Pavel A. Florenskij (1882-1937) – Cultura è lotta consapevole contro l’appiattimento generale, è resistenza al processo di livellamento dell’universo, è l’accrescersi della diversità di potenziale in ogni campo che assurge a condizione di vita, è contrapposizione all’omologazione, sinonimo di morte. Dove regna l’intercosalità non vi è cultura, ma solo svalorizzazione dell’essere umano.

Pavel Aleksandrovič Florenskij 03

Salvatore Bravo

Dove regna l’intercosalità non vi è cultura, ma solo svalorizzazione dell’essere umano


Il titanismo dei nostri giorni non è che una forma di riduzionismo.
Alla verità, ed alla sua multifocalità, si è sostituita la derealizzazione dell'essere umano.
Si irride alla filosofia teoretica, perché pone quesiti non risolvibili con algoritmi, e perché pone in discussione i postulati dello specialismo.
La filosofia ricerca la totalità e insegna a vivere la totalità.
Lo specialismo necrotizza ogni risvolto etico dell’agire per rafforzare la sola logica del risultato e dell’efficienza.
Il potere non tollera la verità.
Lo sguardo narcisista vorrebbe dominare il reale con la tecnica.
Dove regna l’intercosalità non vi è cultura, ma solo valorizzazione della merce e svalorizzazione dell’essere umano.
La verità esige il coraggio di “ritornare alle cose stesse”.
Vi è cultura dove l’essere umano è il centro ed il fine della ricerca, dove la chiarezza ontologica si coniuga con la prassi assiologica.
Cultura è  lotta consapevole contro l’appiattimento generale, è resistenza al processo di livellamento dell’universo, è l’accrescersi della diversità di potenziale in ogni campo che assurge a condizione di vita, è contrapposizione all’omologazione, sinonimo di morte.


Totalità titanismo e totalitarismo
Il titanismo dei nostri giorni non è che una forma di riduzionismo. Mediante la matematica e l’applicazione di calcoli matematici e algoritmici ci si difende dalla realtà, per dominarla attraverso previsioni e ricostruzioni astratte. Alla verità, ed alla sua multifocalità, si è sostituito l’astratto e la derealizzazione. Il titanismo è l’effetto della rinuncia alla ricerca della verità: lo scambio dell’astratto con il concreto produce “mostri”. La pratica del titanismo è quotidiana, il suo epifenomeno è plurale, si materializza col narcisismo atomistico ed il saccheggio perenne delle risorse naturali ed umane. La rinuncia alla verità è il fondamento del titanismo globale. Dalla verità ci si difende con il rifugiarsi nel delirio collettivo di grandezza. Il linguaggio è pervasivamente infettato da tale atteggiamento, dalla pubblicità al linguaggio ordinario e culturale. Ovunque, si insinuano parole come: “alla grande”, “successo”, “godimento senza fine”. Più l’io diventa minimo tanto più il titanismo occupa i sogni distopici dell’ultimo uomo, secondo la definizione di Nietzsche nella Gaia scienza (aforisma 125).

“Il cretinismo della specializzazione” fa in modo che nelle accademie si rinunci alla verità. Si irride alla filosofia teoretica, perché pone quesiti non risolvibili con algoritmi, e specialmente pone in discussione i postulati dello specialismo.

La verità è un iter conoscitivo: orienta i nostri comportamenti senza esaurirne la sua profondità.
La verità è il fondamento che conserva le brecce per il suo autoripensamento.
Lo specialismo coglie frammenti di verità, ma senza la sua integrazione nella complessità esso non è che una forma aggressiva di totalitarismo che vorrebbe imporre una visuale unica, un’unica prospettiva respingendo la categoria della totalità per affermare il totalitarismo del pensiero unidirezionale.
Il totalitarismo è agorofobico, vuole solo spazi chiusi, senza tempo.
La totalità è la verità con i suoi piani sincretici che necessitano – per il suo disvelamento – di una pluralità di metodi e di modalità conoscitive. La Filosofia è la disciplina che non solo integra i piani, ma ricerca la totalità, essa insegna a vivere la totalità. Lo sguardo filosofico intenziona le parti integrandole, trascendendo la notte degli specialismi per coglierne la sostanza che vivifica la totalità e le dà organicità e senso.
Il totalitarismo, invece, è il riduzionismo per eccellenza, poiché una sola prospettiva diventa l’elemento preponderante che annichilisce la complessità. Lo specialismo si irrigidisce in sistema conchiuso in se stesso. Non vi sono aperture verso altri percorsi, ma solo la gravità unidirezionale che neutralizza il concetto per normalizzare il silenzio dove regnava il logos nella sua pluralità dialogante. Si ha l’adiaforizzazione, ovvero si necrotizza ogni risvolto etico dell’agire per rafforzare la sola logica del risultato e dell’efficienza.

 

La Verità in Pavel Florenskij
Pavel Florenskij ha indagato «il mondo come un intero»: questa, e solo questa,  «è stata la sua colpa». [1] Il potere non tollera la verità. Per eternizzarsi forma i sudditi allo specialismo con il quale ogni orizzonte veritativo è cancellato dalla finalità formativa e di ricerca.
I piani di verità si integrano verso la trascendenza, la quale non ha confini definitivi, ma le è consustanziale il movimento dialettico. Ogni sistema totalitario non ammette che l’imperio di un solo volto del reale, che in tal modo diviene irrazionale, incomprensibile. L’ambizione di ogni totalitarismo è l’ipostatizzazione del presente. Si ha, di conseguenza, il caos della derealizzazione, la scollatura tra il reale ed il concetto. Ciò non può che comportare la solitudine e la violenza:

 «”Che cosa ho fatto per tutta la mia vita?”, si chiese. Ho indagato il mondo come un intero, come un singolo quadro e una singola realtà. Ma feci questa indagine in ogni dato momento, o più precisamente in ogni periodo della mia vita, da un particolare angolo o prospettiva. Indagavo le relazioni del mondo sezionandolo in una direzione particolare, su di un piano particolare, e mi sforzavo di comprendere la realtà del mondo da questo piano che mi interessava. I piani erano differenti, ma uno non negava l’altro, bensì lo arricchiva. Ciò produceva una perpetua dialettica di pensiero, “lo scambio dei piani di osservazione”, mentre allo stesso tempo vedevo il mondo come un tutto unico».[2]

 

Totalitarismo esiziale
Il totalitarismo nega la ricerca della verità per omologare i popoli in masse, in plebi che devono obbedire restando inchiodati nella caverna, con lo sguardo ed il corpo vissuto teso verso gli imperativi di regime. Il totalitarismo trasforma un aspetto del reale in feticcio da adorare, in liturgia prosaica ripetitiva e priva di ogni fine ontologico: è il ritrovarsi in un guscio vuoto che incapsula e necrotizza la creatività di ciascuna persona. La cultura e la creatività non sono espressioni immediate, semplici automatismi, ma esigono impegno, disciplina, capacità di donarsi. L’inganno del totalitarismo – nella forma del capitalismo assoluto – è rappresentare la cultura e la creatività in modo gaudente e caotico. In tal modo neutralizza la temuta (per il capitalismo) pericolosità del pensiero critico, declassando la creatività a prodotto di facile produzione e consumo. La contemporaneità, malgrado le grandi conquiste tecnologiche, è nel segno della negazione della cultura:

«La cultura è la lotta consapevole contro l’appiattimento generale; la cultura consiste nel distacco, quale resistenza al processo di livellamento dell’universo, è l’accrescersi della diversità di potenziale in ogni campo che assurge a condizione di vita, è la contrapposizione all’omologazione, sinonimo di morte».[3]

 

L’ipertrofia della soggettività
La prospettiva rinascimentale nella ricostruzione genetica di Pavel Florenskij è il trionfo della soggettività e del relativismo, essa prepara la matematizzazione del reale. Se la soggettività resta avviluppata su se stessa, se riduce il reale a semplice costruzione euclidea, si ritira dal reale per vivere l’esperienza dell’astratto, al punto che la soggettività non vive il reale in cui è immersa, ma mediante calcoli matematici produce rappresentazioni senza la necessità di ascoltare la vita. Si tratta di un’immensa rete geometrica e matematica che ingabbia il reale, lo tumula sotto il peso dei calcoli, scambiando la rappresentazione matematico-geometrica per realtà. È un processo di allontanamento dalla vita che implica il disancorarsi dalla verità per trasformare l’io calcolante in una divinità che tutto deve sussumere a se stessa. La prospettiva nell’arte, quindi, con il suo tecnicismo, prepara la rivoluzione copernicana e lo scientismo totalitario:

«In secondo luogo: a dispetto della logica e di Euclide, ma ormai nello spirito della concezione del mondo kantiana, con il suo soggetto trascendentale che regna sul mondo illusorio della soggettività (e, ciò che è peggio, lo fa in maniera coercitiva), il nostro artista, fra tutti i punti dello spazio infinito (che in Euclide sono rigorosamente uguali), ne sceglie uno solo, esclusivo, unico, che si distingue da tutti gli altri per il suo valore, un punto monarchico, se così si può dire, ma la cui unica prerogativa è di essere il luogo in cui si trova l’artista stesso o, per essere più esatti, in cui si trova il suo occhio destro, il centro ottico del suo occhio destro. Tutti i luoghi dello spazio, alla luce di un simile modo di pensare, sono luoghi privi di qualità e ugualmente incolori, eccezion fatta per quest’unico luogo che domina su tutti gli altri, in quanto ha ricevuto il privilegio di essere sede del centro ottico dell’occhio destro dell’artista. Questo luogo viene proclamato centro del mondo e pretende di proiettare spazialmente il carattere gnoseologico, assoluto, kantiano dell’artista. In verità egli guarda la vita “da un punto di vista”, ma senza alcuna precisazione ulteriore, perché questo punto, innalzato a vero e proprio assoluto, non si distingue in nulla da tutti gli altri punti dello spazio, e la proclamazione della sua superiorità rispetto agli altri non solo non è motivata ma, se si considera la sostanza dell’intera concezione del mondo qui esposta, è anche immotivabile».[4]

 Lo sguardo narcisista vorrebbe dominare il reale con la tecnica, estromettere la coscienza dalla relazione con il mondo e viceversa. Il risultato è solo impoverimento dell’esperienza. La verità esige il coraggio di “ritornare alle cose stesse”, e di problematizzare, in primis, la soggettività ed il suo ruolo nell’occultare la verità.

 

Paura del reale e della verità
Nella pratica dell’esemplificazione totalitaria si cela il bisogno di difendersi dalla verità, la quale sgretola le false certezze in cui ci si rifugia. La realtà è come una linea retta, secondo il filosofo e mistico russo. Si può decidere di osservare un punto della retta, o di capire che la retta è fatta di punti indissociabili. Cultura è sguardo che non arretra innanzi all’insieme ed alle sue connessioni. Rappresentarsi un mondo storico e naturale incapsulato in sistemi e formule favorisce il sogno d’onnipotenza che sempre è riposto tra le pieghe della conoscenza che abiura la filosofia teoretica. I regimi totalitari – riconosciuti o meno in quanto tali – fanno “buon uso” delle paure ataviche degli esseri umani, come del delirio d’onnipotenza. La cultura è lotta, in quanto è confronto con tali paure e delirii. Essa permette di attraversare i deserti interiori e collettivi per tracciare nuovi inizi senza rimozioni e nostalgie. Se non ci si confronta con tali dinamiche non vi è cultura, ma solo pratica per imbalsamare il reale:

«In quinto luogo: tutto il mondo viene pensato come completamente immobile e assolutamente immutabile. In un mondo soggetto a rappresentazione prospettica non può e non deve esserci spazio né per la storia, né per la crescita, né per i cambiamenti, né per i movimenti, né per la biografia, né per lo sviluppo di un’azione drammatica, né per il gioco delle emozioni. In caso contrario, ancora una volta l’unità prospettica del quadro si sfalderebbe. È un mondo morto o avvinto in un sonno eterno: è sempre, immutabilmente, lo stesso identico quadro, pietrificato nella sua gelida immobilità».[5]

La cultura è a un bivio. Pavel Florenskij nel gulag ha vissuto la violenza del riduzionismo prospettico. Sta a noi cogliere “la verità della sua testimonianza”, dinanzi all’avanzare di un mondo unidirezionale, incapace di guardare gli effetti e la violenza dell’economicismo che – con il saccheggio delle risorse – sta inchiodando l’umanità ed il pianeta nell’immobilità della coazione a ripetere. Vi è cultura dove l’essere umano “abbandona il proprio trono” per avventurarsi nella dialettica, per instaurare l’intersoggettività che lo accompagna verso la verità. Perché ciò avvenga bisogna congedarsi dai miti e disporsi nella concretezza dell’ascolto e della parola:

«In quarto luogo: il suddetto legislatore viene concepito come incatenato per sempre e indissolubilmente al proprio trono: se lascia questo luogo assolutizzato o se vi fa anche soltanto il più piccolo movimento, immediatamente tutta l’unità delle costruzioni realizzate seguendo le leggi della prospettiva viene meno, e tutta la prospettiva che le regge crolla. In altre parole, in una simile concezione, l’occhio che guarda non è l’organo di un essere vivente che vive nel mondo e vi lavora, ma la lente di vetro di una camera oscura».[6]

 

Dove regna l’intercosalità (Massimo Bontempelli), non vi è cultura, ma solo valorizzazione della merce e svalorizzazione dell’essere umano. L’intercosalità sostituisce il logos, l’agire politico con lo scambio di merci, di informazioni e di seduzioni. Il fine dell’intercosalità è la morte dell’essere umano. Il bivio di fronte a cui si trova la cultura è la scelta tra l’umano ed il dis-umano. Tutti noi siamo implicati in tale scelta. Publio Terenzio Afro ci aiuta a definire ciò che è, per l’uomo, vera cultura:

«Homo sum, humani nihil a me alienum puto».[7]

Vi è cultura dove l’essere umano è il centro ed il fine della ricerca, dove la chiarezza ontologica si coniuga con la prassi assiologica. La cultura è libertà dell’agire e dell’incontro per elevarsi nell’universale concreto nel quale si coniugano metafisica ed assiologia.

Salvatore Bravo

***

[1] Pavel Florenskij condannato nel 1933 a dieci anni di servitù in un campo di concentramento; fu inviato in seguito nell’isola di Solovki; morì il 15 Dicembre nel 1943.
[2] Pavel Florenskij, Lettera dal campo di concentramento di Solovki, 21 Febbraio 1937; in Un filosofo nel gulag. Arte e letteratura in Pavel A. Florenskij, dall’Accademia teologica di Mosca ai campi di concentramento sovietici, Jouvence, Milano 2020.
[3] Tratto dal libro di Pavel Florenskij, Bellezza e liturgia. Scritti su cristianesimo e cultura, SE, Milano 2020.
[4] Pavel Florenskij, La prospettiva rovesciata, a cura di Adriano Dell’Asta, Adelphi, Milano 2020, pag. 74.
[5] Ibidem, pag. 75.
[6] Ibidem.
[7] «Sono un essere umano, niente di ciò che è umano mi è estraneo», in Publio Terenzio Afro, Heautontimorùmenos, Atto I.


Pavel Florenskij (1882-1937) – «La prospettiva rovesciata». Ci sono solo due tipi di rapporto con la vita: quello interiore e quello esteriore, come ci sono due tipi di cultura: contemplativo-creativa e rapace-meccanica.
Pavel Aleksandrovič Florenskij (1882-1937) – Verità, bene e bellezza: questa triade metafisica è un unico principio. Nella vita ci sono molte cose mostruose, malvage, tristi e sporche. Tuttavia, rendendosi conto di tutto questo, bisogna avere dinanzi allo sguardo interiore l’armonia e cercare di realizzarla.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Giancarlo Paciello – L’elaborazione di Gianfranco La Grassa del concetto di Imperialismo

Giancarlo Paciello–Imperialismo La Grassa

Giancarlo Paciello

L’elaborazione di Gianfranco La Grassa del concetto di Imperialismo

 

Premessa
Lo studio pluriquarantennale di questo misconosciuto studioso del marxismo e del leninismo (che ha comunque pubblicato decine di libri su entrambi gli argomenti!), è approdato ad alcune formulazioni originali sia dell’uno che dell’altro. Dal momento che, nella situazione attuale, è proprio un quadro complessivo cui far riferimento che fa difetto, cercherò di illustrare dette formulazioni, a partire dalla rilettura che La Grassa fa dell’“Imperialismo, fase suprema del capitalismo” di Lenin, ivi comprese le sue ipotesi su come possa evolvere nei prossimi decenni “la formazione sociale capitalistica ri-mondializzatasi nel 1989-91”.
Cercherò, nei limiti delle mie capacità, innanzitutto di “descrivere” il nuovo quadro teorico che ne risulta, quanto alle mie “riserve”, pur dichiarandomi fin da ora complessivamente d’accordo con La Grassa (cosa del tutto evidente del resto, visto che ho scelto questo originale e rinnovato contributo alla teoria, per collocarvi le mie argomentazioni), le esprimerò in una o due paginette, a parte, che allegherò al testo. Premetto che si tratta di un lavoro, decisamente faticoso e difficile!
Ad una prima parte sostanzialmente teorica, che io credo di non difficile comprensione (anche se di non facile accettazione, visto il quadro ossificato dei teorici marxisti), ne seguirà una seconda, con la quale occorre confrontarsi se non si vuole stare soltanto alla finestra, e che sarà costituita, per solido convincimento dello stesso autore, da una serie di ipotesi pronte a smentire il più approfondito dei convincimenti, anche se fondato su di una solida teoria. Di fatto ho già cominciato, con questa affermazione, ha definire il criterio metodologico fondamentale degli studi di La Grassa, secondo il quale le più “ispirate” previsioni sono di fatto “largamente aperte a possibilità di errori anche notevoli, in molti casi di ampiezza tale da inficiare l’apparato categoriale impiegato nel formularle”, senza per questo rinunciare appunto alla teoria in quanto sistema di ipotesi (da non confon­dersi ovviamente con la realtà!). Un approccio decisamente scientifico al problema. In ogni caso, anche se le previsioni dovessero, in linea di larga massima, rivelarsi per 1’essenziale esatte, queste non potranno finire con l’affermarsi se non nel corso di decenni, non certo di anni.

 

L’Imperialismo: due opposte concezioni
Prima di seguire La Grassa nel suo “riassunto” della teoria dell’imperialismo di Lenin rispetto alla quale emergeranno sia i suoi punti di affinità con essa, sia le novità sostanziali rispetto ad essa, c’è bisogno di fare alcune precisazioni.

In primo luogo si tratta di mettere subito in evidenza un punto essenziale circa il carattere dell’imperialismo e cioè il suo essere intrinseco alla struttura dei rappor­ti del modo di produzione capitalistico, contrariamente a quanto sostenevano Hobson e Kautsky, che ritenevano invece l’imperialismo una semplice politica di settori arretrati del capitalismo (i settori finanziari, considerati parassitari, putrescenti) e che, di conseguenza, erano convinti si potesse contrastare detta politica, senza la trasformazione del capitalismo in un’altra formazione sociale.
Si tratta dunque di riaffermare il profondo convincimento di Lenin che, per l’appunto, vedeva il capitalismo intrinsecamen­te conflittuale, fortemente competitivo non soltanto a livello economico ma anche in campo politico e militare. E dunque l’imperialismo non poteva che essere inestricabilmente intrecciato con il modo di produzione tipico della formazione sociale capitalistica. Per Lenin perciò, il capitale finanziario (tipica espressione dell’imperialismo), non costituiva una degenerazione del capitalismo, dovuta alla presenza di capitalisti parassitari, puramente speculativi. Era invece simbiosi, tra capitale bancario e capitale industriale. Un capitale finanziario dunque indissolubil­mente legato a quello produttivo.
La tesi di Hobson e di Kautsky, secondo la quale è necessario combattere il primo per far meglio fiorire il secondo, considerato tutto sommato positivamente, perché avrebbe potuto essere utilizzato a vantaggio della collettività, grazie alla sua dinamicità e al veloce sviluppo delle sue capacità produtti­ve, (tesi che ancora oggi riemerge), è di fatto storicamente servita soltanto ad indebolire la lotta antimperialistica e continua a svolgere, anche oggi, la stessa funzione.
Secondo La Grassa, partendo dalla tesi leniniana dell’imperialismo strutturalmente legato al capitalismo, si può e si deve trarre una conclusione ancora più generale, e cioè che la definizione e la trattazione del primo dipendono da come viene concepi­to il modo di produzione capitalistico. Come vedremo meglio in seguito, La Grassa a questo punto si allontana dall’impostazione leniniana. Si tratta di un processo molto simile a quello che avviene, per l’autore, con Marx.
E siamo ad una seconda precisazione. La Grassa parte da Marx per definire il modo di produzione capitalistico, per poi “innovarlo” con successivi spostamenti concettuali di rilievo, e così pure parte da Lenin nel trattare il problema dell’imperialismo, per apportarvi poi modificazioni radicali. Prima di arrivare all’analisi dell’imperialismo è perciò assai opportuno seguirlo, nella sua lettura “essenziale” di Marx.

 

Marx secondo La Grassa
Il punto essenziale della concezione marxiana del modo di produzione capitalistico, è rappresentato dall’importanza capitale che Marx attribuisce al fatto che, nel capitalismo, lavori privati, eseguiti indipendentemente l’uno dall’al­tro, si socializzino solo indirettamente, tramite il mercato. La produzione capitalistica è dunque produzione di merci, avviene di fatto in unità separate e autonome, ognuna delle quali porta avanti i suoi propri interessi, in conflitto con altre unità (che d’ora in poi chiameremo imprese) dello stesso genere. La forma di merce è evidentemente in stretta correlazione con quella di denaro, in definitiva con le diverse manifestazioni monetarie di quest’ultimo. Se si produ­cono merci, è ovvio che la ricchezza prodotta presenti sempre il suo aspetto monetario. La somma di merci è sempre tradotta in una somma di denaro. Il calcolo economico è di fatto effettuato in moneta. Questa acquista ogni cosa, ed ogni cosa può essere trasformata, in tempi più o meno lunghi, in moneta.
Se tra queste imprese si creano alleanze e collegamenti secondo le molte forme giuridiche esistenti per farlo, o se addirittura alcune di esse sono fagocitate da altre che le battono nella concorrenza, tutto ciò avviene per poter accrescere le capacità competitive delle imprese. Dal momento che il capitalismo è, produzione di beni e servizi in forma di merce, se ne deve necessariamente concludere che il conflitto inter-imprenditoriale è generale e permanente, mentre l’accordo, la fusione, il collegamento, l’inglobamento e l’incorporazione, tra imprese sono particolari e transitorie. Il conflitto è il fine, dice La Grassa, mentre l’accordo, l’alleanza, ecc. sono il mezzo per quel fine. Per poi precisare che non si tratta di “un conflitto fine a se stesso, ma a sua volta strumento per l’affermazione della propria temporanea predominanza”.
Quanto segue, è l’assunto sostanziale che allontana La Grassa da Marx.
L’elemento fondamentale, “essenziale”, del modo di produzione capitalistico non sarebbe, come sostiene Marx, la proprietà privata dei mezzi di produzione, cui si contrappone quella della forza o capacità lavorativa di coloro che sono pagati mediante salario e cioè il conflitto capitale-lavoro, ma il conflitto inter-imprenditoriale. E le forme proprietarie rappresentano i mezzi utilizzati dalle imprese per realizzare le condizioni migliori nelle quali collocarsi in vista del reciproco conflitto prima di tutto per la supremazia mercantile.
Secondo La Grassa, seguendo l’ottica marxiana della mera proprietà privata dei mezzi di produzione, si finisce per fissare l’attenzione sostanzialmente su di un fenomeno, la centralizzazione dei capitali, che porta alla fase monopolistica del capitalismo, come uno stadio irreversibile del suo sviluppo, che di centralizzazione in centralizzazione, dovrebbe portare al famoso ultra-imperialismo, o capitalismo pienamente organizzato, di Kautsky e Hilferding. Di fatto questa tendenza non si è mai realizzata, mentre oggi la conflittualità inter-imprenditoriale, con imprese ben più giganti di quelle dell’epoca di Lenin (e di Marx), si va progressivamente esasperando.

La struttura dell’impresa
Nel momento in cui si accetta la tesi che il conflitto tra imprese è l’elemento decisivo, e fondante, del capitalismo, è molto importante cercare di definire le strutture di dette imprese. Queste, in quanto entità produttive, sono costituite da collettivi di lavoro produttivo (salariato), a struttura piramidale, in cui, par­tendo dal basso, esistono i diversi ruoli del lavoro manuale ed esecutivo e, verso l’alto, i diversi ruoli del lavoro direttivo. Al vertice stanno i direttori dei dipar­timenti e delle divisioni, e, su tutti, il gruppo dirigente dell’impresa nel suo complesso.
L’impresa è un’organizzazione che, considerata in sé stessa, persegue finali­tà di profitto, utilizzando una razionalità produttiva (strumentale), con la ricerca di una efficienza economica fondata sulla migliore utilizzazione di una serie di risorse e di fattori produttivi (dove per migliore s’intende quella che minimizza i costi), per ottenere la massima produzione possibile (dove il massimo concerne in realtà il ricavo ottenibile dalla vendita delle merci). Ogni impresa cerca di conseguire un simile risultato in competizione con le altre, tra di esse si stabiliscono a volte rapporti di collaborazione (sostanzialmente e solo in funzione della volontà di prevalere su altri gruppi di imprese). Si tratta in realtà soltanto di semplici alleanze, poiché ogni impresa perse­gue il fine del successo, della prevalenza nella competizione, e in base a ciò regola la sua condotta che è di reciproca cooperazione (solo transitoria e locale) e di reciproca lotta (permanente e complessiva).

 

Le funzioni di direzione dell’impresa
L’organo dirigente dell’impresa espleta due funzioni ben differenti che, nelle imprese di maggiori dimensioni, tendono ad essere assun­te anche da soggetti concretamente distinti. E’ infatti necessario innanzitutto che:
1) si formi una gerarchia (interna) di ruoli al cui vertice si situa il gruppo, con il compito di assicurare la coesione dell’impresa, il coordinamento d’insieme, la migliore efficienza in termini di costi e ricavi. Tale gruppo gestisce i processi tecnici e amministrativi, forgia l’organizzazione e assume il comando diretto delle “truppe”.
2) venga affidata al gruppo in questione, o ad una sua sezione, anche la gestione, la promozione e l’utilizzazione delle innovazioni, siano esse di processo, (atte cioè a ridurre i costi unitari di produzione), o di prodotto, (in grado cioè di ampliare la gamma delle merci vendute) e di accrescere in tal modo la quota di mercato dell’impresa, indipendentemente da costi e prezzi.
Infatti, nel modo di produzione capitalistico, fondato sulla competizione tra imprese nei mercati, sia le innovazioni del primo tipo sia quelle del secondo, sono piegate alle esigenze di detta competizione, alla necessità cioè di battere i concorrenti e di appropriarsi di sempre mag­giori quote della ricchezza prodotta in forma monetaria. Va detto che, ai fini del conflitto inter-imprenditoriale, risultano però nettamente più decisive le innovazioni di prodotto, in particolare quando si tratti di prodotti interamente nuovi e non di nuove versioni di vecchi prodotti, che consentono di produrre, per un periodo di tempo più o meno lungo, in condizioni di quasi monopolio e di far così dirottare verso le imprese innovatrici, grosse quote di risorse (i “risparmi”) accumulate, in specie mediante il settore bancario, e finanziario in genere.
Ma vista l’organizzazione conflittuale della produzione capitalistica, non è pensabile che i gruppi dirigenti imprenditoriali possano limitarsi a svolgere soltanto funzioni di gestione tecnica, di organizzazione, di coordinamento d’insieme, di innovazione. E’ dunque necessaria una diversa funzione che:
1) abbia la visione d’insieme dell’impresa e del complesso delle sue potenzialità competitive, ivi comprese quelle attinenti alla sua flessibilità nell’adattarsi ad eventuali mutamenti delle modalità e del terreno del conflitto inter-imprenditoriale,
2) sia in grado nello stesso tempo di studiare attenta­mente queste modalità e lo specifico terreno dello scontro, di condurre un’adeguata politi­ca delle alleanze tra imprese, di scegliere i tempi più consoni all’acutizzazione del conflitto in questione, e di stringere legami con altri settori sociali non imprenditoriali, senza l’ap­poggio dei quali la “guerra tra imprese” risulterebbe non gradita a buona parte della popolazione, creando in questo modo un ambiente tendenzialmente ostile all’imprenditorialità e un indebolimen­to della sua egemonia, della sua presa ideologica.
Questa funzione, particolarmente complessa, viene assunta da un organo imprenditoriale dirigente con compiti strategici, di carattere fondamentalmente politico. Anche se tale organo spesso è in possesso dei pacchetti di controllo azionario delle imprese, non è però la proprietà ad essere decisiva, quanto piuttosto la sua funzio­ne strategico-politica, di una politica tutta intenta a favorire il succes­so di alcuni, e la loro predominanza su altri, nella competizione nell’ambito della sfera economica della società.
L’orga­no direttivo strategico, che pure ha un’attenzione prevalente ai fenomeni della sfera economica, si fa carico contemporaneamente, e necessariamente, dei compiti di coinvolgimento delle altre sfere della società capitalistica, quella più specificamente politica e quella ideologica. Solo l’adempimento di questi altri compiti, non più semplicemente economici, pur se espletati con l’utilizzazione di risorse finanziarie (sia ben chiaro!), consente alle imprese, centri in cui si produce la ricchezza nella sua forma generale di denaro, di non isolarsi dal resto della società, ma di conquistare invece in essa un’influenza che la permea nel suo insieme e di esercitare perciò un’autentica egemonia, di ottenere un consenso non disgiunto dall’uso del potere.

 

L’impresa e lo Stato
Va a questo punto sottolineato che la competizione, e il possibile successo in essa, rappresentano una forte molla per il consenso sociale, impossibile a raggiungersi, senza una regolamentazione del “gioco” competitivo e senza ideologie di mascheramento dei vari trucchi possibili per alterare queste regole a proprio vantaggio. E’ necessaria la presenza delle sfere sociali politica e ideologica, e cioè, usando le parole di La Grassa:

di complessi di rapporti sociali che si ‘rapprendono’, si ‘coagulano’, in apparati vari in cui si svolgono processi lavorativi il cui ‘prodotto’ sembra indirizzato a garantire gli interessi più generali e complessivi dell’insieme societario, dell’insieme dei suoi membri posti formalmente su un piede di parità, di eguaglianza (di possibilità)”.

Lo Stato è la denominazione del complesso degli apparati politici che sembrano svolgere compiti amministrativi per scopi pubblici, (l’interesse generale si dice correntemente) e non in funzione di particolari gruppi di potere sia esso economico e/o politico, come avviene di fatto nella realtà. Que­sti ultimi si pongono in conflitto anche nell’ambito della sfera politica (e degli apparati di Stato), ma con modalità e intenti assai diversi rispetto a quelli in vigore nella sfera economi­ca. Si tratta infatti di una competizione tra gruppi dominanti imprenditoriali di tipo strategico. Questi gruppi dominanti, sia economici che politici, sanno bene che non deve essere lesa l’unità dello Stato, perché resti salda tra la gente la credenza che tale unità serva alla prestazione di servizi per la società nel suo insieme, senza manifesto favoritismo a vantag­gio di certi gruppi sociali o di certi altri.
E così, la competizione, svolta nell’apparente saldezza dell’unità della sfera politica, e statale in particolare, porta alla formazione in detta sfera di gruppi dominanti che attuano strategie particolari, diverse da quelle svolte dai gruppi strategi­co-imprenditoriali nella sfera economica sia produttiva che finanziaria. Tra gruppi dominanti politici ed economici c’è sostanziale unità di intenti, per quanto concerne la riproduzio­ne dei decisivi rapporti capitalistici, ma anche frizioni dovute alla diversità dei compiti e delle modalità di esercizio della dominanza. E ulteriori diversità esistono con riguardo ai grup­pi dominanti e all’esercizio (e alle modalità) di tale dominanza nella sfera ideologica.
Il fulcro della sfera politica, lo Stato, è entità con competenze territoriali, che coinvolgono particolari aree geografico-culturali della formazione sociale capitalistica complessiva. In sostanza, agli Stati corrispondono dei paesi. Come si è già sottolineato, lo Stato esercita un potere che appare, e deve sempre apparire, unitario, pena la disgregazione della sua struttura, del complesso dei suoi apparati. Tuttavia, al suo interno si svolge una più o meno intensa lotta tra gruppi di agenti capitalistici dominanti.
Nella sfera economica, la competizione spezza l’unità della produzione in tante unità di carattere privato non tanto in senso giuridico, ma in quanto a separatezza e autonomia di dette unità. Infatti, La “socializzazione” di detta produzione (e cioè che essa, pur mirando al profitto, alla valorizzazione cioè dei capitali investiti nelle unità considerate, soddisfa al tempo stesso i bisogni creatisi nell’ambito di quella particolare forma storica di società), avviene indirettamente, è mediata dal mercato, dalla concorrenza mercantile. Dunque, la competizione aperta, cui è finalizzata anche ogni eventuale alleanza tra imprese, è in definitiva il collante sociale della sfera economica nel capitalismo. Del resto è proprio questo tipo di “socializzazione” mediante il conflitto che rende tale modo di produzione più dinamico e potente, in termini di creazione di ricchezza, rispetto a quelli finora conosciuti, compreso il socialismo reale, di fatto mero statalismo.
Nella sfera politica, almeno nel suo fulcro costituito dallo Stato, non è invece ammessa l’evidenziazione di una socializzazione indiretta tramite aperto conflitto fra gruppi di agenti politici dominanti. Tale conflitto è pur sempre presente, e spesso acuto. lo Stato, al di là della strutturazione (coordinata) in apparati vari, è campo sociale attraversato da una fitta rete di rapporti, a configurazione gerarchica, nel cui ambito si svolge, sordo e sotterraneo, il confronto per la supremazia tra gruppi di agenti dominanti di tipo particolare, che agiscono in collegamen­to con quelli dominanti di carattere strategico-imprenditoriale.
Ma, mentre la competizione tra questi ultimi prende la forma di concorrenza mercantile, sembra cioè risolversi nel confronto-scontro fra i prodotti delle attività gestite in reciproca lotta per prevalere nell’ambito del mercato, nella sfera politico-statale il conflitto precede sempre l’esito “produttivo” (servizi e funzioni di tipo “pubblico”) delle attività degli apparati in cui lo Stato si materializza. Quando i “prodotti” emergono – viene dunque posta in essere una certa politica avente determinati indirizzi – lo scontro tra agenti dominanti poli­tici, con “alle spalle” i loro referenti strategico-imprenditoriali, deve avere trovato il suo momento di sintesi in nome di un fondamentale interesse che riguardi l’intera collettività nazionale. O meglio: tale interesse solo in apparenza riguarda l’in­tera collettività e anche tramite le ideologie e i relativi apparati si fa di tutto per convincere quest’ultima che si tratta della realtà.
E’ in ogni caso evidente che, nel capitalismo, il potere viene gestito precipuamente mediante l’utilizzazione della forma generale secondo cui appare, in questa formazione sociale, la ricchezza prodotta: la forma di denaro. L’aspetto finanziario della ricchezza quindi – gli apparati in cui questo aspetto si concretizza, e le politiche (finanziarie, appunto) che di tali apparati sono il “prodotto” – diventa il tramite necessario tra politica (e ideologia) e produ­zione; dunque tra gli agenti dominanti politico-ideologici e quelli strategico-imprenditoria­li. La produzione (di merci a mezzo di merci) esige la presenza dell’equivalente generale delle stesse (questa è la parte più banale del problema). Ma tutta la politica delle in­novazioni sarebbe resa estremamente difficoltosa senza la “liquidità” della ricchezza. Al­trettanto difficile, forse impossibile, sarebbe la politica delle dirigenze imprenditoriali di carattere strategico con riferimento alla possibilità di incorporare le unità imprenditoriali sconfitte nella competizione (senza semplicemente distruggerle), alla utilità o esigenza di stabilire alleanze con altre unità dello stesso tipo, alla capacità di influire decisamente e di coinvolgere nel conflitto inter-imprenditoriale gli appa­rati, quindi gli agenti dominanti, della sfera politica (e statale) e di quella ideologico-cultu­rale.
Terminate le precisazioni, meglio ancora le premesse teoriche fondamentali dell’elaborazione lagrassiana, possiamo passare alla lettura dell’imperialismo secondo l’autore.

 

L’Imperialismo di Lenin secondo La Grassa

Per semplicità espositiva e anche per una migliore comprensione delle “novità” rispetto alla teoria leniniana, ricordiamo brevemente le cinque carat­teristiche dell’imperialismo individuate da Lenin:
1)  centralizzazione monopolistica dei capitali quale stadio supremo del capitalismo;
2) formazione del capitale finanziario in quanto simbiosi tra capitale bancario e  capitale industriale;
3) sviluppo relativamente maggiore dell’espor­tazione di capitali rispetto a quella di merci;
4) competizione tra grandi concentrazioni monopolistiche per la spartizione del mercato mondiale;
5) conflitto tra Stati (grandi poten­ze) per la divisione del mondo in zone di influenza.

Vale la pena sottolineare che, per Lenin, la caratteristica essenziale è sicuramente la prima. La Grassa sostiene una differente concezione, e riduce le cinque caratteristiche alle ultime due, e non solo!
In primo luogo, dopo quanto detto in precedenza, risulta chiaro che per La Grassa non esiste l’ultimo (o supremo) stadio di una progressiva centralizzazione dei capitali. Come abbiamo visto, tale idea ha come sottofondo la concezione marxiana relativa al carattere (“essenzialmente”) pro­prietario del modo di produzione capitalistico, da cui deriva che la tendenza intrinseca di quest’ultimo conduce alla formazione di un ristretto gruppo di semplici rentier, ad un polo della società, e di una gran massa di lavoratori salariati (dai massimi dirigenti ai più bassi livelli esecutivi), “il lavoratore collettivo cooperativo” all’altro polo. Nell’analizzare l’impresa è risultato evidente che i gruppi di agenti dominanti strategico-imprenditoriali non sono affatto dei sem­plici rentier.

E dal momento che:
1) non sussiste la tendenza alla progressiva, e sempre crescente centralizzazione monopolistica, ma semmai soltanto alla crescita delle dimensioni delle imprese;
2) l’elemento essenziale del capitalismo è il conflitto e non la proprietà;
3) in tale conflitto, e non in una presunta socializzazione crescente delle forze produt­tive risiede l’indubbia capacità del capitalismo di svi­luppare le forze produttive, sia pure nel caos e nell’anarchia, più di ogni altra formazione sociale finora conosciuta;
4) tale conflitto conduce solo momentaneamente (nel senso di epoca storica) alla supremazia monocentrica, mentre poi esso si riacutizza policentricamente, e non tanto con i metodi del plusvalore relativo (e cioè con le innovazioni di processo) ma piuttosto con la riclassificazione, la ristrutturazione e l’apertura di nuovi settori produttivi (e cioè le innovazioni di prodotto, assai più decisive delle prime).

Se ne conclude che:
1) i gruppi dominanti capitalistici sono quelli strategico-imprenditoriali, e il considerare questi ultimi quali puri parassiti, sin­tomi di disfacimento e putrefazione del capitalismo, è un errore fatale per la lotta anticapitalistica;
2) il relativo monopolio è tipico delle epoche monocentriche, mentre quelle policentriche (quelle in cui si afferma l’imperialismo) vedono la sua attenuazione, proprio il contrario di quanto pensava Lenin che del mono­polio faceva la caratteristica principale di tale fase capitalistica.

Lenin, che nella pratica, individua nell’im­perialismo lo scatenarsi della lotta più aspra possibile tra capitalismi ai fini della prevalen­za di alcuni di essi sugli altri, non rimette in discussione l’ortodossia marxista – anzi di questa finisce con l’accettare la versione peggiore, quella kautskiana, che riduce il “lavo­ratore collettivo cooperativo” alla sola “classe operaia” – e si trova invischiato nella presun­ta tendenza progressiva alla centralizzazione monopolistica. Sostiene che il monopolio non elimina la concorrenza, ma la “porta ad un livello più alto”, affermazione generica, contraddittoria, che fa il paio con l’accettazione, sia pure “in ultima istanza”, della tesi ul­tra-imperialistica di Kautsky, che cercherà di confutare sul piano pratico con l’appello alla rivoluzione proletaria generale.
In realtà, la fase impe­rialistica – in quanto non ultimo stadio del capitalismo, ma sua fase ricorsiva di tipologia aper­tamente policentrica, non è quella contraddistinta dalla crescente monopolizzazione, pur se in essa si affrontano per la predominanza imprese giganti.
E dunque, la prima caratteristica di Lenin può essere, tralasciata. Ma anche la seconda non resta immune dai mutamenti concet­tuali che La Grassa propone relativamente all’elemento su cui “fondare” il modo di produzione capi­talistico. Resiste certo l’idea brillante della simbiosi tra capitale bancario e industriale. Tuttavia, nella sua impostazione non vi è dubbio che la prevalenza, pur nella simbiosi tra i due, spetta al capitale bancario, e questo è logico sempre che si parta dalla già considerata accettazione della concezione marxiana del modo di produzione capitalistico (che in quest’ultimo considera decisiva la tendenza alla centralizzazione proprietaria e alla formazione dei rentier quale gruppo dominante supremo nel capitalismo).
Tutte le forme del conflitto nella sfera economico-produttiva, per essere sfruttate appieno, esigono la rapida disponibilità di somme cospicue. Una parte consistente del capitale non può dunque essere immobilizzata, ma deve poter essere facilmente tradotta in liquido. E’ ovvio che su questa parte cresca un settore “specializzato” in operazioni finanziarie, che crea ulteriori attività imprenditoriali e su di esse si concentra senza necessariamente tener conto degli altri setto­ri. E’ altrettanto ovvio che in esso si sviluppino operazioni speculative. Ma è però necessario capire da dove derivano, e perché, le “risorse finanziarie”. Queste prendono origine non dall’affermazione come gruppo domi­nante, di tipo parassitario, dei “tagliatori di cedole”, ma dalle esigenze della competizione a tutto campo, economico-produttiva, finanziaria, politico-ideologico-culturale, tra i vari gruppi strategico-imprenditoriali, autentici insiemi di agenti dominanti nel capitalismo che si scontrano per la supremazia, innanzitutto nei mercati, ma non solo in questi.
In definitiva, la finanza è certamente indissolubile dal capitalismo, in quanto produzione di merci, soggette agli scambi nelle varie forme monetarie, ma le epoche in cui la finanza si dilata, accrescendo il caos e l’anarchia tipica del capitalismo, sono quelle policentriche, quelle imperialistiche.
Per quanto riguarda la terza caratteristica, non vi è dubbio che gli investimenti all’estero assumono decisiva importanza rispet­to alla semplice esportazione di merci (chiara indicazione relativa sia alle crescenti dimensioni, e relativa ramificazione (filiali, ecc.), delle imprese, sia soprattutto alle esigenze in­trinseche al loro conflitto per la supremazia nei mercati (che attiene alla quarta caratteristica leniniana). Di conseguenza, il realismo delle considerazioni intorno alla finanziarizzazione del capitale e agli investimenti all’estero delle grandi imprese non cancella la chiara subordinazione di entrambi i processi al conflitto inter-imprenditoriale in quanto carattere cruciale (della dina­mica) del modo di produzione capitalistico. Tutto questo ha convinto La Grassa che la quarta e la quinta caratteristica dell’imperialismo secondo Lenin, sono più che sufficienti a definire questa fase ricorsiva (e non stadio) dell’evoluzione del modo di produzione capitalistico.

 

Le trasformazioni delle due caratteristiche leniniane secondo La Grassa
In realtà, nella teorizzazione lagrassiana, entrambe mutano notevolmente il loro aspetto caratteristico. Nell’elaborazione leniniana si parla di grandi concentrazioni economiche (monopolistiche) e di Stati (grandi potenze) in lotta fra loro. In questo modo, sostiene La Grassa, si finisce col concentrare l’attenzione sugli aspetti “materiali” del conflitto inter-capitalistico. E si finisce col dimenticare che, nella concezione di Marx, l’analisi decisiva deve svelare l’assetto dei rapporti sociali celati nelle loro concretizzazioni istituzionali. La Grassa preferisce indicare perciò, come caratteri specifici di una fase pienamente imperialistica:

  1. a) l’esistenza di grandi concentrazioni imprenditoriali capitalistiche di tipo oligopolistico, nell’industria come nella finanza, in acuta competizione sul piano mondiale, per l’acquisizione di sempre maggiori quote di mercato;

  2. b) l’esistenza di un conflitto altrettanto acuto, ma condotto con metodi differenti, tra Stati, o comunque tra gruppi di agenti capitalistici di tipologia politica, con estensioni nell’attività militare, per la conquista di sempre più ampie sfere di influenza cui va aggiunto il confronto tra agenti portatori di ideologie diverse per l’egemonia culturale.

In questo modo, si sottolinea l’importanza dell’organismo politico-statale che non è mero strumento nelle mani delle classi dominanti. Se dunque fissiamo l’attenzio­ne sugli agenti sociali, in linea di principio gli agenti dominanti di ogni sfera sociale vengono messi sullo stesso piano.
I dominanti nella sfera economica (gli agenti strategico-imprenditoriali) e quelli della sfera politica (e militare) o di quella ideologica hanno obiettivi e strategie differenti. I secondi, in particolare quelli politico-militari, che confliggono fra loro per le sfere di influenza, hanno spesso una visione degli interessi di interi sistemi (“nazionali”) economico-sociali più complessiva di quella dei primi, ovviamente più attenti ai problemi delle imprese o gruppi di imprese da essi controllati, fra loro in competizione più che altro per le quote di mercato. In ogni caso, l’accertamento della prevalenza nell’insieme della società degli agenti dominanti in una delle differenti sfere sociali non è una semplice questione di definizione teorica, ma soprat­tutto di congiuntura pratico-politica. Una volta definito l’imperialismo nel modo appena indicato, con tutte le conseguenze che ne derivano, anche le geniali intuizioni leniniane ne escono rafforzate e parzialmente riutilizzabili.
Scompare la tendenza alla centralizzazione ultra-imperialistica, e si evidenziano le contraddizioni tra i dominanti, da sfruttare per eventuali trasformazioni sociali, anche rivoluzionarie dei dominati. Senza però nutrire illusioni (deterministiche) sulla “vicinanza” di queste ultime, dal momento che il capitalismo non è arrivato al suo stadio “maturo” o “morente”. Si rafforza nettamente la tesi di una necessaria finanziarizzazione del capitale, pur sapendo che non si tratta di stadio irreversibile e definitivo relativo alla putrescenza del capitalismo, dato che quest’ultimo, pur nell’anarchia e nel caos, può vivere ancora fasi di forte sviluppo delle forze produttive.
Si comprende anche meglio l’affermazione leniniana circa l’Oriente socialmente arretrato ma politicamente avanzato. In realtà, non esiste una “classe universale”, oggettivamente (in sé) formata dalla dinamica di sviluppo del modo di produzione capitalistico e investita della missione salvatrice dell’intera umanità. Vi sono “nel mondo” strutturazioni sociali complesse, contraddizioni multiple che, a partire dall’esplosione aperta di quelle interne ai gruppi dominanti, possono condurre in direzioni diverse, aprendo spazi a forze alternative, “antisistema”.
Si comprende anche perché Lenin accentuasse tanto l’aspetto politico del conflitto, poiché nutriva la profonda convinzione della possi­bilità di un intervento decisivo in esso degli Stati (secondo il linguaggio lagrassiano, dei gruppi dominanti politico-militari), ma anche di “avanguardie” determinate a cogliere la congiun­tura (spazio-temporale) particolare in cui operare per il rovesciamento dell’intero insieme dei dominanti.
La definizione dell’imperialismo, in quanto fase ricorsiva tramite le due caratteristiche appena più sopra indicate, permette dunque un’indagine puntuale intorno alla strutturazione del campo capitalistico uscito dalla seconda guerra mondiale. Ne emerge la sua particolare configurazione monocentrica, alcuni tratti importanti della quale si sono andati formando a causa della presenza del campo avverso (sedicente “socialista”), mentre altri erano fondamentalmente autonomi. Emerge la struttura dei blocchi dominanti nel paese centrale (USA) e in quelli capitalisticamente sviluppati ma non centrali (europei occi­dentali e Giappone), mettendo in luce quanto offuscato dalla generale ideologia denomina­ta “keynesismo” e dal successivo riaccendersi del conflitto tra quest’ultima e la più vecchia ideologia liberista, tornata in voga negli ultimi decenni.
Permette infine di chiarire cosa si nasconde dietro le espressioni “keynesismo di guerra” (struttura degli agenti dominanti nel paese centrale) e “keynesismo sociale” (configurazione del blocco dominante nei paesi non cen­trali), e di svelare soprattutto con chiarezza le caratteristiche peculiari dei gruppi dominanti che rendono gli USA ancor oggi il paese centrale, esercitante cioè una netta supremazia; e non solo di tipo militare cui troppo spesso, e superficialmente, si fa esclusivo riferimento.
Secondo La Grassa, la centralità statunitense dipende attualmente soprat­tutto dal gruppo di agenti dominanti politico-militari (e anche ideologici), mentre in qual­che misura si è riacceso, in specie dopo la ri-mondializzazione capitalistica successiva al 1989-91, il conflitto tra gli agenti dominanti strategico-imprenditoriali centrali e non centra­li, pur se quest’ultimo è comunque ancora largamente segnato dalla supremazia statuniten­se nel campo della ricerca scientifico-tecnica e, dunque, delle innovazioni (in specie di pro­dotto), supremazia cui non è certo estranea quella schiacciante di tipo politico e soprattutto militare.
In ogni caso, la ri-mondializzazione capitalistica non ha mutato in profondità la struttura dei blocchi dominanti nella formazione capitalistica centrale e in quelle non centrali, mentre nuovi paesi emergenti insidiano le potenzialità di sviluppo e di espansione di queste ultime. Nonostante le debolezze da cui sono affetti i blocchi dominanti dei paesi non centrali – e anche quelli in formazione nei paesi emergenti – si è in misura non irrilevante riattizzato il conflitto tra dominanti strategico-imprenditoriali, mentre quello tra agenti di tipologia politico-militare vede tuttora una supremazia a senso unico, contrastata forse da “strane” vie traverse, cui potrebbe appartenere il cosiddetto “terrorismo” (non le lotte di liberazione nazionale, tipo quella palestinese, che vengono confuse, da corrotti e disonesti ideologhi occidentali, con quest’ultimo).
Per La Grassa l’epoca attuale sarebbe dunque caratterizzata da una situazione di semimperialismo, eminentemente instabile e quindi aperta a soluzioni opposte, e cioè il rinsaldarsi del monocentrismo statunitense, questa volta a livello mondiale complessivo, o l’entrata progressiva nella fase pienamente policentrica, cioè imperialistica, dando tuttavia aperta preferenza alla previsio­ne dell’attuarsi di questa seconda situazione. Questo è però esatta­mente il percorso della scienza, differente da quello delle profezie fondate su dogmi intoccabili o su confuse, indefinibili, aspirazioni moralistiche. Non inutili queste ultime, sia chiaro (a differenza dei dogmi), quando spingono comunque ad opporsi alla prepotenza dei dominanti.

Proviamo a riassumere:

Imprese, (e cioè un sistema di unità produttive (e finanziarie), fra loro “autono­me” e separate, in reciproco conflitto) e Stato (e cioè l’insieme dei gruppi di agenti dominanti che si combattono nell’ambito dell’unità politica così denominata, unità che va preservata onde mantenere l’egemonia capitalistica fondata sull’apparente perseguimento di fini “pubblici”, di interesse generale), sono gli elementi costitutivi e fondanti del capitalismo imperialistico. Quest’ultimo non è, come pensava Lenin, uno stadio (quello monopolistico, sicuramente irreversibile) del modo di produzione capitalistico. Si tratta invece di una fase (ricorsiva) dello svi­luppo di quest’ultimo, in cui sistema di imprese e Stato agiscono insieme, ma con modalità differenti e compiti parzialmente separati, pur se fra loro intrecciati, perseguendo scopi di ampliamento di quote di mercato (per quanto riguarda la competizione tra imprese) e di sfere di influenza (per quanto riguarda il conflitto tra Stati). Come si vede, si tratta della quarta e della quinta caratteristica dell’imperialismo secondo la definizione di Lenin, che diventano perciò, secondo la concezione proposta da La Grassa, le vere caratteristiche decisive dell’imperialismo.
Una simile impostazione del problema sembra non discostarsi molto dal­le tesi leniniane. In realtà, lo spostamento è piuttosto netto. Come abbiamo già detto, Lenin, una volta elencate le cinque caratteristiche dello stadio imperialistico, affermava che una definizione sintetica di quest’ultimo poteva limitarsi ad indicare come decisiva la prima caratteristica, quella relativa al carattere monopolistico del capitalismo.
In questo modo, veniva enfatizzato il lato economico di tale modo di produzione, ponendo inoltre in luce il presunto limite costituito dalla centralizzazione monopolistica dei capitali, che acuiva fino al punto di rottura la contraddizione tra rapporti fondati sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e socializzazione delle forze produttive. E’ altrettanto vero che Lenin pensava ad un’acutizzazione della concorrenza talmente forte che avrebbe portato fino al coinvolgimento degli Stati nell’ambito di uno scontro che avrebbe assunto caratteri bellici di portata mondiale. Ma tali Stati venivano però considerati fondamentalmente quali semplici strumenti delle classi dominanti capitalistiche (di tipo economico) in reciproco conflitto (inter-monopolistico).
Centrando la definizione di imperialismo sulla quarta e sulla quinta caratteristica, La Grassa provoca uno spostamento non indifferente del punto di vista secondo cui osservare tale problema. Intanto, come già rilevato, si tratterebbe di una fase ricorsiva della struttura dei rapporti interni alla formazione sociale mondiale capitalistica; non di un ultimo stadio, di una fase suprema, ecc. Inoltre, pur se “in ultima istanza” la sfera economica è dominante nel capitalismo, quella politica, (in quanto campo sociale attraversato da rapporti conflittuali tra agenti dominanti di un certo tipo, pur quando esso si configuri quale entità unita­ria nello Stato) gode di una “relativa autonomia”, non è mero strumento al servizio, diretto e immediato, degli agenti dominanti di tipo economico.
Questi ultimi devono per necessità intrinseche alla riproduzione degli specifici rapporti sociali capitalistici, concentrarsi sulla competizione tra quegli organismi particolari, le imprese, che si assumono i compiti produt­tivi nell’attuale forma di società. D’altra parte, è tale competizione ad attribuire al capitali­smo le sue modalità altamente dinamiche, la sua capacità di autotrasformazione mediante la distruzione creatrice. il suo spirito propulsivo in tema di innovazioni, con particolare riguar­do a quelle di prodotto, quelle che aprono nuove direttrici di sviluppo, che ampliano spesso le frontiere della conoscenza scientifica.
E’ evidente che il concentrarsi sulla competizione di tipo economico, in presenza di una creazione di ricchezza che appare in tutto il suo sfavillio soprattutto nella forma di moneta, impedisce agli agenti dominanti della sfera produttiva (dominante a sua volta nella società) di ampliare la loro visione alla formazione sociale nel suo complesso, all’insie­me dei rapporti sociali che la costituiscono e che in certi casi potrebbero creare ostacoli all’ordinato riprodursi dei predominanti rapporti del modo di produzione capitalistico. Negli spazi aperti dalla competizione economica, dalla carenza di visione complessiva degli agenti strategico-imprenditoriali, si situano, interponendosi tra questi ultimi, gruppi di agenti che ascendono, pur sempre in reciproco conflitto, alla dominanza mediante la visione d’insieme della riproduzione sociale, visione che esige, pur nella lotta, unitarietà di indirizzo e capacità di sintesi, onde sussumere il molteplice atteggiarsi dei valori e scopi, relativi alla collocazione di diversi raggruppamenti nella struttura complessiva dei rappor­ti societari, sotto la riproduzione dei rapporti capitalistici.
Infine, va sottolineato sia la concezione leniniana relativa all’intreccio ineliminabile tra capitale produttivo e capitale finanziario, sia l’ampliarsi di quest’ultimo nelle epoche policentriche di acutizzazione del conflitto inter-capitalistico (e inter-imperialistico). Che su tale ampliamento si inseriscano le manovre speculative dei “profittatori” è caratteristica ineludibile della riproduzione capitalistica. Essa non contraddistingue però uno stadio di semplice decadenza e putrescenza del capitalismo (imperialistico), non indica la trasformazione tendenziale dei funzionari del capitale in puri rentier.
L’aspetto finanziario – legato al mantenimento della ricchezza in forma liquida o facilmente liquidabile – è essenziale per la competizione tra agenti dominanti strategico-im­prenditoriali; è necessario all’incorporazione delle imprese sconfitte, alle alleanze tra im­prese, alle innovazioni, al coinvolgimento delle sfere politica e ideologica nella competizio­ne inter-imprenditoriale. Esso è inoltre indispensabile all’attività dello Stato, al manteni­mento di quello spazio sociale unitario, di sintesi, aperto tuttavia allo scontro tra particolari agenti dominanti capitalistici cui è affidata una visione più complessiva, cioè relativa a interi sistemi capitalistici, a vaste aree geografico-socio-culturali (“nazionali” in senso lato) della formazione sociale capitalistica complessiva. Con il corollario, dunque, che gli Stati ­questi campi di rapporti conflittuali tra agenti dominanti di tipo politico – si scontrano fra loro per la supremazia di alcune di queste “aree” (paesi) su altre. In questo scontro, che si avvale di mezzi particolari fra cui sono ancor oggi decisivi quelli di tipo bellico, è pur sem­pre indispensabile il reperimento e l’utilizzo di risorse finanziarie.

Essere contro il capitalismo significa mantenere aperta una riflessione critico-rivoluzionaria sull’attuale assetto dei rapporti sociali dominanti, significa perciò non rassegnarsi, pur in presenza di una grave sconfitta storica e della necessità di ripensare radicalmente cosa sia questa società e come può essere trasformata, al dilagare della prepotenza, dell’ingiustizia, dello schiacciamento dei più deboli, dell’inciviltà e dell’incultura, ecc. che caratterizzano questi tempi bui. Essere semplicemente contro il capitale finanziario è ripetizione di un errore ripetuto infinite volte da oltre un secolo”.

 

Epoche monocentriche versus epoche policentriche
E’ ovvio che il conflitto – sia che si consideri un solo settore produttivo o il sistema nel suo complesso; sia che si guardi ad un sistema “nazionale” o al complesso della formazione sociale capitalistica – termina, ad un certo punto, con la vittoria, mai definitiva, di una data impresa o gruppo di imprese, di un dato sistema “naziona­le” o di gruppi collegati di questi, ecc. Si configura così una struttura piramidale d’in­sieme, con gruppi di imprese o di sistemi “nazionali” delle stesse (o uno solo di questi sistemi) al suo vertice. Non per questo il conflitto cessa. Esso continua nella forma della “guerra di posizione”, che sostituisce quella “di movimento” condotta fino a quel momento. Nel frattempo, altri gruppi di imprese vengono via via costituendosi e/o rafforzandosi, nelle viscere del sistema controllato dal vertice della piramide (il “centro” del sistema stesso), avvalendosi di forme giuridico-finanziarie, di varie manovre attinenti alla diversa modalità dei mezzi di controllo imprenditoriale (ponendo al centro la proprietà azionaria o invece l’assegnazione ai manager del potere supremo), ma si sviluppano soprattutto attraverso i processi di innovazione e con il coinvolgimento nel conflitto della sfera politica e della sfera ideologica. Fino a quando il precedente ordine relativamente piramidale non viene completamente sconvolto e rimesso pienamente in discussione tramite lo scatenamento di una nuova guerra di movimento che dovrà, alla fine di un lungo periodo, riassegnare la vittoria, cioè la supremazia, a “qualcuno”.
Posta così la questione, appare evidente che non ha senso immaginare una tendenza lineare alla centralizzazione monopolistica dei capitali. Non bisogna mai confondere il gigantismo imprenditoriale, che tendenzialmente appare sempre in crescita, con l’effettivo potere di monopolio di un’impresa o di un gruppo delle stesse o addirittura di un sistema “nazionale” nell’ambito della formazione sociale capitalistica mondiale. La relativa preva­lenza monopolistica si ha nelle epoche, che La Grassa denomina per questo monocentriche, con struttura grosso modo piramidale, e presenza di un conflitto sordo manifestantesi come guerra di posizione, ecc. E’ chiaro che tale conflitto, in continua evoluzione, rimette sempre in discussione la suprema­zia esercitata in quella data epoca, con lo scardinamento della situazione monopolistica e con l’esplosione della guerra di movimento, caratterizzata da innovazioni (di processo ma soprattutto di prodotto) e da un ampio coinvolgimento del potere politico-ideologico.
Nelle fasi monocentriche, è probabile che la relativa tranquillità (monopolistica) favorisca l’ascesa di gruppi manageriali – senza (o con scarsa) proprietà azionaria – alla direzione strategica delle imprese. Nelle fasi policentriche, che fanno saltare la situazione monopolistica, i vari gruppi di agenti strategi­co-imprenditoriali in reciproco conflitto hanno bisogno di proteggersi più adeguatamente dagli avversari, e dunque “blindare” la proprietà può essere a volte un buon mezzo di difesa, così come il lanciare operazioni di acquisto azionario quanto meno coadiuva l’offensiva e l’aggressività. Attività che, da sole, non sono sufficienti. Sono molto appariscenti sul davanti della scena, ma decisamente più importanti sono i processi innova­tivi e, forse ancora di più, i coinvolgimenti politici, ecc.
La conclusione di tutto questo discorso sta nell’affermare che la centralizzazione monopolistica non è uno stadio dello sviluppo capitalistico – non è né irreversibile né supremo o ultimo – ma più semplicemente una caratteristica delle situazioni monocentriche, di momentanea vittoria di una impresa o grup­po di imprese (in uno o più settori produttivi) o di interi sistemi “nazionali” nell’ambito dell’insieme della società capitalistica. Ed è proprio in questo secondo caso, che si può parlare di epoca monocentrica. Nelle situazioni (o meglio ancora nelle epoche policentriche), malgrado il gigantismo delle imprese, si verifica precisamente la rimessa in discussione della struttura monopolistica.

 

Alcune considerazioni
Le ragioni di queste righe sono praticamente due e, in un certo senso entrambe di ordine personale, e cioè il mio bisogno di misurarmi con il pensiero di Gianfranco La Grassa per poi appropriarmene e, attraverso una corretta volgarizzazione, trasformarlo in strumento di battaglia teorica, inserendomi così nel dibattito in corso sul blog di “Ripensare Marx” con alcuni elementi di propositività. Tutto questo, dopo aver contribuito a “demolire” quelle argomentazioni che vedono le posizioni di La Grassa cinicamente proiettate in uno spazio soltanto geopolitico e del tutto estranee alla “lotta di classe”, e aver fatto alcune considerazioni “critiche” su l’elaborazione di Gianfranco!
L’intento dunque è chiaro. Il desiderio di portare il mio modesto contributo alla discussione e non la giusta linea tanto meno proletaria! Visto però che, sia pure ironicamente, ho fatto riferimento ad un linguaggio assai in voga oltre una cinquantina di anni fa, farò un salto ad un anno fatidico per il movimento comunista internazionale, il 1963, anno in cui si consumò la rottura tra l’U.R.S.S. e la Cina popolare, un evento drammatico per chi, come me, si affacciava al comunismo e credo anche per i comunisti di tutto il mondo.

Riassumo per i più giovani, i tempi della rottura.
Il 30 marzo 1963 il Comitato centrale del PCUS (Partito Comunista dell’Unione Sovietica) scrisse una lettera al Comitato centrale del PCC (Partito Comunista Cinese). La risposta del PCC (nota successivamente come i venticinque punti) il 14 giugno 1963. Ai venticinque punti il Comitato centrale del PCUS risponderà, con una lettera aperta sulla Pravda, il 14 luglio 1963. I cinesi risponderanno a loro volta con un articolo “Le origini e lo sviluppo delle divergenze tra i dirigenti del PCUS e noi”, sul Quotidiano del popolo il 6 settembre 1963 e sarà la rottura definitiva. Anche se espressa in termini di “divergenze”. L’attenzione all’unità c’è stata sempre, anche se spesso soltanto formalmente, nel movimento comunista internazionale!
Ma le ragioni della rottura erano già tutte contenute nei venticinque punti.
Penso ai lettori, soprattutto ai più giovani, che si staranno chiedendo: ma tutto questo cosa c’entra con La Grassa e, soprattutto con l’oggi? Ebbene, la ragione di questo tuffo nel passato è legata al mio bisogno di inguaribile maoista di ricordare che il movimento comunista internazionale ha di continuo (e giustamente) inteso l’imperialismo come una teoria che interpretava la realtà capitalistica senza più ricondurla alla sola contraddizione capitale-lavoro. Il quarto dei venticinque punti rappresenta la realtà del mondo del 1963 in quattro contraddizioni fondamentali. In realtà non si tratta affatto di nostalgia, quanto piuttosto della necessità anche per noi, oggi, di fare i conti con il mondo che abbiamo di fronte e non con i nostri sogni!
Ed ecco qui di seguito, riportati per intero, i punti quattro e cinque. Mentre il punto quattro rappresenta la teoria, il punto cinque rappresenta invece i rischi che si corrono nell’allontanarsene.

4. La linea generale del movimento comunista internazionale ha per punto di partenza l’analisi di classe concreta della politica e dell’economia mondiale nel loro complesso e delle attuali condizio­ni mondiali, ossia delle fondamentali contraddizioni nel mondo contemporaneo. Se si evita l’analisi di classe concreta, ci si sofferma a caso su alcuni fenomeni superficiali, e si traggono conclusioni sog­gettive e infondate non sarà mai possibile giungere a conclusioni corrette riguardo alla linea generale del movimento comunista internazionale, ma si scivolerà inevitabilmente su una via del tutto diversa da quella del marxismo-leninismo.
Quali sono le contraddizioni fondamentali del mondo contem­poraneo? I marxisti-leninisti sostengono coerentemente che sono le seguenti:
– la contraddizione tra il campo socialista e il campo im­perialista;
– la contraddizione tra il proletariato e la borghesia nei paesi capitalisti;
– la contraddizione tra le nazioni oppresse e l’impe­rialismo;
– le contraddizioni dei paesi imperialisti tra loro e dei gruppi monopolistico-capitalistici tra loro.

La contraddizione tra il campo socialista e il campo imperiali­sta è una contraddizione tra due sistemi sociali fondamentalmente diversi: socialismo e capitalismo. Essa è senza dubbio acutissima. Ma i marxisti-leninisti non devono considerare le contraddizioni nel mondo come se si riducessero alla contraddizione pura e semplice tra il campo socialista e il campo imperialista. L’equilibrio interna­zionale delle forze è mutato e si è sempre più spostato a favore del socialismo e di tutti i popoli e le nazioni oppresse del mondo, diventando così estremamente sfavorevole per l’imperialismo e i rea­zionari di tutti i paesi. Ciononostante, le contraddizioni enumerate sopra esistono ancora oggettivamente. Queste contraddizioni, e le lotte alle quali danno adito, sono interdipendenti e si influenzano l’una con l’altra. Nessuno può dimenticare alcuna di queste contrad­dizioni fondamentali o sostituirne soggettivamente una a tutte le altre. È inevitabile che queste contraddizioni diano adito a rivolu­zioni popolari, che sono le sole a poterle risolvere.

  1. Le seguenti opinioni erronee dovrebbero essere respinte in merito alla questione delle contraddizioni fondamentali nel mondo contemporaneo:

  2. a) il cancellare il contenuto di classe nella contraddizione tra i campi socialista e imperialista e il non riuscire a vedere questa contraddizione come una contraddizione tra Stati sotto la dittatura del proletariato e Stati sotto la dittatura dei monopolisti;

  3. b) il riconoscere soltanto la contraddizione tra i campi socia­lista e imperialista, respingendo e sottovalutando invece le contrad­dizioni fra il proletariato e la borghesia nel mondo capitalistico, tra le nazioni oppresse e l’imperialismo, dei paesi imperialisti tra loro e dei gruppi monopolisti tra loro, e le lotte alle quali queste con­traddizioni danno adito;

  4. c) l’affermare riguardo al mondo capitalistico che la con­traddizione tra il proletariato e la borghesia può essere risolta senza una rivoluzione proletaria in ciascun paese e che la contraddizione tra le nazioni oppresse e l’imperialismo può essere risolta senza la rivoluzione da parte delle nazioni oppresse;

  5. d) il negare che lo sviluppo delle contraddizioni inerenti al mondo capitalistico contemporaneo conduca inevitabilmente a una nuova situazione in cui i paesi imperialisti sono impegnati in una lotta intensa e l’affermare che le contraddizioni tra i paesi imperia­listi possano essere conciliate o persino eliminate da accordi inter­nazionali tra i grossi monopoli”;

  6. e) l’affermare che la contraddizione tra i due sistemi mon­diali del socialismo e del capitalismo scomparirà automaticamente nel corso della competizione economica”, che le altre contraddi­zioni mondiali fondamentali faranno automaticamente altrettanto con la scomparsa della contraddizione tra i due sistemi e che appa­rirà un “mondo senza guerre”, un nuovo mondo di “cooperazione generale”.

È naturale che queste opinioni erronee conducano inevitabilmen­te a scelte politiche erronee e dannose e quindi a fallimenti e a per­dite di questo o quel genere per la causa dei popoli e del socialismo”.

Oggi, la situazione che abbiamo di fronte non assomiglia nemmeno lontanamente alla situazione descritta dal punto quattro e sono venute alla ribalta altre contraddizioni a caratterizzare il mondo attuale. A mio parere, l’elaborazione del concetto di Imperialismo di Gianfranco La Grassa (che non voglio assimilare alla teoria delle quattro contraddizioni), ripercorre però un’identica esigenza, più libera però in termini di ricerca e, ovviamente meno efficace in termini politici, non avendo dietro di sé, il colosso cinese.
Cosa è che rende alcuni, sospettosi rispetto alle tesi di La Grassa? Ho usato l’aggettivo “sospettosi” e non “critici” a ragion veduta, nel senso che la critica è legittima per definizione, mentre il sospetto… Quasi alla fine del penultimo paragrafo dello scritto appena presentato, ho citato una frase di La Grassa che mi trova totalmente d’accordo!

Essere contro il capitalismo significa mantenere aperta una riflessione critico-rivoluzionaria sull’attuale assetto dei rapporti sociali dominanti, significa perciò non rassegnarsi, pur in presenza di una grave sconfitta storica e della necessità di ripensare radicalmente cosa sia questa società e come può essere trasformata, al dilagare della prepotenza, dell’ingiustizia, dello schiacciamento dei più deboli, dell’inciviltà e dell’incultura, ecc. che caratterizzano questi tempi bui. Essere semplicemente contro il capitale finanziario è ripetizione di un errore ripetuto infinite volte da oltre un secolo”.

Proverò ora ad analizzarla passo passo, e strada facendo, cercherò di evidenziare quello che speravo si trovasse già bello e pronto in La Grassa e che ora penso invece debba essere il risultato di una elaborazione a più mani.

Essere contro il capitalismo significa mantenere aperta una riflessione critico-rivoluzionaria sull’attuale assetto dei rapporti sociali dominanti, …”.

Dunque, senza un’appropriata teoria, niente rivoluzione. Sostanzialmente: è assai improbabile che si riesca a cambiare qualcosa che non si conosca bene e, aggiungo io, soprattutto senza che esista il soggetto rivoluzionario, più semplicemente chi sia interessato ad una trasformazione anticapitalistica della società, non sul piano del puro desiderio. Per poi fare cosa?

… significa perciò non rassegnarsi, pur in presenza di una grave sconfitta storica e della necessità di ripensare radicalmente cosa sia questa società e come può essere trasformata, al dilagare della prepotenza, dell’ingiustizia, dello schiacciamento dei più deboli, dell’inciviltà e dell’incultura, ecc. che caratterizzano questi tempi bui”.

L’invito a non rassegnarsi è chiaramente rivolto ai dominati oltre che a tutti coloro che hanno subito una grave sconfitta storica (la fine del comunismo storico novecentesco, rappresentato emblematicamente dall’implosione dell’U.R.S.S.). Si tratta comunque di una chiara indicazione di classe! La Grassa, che nella sua elaborazione teorica pone in secondo piano il conflitto (la contraddizione, dicevano i cinesi), capitale-lavoro, sa bene che le lotte vanno fatte e che, in ogni caso, lo sfruttamento dei dominati è continuo, figuriamoci in una situazione di crisi come quella che stiamo vivendo! Sa anche però, è questo è quello che gli si rimprovera, da parte dei duri a capire, che la prospettiva del sole dell’avvenire non ha alcun fondamento scientifico e dunque occorre liberarsi di idealità ossificate (prima fra tutte l’opposizione destra-sinistra) che favoriscono soltanto le vecchie oligarchie di partito e che impediscono invece alle masse una comprensione del mondo reale.
Un dato è certo però e cioè che i dominati non fanno parte di nessuno dei gruppi di dominanti variamente descritti in precedenza e la loro esperienza di lotta essi la maturano sostanzialmente nella contrapposizione tra la proprietà privata dei mezzi di produzione e la loro forza o capacità lavorativa e cioè nel conflitto capitale-lavoro, in uno spazio dominato dall’economicismo. Occorrerebbe dunque un’organizzazione (non trade-unionistica, puramente sindacale) che sapesse trasformare esigenze contingenti in esigenze strategiche, che sapesse passare “dalla fabbrica allo Stato”, come si diceva una volta. Un terreno di lotta specificamente nazionale, sostengo io. Ma in particolare, in un contesto policentrico, per misurarsi dunque in un contesto internazionale, i dominati potranno far questo, soltanto se forti di una sovranità nazionale indiscussa. Altrimenti si ridurranno ad essere tifosi di questa o quella geopolitica.
Se sono vere queste mie considerazioni, del resto mutuate da una tradizione di lotta antimperialistica di più di un secolo, bisogna rendersi conto che, sul piano pratico siamo praticamente all’anno zero. Dal momento che non esiste alcuna organizzazione dei dominati e anche questi non si sa bene come individuarli! Nel senso che non si dispone di una conoscenza dell’attuale stratificazione sociale e di una teoria più puntuale che vada oltre l’utilissima ma anche troppo generica categoria “i dominati”.

Io penso perciò che il momento storico che viviamo, un momento in cui lo spazio teorico è ancora occupato in piccola parte dalle vecchie ortodossie e per la più gran parte da teorie di comodo, di subordinazione, offra per ora, ad infime minoranze non rassegnate, soltanto la possibilità di adoperarsi a capire cosa sia questa società e non sul come possa essere trasformata. Questo voglio significare quando sostengo che si tratta di combattere una battaglia culturale e non politica tout court.
Quanto all’ultima frase della citazione di La Grassa: “Essere semplicemente contro il capitale finanziario è ripetizione di un errore ripetuto infinite volte da oltre un secolo”. Il testo presentato lo spiega ampiamente!

Mi avvio alla conclusione di queste mie considerazioni. Poche righe per mantenere la promessa circa alcuni elementi di propositività.
Il “policentrismo” che si sta facendo strada, offre maggiori possibilità rispetto al “monocentrismo”, sul piano delle prospettive, (vedi Russia versus Georgia, Obama che manda lettere a Putin per patteggiare, ecc.) visto che fino ad ora il terreno importante, ma unico, era quello della resistenza, con tutte le confusioni sull’antiamericanismo, ecc., ecc.
La rivendicazione di una reale sovranità nazionale non credo possa disturbare chi, da sempre, considera l’Italia una colonia statunitense! Mentre completo queste righe, il glabro Frattini ha ritirato l’Italia dalla conferenza di Ginevra (Durban 2) dell’ONU, per la presenza nel testo di convocazione di un attacco antisionista! Se si parla di ENI da potenziare, subito ci si scandalizza circa una politica di potenza dell’Italia? La rivendicazione del ruolo delle nazioni in quanto tali riporterebbe in auge il diritto delle nazioni, in un’epoca in cui l’ingerenza umanitaria è stata lo strumento principale dell’imperialismo statunitense per bombardare chiunque, sull’onda del rispetto dei diritti umani, ovviamente a geometria variabile!
I soggetti da coinvolgere sono a mio parere, le ultime due generazioni (da 20 a 40 anni). Io credo che oggi si sia in grado di prospettare qualcosa di ragionevole anche per coloro che vivono una vita assai diversa da quella che abbiamo vissuto noi alla loro età. Il problema non è, per me, stravincere a livello teorico, quanto piuttosto, servendosi di una teoria nuova, riuscire a dare indicazioni di ordine culturale prima ancora che politico, su come stare al mondo, oggi, e scusate se è poco!  


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M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Martha Nussbaum – La paura può essere opportunamente indotta e sfruttata dal potere, perché fiacca nelle persone la capacità di giudizio togliendo l’orgoglio di essere libere e indipendenti nel loro pensiero.

Nussbaum Martha 02


Martha C. Nussbaum,
La monarchia della paura. Considerazioni sulla crisi politica attuale,
il Mulino, Bologna 2020.

 

Risvolto di copertina

La paura, un’emozione primordiale, può essere opportunamente indotta e sfruttata dal potere. È ciò che Martha Nussbaum osserva descrivendo metaforicamente come “monarchia della paura” la tendenza di taluni assetti politici ad allarmare proditoriamente i propri “sudditi”, fiaccando la loro capacità di giudizio. Il convulso susseguirsi di accadimenti inquietanti (non solo l’elezione di Trump e il distacco di Brexit ma soprattutto il ritorno di atti xenofobi e razzisti) l’ha indotta a riflettere sullo scadimento della vita politica occidentale e sul malessere degli individui, che vede sprofondati nel risentimento, nella rabbia e nella faziosità. La paura è un veleno per la democrazia, perché toglie alle persone l’orgoglio di essere libere e indipendenti nel loro pensiero. Per sottrarsi alla pressione di un conformismo emotivo tarato sull’angoscia e aprirsi alla speranza, giova ricorrere ancora una volta all’insegnamento degli antichi, l’antidoto a ogni chiusura mentale.


Indice

Prefazione

Introduzione

Capitolo primo
La paura, primigenia e potente
Capitolo secondo
L’ira, figlia della paura
Capitolo terzo
Il disgusto indotto dalla paura: la politica dell’esclusione
Capitolo quarto
L’impero dell’invidia
Capitolo quinto
Una miscela tossica: sessismo e misoginia
Capitolo sesto
Speranza, amore, prospettive


Martha Nussbaum – La scuola insegna cose utili per diventare uomini d’affari piuttosto che cittadini responsabili. Sfoltiamo proprio quelle parti dello sforzo formativo che sono essenziali per una società sana, producendo un’ottusa grettezza e una docilità in tecnici obbedienti e ammaestrati che minacciano la vita stessa della democrazia.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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