Dino Formaggio (1914-2008) – La questione della «morte dell’arte» è una questione di fondo, è bene sottolinearlo, che attraversa l’esperienza artistica in atto ed insieme il piano della riflessione estetica che vi si costruisce sopra, generandosi dal suo interno.

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V’è una questione al centro dell’estetica hegeliana, ed infine di tutta la cultura contemporanea, che ha assunto da molto tempo ai nostri occhi una dimensione teoreticamente rilevante e di capitale importanza anche culturale. E, questo, non solo per una certa chiave interpretativa dell’essenza dialettica che caratterizza il movimento dell’arte contemporanea: chiave che, come pensiamo di poter dimostrare, essa tiene celata nel suo difficile nodo. Ma, ben più in là di questo, per la possibilità ch’essa offre, nel suo fondo teoretico, di un preciso evidenziarsi, sul piano della cultura contemporanea, di una caratteristica idea d’artisticità: e, quindi, per le basi che in questo processo di evidenza possono essere ritrovate, affinché una nuova consapevolezza eidetica e fenomenologica si fondi di fronte ai mutevoli livelli dell’esperienza artistica ed una più aperta ed insieme più rigorosa teoria generale dell’arte possa sorgere su tale acquisita consapevolezza.

Questa questione fondamentale è quella nota come la questione della «morte dell’arte». Un dibattito sorto da un disagio e dalle inquietudini dell’anima romantica in mezzo al volgere sempre più precipitoso della circostante società e della storia, una disputa venuta in chiaro tra Schiller, Novalis ed Hegel, esplosa nell’estetica hegeliana e poi non mai del tutto sopita, anzi di recente rinfocolata, in diversi strati della riflessione, sotto l’urto degli stessi movimenti artistici più avanzati, in tutte le arti e nella connessa teoria.

Un dubbioso quesito pregiudiziale è bene subito toglier di mezzo. Si tratta della questione terminologica: nella lingua italiana il termine «morte» ha una certa pesantezza o naturalistica o mistica. Per cui mal si adatta a significare quel vivo pensiero dialettico, che porta ben al di là della «fine» o comunque del finire, del morire contrapposto e antitetico al nascere. Tenuto conto di questo, preferiamo, tuttavia, «morte» (anziché «fine», come fa – coerentemente, del resto, con la sua tesi – il Croce); con l’avvertimento, cioè, che intendiamo assumere questo termine dal centro stesso dialettico del pensiero hegeliano, già ben chiaro nei noti scritti giovanili, ad esempio nel frammento sull’Amore. È pur vero, poi, che, in genere, per parlare di «morte dell’arte» Hegel userà in prevalenza il termine Auflösung, (dissoluzione-risoluzione); ma anche questo significato può meglio esser recuperato, mi sembra, in un’assunzione dialettica, almeno per il nostro caso, del termine «morte», con la soprindicata precisazione.

Del resto, proprio la disputa sorta in Italia negli ambienti hegeliani, dal De Sanctis al De Meis, usa ripetutamente le espressioni «morte dell’arte», «morte della poesia» (quest’ultima soprattutto) forse con più ragione di quanto non si sia mai creduto e proprio nei confronti della loro validità interpretativa del pensiero dello Hegel.

La questione della «morte dell’arte», dunque, è una questione di fondo, è bene sottolinearlo, che attraversa l’esperienza artistica in atto ed insieme il piano della riflessione estetica che vi si costruisce sopra, generandosi dal suo interno.

Uno dei compiti che mi propongo, a questo punto, consiste propriamente nel far venire in evidenza tutto il rilievo che questa fondamentale ed ancor oggi attualissima questione assume non soltanto per l’interpretazione dei vari movimenti dell’arte contemporanea dal Romanticismo ai giorni nostri, ma per la necessaria e quanto mai urgente analisi preliminare ad ogni fondazione di una teoretica generale dell’arte – o, se si preferisce, di una Estetica generale e speciale –, oggi. Voglio dire che si tratta di un passaggio obbligato, per chi vuol avviarsi nel nostro tempo con qualche sicura consapevolezza a ricerche teoriche sull’arte. Il non averne prese in considerazione tutte le oscure e spesso variamente aggrovigliate implicazioni, l’aver trattato questa questione di volo ed in superficie, ha segnato troppe volte l’indice d’arresto e la dogmatica chiusura di una ricerca in atto.

Com’è avvenuto per Benedetto Croce. Tutti conosciamo la famosa sua tesi, poi strenuamente difesa in polemica col Bosanquet, tendente ad interpretare le affermazioni del pensiero hegeliano a questo proposito come quelle che volevano indicare la definitiva ed avvenuta «fine» dell’arte. E sappiamo come tutto questo possa benissimo rientrare nel grande solco della ermeneutica hegeliana allo stesso titolo e con le stesse polarizzazioni di significato (più o meno metafisica) per cui v’entra la questione – esteriormente analoga – della fine della filosofia.

Ma non è questo il punto: non credo, cioè, che oggi si possa rispondere a quesiti di questo genere con un sì o con un no. La disputa Croce-Bosanquet sul modo di intendere la lezione dei testi hegeliani in proposito, se dunque l’arte si debba dare per storicamente ed effettivamente morta oppure no, direi che non ha più – né può più avere – alcuna seria rilevanza oggi.

Piuttosto è da vedere (e solo in questo modo, a mio avviso, riacquista pieno ed attuale interesse il problema) quale sottile nodo di significati stava sotto quella questione e quali ideali intenzionalizzazioni, quali emergenze di verità, da quel nodo di significati partiva per irradiarsi in tutto il corpo e il corso futuro dell’esperienza artistica e per continuare poi a vibrarvi dentro, come la sua stessa essenza palpitante, fino all’arte dei nostri giorni.

Rimane dunque inteso fin d’ora che, pur nell’obbligo, al quale mi accingo, di ritornare sui testi (spesso anche con ostinata minuzia) per mettere a fuoco filologicamente la vasta questione della «morte dell’arte», non è davvero né l’accertamento né la risposta al quesito se l’arte sia o non sia finita nei tempi fra Hegel e Croce che si dovrà cercare; ma, piuttosto, tutto il senso complesso e fecondo che, da sotto la dura scorza di quei concetti, si veniva aprendo e disseminando nell’oscuro vento dell’esperienza e della storia contemporanea.

È in questa nostra esperienza contemporanea che tutti, in misura diversa e per diverse vie, abbiamo ormai «vissuto» la morte dell’arte. Essa è dentro di noi, irreversibile storia. Ma tutto quello ch’era in sua potenza di significare, forse non è ancora stato interamente significato. Noi non possiamo che avvicinare alcune delle molte direzioni intenzionali di sviluppo che la totalità di verità di un tale insieme intuitivo –folgorato dapprima in senso moderno nei cieli del Romanticismo – cela dentro di sé per la storia dell’uomo. E lo possiamo fare solo partendo dal principio. Un modo di risalire a questo principio può essere la riconsiderazione di quell’occasione italiana che fu la disputa del Croce intorno alla “fine dell’arte” in Hegel.

Dino Formaggio, L’idea di artisticità. Dalla «morte dell’arte» al «ricominciamento» dell’estetica filosofica, Casa Editrice Ceschina, Milano, 1962, pp. 25-27.


Dino Formaggio (1914-2008) – Il destino dei buoni libri sembra essere quello di rinascere continuamente diversi nel tempo. Ogni epoca, ogni svolta di cultura, li riavvicina e penetra come cosa del tutto nuova e li riscopre.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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María Zambrano (1904-1991) – Il pensiero filosofico ci permette di osare sentire. La Filosofia nasce dalla necessità che la vita umana ha di trasparenza e di visibilità. È intimità che aspira a farsi visibile, solitudine che vuole essere comunità nella luce.

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«Il pensiero filosofico ci permette di osare sentire quello che sentiremmo in ogni caso, ma senza osare, e che resterebbe per questo sospeso a metà nascita, come quasi sempre succede al nostro sentire. È per questo che la vita di tanta gente non va oltre il conato, un conato di vita. E questo è grave, perché la vita deve essere piena in qualche modo, in questo conato di essere che siamo»  (p. 41).

«La Filosofia nasce dalla necessità che la vita umana ha di trasparenza e di visibilità. Se la vita aspira a farsi terrena, chiede ugualmente di rendersi intelleggibile e non ha altra dimora se non la trasparenza; è intimità che aspira a farsi visibile, solitudine che vuole essere comunità nella luce» (p. 42).

María Zambrano, Hacia un saber sobre el alma, Losada, Buenos Aires, 1950. In versione italiana: Verso un sapere dell’anima, a cura di E. Nobili, Cortina, Milano, 1996, p. 41.


Maria Zambrano – La virtù della delicatezza
Maria Zambrano (1904-1991) – Il silenzio che accoglie la parola assoluta del pensiero umano diventa il dialogo silenzioso dell’anima con se stessa.
Maria Zambrano (1904-1991) – Saper guardare un’icona significa liberarne l’essenza, portarla alla nostra vita
María Zambrano (1904-1991 – Il punto dolente della cultura moderna è la sua mancanza di trasformazione della conoscenza pura in conoscenza attiva, che possa alimentare la vita dell’uomo di ciò che necessita.
María Zambrano (1904-1991) – L’amore è l’elemento della trascendenza umana. Originariamente fecondo, quindi, se persiste, creatore di luce, di vita, di coscienza. È l’amore a illuminare la nascita della coscienza.
María Zambrano (1904-1991) – La vita ha bisogno di rivelarsi, di esprimersi: se la ragione si allontana troppo, la lascia sola, se assume i suoi caratteri, la soffoca.
María Zambrano (1904-1991) – Vivere come figli è qualcosa di specificatamente umano; solo l’uomo si sente vivere a partire dalle sue origini e a queste si rivolge con rispetto. Se è così, non dovremmo temere che, smettendo di essere figli, smetteremo anche di essere uomini?
María Zambrano (1904-1991) – La cosa più umiliante per un essere umano è sentirsi portato, trascinato, senza possibilità di scelta, senza poter prendere alcuna decisione.
María Zambrano (1904-1991) – La violenza vuole, mentre la meraviglia non vuole nulla, le è estraneo e perfino nemico tutto quanto non persegue il suo inestinguibile stupore estatico.
María Zambrano (1904-1991) – Sogno e destino della pittura. Dal sogno la pittura ha la sua nascita. Perché essa è nata nelle caverne. I sogni hanno bisogno di salvarsi. E un sogno salvato è un sogno visibile.
María Zambrano (1904-1991) – L’esperienza precede ogni metodo. Ma il metodo si dà fin dal principio in una determinata esperienza, che proprio in virtù di ciò arriva ad acquistare corpo e forma, figura.
María Zambrano (1904-1991) – La vera musica non può essere trovata in un dogma, ma in un uomo concreto che percepisce con la sua armonia interiore l’armonia del mondo.
María Zambrano (1904-1991) – La finalità si sveglia, e quando arriva così è un tipico risveglio: da uno stato di abulia o dal lasciarsi vivere, ci svegliamo facendoci sentire che dobbiamo agire.
María Zambrano (1904-1991) – Vivere come figli è qualcosa di specificatamente umano; solo l’uomo si sente vivere a partire dalle sue origini e a queste si rivolge con rispetto.
María Zambrano (1904-1991) – Persona è colui che nella vita lascia intravedere, con la sua stessa vita, che un senso superiore ai fatti fa acquisire ad essi significato configurandoli in un’immagine: affermazione di una libertà imperitura pur nell’imporsi delle circostanze.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Carl Gustav Jung (1875-1961) – Solo la coscienza può individuare ciò che è privo di valore. Solo la coscienza può riconoscere questa funzione come pregevole e quella come priva di valore. Dove non vi è coscienza, dove regna ancora sovrano l’elemento istintuale inconscio, non vi è riflessione

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«Alla distinzione cosciente si deve senz’altro la separazione delle coppie di opposti, giacché solo la coscienza può individuare ciò che è conveniente e distinguerlo da ciò che non lo è o che è privo di valore. Solo la coscienza può riconoscere questa funzione come pregevole e quella come priva di valore e perciò fornire alla prima la forza della volontà respingendo in tal modo le pretese della seconda. Dove non vi è coscienza, dove regna ancora sovrano l’elemento istintuale inconscio, non vi è riflessione, non vi è un pro e un contro, e non vi è disaccordo, bensì un semplice succedersi di eventi, ordinata istintualità, proporzione di vita».

Carl Gustav Jung, Tipi psicologici (l921), tr. it. in Opere, vol. VI, Boringhieri, Torino 1969, p. 120.


Carl Gustav Jung (1875-1965) – Alla resa dei conti il fattore decisivo è sempre la coscienza
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Eugène Carrière (1849-1906) – In questo tempo così limitato abbiamo le nostre gioie, i nostri dolori che ci appartengono. Vedo gli altri uomini in me stesso e mi ritrovo in loro.

Eugène Carrière01

Dans ce temps si limité, nous avons nos joies, nos douleurs; que du moins elles nous appartiennent, que nos manifestations en soient les témoignages et ne ressemblent qu’à nous – mêmes. C’est dans ce désir que je présente mes oeuvres à ceux dont la pensée est proche de la mienne. Je leur dois compte de mes efforts et je les leur soumets.
Je vois les autres hommes en moi et je me retrouve en eux, ce qui me passionne leur est cher.

Eugène Carrière, Écrits Et Lettres Choisies [Mercure de France, Paris (1907)], 2019.

In questo tempo così limitato, abbiamo le nostre gioie, i nostri dolori; che almeno ci appartengono, che le nostre manifestazioni ne sono testimonianza e assomigliano solo a noi stessi. È in questo desiderio che presento le mie opere a coloro il cui pensiero è vicino al mio. Devo loro il resoconto dei miei sforzi e a loro li sottopongo. Vedo gli altri uomini in me stesso e mi ritrovo in loro, ciò che mi affascina è loro caro.

Eugène Carrière, “Méditation”, circa 1900, Strasburgo, musée d’Art moderne e contemporain
Eugène Carrière, “Autoportrait”, New York, Metropolitan Museum of Art
Eugène Carrière, Nelly Carrière, 1895,
Eugène Carrière, Ritrato di Auguste Rodin
Eugène Carrière, Tenerezza
Eugène Carrière, Maternità.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Friedrich W. Nietzsche (1844-1900) – La musica unisce tutte le qualità. La sua funzione principale è di condurre i nostri pensieri verso cose più alte, elevarli, anche a costo di farci tremare

Friedrich Wilhelm Nietzsche 13

 

«Dio ci ha dato la musica così che soprattutto ci possa portare verso l’alto. La musica unisce tutte le qualità: può esaltarci, divertirci, rallegrarci o rompere il più duro dei cuori con i più dolci dei suoi toni malinconici. Ma la sua funzione principale è di condurre i nostri pensieri verso cose più alte, elevarli, anche a costo di farci tremare […] L’arte musicale spesso si esprime in suoni più penetranti delle parole della poesia e penetra nelle fessure più nascoste del cuore. […] La canzone eleva il nostro essere e ci porta verso il buono e il vero. Se tuttavia la musica serve solo come un diversivo o come una specie di vana ostentazione è peccaminosa e dannosa».

Friedrich Wilhelm Nietzsche, cittato in: Julian Young, A Philosophical Biography Friedrich Nietzsche, Cambridge University Presse, London, 2010.

***

«Nel Tristan, fra la nostra più alta emozione musicale e la musica s’insinuano il mito tragico e l’eroe tragico, quale simboli delle verità più universali, di cui la musica sola può parlare per via diretta. Quale simbolo tuttavia il mito resterebbe inefficace. […] L’apollineo ci strappa all’universalità dionisiaca e ci attrae verso gli individui».

Friedrich Wilhelm Nietzsche, La nascita della tragedia, in La polemica sull’arte tragica, Sansoni, Firenze 1972, pp. 168, 169, poi 160.

***

«Forse, non c’è mai stato un filosofo che fosse, au fond, musicista quanto lo sono io […] non conosco più nulla, non sento più nulla, non leggo più nulla: e malgrado tutto ciò non c’è niente che, propriamente, mi interessi di più del destino della musica». 

Friedrich Wilhelm Nietzsche, Lettera al direttore d’orchestra Hermann Levi del 20 ottobre 1887.

***

«Possa la mia musica dimostrare che si può essere dimentichi del proprio tempo e che in ciò v’è qualcosa di ideale!” […] per me resta sempre un fatto straordinario come nella musica si riveli l’immutabilità del carattere; ciò che vi esprime un fanciullo è così chiaramente il linguaggio essenziale della sua intera natura, che anche l’adulto non ritrova nulla da cambiare”.

Friedrich Wilhelm Nietzsche, Lettera del 20 marzo 1875 all’amica Malwida von Meysenbug.

***

«Le mie improvvisazioni al pianoforte hanno non poco successo, e fui solennemente festeggiato con un brindisi in mio onore. Ernst ne è assolutamente incantato, come direbbe Lisabeth; dovunque io mi trovi debbo suonare e vengo applaudito: è ridicolo. Ieri, nel pomeriggio, ci recammo a Schwelm, […] la sera, in un ristorante, suonai, senza saperlo, alla presenza di un rinomato direttore d’orchestra, il quale rimase a bocca aperta e mi fece ogni sorta di complimenti, scongiurandomi di far parte, la sera, della sua società corale.».

Friedrich Wilhelm Nietzsche, Lettere alla amdre e alla sorella, Franziska ed Elisabeth, del dicembre 1864 e del 18 febbraio 1865.

 

Friedrich Nietzsche (1844-1900) – Scrivi col sangue: imparerai che il sangue è spirito
Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900) – Chi si sente completamente in accordo con questo presente, e lo assume come qualcosa ‘che si comprende da sé’ non è da noi certo invidiato. Tra costoro e i solitari, stanno tuttavia in mezzo i combattenti, cioè coloro che sono ricchi di speranza.
Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900) – Un’educazione, peraltro, che faccia intravedere alla fine del suo corso un impiego, o un guadagno materiale, non è affatto un’educazione in vista di quella cultura che noi intendiamo, ma semplicemente un’indicazione delle strade che si possono percorrere per salvare e difendere la propria persona, nella lotta per l’esistenza.
Friedrich Nietzsche (1844-1900) – La nostra cultura europea è come protesa verso una catastrofe: irrequieta, violenta, precipitosa; simile a una corrente che vuole giungere alla fine, che non riflette più e ha paura di riflettere.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Arthur Schopenhauer (1788-1860) – La musica oltrepassa le idee, è del tutto indipendente anche dal mondo fenomenico, è infatti oggettivazione e immagine dell’intera volontà, tanto immediata quanto il mondo anzi, quanto le idee.

Arthur Schopenhauer 03

«La musica oltrepassa le idee, è del tutto indipendente anche dal mondo fenomenico, lo ignora, in un certo modo potrebbe continuare ad esistere anche se il mondo non esistesse più: cosa che non si può dire delle arti. La musica è infatti oggettivazione e immagine dell’intera volontà, tanto immediata quanto il mondo, anzi, quanto le idee, la cui pluralità fenomenica costituisce il mondo degli oggetti particolari».

Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, [1819l, ed. it. a cura di Ada Vigliani, Mondadori, Milano 1995.


Arthur Schopenhauer (1788-1860) – Non solo la filosofia, ma anche le arti belle mirano a risolvere il problema dell’esistenza.
Arthur Schopenhauer (1788-1860) – Perché si riconosca e si apprezzi spontaneamente il valore altrui, bisogna possederne del proprio.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Wystan Hugh Auden (1907-1973) – Udii un innamorato che cantava: «L’amore non ha fine. Io ti amerò finché l’oceano sia ripiegato e steso ad asciugare. Io tengo stretto fra le braccia il Fiore delle Età, e il primo amore al mondo».

Wystan Hugh Auden 01

Una sera che ero uscito a spasso,
a spasso in Bristol Street,
sul lastrico le folle erano campi
di grano pronto per la mietitura.

E lungo il fiume in piena
udii un innamorato che cantava
sotto un’arcata della ferrovia:
«L’amore non ha fine.

«Io ti amerò, mia cara, ti amerò
finché la Cina e l’Africa s’incontrino,
e il fiume schizzi sopra la montagna
e per la strada cantino i salmoni.

«Io ti amerò finché l’oceano sia
ripiegato e steso ad asciugare,
e vadano le sette stelle urlando
come oche in giro per il cielo.

«Come conigli correranno gli anni
perché io tengo stretto fra le braccia
il Fiore delle Età,
e il primo amore al mondo».

Ma tutti gli orologi di città
si misero a vibrare e rintoccare:
«Oh, non lasciarti illudere dal Tempo,
non puoi vincere il Tempo.

«Nelle tane dell’Incubo,
dove Giustizia è nuda,
dall’ombra il Tempo vigila
e tossisce se hai voglia di baciare.

«Tra emicranie e in ansia
vagamente la vita cola via,
e il Tempo avrà vinto la partita
domani o ancora oggi.

«In molte verdi valli
si accumula la neve spaventosa;
il Tempo spezza le danze intrecciate
e dell’atleta lo stupendo tuffo.

«Oh, immergi nell’acqua le tue mani,
giù fino al polso immergile;
e guarda, guarda bene nel catino
e chiediti che cosa hai perduto.

«Nella credenza scricchiola il ghiacciaio,
il deserto sospira dentro il letto,
e nella tazza la crepa dischiude
un sentiero alla terra dei defunti.

«Dove i barboni vincono bei soldi
e il Gigante fa le moine a Jack,
e l’Angioletto è un nuovo Sacripante,
e Jill finisce giù lunga distesa.

«Oh, guarda, guarda bene nello specchio,
guarda nella tua ambascia;
la vita è ancora una benedizione
anche se benedire tu non puoi.

«Oh, rimani, rimani alla finestra
mentre bruciano e sgorgano le lacrime;
tu amerai il prossimo tuo storto
con il tuo storto cuore».

Era tardi, già tardi quella sera,
loro, gli amanti, se n’erano andati;
tutti i rintocchi erano cessati,
e il gran fiume correva come sempre.

 

Wystan Hugh Auden, Un altro tempo, a cura di Nicola Gardini, Adelphi, Milano, 1997.


Descrizione

Tra le raccolte di poesie di Auden un posto molto particolare spetta senza dubbio a Un altro tempo: e per più ragioni, a cominciare dalla sua collocazione cronologica, che ne fa in un certo senso un libro di storia. Il periodo della composizione abbraccia la vigilia e gli inizi della seconda guerra mondiale, e comprende i giorni di una svolta drammatica nella vita del poeta: la decisione di lasciare l’Inghilterra e di stabilirsi negli Stati Uniti. Abituato a vivere intensamente e da vicino gli eventi pubblici, dalla guerra di Spagna alla crisi europea, Auden interpreta da poeta non solo l’invasione tedesca della Polonia, ma anche la scomparsa di figure come Yeats e Freud. Intanto entra in un «altro tempo» con un esilio che lo accomuna a schiere innumerevoli di profughi (ai quali dedica Refugee Blues e altri versi) e lo avvia alla cittadinanza americana, senza mai attenuare i ricordi dell’Inghilterra e dell’Europa (Oxford, il Vallo Romano, il Musée des Beaux-Arts di Bruxelles). Un altro tempo è tipicamente audeniano anche perché alterna liriche metafisiche ad altre cosiddette light (come Funeral Blues e Calypso), che sono tra le sue più famose o addirittura popolari; e perché l’omaggio ai grandi del passato (Melville, Rimbaud, Voltaire) non esclude un’attenzione commossa o sarcastica per piccole creature del presente (la povera Miss Gee o il chimico che con la sua passione per gli esplosivi contribuirà a distruggere la propria casa). Mai pubblicato in Italia nella sua integrità, Un altro tempo è infine una testimonianza delle esperienze americane di Auden già dalla poesia d’apertura, con la dedica a Chester Kallman – dedica che è quasi l’annuncio pubblico di un sodalizio destinato a durare una vita.


Pieter Bruegel il Vecchio, La caduta di Icaro. Musée David et Alice van Buren, Bruxelles.

  • Poesie, introduzione, versione e note di Carlo Izzo, Guanda, 1952
  • Per il tempo presente : oratorio di Natale, traduzione di Aurora Ciliberti, All’insegna del pesce d’oro, 1964
  • L’età dell’ansia : egloga barocca, traduzione di Lina Dessì e Antonio Rinaldi, Mondadori, 1966
  • Opere poetiche, traduzione di Aurora Ciliberti, 2 voll., Lerici, 1966-1969
  • Saggi, trad. G. Fiori Andreini, Garzanti, 1968
  • Il jolly nel mazzo : saggi su Shakespeare, D. H. Lawrence, Marianne Moore, Frost, Byron, Dickens, Ibsen, Stravinsky, Garzanti, 1972
  • Grazie nebbia!, a cura di Aurora Ciliberti, Guanda, 1977; TEA, 1998
  • Città senza mura e altre poesie, a cura di Aurora Ciliberti ; introduzione di Marisa Bulgheroni, Mondadori, 1981
  • Poesie, a cura di Aurora Ciliberti, Mondadori, 1981
  • Riti della parola, Vita e Pensiero, Milano, 1985
  • Horae canonicae, traduzione di Aurora Ciliberti ; note di Maria Vailati, SE, 1986
  • Gli irati flutti, a cura di Gilberto Sacerdoti, Arsenale, 1987; poi Fazi, 1995
  • Il mare e lo specchio : commentario a “La tempesta” di Shakespeare, a cura di Aurora Ciliberti, SE, 1987
  • Lettere dall’Islanda, a cura di Aurora Ciliberti, Archinto, 1993
  • (con Christopher Isherwood) Viaggio in una guerra, traduzioni di Aurora Ciliberti e Lucia Corradini, SE, 1993; poi Adelphi, 2007
  • L’eta dell’ansia : egloga barocca, traduzione di Lina Dessi, Antonio Rinaldi, introduzione di Valerio Magrelli, Il melangolo, 1994.
  • La verità, vi prego, sull’amore, trad. di Gilberto Forti, Adelphi, 1994
  • Shorts, trad. di Gilberto Forti, Adelphi, 1995
  • Un altro tempo, a cura di Nicola Gardini, Adelphi, 1997
  • La mano del tintore, trad. di Gabriella Fiori, Adelphi, 1999
  • Lo scudo di Perseo, trad. di Gabriella Fiori, Adelphi, 2000
  • Lezioni su Shakespeare, a cura di Arthur Kirsch ; traduzione di Giovanni Luciani, Adelphi, 2006
  • Grazie, nebbia : ultime poesie, a cura di Alessandro Gallenzi, Adelphi, 2011
  • Oratorio di Natale, traduzione di Vanni Bianconi, Transeuropa, 2011
  • Poesie scelte, A cura di Edward Mendelson, trad. di Massimo Bocchiola e Ottavio Fatica, Adelphi, 2016
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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María Zambrano (1904-1991) – Persona è colui che nella vita lascia intravedere, con la sua stessa vita, che un senso superiore ai fatti fa acquisire ad essi significato configurandoli in un’immagine: affermazione di una libertà imperitura pur nell’imporsi delle circostanze.

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«Perché ciò che è propriamente storico non è il fatto resuscitato con tutti i suoi componenti, fantasma della sua realtà, né tanto meno la visione arbitraria che elude il fatto, bensì la visione di quel che sopravvive ai fatti, il senso che sopravvive assumendoli come corpo. Non gli avvenimenti così come furono, ma ciò che ne è rimasto: le rovine. Le rovine sono la cosa più viva della storia, perché vive storicamente soltanto ciò che è sopravvissuto alla sua distruzione, ciò che è rimasto sotto forma di rovine. In tal modo le rovine ci darebbero il punto di identità tra il vivere personale – la storia personale – e la storia. Persona è colui che nella vita è sopravvissuto alla distruzione di ogni cosa, e ancora lascia intravedere, con la sua stessa vita, che un senso superiore ai fatti fa acquisire ad essi significato configurandoli in un’immagine: affermazione di una libertà imperitura pur nell’imporsi delle circostanze, nella prigione delle situazioni».

María Zambrano, L’uomo e il divino, trad. it. di G. Ferraro, Roma, Edizioni Lavoro, 2008, p. 228.


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María Zambrano (1904-1991) – Vivere come figli è qualcosa di specificatamente umano; solo l’uomo si sente vivere a partire dalle sue origini e a queste si rivolge con rispetto. Se è così, non dovremmo temere che, smettendo di essere figli, smetteremo anche di essere uomini?
María Zambrano (1904-1991) – La cosa più umiliante per un essere umano è sentirsi portato, trascinato, senza possibilità di scelta, senza poter prendere alcuna decisione.
María Zambrano (1904-1991) – La violenza vuole, mentre la meraviglia non vuole nulla, le è estraneo e perfino nemico tutto quanto non persegue il suo inestinguibile stupore estatico.
María Zambrano (1904-1991) – Sogno e destino della pittura. Dal sogno la pittura ha la sua nascita. Perché essa è nata nelle caverne. I sogni hanno bisogno di salvarsi. E un sogno salvato è un sogno visibile.
María Zambrano (1904-1991) – L’esperienza precede ogni metodo. Ma il metodo si dà fin dal principio in una determinata esperienza, che proprio in virtù di ciò arriva ad acquistare corpo e forma, figura.
María Zambrano (1904-1991) – La vera musica non può essere trovata in un dogma, ma in un uomo concreto che percepisce con la sua armonia interiore l’armonia del mondo.
María Zambrano (1904-1991) – La finalità si sveglia, e quando arriva così è un tipico risveglio: da uno stato di abulia o dal lasciarsi vivere, ci svegliamo facendoci sentire che dobbiamo agire.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Raffaele La Capria – La funzione dello scrittore è sempre quella di porsi come critico della società cui appartiene.

Raffaele La Capria

«La funzione dello scrittore è sempre quella di porsi come critico della società cui appartiene, non in senso negativo, ma come portatore di una confliettualità interna alla società che dovrebbe essere vivificante e creativa e servire a migliorarla. […] Pensiamo per esempio a Pasolini che per primo ha avvertito i segnali di una catastrofe ambientale e antropologica, visibile in modo violento soprattutto nelle perieferie della città […] sempre più alterata dall’avvento di una modernità male assimilata e dal consumismo che ha devastato l’Italia».

Raffaele La Capria, Il fallimento della consapepolezza, Mondadori, Milano 2019.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Herbert Marcuse (1898-1979) – La solidarietà e la comunità si basano sulla subordinazione dell’energia distruttiva e aggressiva all’emancipazione sociale degli istinti vitali.

Herbert Marcuse - La dimensione estetica
La dimensione estetica

La dimensione estetica

«L’emergere degli esseri umani come “specie” – uomini e donne capaci di vivere in quella comunità di libertà che è il potenziale della specie – questa è la base soggettiva di una società senza classi. La sua realizzazione presuppone una trasformazione radicale degli impulsi e dei bisogni degli individui: uno sviluppo organico all’interno della realtà storica e sociale. La solidarietà si troverebbe su un terreno molto incerto se non fosse radicata nella struttura istintuale degli individui.
In questa dimensione gli uomini e le donne si confrontano con le forze psico-fisiche che devono fare proprie senza poterne sconfiggere la naturalità. Questa è la sfera degli impulsi primari: dell’energia libidica e distruttiva. La solidarietà e la comunità si basano sulla subordinazione dell’energia distruttiva e aggressiva all’emancipazione sociale degli istinti vitali.
Il marxismo ha trascurato troppo a lungo il potenziale politico radicale di questa dimensione, sebbene il sovvertimento della struttura istintuale sia un prerequisito per un cambiamento nel sistema dei bisogni, il segno di una società socialista come differenza qualitativa».

Herbert Marcuse, La dimensione estetica. Un’educazione politica tra rivolta e trascendenza, a cura di Paolo Perticari, Guerini e Associati, 2002, pp. 22-23.


 


Herbert Marcuse (1898-1979) – L’uomo ad una dimensione riconosce se stesso nelle proprie merci; l’apparato produttivo assume il ruolo di un’agente morale
Herbert Marcuse (1898-1979) – È possibile distinguere tra bisogni veri e bisogni falsi
Herbert Marcuse (1898-1979) – Se vogliamo costruire una casa di abitazione nel posto in cui sorge una prigione, dobbiamo prima demolire la prigione, altrimenti non possiamo neppure iniziare i lavori.
Herbert Marcuse (1898-1979) – Il presupposto fondamentale della rivoluzione, la necessità di un cambiamento radicale, trae origine dalla soggettività degli individui stessi, dalla loro intelligenza e dalle loro passioni, dai loro sensi e obiettivi. La soggettività liberatrice si costituisce nella storia interiore degli individui. Solo come straniamento l’arte svolge una funzione cognitiva. Essa comunica verità non comunicabili in nessun altro linguaggio: essa contraddice.
Herbert Marcuse (1898-1979) – Ciò che si definisce “utopico” non è più qualcosa che “non accade” e non può accadere nell’universo storico, bensì qualcosa il cui prodursi è impedito dalla forza delle società stabilite.
Herbert Marcuse (1898-1979) – La spontaneità soggettiva dell’uomo moderno viene trasferita sulla macchina, della quale è al servizio, così da subordinare la sua vita al “realismo” nei confronti di un mondo nel quale la macchina è il soggetto attivo e lui il suo oggetto.
Herbert Marcuse (1898-1979) – Un filosofo può commettere molti sbagli, ma in Heidegger non si trattò di un errore, bensì di un tradimento della filosofia e di tutto quello che essa rappresenta. allora rimane un’unica filosofia, una filosofia della rinuncia, della resa.
Herbert Marcuse (1898-1979) – La fantasia ha un proprio valore di verità. L’immaginazione tende alla riconciliazione dell’individuo col tutto, del desiderio con la realizzazione, della felicità con la ragione.
Herbert Marcuse (1898-1979) – La solidarietà e la comunità si basano sulla subordinazione dell’energia distruttiva e aggressiva all’emancipazione sociale degli istinti vitali.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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