Massimo Mila (1910-1988) – Capire la musica è una facoltà, che può essere più o meno sviluppata. Non è un titillamento dell’immaginazione, godimento passivo, distensione e abbandono alla fantasticheria irresponsabile. È un’operazione attiva dell’intelligenza e della memoria, implica tensione mentale.

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[…] Si tratta di porre queste domande: si capisce la musica? e come si capisce? e di purificare le nozioni in esse contenute dalle imprecisioni e dalle inesattezze che la sbadataggine approssimativa del parlar corrente, senza riflessione, può avervi annesso.
Un primo fatto si deve osservare, nel quale le opinioni ricevute divergono dalla realtà e dànno luogo a errore. Si dice comunemente: «lo non capisco la musica» o: «il tale capisce la musica», come se capire o non capire la musica fossero due condizioni ben distinte, separate con un taglio netto e tali che si debba uscire interamente dall’una per entrare nell’altra: come si passa dalle tenebre alla luce girando la chiavetta dell’interruttore. Quest’opinione, sanzionata nell’uso comune della lingua parlata, è la più erronea che si possa tenere sull’argomento e fuorvia terribilmente da ogni retta nozione di ciò che sia capire la musica.
Capire la musica è una facoltà, che può essere più o meno sviluppata, come correre, far la lotta, disegnare, discorrere amabilmente in conversazione, ma non avviene mai che manchi totalmente in un individuo; non si dà quindi il caso limite di qualcuno che non possegga affatto questa facoltà e che, per mezzo di qualche studio o di qualche cura, riesca ad acquistarla. Sebbene sia possibile perfezionarla e affinarla con l’esercizio. Capire o non capire la musica sono espressioni sbrigative ed esagerate, come: capire o non capire la matematica. In realtà, anche chi viene giustamente classificato tra le persone che «non capiscono la matematica», ne capisce sempre abbastanza per controllare se il negoziante lo truffa nel dargli il resto e per fare quei quattro conti de le necessità della vita ci impongono. Sono quindi infiniti i gradi attraverso cui si dispone negli individui la facoltà di comprendere la musica[…] Vediamo di ragionarci sopra e di cavarne qualche insegnamento, principalmente questo: che nella musica non c’è altro da capire se non la musica stessa. Cosa credete infatti che Mozart avesse capito nel Miserere di Allegri? forse qualche misterioso e recondito senso che rimaneva chiuso ai comuni mortali, al di là delle note di musica? Ma no, semplicemente aveva capito molto bene le note, tanto bene da ricordarsele tutte, una per una, quelle migliaia di note che compongono il Miserere di Allegri. Non si tratta di sentire qualchecosa di più che gli altri, ma di capire più o meno bene quello che tutti sentiamo con le nostre orecchie.
Invece è incredibilmente alto il numero di persone per cui gustare la musica significa abbandonarsi, ben rincantucciati nella loro poltrona, a una specie di nirvana con produzione di oziose fantasticherie[…]
Per quanto si sia combattuto contro questo errore, che fa della musica un semplice titillamento dell’immaginazione, relegandola nella funzione d’una qualsiasi droga stupefacente, come l’haschisch o l’oppio, esso risorge sempre nella maniera più pervicace e dove meno uno se l’aspetterebbe. Non solo le sale da concerto son sempre piene di gente che pratica questo innocuo vizietto, il che sarebbe il minor male; ma ogni tanto c’è qualcuno che salta su con gran sicumera a predicare che questo è il vero modo d’intendere la musica e che ogni altro è semplicemente indice di aridità sentimentale e di cerebralismo […].
Questo modo d’intendere, o meglio di fraintendere la musica, viene dedotto per analogia dal modo che teniamo continuamente, in ogni ora della nostra giornata, per intendere la parola parlata o scritta, quando venga usata non già per un fine artistico, ma per scopi di pratica comunicazione. In questi casi la parola viene usata come un simbolo: non è lei che conta, non è lei il fine ultimo per cui l’impieghiamo, ma veramente dietro di lei c’è qualcosa a cui si tratta di pervenire, a cui facciamo pervenire gli altri per mezzo della parola, e questa non ha che un valore strumentale. Questa radicale differenza di natura che c’è tra la musica (o l’arte, in genere) e i discorsi di pratica comunicazione, si manifesta in piena luce nella possibilità che quest’ultimi presentano, di lasciarsi riassumere, mentre è evidentemente impossibile riassumere una sinfonia o un quartetto. Una sinfonia è semplicemente se stessa: le proprie note, dietro le quali non c’è niente che si tratti di andare a scoprire e che si possa rendere con parole. (Naturalmente, sarebbe un grossolano errore credere che una sinfonia si riassuma citandone i temi fondamentali: non si riassume un bel niente perché la musica consiste proprio in quello sviluppo dialettico che muove dai dati tematici iniziali. La citazione dei temi può servire molto bene a ricordare la sinfonia a chi l’abbia già sentita, o tutt’al più a suggerirne, a chi non la conosce, una pallida idea, ma nessuno ardirebbe dire di conoscere una sinfonia per averne sentito i temi). Del resto, la parola stessa tende a questa condizione di insostituibilità, appena cessi di venire usata per scopi pratici di comunicazione e si sublimi in poesia. E quanto più ci si accosti alla poesia più vicina a noi, tanto più si fa evidente questa fuga dalla poesia di ogni elemento concettuale da cogliere al di là della parola.
Capire la musica, dunque, e non qualchecosa che se ne stia appiattato dietro la musica, è un’operazione attiva dell’intelligenza e della memoria attentissime quella a cogliere e questa a ricordare tutti i nessi e i rapporti che legano nel tempo le labili apparizioni sonore. Occorre insistere su questo elemento di collaborazione attiva che si richiede all’ascoltatore, e che implica necessariamente una tensione mentale e quindi una fatica, perché è opinione antica e diffusa che la musica sia invece un godimento passivo, una distensione e un abbandono alla fantasticheria irresponsabile. «Che mi solea quetar tutte mie voglie», dice Dante dell’amoroso canto di Casella.

 

Massimo Mila, L’esperienza musicale e l’estetica, Einaudi, Torino 1965, pp. 51-55.


Massimo Mila (1910-1988) – Nella musica vi è un’originalità dello stile che non dipende dalla novità del linguaggio

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – L’integralismo aziendale ha il volto del diversity management. Vera Libertà è emancipazione dall’utile iscritto nel recinto dell’aziendalizzazione, è autonomia nella comunità liberata dai postulati del plusvalore.

Diversity management:vera libertà

Se esiste chi ti dà la libertà, quella non è libertà.
Perché sia libertà, nessuno te la può dare: devi prenderla tu, tu solo!

José Dolores (Evaristo Marquez, nel film di Gillo Pontecorvo, «Queimada» [1969])

Si può ascoltare l’intero dialogo nelle sequenze del film Queimada, che mostrano la cattura del combattente rivoluzionario José Dolores da parte dell’imperialismo inglese impersonato da William Walker (Marlon Brando), cliccando qui:

Capture of José Dolores


Salvatore Bravo
L’integralismo aziendale ha il volto del diversity management.
Vera libertà è emancipazione dall’utile iscritto nel recinto dell’aziendalizzazione,
è autonomia nella comunità liberata dai postulati del plusvalore
 

Diversity Management
Il dispositivo di inclusione agisce ad ogni livello. Proliferano figure professionali che operano capillarmente nella pancia del sistema. Il controllo è mascherato con la menzogna conosciuta. Si invoca l’inclusione, si applaude all’assimilazione per neutralizzare la possibilità di percorsi alternativi. L’inclusione riporta ogni gruppo umano all’interno del sistema per normalizzarlo ed evirarlo del potenziale rivoluzionario ed emancipativo. Si invoca la democrazia, in realtà si organizzano pratiche di gerarchizzazione verticistica. Il diversity management (gestore delle differenze) è la nuova figura professionale addetta all’inclusione; le aziende private possono usufruire del manager delle differenze al fine di aumentare la produttività. Il gestore delle differenze nelle aziende ha il compito di favorire l’integrazione: è il manager-tutor, la cui presenza denuncia un pregiudizio atavico, ovvero i diversi non hanno capacità decisionali e relazionali autonome, ma – da figli di un dio minore – devono essere accompagnati nell’integrazione aziendale. Il manager deve agire allo scopo di includere per curvare la creatività dei diversi verso la produzione. I “creativi-diversi” devono avere nel manager un punto di riferimento che interviene per evitare conflitti e contradizioni che possano minacciare la capacità competitiva dell’azienda. Il fine è la governance dell’azienda, la produzione rallenta qualora vi siano ostilità striscianti e non. Invece, puntando sulla valorizzazione inclusiva, si incentiva la capacità di competere dell’azienda e il suo successo sul mercato. I diversi sono “notoriamente dei creativi”: anche questo è un pregiudizio, non li si riconosce come “persone”, ma come “creature speciali e divergenti” da usare all’occorenza.
La frontiera dello sfruttamento ha trovato una nuova miniera da cui attingere risorse a basso costo. Soggetti fragili e disponibili alla gratitudine verso coloro che “li accettano e accolgono” facilmente si lasciano usare dal sistema, in quanto non discernono nell’abbaglio di una normalità agognata e mai conosciuta l’uso strumentale che, ancora una volta, si fa di essi. La trappola è palese: usare le differenze per farne la pattuglia di difesa dell’azienda, e spingere l’incluso a dipendere dalla famiglia-azienda fino a richiedere che lavori creativamente, spontaneamente e volontariamente al massimo delle sue possibilità. Il dispositivo di inclusione sterilizza la prospettiva critica di coloro che spinti ai margini con maggiore chiarezza possono elaborare percorsi emancipativi di uscita dal sistema.

Collaborazione produttiva
La relazione comunitaria nella quale i soggetti si confrontano e affrontano per creare il mondo con il logos e con la potenza della parola è sostituita con collaborazione produttiva. Le differenze si trascendono nel comune obiettivo della squadra aziendale: vincere e competere. Sono private della forza plastica creativa per essere orientate verso l’utile. L’inclusione diviene un meccanismo di depauperamento della dialettica dell’esodo dal sistema. Al suo posto vige l’azienda con il diversity management che omogeneizza i comportamenti e gli obiettivi. In tal modo elimina le differenze, le rende secondarie: alla fine della rieducazione i lavoratori sono posti sulla stessa linea di intenzioni e valori. Alla conclusione del percorso non deve restare che l’asservimento al mercato. Le donne, le persone omosessuali, i disabili sono, ancora una volta, umiliati e offesi perché usati dal sistema che ne negava le identità, e che ora, con una torsione ideologica, li utilizza come alfieri nella difesa del mercato che li accoglie, ma chiede loro di rinunciare alle loro identità, di assottigliarle fino a farle vaporare. Le differenze divengono flatus vocis, propaganda neoliberale alla ricerca di consensi e di servi fedeli dinanzi alle sempre più palesi contraddizioni del sistema capitale. Sono oggetto di una gestione psicologica e burocratica, e in tale gestione dall’alto l’autonomia è ceduta all’azienda che con il suo apparato stabilisce strategie, linguaggi e tattiche mediante le quali trasformare i creativi in un’occasione di espansione e consolidamento nel mercato. La valorizzazione delle competenze e delle abilità porta al potenziamento dell’organizzazione, la quale gradualmente diventa un corpo unico in posizione d’attacco. Il diversity management deve valorizzare (e agire su) una serie di differenze classificate in diversità primarie e secondarie, le prime sono:

  • cultural diversity
  • gender diversity
  • ageing diversity
  • disability diversity

Anche le diversità secondarie devono essere valorizzate: il background educativo, l’età, l’esperienza lavorativa, la situazione famigliare. La diversità secondaria è acquisita con l’esperienza esistenziale. Il diversity management è in realtà un supervisore che deve trasformare ogni potenzialità in investimento che produce plusvalore per l’azienda.

Integralismo aziendale
L’integralismo aziendale ha il volto del diversity management il quale ha il compito di sfruttare tutte le componenti dell’azienda e di rappresentare la strategia come “inclusiva” e “positiva”. Deve pubblicizzare la politica di accoglienza aziendale in modo da ottenere consenso sul mercato e vendere il prodotto inclusione come qualsiasi merce, lo scopo è aumentare la produttività del 20 % o 30%. Le persone dal sistema azienda non sono valutate per il loro valore irrepetibile, ma per il successo lavorativo, pertanto possiamo facilmente dedurre che nel caso i creativi non producano secondo le aspettative saranno ricondotti alla loro marginalità. Le aziende, inoltre, con l’inclusione manipolano l’opinione pubblica, si autorappresentano come i trombettieri delle differenze con il sostegno dei media che creano un frame della libertà e dell’inclusione finalizzato a consolidare il neoliberismo e a rimuovere le critiche e le verità che mettono in dubbio la gabbia d’acciaio dell’aziendalismo. Le aziende – per acquisire consensi sul mercato – pubblicizzano l’integrazione, che diviene pubblicità a buon mercato. La precarietà, i morti sul lavoro, l’ineguaglianza sociale e i diritti sociali sono rimossi dall’orizzonte cognitivo della collettività che si limita a ripetere le formule verbali del sistema. L’azienda si fa artefice del rispetto verso i diversi e nel contempo è complice dello sfruttamento delle nazioni in perenne sviluppo economico costretti all’emigrazione. Gli emigrati rientrano nell’operazione di inclusione del diversity management, per cui il mercato neoliberale costruisce una cornice positiva di se stesso da vendere e ciò gli consente di sfruttare e saccheggiare le nazioni che accettano gli investimenti e di precarizzare in patria ogni componente lavorativa. Le differenze sono in questo contesto “risorse umane”, materia prima da convertire in artiglieria nella competizione per l’assalto al mercato. Le diversità vengono annichilite nel loro valore identitario per essere addomesticate nel sistema della produzione e del consumo infinito. Il capitalismo vincerà sempre sin quando il frame di sistema non sarà oggetto di critica e prassi. Per rompere la cornice della propaganda sono indispensabili le domande e la problematizzazione delle parole. Il diversity management è il gestore delle differenze e ciò presuppone un concetto di normalità quale paradigma con cui valutare e definire le alterità; in questo caso la normalità è la forma mentis aziendale, per cui si mette in atto un nuovo tipo di internamento celato da inclusione. Le forme dell’internamento variano nel tempo, ma hanno sempre il compito di dominare per consolidare il presente. Le differenze producono saperi divergenti che vengono assoggettati e normalizzati con l’inclusione. Il dispositivo di normalizzazione mette in atto nuove strategie di internamento difficili da riconoscere, agisce sul linguaggio in modo che le parole non corrispondono all’azione. È necessario che tra le parole e l’esperienza vi sia l’attività di mediazione del logos con il quale smascherare l’inganno del politicamente corretto. Il primo gesto-parola di un resistente è riaprire la catena dei perché con la quale riportare le parole nella concretezza materiale dei processi produttivi e di dominio:

Bisogna dunque riprovare a riaprire la catena dei perché. Questa volta, però, bisogna riaprire questa catena con un altro approccio e con altri destinatari. L’approccio dev’essere molto più radicale, e i destinatari non possono più essere i cosiddetti “militanti”, il “popolo di sinistra”, eccetera. I destinatari sono tutti coloro che vogliono riflettere e comprendere, del tutto indipendentemente da come si collocano (o non si collocano) topologicamente nel teatrino politico. Per chi scrive l’appartenenza è nulla, e la comprensione tutto. Cerchiamo allora di riaprire la catena dei perché partendo da un anello della catena che ci permetta di stringere con sicurezza qualcosa di solido[1]”.

Il primo “perché” da riattivare è il domandarsi il motivo per il quale “i diversi” e “i normali” non possono liberamente ed autonomamente riconfigurare le loro relazioni, ma devono subire la gestione di una figura esterna che deve stabilire i confini e le finalità dell’integrazione. Il potere nella forma dl dominio deve neutralizzare ogni spazio di libertà per riportarlo all’interno della cornice della produttività. L’autonomia può disegnare scenari alternativi, e specialmente, può svelare che “i normali” come “i diversi” sono nel giogo del potere, e quindi per rompere potenziali solidarietà si interviene con figure professionali che posseggono le parole, sono i padroni di saperi aziendali con cui tacitare ogni processo comunitario di consapevolezza. Il secondo “perché” è l’uso della lingua inglese per indicare la professione di “gestore delle differenze”. La lingua non è uno strumento neutro, e l’uso della lingua anglosassone è un atto di vassallaggio verso il capitalismo americano, un atto di sudditanza e di resa senza condizioni che non ha eguali nella storia. La catena dei “perché” potrebbe proseguire assieme alle contraddizioni di un sistema “sensibile verso i diversi”, ma che ha abbassato il livello di sicurezza nell’attività lavorativa in modo speculare alle retribuzioni: la morte sul lavoro è entrata tra le banalità del quotidiano. Si svela con il diversity management la verità che si nasconde dietro il palcoscenico della “sensibilità” verso le differenze: una realtà razzista, classista e cinica che usa ogni mezzo per produrre plusvalore. La gestione delle differenze non è inclusione, ma funzionalizzazione delle stesse, una nuova forma di razzismo, in cui se non si produce secondo gli obbiettivi della dirigenza si è fuori del sistema, e ciò riguarda tutti. In assenza di dialettica ogni “inserimento” è incorporamento coatto imbellettato da lotta contro le disuguaglianze e le discriminazioni.

La libertà è l’emancipazione dall’utile iscritto nel recinto dell’aziendalizzazione, è autonomia identitaria nella comunità liberata dai postulati del plusvalore. Bisogna alzare gli scudi del concetto e della prassi contro i processi di normalizzazione in atto.

Salvatore Bravo

 

[1] Costanzo Preve, Marx e Nietzsche, Petite Plaisance Pistoia, 2004, pag. 6.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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