Fernanda Mazzoli – Gli indifferenti, sempre loro! Il combinato disposto di analfabetismo politico ed atrofia etica corrode in profondità la linfa vitale dell’esistenza collettiva

Gli indifferenti, sempre loro!

Il combinato disposto di analfabetismo politico ed atrofia etica
corrode in profondità la linfa vitale dell’esistenza collettiva

di Fernanda Mazzoli

In uno degli ultimi giorni della Comune, un insorto replicò ad un tale il quale, arrestato come sospetta spia dei Versagliesi, rivendicava la propria innocenza e totale estraneità ai fatti, ricorrendo all’argomento che mai si era interessato di politica, che proprio per questo lo uccideva. Ed aggiungeva, dopo che il presunto traditore gli era stato tolto dalle mani per essere ascoltato dal Comitato di salute Pubblica:

«La gente che non si occupa di politica!…: Ma sono i più vigliacchi e i più furfanti! Aspettano, ‘sti tipi, per sapere su chi sbaveranno o chi leccheranno dopo il massacro!».[1]

Le parole dell’ignoto combattente delle barricate di Montmartre, che odiava gli indifferenti mezzo secolo prima di Gramsci, accompagnano da qualche tempo le mie giornate come un ritornello sconsolato o un commento tanto risolutivo quanto laconico all’attuale stato delle cose. E non perché io abbia intenzione di ammazzare qualcuno, ma per la loro capacità di individuare e considerare con lucidità quella zona grigia che rende possibile, con la sua indifferenza più o meno compiaciuta ed il ripiegamento sul particulare, il perpetrarsi di violenze ed ingiustizie, sino al massacro che, ai giorni nostri, per il momento prende il volto della messa al bando dalla società.

Quello che sta avvenendo da mesi nel nostro Paese ai danni di una considerevole minoranza di cittadini vittime di provvedimenti punitivi centrati sull’espulsione dal lavoro e misure di apartheid, preceduti e sostenuti da una criminalizzazione morale senza precedenti, non avrebbe potuto realizzarsi se milioni di altri cittadini non avessero voltato lo sguardo dall’altra parte, se non avessero nascosto la testa sotto le tonnellate di paura sparse a piene mani dal potere politico e dai suoi cani da guardia mediatici.

La strumentale divisione delle persone tra sì vax e no vax, funzionale ad uno dei principi cardine delle strategie di dominio, il divide et impera, spostando artatamente il baricentro della questione sui vaccini, ha efficacemente contribuito ad occultare la natura politica delle decisioni prese: una grande rimozione, resa possibile da decenni di abulia civile, a vantaggio dell’adesione, ora entusiastica, ora rassegnata, alla grande abbuffata consumistica in cui ciascuno, ivi compresi i detrattori, si è ingegnato a ritagliarsi un posto, a seconda delle possibilità e delle inclinazioni.

Una volta rimosso, del binomio politiche sanitarie, il primo termine, ciò che resta si presta al riduzionismo più facile e di maggior effetto, ad una nuova declinazione del paradigma salutista – la difesa della nuda vita dai molteplici attacchi che possono minacciarla – particolarmente sensibile a tutte le torsioni securitarie, da sempre fertile humus per le svolte autoritarie.

L’indifferenza, che già forniva la necessaria protezione nella lotta darwiniana per la sopravvivenza o, nei casi più riusciti, per il successo nella società del neoliberismo rampante ha generato altra indifferenza per tutto ciò che non fosse la salvaguardia dal virus che la perdita di qualsiasi senso storico, di qualsiasi concreta contestualizzazione nel più vasto quadro in cui la pandemia si è dispiegata ha promosso a male assoluto, per difendersi dal quale non resta che l’obbedienza alle superiori disposizioni dei governanti e degli esperti a loro allineati.

E così, chi non si è arruolato in questa guerra, chi ha mostrato qualche esitazione o palesato qualche dubbio è incorso in un’esclusione brutale, in un ostracismo sociale impensabile in un Paese che vanta crediti di democrazia e modernità. Molti nostri connazionali, al riparo della loro indifferenza per la politica e tutti assorbiti dalla preoccupazione di saltare fuori il prima possibile e con il minor danno possibile da una situazione che la propaganda di regime ha costruito come apocalittica, con il loro silenzio, quando non approvazione, hanno aperto la strada alla carneficina sociale e psicologica che si sta consumando oggi. Il limbo degli ignavi è l’anticamera dell’inferno dove vengono spediti coloro che i primi hanno ignorato o dimenticato.

Se i presidi si fossero rifiutati di sospendere dal lavoro e dallo stipendio migliaia di lavoratori della scuola, se gli insegnanti avessero inondato i Collegi docenti, la stampa, il Ministero di mozioni di protesta contro l’allontanamento dei loro colleghi, se i negozianti e i ristoratori, o gli impiegati di servizi essenziali si rifiutassero di chiedere il greenpass, se i conducenti dei mezzi pubblici ricusassero di controllare il lasciapassare, se, in breve, si sviluppasse una diffusa campagna di disobbedienza civile, capace di coinvolgere ampi strati di popolazione, le misure coercitive del governo inciamperebbero nello scoglio della loro realizzazione e finirebbero per diventare lettera morta e/o per essere messe in discussione fino al loro ritiro.

Questo non è avvenuto: la maggioranza ha accettato senza fiatare l’emarginazione di milioni di concittadini, i quali, prima ancora di rifiutare un siero sperimentale, rifiutano di accettare l’inedito ricatto che si avvale della sola terapia anti Covid ammessa per introdurre una nuova e pericolosa forma di cittadinanza condizionata e limitata.

Ed è sempre la dimensione politica ad essere in gioco e sono sempre l’indifferenza o l’ignoranza nei suoi confronti a regolare la partita: non si tratta, infatti, di condividere nel merito le ragioni di chi non si è vaccinato, ma di allargare la propria visione delle cose al di là del meschino recinto eretto dalle veline di regime sul terreno delle paure irrazionali per collocare le decisioni governative nell’ambito più vasto di una società che, sull’onda della pandemia, sembra pronta a rinunciare alle libertà costituzionali e al diritto al lavoro, a quanto, cioè, era stato conquistato in due secoli di lotte sul terreno e di battaglie culturali.

Essere vaccinati non significa necessariamente approvare il greenpass e negare a chi ha fatto una scelta sanitaria diversa l’esercizio di diritti civili e sociali primari, come hanno sottolineato a più riprese i portuali triestini, incapaci di accettare che i loro colleghi non vaccinati, e con i quali avevano costruito insieme una trama significativa di relazioni interpersonali, subissero discriminazioni. E non solo per elementare, ma basilare solidarietà umana, ma anche perché i diritti negati oggi agli uni, potrebbero essere domani rifiutati, per ragioni diverse, agli altri.

Invece, apatia ed insensibilità si trincerano nell’orticello del presente, cercando di strapparne qualche frutto avvizzito che, in epoche tribolate come la nostra, può dare l’illusione di avercela comunque fatta. E peggio per chi è restato fuori, avrebbe potuto obbedire invece di opporre sfida o diniego laddove i più hanno seguito la corrente, con minore o maggiore convinzione, ma con la comune voglia di lasciarsi trasportare e chiudere gli occhi per non vedere chi veniva travolto, fosse anche un familiare, o un amico di vecchia data, o un collega di lavoro.

I vincoli comunitari si sono terribilmente allentati e l’intera società è divenuta più fragile, più disperata e più smarrita, banco di prova perfetto per esperimenti di ingegneria sociale atti a traghettare i popoli verso nuove forme di vita, di lavoro, di produzione, di consumo, di cittadinanza, maggiormente funzionali alla distruzione creatrice con la quale il capitale rinnova se stesso.

Analfabetismo politico ed atrofia etica vanno di pari passo, mentre il loro combinato disposto corrode in profondità la linfa vitale dell’esistenza collettiva; se a ciò si aggiunge il ben noto conformismo italico, maturato, collaudato ed assimilato nel corso di secoli di storia, il nostro presente assomiglia sempre di più ad un incubo che proietta la sua ombra nera anche sul nostro futuro. C’è da temere che lo sfregio operato sul corpo di un intero Paese (perché è la totalità ad essere lacerata, quando una delle sue parti è così duramente colpita) sia una ferita che continuerà a sanguinare a lungo, dalla cui suppurazione prolifereranno altre cancrene. E l’incubo, tanto per non farci mancare nulla, esibisce i caratteri della distopia, in quanto la bacchetta magica dell’ideologia generosamente dispensata dal governo e distillata giornalmente dai media ha provato a rivestire la vecchia, opportunistica, timorosa, interessata indifferenza delle vesti pulite e ammodo della responsabilità, della subordinazione all’interesse generale, del sacrificio per il Bene comune.

Ma questa è un’altra storia, ancora più inquietante ed ancora più densa di moniti e di riflessioni.

 

Fernanda Mazzoli

 

 

[1]L’episodio è riportato da Jules Vallès nel suo testo largamente autobiografico, Linsurgé. La citazione è presa dalla traduzione italiana, Linsorto, Petite Plaisance, Pistoia, 2019, p. 281.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Giorgio Riolo – Contro la guerra, sempre. Contro l’egemonia Usa e Nato. Per un mondo multipolare


Nikolaj Aleksandrovič Jarošenko, Il prigioniero, 1878.

Contro la guerra, sempre. Contro l’egemonia Usa e Nato. Per un mondo multipolare

di Giorgio Riolo

 

La guerra è un tragico catalizzatore. È la più grande politica di destra. Spegne il pensiero, la ragione, lo spirito critico. Alimenta istinti primordiali di sopraffazione, il tribalismo, lo sciovinismo. Arruola, inquadra, schiera, arma. “Noi” contro “loro”.
Dall’altra parte, induce donne e uomini di buona volontà a combattere con le armi spirituali della scelta etica, della cultura e della politica i soliti malvagi poteri che traggono profitto dalla guerra. Contro chi vuole sempre dominare, egemonizzare, contro i mercanti d’armi, il sempre attivo e feroce complesso militare-industriale.
Donne e uomini, la migliore umanità. La pace è sempre “pane, pace, lavoro”. È sempre a difesa dei deboli, di chi subisce morti, patimenti, distruzioni, stupri.

I.

È in corso l’immane ipocrisia e la ributtante retorica dei sempiterni “valori occidentali”, della libertà e della democrazia, delle guerre umanitarie, della missione civilizzatrice dell’Europa, degli Usa e della Nato contro i barbari di sempre. Nell’Est e nel Sud del mondo. Prima contro i “comunisti” e poi semplicemente contro i “russi”.
La mente colonizzatrice agisce sempre, dalle Crociate alle nefandezze dell’olocausto IndoAfroAmericano, al colonialismo e all’imperialismo dell’epoca moderna.
I mass media si sono scatenati qui in Europa, in Occidente, con i giornalisti “democratici” in prima fila. A incitare, a disinformare, a reclutare. Un’impressionante manipolazione è dispiegata. L’impero del bene contro l’impero del male. Il baraccone massmediatico costituisce un braccio armato indispensabile.
Il barbaro, folle, ultracorrotto, despota, Hitler contemporaneo, Putin è il bersaglio. È la Russia che minaccia l’Occidente e non il contrario. La Nato essendo un pacifico consorzio di pacifici signori i quali, per esempio, ogni anno tengono manovre chiamate “Defender Europe”. Nell’ultima, maggio 2021, per due mesi, attorno alla Russia, 28.000 soldati e migliaia di mezzi, blindati, aerei, navi. La motivazione delle manovre  “contro una possibile aggressione in Europa da parte della Russia”.

II.

Un poco di storia come retroterra. La Nato e l’atlantismo non hanno alcuna ragione d’essere. Allora. Ancor più dopo la fine dell’Urss e del cosiddetto socialismo reale nel 1991. È organismo sovranazionale di offesa. Contro l’Est, allora e oggi, e contro il Sud del mondo oggi. A guida e controllo totale Usa. Ed è lo strumento degli Usa per tenere l’Europa sotto scacco e ben schierata dietro di essa.
Con la fine dell’Urss, gli Usa e l’Occidente hanno voluto stravincere. Con lo smembramento dell’Unione Sovietica e con l’incitamento nazionalistico (come avverrà poi in Jugoslavia). Con il corrotto Boris Eltsin, a loro asservito, e con le bande oligarchico-mafiose imperversanti nei tragici dieci anni 1991-2000. A causa del capitalismo selvaggio e della rovina di molta parte della popolazione russa. Umiliando letteralmente quella parte del mondo. Ha detto recentemente l’ammiraglio tedesco Kay-Achim Schönbach “Putin e la Russia chiedono rispetto”. Semplice. Lo stesso ammiraglio subito fatto dimettere.
Il nostro Draghi, l’Unione Europea e il baraccone massmediatico all’unisono “la prima guerra in Europa dopo la seconda guerra mondiale”. Totalmente falso.
Nel 1999 la Nato a guida Usa, compresa l’Italia dell’allora governo D’Alema, aggredirono la Jugoslavia di Milosevič, ormai ridotta alla sola Serbia. La giustificazione fu la “guerra umanitaria” contro i serbi a difesa del Kosovo. 78 giorni di bombardamenti con 1.100 aerei, Usa e italiani in primo luogo. Bombardata Belgrado e nessuna immagine della popolazione terrorizzata nelle cantine. Come si fa oggi abbondantemente con gli ucraini. Ma i serbi erano “cattivi”, gli ucraini sono “europei” e buoni.
Nel tempo, la Nato si è allargata ai paesi ex Patto di Varsavia. Accerchiamento della Russia e grandi commesse militari da parte di questi paesi a vantaggio Usa. Mancava l’Ucraina.
Nel 2014 si inscena l’ennesimo “colpo di stato democratico” contro il presidente democraticamente eletto Janukovyč in Piazza Majdan a Kiev. Filorusso e quindi da eliminare. Con regia della Cia e con protagonisti i nazisti di Settore Destro e di Svoboda (dal nome di Stepan Svoboda, capo dei feroci collaborazionisti ucraini dei nazisti tedeschi nel 1941. Ogni anno nella innocente Ucraina si tengono sfilate per onorarlo).
Henry Kissinger dall’alto del suo sinistro realismo politico, in un articolo dello stesso 2014, metteva in guardia dal non portare la Nato sotto casa della Russia e di lasciare l’Ucraina come stato cuscinetto. Nel Donbass, la popolazione russofona nello stesso 2014 si ribella. La guerra nel Donbass ha fatto 14/15.000 morti e con protagonisti i nazisti del Battaglione Azov inquadrati nella Guardia Nazionale ucraina. Costoro hanno ammazzato vecchi inermi e hanno compiuto la strage di Odessa, dando fuoco alla sede del sindacato nella quale erano rinchiuse senza scampo 41 persone.

 

III.

Putin e la Russia agiscono da puro realismo politico. Da stato-nazione e da richiamo nazionale e nazionalistico del ruolo storico svolto nel passato, dall’impero zarista e dalla potenza dell’Urss, o da svolgersi oggi e domani. Molto revanscismo dell’umiliazione subita. Nessuna giustificazione della guerra. Ma almeno la comprensione dei processi storici che determinano questi esiti nefasti.

 

IV.

Occidente contro Oriente e contro Sud. Prima la Russia, poi verrà la Cina. Armi all’Ucraina. La Germania si riarma, l’Italia sempre obbediente manda armi.
Non arruoliamoci e adoperiamoci per un mondo multipolare antiegemonico. Dove ogni popolo e ogni stato-nazione possano contare.

 

Milano, 1 marzo 2022

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Dove porta la smodata ricerca di ricchezze, andando oltre i limiti dello stretto necessario, a “occidente” come a “oriente”?


Dove porta la smodata ricerca di ricchezze,

andando oltre i limiti dello stretto necessario,

a “occidente” come a “oriente”.

 

La smodata ricerca di ricchezze, andando oltre i limiti dello stretto necessario, in “occidente” come in “oriente”, porta alla guerra dei «vicini», come dei più lontani, contro vicini e lontani, ed alla guerra contro la cultura universale, perché la guerra «spegne il pensiero, la ragione, lo spirito critico».Certamente No alla guerra! di Putin.

Ma qualcuno onestamente può negare che l’Europa e il cosiddetto “occidente” non si siano «abbandonati ad una smodata ricerca di ricchezze» per il proprio esclusivo e prioritario benestare?

Ai politici europei e “usaoccidentali”, ai militari della NATO (dimentichi delle loro pur recenti  “guerre umanitarie”, dei “bombardamenti etici” in Jugoslavia come altrove), ai nostrani “progressiti” (novelli censori di Dostoevskij), gioverebbe meditare, oltre che sugli esiti perversi della smodata dimensione crematistica del modo di produzione capitalistico globalizzato, sulle parole del profeta Osea (v. 8, 7): «Quia ventum seminabunt, et turbinem metent» (“Chi semina vento, raccoglie tempesta”).

Accadeva già ai tempi di Platone.

 

Καὶ ἡ χώρα γέ που, ἡ τότε ἱκανὴ τρέφειν τοὺς τότε, σμικρὰ δὴ ἐξ ἱκανῆς ἔσται. ἢ πῶς λέγομεν; […] Οὐκοῦν τῆς τῶν πλησίον χώρας ἡμῖν ἀποτμητέον, εἰ μέλλομεν ἱκανὴν ἕξειν νέμειν τε καὶ ἀροῦν, καὶ ἐκείνοις αὖ τῆς ἡμετέρας, ἐὰν καὶ ἐκεῖνοι ἀφῶσιν αὑτοὺς ἐπὶ χρημάτων κτῆσιν ἄπειρον, ὑπερβάντες τὸν τῶν ἀναγκαίων ὅρον;

 

E così pure il territorio, quello che una volta bastava a nutrire i cittadini di prima, ora si è fatto insufficiente e non basta più, non è forse così? […]

Ecco quindi che saremo costretti a strappare una parte del territorio dei vicini, se vorremo avere abbastanza terreno da mettere a pascolo e a coltura? Ma non è forse vero che anche i confinanti avrebbero bisogno dei nostri territori, quando come noi si abbandonassero ad una smodata ricerca di ricchezze, andando oltre i limiti dello stretto necessario?

 

Platone, Repubblica, 373 d, trad. di R. Radice.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Con il viaggio interiore di Pinocchio, e attraverso i simboli che attorniano il burattino, l’autrice osa sfidare l’immaginario pietrificato del nostro presente.

In copertina: Marc Chagall, Self-portrait with muse (dream), 1918 [Autoritratto con musa (sogno)].

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 In viaggio con Pinocchio
di Fernanda Mazzoli

Con il viaggio interiore di Pinocchio, e attraverso i simboli che attorniano il burattino,
l’autrice osa sfidare l’immaginario pietrificato del nostro presente.

Il Pinocchio di Fernanda Mazzoli è un viaggio tra letteratura di formazione, archetipi e critica sociale, è un processo cairologico come il titolo del saggio ci indica: In viaggio con Pinocchio. Nessun viaggio è mono-tono, ma comporta una serie di aspetti che l’autrice magistralmente tiene assieme in una sintesi armonica ed organica. Il viaggio con Pinocchio non termina mai con la subitanea lettura del libro di Collodi, ma continua più in profondità proprio dopo la comprensione del testo. Se il lettore ha vissuto le metamorfosi di Pinocchio, nelle trasformazioni ritrova se stesso e, specialmente, dinanzi a lui si apre un campo aperto di possibilità: deve scegliere il percorso migliore che lo riporta a se stesso, dopo i processi di reificazione in cui ha rischiato di perdersi. Il saggio di Fernanda Mazzoli osa sfidare l’immaginario pietrificato del nostro presente con Pinocchio ed i suoi simboli. Senza attività di simbolizzazione non vi è significato, per cui il nostro presente riposa nel “niente”. Rinunciando al viaggio interiore la politica è solo un far carriera e la comunità una giustapposizione di individui senza profondità e prassi. Non a caso dopo l’interessante prologo si sofferma sulla rilevanza della figura della fata Turchina, la quale è il logos, perché è la personificazione del fatum, da fari, ovvero di ciò che è stato annunziato. La fata preordina il percorso, è il concetto che prepara la prassi, fino a far coincidere teoria e prassi. Il logos è la fata Turchina, e senza logos non vi è formazione, non vi è crescita qualitativa, ma solo tempo cronologico senza speranza. Il tempo del viaggio è processo che deve maturare al contatto consapevole con il negativo. Pertanto la strada che il burattino deve svolgere per passare dallo stadio legnoso al corpo vissuto è segnato dalla fioritura del legno. Il legno non è materiale inerte, in esso scorre la vita in potenza che deve portare in atto i suoi germogli interiori fino alla completa trasformazione. Nulla è banale in un processo di crescita, ma tutto è meravigliosamente eccezionale:

«La banalità qui non è di casa: è storia, piuttosto, di una contrastata acquisizione della coscienza di sé e del mondo che si fa strada attraverso mille peripezie di carattere iniziatico».[1]

Il viaggio di Fernanda Mazzoli non si limita a cogliere i rapporti tra il testo di Collodi e la letteratura di formazione, rintraccia nel percorso interno al saggio elementi di divergenza e convergenza con il genere picaresco, ma è presente, anche, una lettura critica e sociale del romanzo. Nell’Italia che si avvia verso la sua prima rivoluzione industriale riemerge l’utopia dell’arricchimento facile con il Gatto e la Volpe e il desiderio utopico ed antico di un’abbondanza che  si autoproduce senza l’intermediazione del  lavoro:

«È il vagheggiamento di un’abbondanza che nasce direttamente da se stessa, senza l’intermediazione del lavoro, ad animare le strabilianti narrazioni, ora divertite, ora ingenuamente partecipi, messe in scena dalla letteratura dotta  e da quella popolare».[2]

Il romanzo ci induce a guardare al presente, da esso si dipanano piani di temporalità: vi è l’eternità dei simboli, il tempo coevo di Collodi e il nostro tempo. Il paese della Cocaigne è accostato al mondo debordante di merci dei nostri ipermercati, ma in essi la Cocaigne non è sogno, ma disincanto, perché senza il denaro nulla è possibile; si può solo guardare, ma si è respinti nel grigiore dell’impotenza e della frustrazione:

«Un grande centro commerciale che esibisce sui propri scaffali, accuratamente disposte, merci di ogni tipo e per tutti i gusti e che basta allungare per cogliere, fare proprie e soddisfare tutte le brame, potrebbe essere la versione moderna di Cocaigne».[3]

Pinocchio alla fine della sua iniziazione comprende che la crescita non è l’accumulo dell’individuo proprietario, ma è la luce interiore dei legami di significato senza i quali nulla ha senso. Il burattino ci insegna a non cadere nella trappola degli ipermercati e delle miserie dell’abbondanza. Solo la crescita qualitativa e la chiarezza del bene liberano dai processi di alienazione. Il bene è discreto e silenzioso, ed è Geppetto nel romanzo che testimonia la profondità del bene con la sua vita al limite della miseria, ma incentrata nel dono di sé, nella cura e nella misura:

«Se non modello, Geppetto identifica però un ideale di vita, fondato sulla misura, l’onestà, la sobrietà e il senso del dovere, che Pinocchio farà suo».[4]

In questo tempo bellicoso, il saggio di Fernanda Mazzoli non è fuga dalla realtà, ma ci è di ausilio per riscoprire ciò che è fondamentale per ogni comunità umana degna di essere definita tale: i processi di formazione e germinazione della vita, i quali non terminano con l’adolescenza, ma sono i tempi veri ed autentici di tutta l’esistenza. Il prezzo da pagare è la separazione dall’inautentico per una superiore qualità di vita. Ciò può avvenire in ogni periodo della vita, per cui Pinocchio è l’eterno nella condizione umana:

«È il prezzo da pagare per diventare se stessi, separazione dopo separazione, per raggiungere un’unità più alta, una forma che emerge dal caos dell’indistinto e conquista una sua faticosa libertà».[5]

[1] Fernanda Mazzoli, In viaggio con Pinocchio, Petite Plaisance, Pistoia 2022, pag. 76.

[2] Ibidem, pag. 57.

[3] Ibidem, pag. 66.

[4] Ibidem, pag. 42.

[5] Ibidem, pag. 86.


Pieter Bruegel the Elder, Luilekkerland (“The Land of Cockaigne “), oil on panel (1567; Alte Pinakothek, Munich).jpg
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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