizzato in noi, l’altro ci chiama a un al di là – per vivere e per pensare il “non-ancora”. L’altro ci consente di conservare nella nostra memoria, in tutto il nostro essere, lo spazio di un “non ancora” come speranza di un futuro. Il “non-ancora” non deve essere vissuto come un vuoto da riempire, ma come il mantenimento in noi di una disponibilità ad accogliere la verità, la bellezza, la gioia, si potrebbe dire la grazia. Ciò può salvarci da un’eventuale disperazione o melanconia che derivano dal nulla che possiamo aspettarci, un nulla che possiamo costruire diventare. Il desiderio sconvolge la nostra rappresentazione del mondo in cui sono abolite le differenze e ciò che esse possono mettere in discussione del modello che ci viene imposto. Il desiderio riemerge come la fonte che ha strutturato l’insieme del nostro universo, una fonte di cui esso non sicura e che rimane al di fuori del suo orizzonte. Il desiderio ci ricorda la natura non rappresentabile dell’origine: la nostra, quella dell’altro e del mondo. Ripristina il legame tra il dentro di noi e il fuori di noi. Ci riporta a un essere in presenza estraneo al cerchio della rappresentazione».[4]

La libertà come qualità del vivere
L’integralismo dell’Occidente si connota per essere integralismo della passività rappresentata per attività. La trappola da cui congedarsi è l’illusione della libertà. All’integralismo della passività cinetica bisogna opporre l’attività desiderante senza la quale non vi è che il regime delle passioni tristi: il potere ci vuole tristi, estranei a noi stessi per poterci colonizzare. Senza il riconoscimento di tale verità non è possibile l’esodo dall’attivismo nichilistico. La libertà è pratica della qualità, per cui è necessario porre al centro il logos con il quale significare la quantità e porla nell’ordine razionale della comunità, ancora una volta i classici ci vengono incontro e ci donano verità su cui riflette e riprogettare il presente:

«Perché non sono di per se stessi i banchetti, le feste, il godersi fanciulli e donne, i buoni pesci e tutto quanto può offrire una ricca tavola che fanno la dolcezza della vita felice, ma il lucido esame delle cause di ogni scelta o rifiuto, al fine di respingere i falsi condizionamenti che sono per l’animo causa di immensa sofferenza. Di tutto questo, principio e bene supremo è la saggezza, perciò questa è anche più apprezzabile della stessa filosofia, è madre di tutte le altre virtù. Essa ci aiuta a comprendere che non si dà vita felice senza che sia saggia, bella e giusta, né vita saggia, bella e giusta priva di felicità, perché le virtù sono connaturate alla felicità e da questa inseparabili».[5]

 

La democrazia è il luogo politico dove imparare ad essere liberi. Senza una adeguata formazione assiologica e culturale la libertà diviene fuga dal limite, individualismo generalizzato e solitudine. La libertà è nel desiderio della qualità senza il quale ogni essere umano diviene solo consumatore senza essere e senza esserci.

Salvatore Bravo

[1] K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista, Ousia, pag. 14.
[2] J.G. Fichte, Fondamento dell’intera dottrina della scienza, Bompiani, 2017, pag. 483.
[3] S. Latouche, Il pianeta dei naufraghi, Bollati Boringhieri, 2017, pag. 148.
[4] L. Irigaray, Nascere. Genesi di un nuovo essere umano, Bollati Boringhieri, 2019, pag. 71.
[5] Epicuro, Lettera a Meneceo, Ousia, pag. 4

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Erich Fromm (1900-1980) – Il «radicalismo umanistico» nel libro di Ivan Illich «Rovesciare le istituzioni» è basato su un profondo interesse per la crescita dell’uomo intesa in ogni senso, fisico, spirituale ed intellettuale.

Ivan Illich - Erich Fromm
Ivan Illich, Rovesciare le istituzioni, Prefazione di Erich Fromm, Armando 1973
Erich Fromm
Prefazione al libro di
Ivan Illich, Rovesciare le istituzioni. Un “messaggio” o una “sfida”
 

I testi contenuti in questo libro non hanno bisogno di alcuna presentazione, né, tantomeno, il loro autore. Se, tuttavia, Ivan Illich ha voluto invitarmi a scrivere l’introduzione del suo libro, e se io ho accettato con piacere, ciò dipende da un’unica ragione che è stata alla base di entrambi i nostri intendimenti: abbiamo pensato che questa può essere un’occasione utile per chiarire la natura di un comune atteggiamento e di una fede comune, per quanto alcuni dei nostri punti di vista differiscano tra loro, anche in modo considerevole. Del resto, le idee che lo stesso autore oggi esprime non sempre coincidono con quelle che egli manifestava al tempo in cui, in diverse occasioni ed in un arco di anni abbastanza ampio, scrisse i saggi contenuti in questo volume. Ma una cosa è quella che conta: Illich è sempre stato fedele a se stesso per quanto riguarda il nocciolo più autentico del suo approccio alla realtà ed è questo nocciolo che mi sento di condividere con lui.

Non è facile trovare il termine appropriato per definire questo nucleo essenziale. Com’è possibile, infatti, rinchiudere un atteggiamento fondamentale nei confronti della vita in un semplice concetto senza alterarlo e distorcerlo? Eppure, dal momento che non possiamo fare a meno di comunicare con parole, mi sembra che la definizione più adeguata – o meglio, la meno inadeguata – sia quella di un radicalismo umanistico.

Cosa viene a significare il termine radicalismo e cosa implica l’aggettivo umanistico legato a quel sostantivo? Quando parlo di radicalismo non intendo principalmente un certo insieme di idee radicali, quanto piuttosto un atteggiamento – come dire – un approccio alla realtà. Tanto per cominciare un simile approccio può essere caratterizzato dal motto: de omnibus dubitandum; ogni cosa deve essere posta in dubbio, ma soprattutto quel patrimonio ideologico di concetti cristallizzati che sono virtualmente assunti da ciascuno e diventano, di conseguenza, assiomi fondamentali del senso comune che nessuno oserebbe porre in dubbio.

“Dubitare”, in questo senso, non implica certo una condizione psicologica di incapacità d’arrivare a decisioni o convincimenti ben fondati, come nel caso del dubbio ossessivo, quanto piuttosto una prontezza ed una capacità di porre in discussione criticamente tutte le certezze e le istituzioni che sono diventate puri e semplici idoli chiamati senso comune, logica e tutto ciò che si presume essere naturale. Questo modo radicale di porre in discussione le acquisizioni del mondo in cui viviamo è possibile solo quando non si diano per scontati i concetti base della società in cui si vive o addirittura di un intero periodo storico, come ad esempio, l’intera cultura occidentale dal Rinascimento in poi, e ancor più, se si dilata la portata della nostra consapevolezza cercando di scoprire gli aspetti inconsci che condizionano il nostro pensiero. Il dubbio radicale è, al tempo stesso, svelare e scoprire; è il sorgere della consapevolezza del fatto che l’Imperatore è nudo e che i suoi splendidi vestiti non sono altro che il prodotto della nostra fantasia.

Il dubbio radicale significa mettere in questione; non significa necessariamente negare. È facile negare mediante la semplicistica affermazione del contrario di ciò che esiste; il dubbio radicale è dialettico dal momento che in esso si svela il processo delle contraddizioni e con esso si tende ad una nuova sintesi che nega e afferma contemporaneamente.

Il dubbio radicale è un processo, un processo di liberazione da concezioni idolatriche, un modo di ampliare la nostra consapevolezza, l’immaginazione, la visione creativa che dobbiamo avere in ordine alle nostre possibilità ed alle scelte che ci impegnano. Un atteggiamento radicale non nasce dal nulla, non prende forma nel vuoto: esso parte dalle radici, e la radice, come disse Karl Marx, è l’uomo.

Questa grande affermazione, «la radice è l’uomo», non va intesa in senso positivistico o meramente descrittivo: quando parliamo dell’uomo non lo consideriamo come una cosa, ma come un processo; parliamo, quindi, del suo potenziale creativo, della sua capacità di sviluppare ogni suo potere, il potere d’una più grande intensità di essere, il potere di una più grande armonia di vita, d’un più grande amore, d’una più grande consapevolezza.

Ma parliamo anche dell’uomo come di un essere che si può corrompere, di un essere il cui potere di agire si può trasformare nella libidine di dominare sugli altri, il cui amore per la vita può degenerare nel gusto folle di distruggere la vita.

Questo radicalismo umanistico che mette in discussione drasticamente la realtà è guidato da una chiara intuizione della dinamica della natura umana e dalla preoccupazione per la crescita e il pieno sviluppo dell’uomo. In antitesi con l’attuale concezione positivistica, esso non è obiettivo, se per obiettività si intende il teorizzare senza che il processo del pensiero sia sostentuto e nutrito da un ideale profondamente sentito. Ma è anche troppo obiettivo se ciò significa che ogni fase del processo di riflessione poggia su una evidenza criticamente scrupolosa, e soprattutto, se accetta di mettere in dubbio le premesse del senso comune.

Tutto ciò significa che il radicalismo umanistico interroga ogni idea ed ogni istituzione su di un punto essenziale, quello cioè di sapere se essa aiuti oppure ostacoli la capacità dell’uomo di raggiungere una maggiore pienezza di vita, una maggiore felicità. Non è questa la sede per dilungarsi in una esemplificazione del tipo di acquisizioni del senso comune che vengono poste in discussione, dal radicalismo umanistico. E tanto meno ciò è necessario, dal momento che gli scritti di Illich raccolti in questo libro si occupano proprio di simili esempi, come l’utilità della scuola obbligatoria per tutti o dell’attuale funzione del prete nella società. Molti altri potrebbero essere enumerati, alcuni dei quali, del resto, emergono anche dalle pagine di questo libro. Per quanto mi riguarda vorrei sottolineare appena un poco il moderno concetto di progresso, inteso come un costante aumento della produzione, del consumo, della velocità, dei livelli massimi di efficienza e di profitto, e della possibilità di calcolare ogni attività in termini economici senza alcuna considerazione degli effetti che ne derivano per la qualità della vita e della crescita dell’uomo; oppure il dogma secondo cui l’aumento dei consumi renderebbe l’uomo felice, o quello per cui l’organizzazione imprenditoriale su larga scala deve necessariamente essere burocratica ed alienante, o la concezione che ripone lo scopo della vita nell’avere (e nell’usare) e non nell’essere; l’idea secondo cui la ragione è un fatto che riguarda l’intelletto e non ha nulla a che fare con la vita affettiva; la convinzione che il radicalismo è la negazione della tradizione e che l’opposto di “legge ed ordine” è la scomparsa di qualsiasi struttura. In breve, il dogma secondo cui le idee e le categorie che si sono sviluppate con l’affermarsi della scienza moderna e dell’industrializzazione sono superiori a quelle di ogni cultura anteriore ed indispensabili per il progresso del genere umano.

Il radicalismo umanistico mette in discussione tutti questi presupposti e non teme di giungere all’espressione di idee e soluzioni che possono suonare assurde agli orecchi della gente. Io ritengo che il grande valore degli scritti di Illich consista precisamente nel fatto che essi rappresentano un radicalismo umanistico fra i più completi e carichi di immaginazione creativa. L’autore è uomo di raro coraggio, di grande vitalità, di straordinaria erudizione, brillante nello scrivere e fertile nell’immaginazione: ogni suo convincimento è basato su un profondo interesse per la crescita dell’uomo intesa in ogni senso, fisico, spirituale ed intellettuale. L’importanza del suo pensiero, quale emerge da questi e dagli altri suoi scritti, consiste nel fatto che essi hanno un effetto liberante sulla mente del lettore nella misura in cui svelano interamente nuove possibilità; essi arricchiscono il lettore aprendogli la porta dalla quale si può uscire dalla prigione delle cognizioni sterili, preconcette, frutto della routine quotidiana. Mediante uno choc creativo gli scritti di Ivan Illich comunicano un messaggio; solo chi reagisce esclusivamente con rabbia a quelle che gli sembrano semplici assurdità, non può intendere questo messaggio; per gli altri, per tutti, essi parlano la lingua della forza e della speranza che spingono a cominciare di nuovo.

 

Erich Fromm, Prefazione a Ivan Illich, Rovesciare le istituzioni. Un “messaggio” o una “sfida”, Armando, Roma 1973.

 

Tratto da: www.altraofficina.it

 


Ivan Illich, Rivoluzionare le istituzioni. Celebrazione della consapevolezza, Prefazione di Erich Fromm, Mimesis, 2012

Erich Fromm (1900-1980) – La nostra è una società composta da individui in preda a stati depressivi e a impulsi distruttivi, incapaci di indipendenza.
Erich Fromm (1900-1980) – L’uomo moderno non ha raggiunto la libertà in senso positivo di realizzazione del proprio essere. Questo isolamento è intollerabile.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Sebastiano Timpanaro (1923-2000) – Troppo a lungo le classi dominanti hanno attribuito alla natura le ingiustizie e le sofferenze di cui è responsabile l’organizzazione della società, comprese certe calamità ‘naturali’ (dalle alluvioni alle epidemie a tutte le malattie sociali).

Sebastiano Timpanaro

«Troppo a lungo le classi dominanti hanno attribuito alla natura (cioè ad una traduzione laica degli imperscrutabili decreti della Divina Provvidenza) le ingiustizie e le sofferenze di cui è responsabile l’organizzazione della società, comprese certe calamità ‘naturali’ (dalle alluvioni alle epidemie a tutte le malattie sociali) che non sarebbero accadute, o avrebbero arrecato danni molto meno gravi, se la ricerca del massimo profitto e la subordinazione dei pubblici poteri agli interessi capitalistici non avessero fatto trascurare le più ovvie misure di prevenzione e, ciò che molto più importa, non avessero impedito l’adozione di un modello di sviluppo tecnico-produttivo profondamente diverso».

Sebastiano Timpanaro, Sul materialismo, Nistri-Lischi, Pisa 1975 (prima edizione 1970), p. XXVI.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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