Salvarore Bravo – «Intus legere». La Matrix europea e il gruppo Bilderberg.

Francesco Amodeo - La Matrix europea
Salvatore Bravo

«Intus legere»

La Matrix europea e il gruppo Bilderberg

 

 

La prassi è sempre sincrona alla teoria, alla comprensione, la quale è sempre un atto intellettuale, ovvero “intus legere”: capire significa leggere dentro, astrarre la verità dalla contingenza, apparentemente costituita da frammenti, da situazioni frammentate. In realtà esse hanno il loro senso nel substrato che dà significato all’empirico. Il periodo attuale, ormai trentennale, ha la sua verità nella tecnocrazia di sistema. La tecnocrazia è altro dalla scienza: essa ha il fine di trasformare ogni ente in fondo per il plusvalore. La crematistica risponde alla legge della tecnocrazia globale, entifica popoli e culture al fine di trasformare ogni esistente in plusvalore da consumare ed immettere sul mercato. Il nichilismo è diventato la legge dell’occidente globale. Gli esseri umani si differenziano dagli altri enti, solo poiché ricoprono una doppia natura storicamente indotta: produttori e consumatori. Il tempo ciclico della produzione esige che vi siano consumatori: senza la doppia natura innestata dal sistema tecnocratico l’economicismo non reggerebbe. La tecnocrazia non è un fenomeno naturale, la sua pervasività capillare è sicuramente favorita da condizioni storiche, ma curvare queste ultime per teleologie di questo genere è possibile solo in presenza di lobby organizzate per tali finalità. La democrazia boccheggia sotto i colpi di gruppi di privilegiati che costruiscono progetti per i popoli utilizzando il loro immenso potere economico per determinare le decisioni degli Stati. Il gruppo Bilderberg è la cupola finanziaria all’interno della quale non lavorano solo finanzieri, ma anche manager, giornalisti e carrieristi che in nome “del martello dell’economia” sono disponibili a mettere in pratica cinici propositi:

 

 

«Stando alle notizie raccolte, la conferenza del Bilderberg sarebbe organizzata da una commissione permanente, detta anche Comitato Direttivo (Steering Committee), della quale fanno parte alcuni membri di circa diciotto nazioni differenti. Alcuni di questi membri fanno parte di un secondo cerchio ancora più chiuso, e formano il Comitato Consultivo (Advisory Committee) del Gruppo. L’Advisory Committee è composto da pochissime personalità, tra le quali in passato spiccavano i nomi di Giovanni Agnelli e David Rockefellerche ne è il Presidente Onorario. Oltre al presidente della Commissione, è prevista la figura di Segretario Generale onorario. Non esiste la figura di membro del Gruppo Bilderberg, perché i membri vengono invitati di volta in volta, ma solo quella di membro della Commissione Permanente (member of the Steering Committee). Esiste anche un gruppo distinto di supervisori. Quando giunge l’invito, generalmente a ridosso della riunione, agli invitati è richiesto di non annunciare pubblicamente la loro partecipazione al meeting, pena l’esclusione dall’incontro. Chi osserva e conosce il Gruppo da parecchi anni afferma che anche la preparazione delle riunioni segue un rituale “curioso”, mirato a tutelare questo ambito di massima riservatezza. L’hotel selezionato viene occupato con qualche giorno di anticipo. Parte del normale personale viene sostituito con personale di fiducia». [1]

 

Matrix europea
La Matrix europea è testimoniata da una incontestabile cronologia. I partecipanti al gruppo Bilderberg sono premiati per la fedeltà al progetto tecnocratico mediante un rapido passaggio dalla partecipazione all’occupazione di ruoli strategici per condizionale politica ed economia dei popoli[2]: Angela Merkel, Blair, Clinton, Prodi, Monti, Lagarde, Bonino sono passati in tempi strettissimi dalle riunioni segrete della finanza a svolte nella loro carriere che hanno coinciso con provvedimenti letali per i popoli. Per il gruppo Bilderbeg il male da curare è la democrazia, in quanto lenta nei suoi passaggi. Naturalmente la lentezza implica la discussione e la partecipazione, e ciò è un ostacolo al governo mondiale della finanza. I popoli devono trasformarsi in plebi obbedienti alla plutocrazia, la quale deve mettere in atto un progetto di dominio globale finalizzato al profitto:

 

 

«Sin dall’inizio il loro intento era quello di creare un nuovo ordine economico internazionale, e per riuscirci elaborarono il concetto di “tecnocrazia” come mezzo per controllare la società, sostituendolo sempre più al concetto di politica come dovrebbe essere inteso nelle nostre democrazie. Sono convinti che non ci sia più bisogno dello Stato, così come lo si è inteso per centinaia di anni, e quindi agiscono per poter eliminare il concetto di sovranità nazionale e di autodeterminazione degli Stati. Già alla fine degli anni 70 l’analisi della crisi globale da parte della Commissione Trilaterale imputava le cause alla troppa democrazia ed ai troppi poteri del Parlamento. I membri della Commissione sono convinti che l’eccessiva partecipazione democratica sia un male, e che i popoli vadano tenuti all’oscuro: infatti, la Commissione stessa è nata dalla volontà dichiarata proprio da David Rockefeller di superare quelli che lui definisce “lenti e farraginosi processi di discussione parlamentare”, e per stabilire processi decisionali che scavalchino le decisioni delle assemblee istituzionali. Il fulcro di questo pensiero è stato riassunto in un rapporto del 1975 dal titolo: “La crisi della democrazia”, pubblicato in Italia con la prefazione di Gianni Agnelli firmato da Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki ad hoc per la Trilaterale. Osservando le condizioni politiche di Stati Uniti, Europa e Giappone, il documento, divenuto successivamente un libro, dimostra come i problemi di governance derivino secondo gli autori “dall’eccesso della democrazia». [3]

 

Società di solo mercato
Il fine è fondare la civiltà della merce, affinché il feticismo della merce possa trionfare, il gruppo agisce secondo due modalità: utilizzando circostanze eccezionali per attaccare lo stato sociale e favorire la privatizzazione dei servizi, e nel tempo ordinario mettere in campo una perenne campagna dei media contro i diritti sociali rappresentati come “debito” verso la comunità. Il convincimento collettivo è orchestrato, in modo che la pluralità dei giornali, nominalmente di aree diverse, comunichino lo stesso messaggio, ovvero che i diritti individuali e la privatizzazione sono i pilastri del mondo libero, mentre i diritti sociali sono “il male” che ha corrotto le finanze dello Stato:

 

 

«Le riforme strutturali più’ urgenti, oltre a quelle politiche, sono secondo la banca quelle in termini di riduzione dei costi del lavoro, di aumento della flessibilità’ e della libertà di licenziare, di privatizzazione, di deregolamentazione, di liberalizzazione dei settori industriali “protetti” dallo stato. Il problema non è solo una questione di reticenza fiscale e di incremento della competitiva’ commerciale, stando alla loro spiegazione, bensì’ anche di “eccesso di democrazia” che va assolutamente ridimensionato. L’élite finanziaria internazionale lascia intendere che se i paesi del Sud d’Europa vogliono rimanere aggrappati alla moneta unica devono rassegnarsi a rinunciare alla Costituzione. Rockefeller ha spesso fatto dichiarazioni molto esplicite, come quando ha dichiarato che: “Siamo sull’orlo di una trasformazione globale. Tutto ciò di cui abbiamo bisogno è la ‘giusta’ crisi globale e le nazioni accetteranno il Nuovo Ordine Mondiale”. Ed altre che non lasciano dubbi sui suoi intenti: “Alcuni credono che facciamo parte di una cabala segreta che manovra contro gli interessi degli Stati Uniti, definendo me e la mia famiglia come “internazionalisti”, e di cospirare con altri nel mondo per costruire una più integrata struttura politico-economica globale, un nuovo mondo, se volete. Se questa è l’accusa, mi dichiaro colpevole, e sono orgoglioso di esserlo». [4]

La finanza vuole assumere il ruolo di un perverso Demiurgo platonico: deve plasmare il mondo ad immagine e somiglianza della nuova razza padrona che in nome del “più mercato meno stato”, propone e attua l’annichilimento delle comunità, queste ultime senza diritti sociali non sono che veloci giustapposizioni di gruppi umani pronti a sciogliersi sotto il moto del capitale. I suoi membri sono all’interno di movimenti e sussulti economici che non governano, ma a cui devono adattarsi passivamente:

 

 

«La liberalizzazione dei mercati finanziari rappresenta il logico punto di arrivo di tutto questo e la mission di queste organizzazioni. Questi, infatti, sono i punti che gli oligarchi hanno portato avanti contemporaneamente attraverso Reagan, Thatcher, Mitterran e Kohl per plasmare il mondo e che silenziosamente vedrete portare avanti a tutti coloro che da queste organizzazioni sono riusciti ad arrivare ai vertici dei governi con la conseguenza che:

– i costi del debito pubblico saranno scaricati sui risparmiatori, sui lavoratori, sui pensionati, sui redditi e i capitali non delocalizzabili;

– i costi dei buchi delle banche saranno scaricati sui depositanti, sugli obbligazionisti, sugli azionisti (bailin) e sugli italiani in generale;

– i costi della competitività saranno scaricati sui salari e sulla previdenza; Le crisi economiche diventano, così lo shock indispensabile per realizzare la delegittimazione dei meccanismi istituzionali e di partecipazione democratica, le deregolamentazioni a discapito del lavoro salariato con la progressiva eliminazione dei diritti dei lavoratori e l’inesorabile scomparsa delle lotte sindacali». [5]

 

Complicità
Il gruppo Bilderber ed affiliati palesano la verità dell’attuale fase del capitalismo, esso è sempre più simile, fino a confondersi, alle mafie, ha una cupola ed i suoi esecutori. Le riunioni sono segrete, ed i partecipanti obbediscono alla legge del silenzio. La cupola ha le sue complicità trasversali, per cui pur nell’evidenza della sua strategia di decostruzione delle democrazie continua ad operare indisturbata. Essa è il semenzaio per una pluralità di oligarchie interconnesse ed antitetiche ai popoli:

 

 

«E soprattutto di adoperarsi per applicare la legge Anselmi che “considera associazioni segrete e come tali vietate dall’articolo 18 della Costituzione quelle che, anche all’ interno di associazioni palesi, occultando la loro esistenza ovvero tenendo segrete congiuntamente finalità e attività sociali, ovvero rendendo sconosciuti, in tutto o in parte ed anche reciprocamente, i soci, svolgono attività diretta ad interferire sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali, di amministrazioni pubbliche, anche ad ordinamento autonomo, di enti pubblici, anche economici, nonché di servizi pubblici essenziali di interesse nazionale” e prevede per i promotori di tali associazioni e per i semplici partecipanti la pena alla reclusione». [6]

 

Maastricht (1992) e il Trattato di Lisbona (2007) sono il compimento di un lungo percorso iniziato già con il piano Marshall (1947 -1951): il progetto era trasformare l’Europa occidentale nell’avamposto degli Stati Uniti, con la caduta dell’Unione Sovietica nel 1991 ogni limite al liberismo è caduto, e si è configurato il progetto del governo mondiale sotto l’egida della finanza. È, ora, la moneta a determinare politiche e scelte sociali degli stati ridotti ad esecutori di ordini superiori:

 

 

«Il Trattato di Maastricht, costituendo il SEBC, ovvero il sistema europeo delle banche centrali, viola palesemente alcuni principi sanciti dalla nostra Costituzione e può essere considerato un duplice attacco alla sovranità ed all’indipendenza nazionale. Da un lato il Trattato fornisce base giuridica al fine di consentire che sia l’Europa a dettare le politiche economiche delle nazioni, dall’altro priva le nazioni stesse di una Banca Centrale con cui finanziare in autonomia dette politiche. “L’Italia, con una moneta così concepita, perdeva, sia il controllo diretto dei tassi d’interesse che vengono oggi decisi dal mercato e che ovviamente può facilmente influenzarli con le speculazioni (come accaduto con la crisi dello Spread del 2011), sia la possibilità di svalutare la moneta stessa. Possibilità che si era resa necessaria in alcune circostanze a causa di shock esterni”: da Maastricht in poi non sarà più la moneta ad adeguarsi all’economia ma l’economia a doversi adeguare alla moneta (svalutando i salari!). Il denaro, quindi, da strumento alternativo al baratto per consentire lo scambio di beni e servizi di cui costituiva unicamente l’unità di misura, diventa esso stesso prodotto e strumento di predazione». [7]

 

La domanda legittima è se i popoli sono innocenti. Poiché, ancora una volta, è ingenuo e semplicistico pensare ed ipotizzare che la plutocrazia apolide svolga il suo progetto in autonomia. Vi è, infatti, la zona grigia degli esecutori, che possono non essere informati sulla cupola, sui meccanismi di trasmissione degli ordini e sul progetto finale, ma è possibile verificare nel quotidiano gli effetti della finanziarizzazione della vita. È necessario agire, informare, emancipare la zona grigia delle complicità, senza le quali tali gruppi di potere non potrebbero rendere esecutivo il loro progetto di conquista predatoria dei popoli. La tecnocrazia della finanza non solo aliena, ma specialmente punta a rendere gli esseri umani anonimi e sostituibili. Tale obiettivo deve essere denunciato, poiché in tale sistema nessuno è al sicuro. Su tale verità bisognerebbe agire, in modo che si possa essere consapevoli che gli effetti esiziali del capitalismo della finanza possono travolgere chiunque in qualsiasi momento e che non vi sono sacche di privilegio che possano ritenersi al riparo dalle tempeste della moneta. Non esistono solo le responsabilità di banchieri e politici, ma vi sono anche le responsabilità delle classi medie acculturate che capiscono le dinamiche in atto, ma non si scandalizzano della tragedia etica che si dipana dinanzi a loro.

 

Salvatore Bravo

***

[1] Francesco Amodeo, La Matrix europea, Edizioni Matrix, 2019, p. 10.

[2] Ibidem, pp. 13-14.

[3] Ibidem, p. 24.

[4] Ibidem, p. 51.

[5] Ibidem, p. 57.

[6] Ibidem, p. 97.

[7] Ibidem, pp. 101-102.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Giacomo Leopardi (1798-1837) – Desiderio naturale, necessario, e perpetuo nell’uomo, di un futuro miglior del presente. Importanza quindi dell’avere una prospettiva e una speranza. Questo è ufficio del filosofo, ed è pratica incomparabilmente utile al viver felice.

Giacomo Leopardi, felicità progettuale

«Desiderio naturale, necessario, e perpetuo nell’uomo, di un futuro miglior del presente, per buono che il presente possa essere. Importanza quindi dell’avere una prospettiva e una speranza, per esser felice. Importanza del sapersi fare, comporre e propor da se stesso tal prospettiva. Non sempre le circostanze, l’età ec. permettono una prospettiva di miglioramento e di avanzamento nello stato ec. Oltracciò gli avanzamenti e miglioramenti grandi sono di difficile conseguimento, e non conseguendosi, e ingannata la speranza, restiamo turbati. Utilità somma del sapersi proporre di giorno in giorno un futuro facile, o anche certo, ad ottenere; dei beni che avvengono d’ora in ora; godimenti giornalieri, di cui non v’ha condizione che non sia fornita o capace: il tutto sta sapersene pascere, e formarne la propria aspettativa, prospettiva e speranza, ora per ora: questo è ufficio del filosofo, ed è pratica incomparabilmente utile al viver felice».

Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, Edizione tematica condotta sugli Indici leopardiani, a cura di F. Cacciapuoti, Volume 1, Donzelli, Roma, 2018, pp. 231-232).


Giacomo Leopardi – Cos’è la lettura per l’arte dello scrivere
Giacomo Leopardi (1798-1837) – Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione
Giacomo Leopardi (1798-1837) – La felicità non è che la perfezione, il compimento della vita.
Giacomo Leopardi (1798-1837) – Un sorriso e una poesia possono aggiungere un filo alla trama brevissima della vita, accrescendo la nostra vitalità.
Giacomo Leopardi (1798-1837) – La più sublime, la più nobile tra le Fisiche scienze ella è senza dubbio l’Astronomia. L’uomo s’innalza per mezzo di essa come al di sopra di se medesimo.
Giacomo Leopardi (1798-1837) – «Dialogo della Moda e della Morte». La moda appartiene perciò a quel tipo di fenomeni che tendono a un’estensione illimitata. Cara Morte, mostri di non conoscere la potenza della Moda, perché ho messo nel mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa, così per rispetto del corpo come dell’animo, è più morta che viva.
Giacomo Leopardi (1798-1837) – Parlerò della miseria umana, degli assurdi della politica, dei vizi e delle infamie non degli uomini ma dell’uomo.
Giacomo Leopardi (1798-1837) – Come l’uomo dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto, l’altezza e nobiltà sua, l’immensa capacità della sua mente.
Giacomo Leopardi (1798-1837) – Niente nella natura annunzia l’infinito, l’esistenza di alcuna cosa infinita. L’infinito è un parto della nostra immaginazione, della nostra piccolezza ad un tempo e della nostra superbia.
Giacomo Leopardi (1798-1837) – Gli uomini compassionevoli sono sì rari, e la pietà è posta, massimamente in questi tempi, fra le qualità le più riguardevoli e distintive dell’uomo sensibile e virtuoso.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Eugène Minkowski (1885-1972) – La vita consiste in una ricreazione continua di una prospettiva di vita, tracciandola e costruendola con le nostre mani.

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La vita non consiste forse in una ricreazione continua e inevitabile di una prospettiva di vita? […] la vita è una strada da percorrere, una strada che non ha nulla di metaforico in sé. Si tratta al contrario dell’unica strada che noi dobbiamo percorrere necessariamente, tracciandola e costruendola con le nostre mani. Non ce ne sono altre. […] Per questo parliamo abitualmente delle svolte che incontriamo sulla nostra strada, benché questa strada si prolunghi dritta davanti a noi, o usiamo talvolta l’espressione “prendere una buona o una cattiva strada”, benché la strada, una volta imboccata, possa essere soltanto quella buona. Allo stesso modo, “allontanarsi dalla retta via” significa discostarsi, più o meno a lungo, dalla nostra strada, per farvi ritorno in seguito […]. Un’opera personale matura lentamente, si fa strada in me, come se risalisse in superficie, assume progressivamente una forma concreta, ed infine si stacca da me, diventando di dominio pubblico. […] Lo sguardo rivolto all’avvenire, mi metto già a pensare all’opera seguente. E sono consapevole di lasciarmi così alle spalle, continuando sempre ad avanzare, alcune tracce del mio passaggio quaggiù. […]. L’opera, tuttavia, non la cogliamo in tutta la sua pienezza quando, compiuta, la esaminiamo semplicemente dal di fuori, ma quando riusciamo invece a penetrare nella durata vissuta, seguendone la lenta maturazione, fino al momento in cui essa si distacca da noi.

Eugène Minkowski, Vers une cosmologie. Fragments philosophiques, Aubier-Montaigne, Paris, 1936, trad. it. di D. Tarizzo, Verso una cosmologia. Frammenti filosofici, Einaudi, Torino, 2005, pp. 194-203.


Eugène Minkowski – Il tempo vissuto – L’azione etica apre l’avvenire davanti a noi perché resiste al divenire: è la realizzazione di quanto vi è di più elevato in noi
Eugène Minkowski (1885-1972)  – La morte, mettendo fine alla vita, la inquadra interamente, in tutto il suo percorso. È la morte che trasforma il succedersi o la trama degli avvenimenti della vita in “una” vita. Non è nel nascere ma è col morire che si diventa un’unità, “un uomo”.
Eugène Minkowski (1885-1972) – La ricchezza dell’avvenire che libera dalla morsa dell’attesa
Eugène Minkowski (1885-1972) – È lo slancio vitale che dà un senso alla vita e costituisce quanto vi è in essa di più essenziale. Questo slancio sempre vivo crea l’avvenire e non può essere racchiuso in una sezione trasversale della coscienza, e si tende, come un arco, oltre tutte le sezioni di questo genere.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Franco Toscani – L’ «immenso oceano dei pensieri» e la vita buona

Parmenide-Platone-Franco Toscani
Franco Toscani

L’ «immenso oceano dei pensieri» e la vita buona

Che cos’è la filosofia se non l’amore tenace e ostinato per il “vero come intero” e per la vita buona?
La ratio strumentale-calcolante oggi dominante considera però la filosofia un sapere inutile e tende sistematicamente a sostituirla con la mera “metodologia della ragione” e col sapere frammentario delle varie scienze umano-sociali o socio-psico-pedagogiche. Non c’è spazio per la genuina tensione veritativa della filosofia, perché questo mondo rovesciato e a testa in giù non ne ha bisogno, anzi è infastidito da essa.
Attraverso un lavoro lungo e faticoso, un’indagine libera e aperta, la filosofia è però ciò che consente di incamminarci – con un «immenso oceano di pensieri» (τοσοῦτον πέλαγος λόγων, come dice Platone nel Parmenide, 137 a)[1] – lungo i sentieri della verità, senza poterla possedere, ma avvertendone in noi la grandezza, il respiro, la nobiltà. In qualche modo, con tutti i nostri limiti e contraddizioni, possiamo sperimentare, vivere – non solo con le idee, ma anche con le azioni, i gesti, i sentimenti, gli affetti, i rapporti, le situazioni e gli eventi della vita quotidiana – un po’ del profumo, dell’aria fresca della verità.
Averne almeno il sentore, sentirla vicina e intima, amarla, custodirla, nella misura assegnata ai mortali.


[1] Platone, Parmenide, 137 a, a cura di F. Ferrari, Rizzoli, Milano 2004, pp. 240-241. La traduzione di quest’espressione platonica proposta da Ferrari è per la verità la seguente, altrettanto valida: “un così vasto mare di ragionamenti”. Noi le preferiamo però quella proposta da Enzo Paci nel suo saggio Il significato del ‘Parmenide’ nella filosofia di Platone, Principato, Messina-Milano 1938, p.110; libro ristampato (con una Introduzione di C. Sini) presso Bompiani, Milano 1988 (cfr. p. 79). Il saggio paciano del 1938 tentò davvero l’avventura di attraversare l’ “immenso oceano di pensieri” non soltanto del Parmenide, ma dell’intera opera platonica.


Franco Toscani – Il rapporto etica-politica e il tema dell’amicizia in Aristotele.
Franco Toscani – L’antropologia culturale e il sogno dell’universalità umana concreta
Franco Toscani – Il filosofo e le Muse. La filosofia come “musica altissima” e “sinfonia dell’anima”-
Franco Toscani – Karl Marx e il significato della “Comune” di Parigi. La “Comune” sarà celebrata per sempre come la gloriosa messaggera di una nuova società. La sua testimonianza, il suo patrimonio e la sua eredità risiedono essenzialmente nella «sovrabbondanza di umanità dalla parte degli oppressi».
Franco Toscani – Umanità e società nel tempo della pandemia.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Karl Jaspers (1883-1969) – La decisione è qualcosa che alla volontà si offre come dono. Nella decisione colgo la libertà, perché io stesso sono la libertà di questa scelta.

Karl Jaspers - Umberto Galimberti

La decisione è qualcosa che alla volontà si offre ancora come dono; qualcosa che io, volendo, posso realizzare, non nel senso che la posso volere, ma nel senso che da essa prende le mosse ogni mio volere. Nella decisione, nel fatto cioè che io posso volere, colgo la libertà […]. Nella decisione sperimento quella libertà in cui non decido solamente su qualcosa, ma anche su me stesso, e in cui non è più possibile una separazione tra la scelta e l’io, perché io stesso sono la libertà di questa scelta.

 

Karl Jaspers, Philosophie. II – Existenzerhellung, Springer, Berlin, 1956, trad. it. di U. Galimberti, Filosofia 2. Chiarificazione dell’esistenza, Mursia, Milano, 1978, pp. 167-168.


Karl Jaspers (1883-1969) – Solo attraverso la verità diveniamo liberi, la verità è la dignità dell’uomo.
Karl Jaspers (1883-1969) – Filosofare presuppone una visione del mondo ed è espressione specifica di un se-stesso originariamente libero. Filosofano veramente solo quegli uomini che sono originariamente se stessi e che nel filosofare si incontrano e si legano tra loro.
Karl Jaspers (1883-1969) – La verità cresce in un processo che include l’uomo nella sua totalità e risulta dall’intreccio di pensiero e vita, compiendo l’uomo una metamorfosi di se stesso.
Karl Jaspers (1883-1969) – La discussione con i teologi si arresta sempre nei punti più decisivi. Un vero dialogo richiede che si ascolti e si risponda realmente, non tollera che si taccia o si eviti la questione.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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William Shakespeare (1564-1616) – Beati son coloro i cui impulsi e il cui giudizio non assomigliano per nulla a una zampogna su cui le dita della Fortuna possan suonare il tasto che le aggrada.

William Shakespeare_ Amleto 01

«Dove vi sono maggiormente ragione (nous) e intelletto (logos), vi è minimamente fortuna (tyche) e dove vi è massimamente fortuna vi è minimamente ragione».

Aristotele, Etica Eudemia, II, 8,1207 a.

«Poiché tu fosti simile a uno che pur soffrendo ogni cosa, non soffre nulla, ed ha bene accetti, con la stessa riconoscenza, insieme le offese e i premi della sorte. E beati son davvero coloro i cui impulsi e il cui giudizio si offron così mescolati, ch’essi non assomigliano per nulla a una zampogna su cui le dita della Fortuna possan suonare il tasto che le aggrada».

William Shakespeare, Amleto, atto III, scena II, tr. it. in Opere complete,vol. III, p. 744.


William Shakespeare (1564-1616) – «Cesare non potrebbe fare il lupo se non fossero pecore, e nient’altro che pecore, i romani».
William Shakespeare (1564-1616) – La sua lezione di regia: «Tenetevi misurati, dovete ottenere e conservare quella sobrietà che consente morbidezza di toni. Accordate l’azione alla parola, la parola al gesto: lo strafare è contrario alla vocazione dell’arte teatrale. Il gigioneggiare quanto il recitarsi addosso non può che disgustare l’intenditore».
William Shakespeare (1564-1616) – Nell’uomo che non ha la musica in se stesso, i moti del suo cuore sono spenti come la notte.
William Shakespeare (1564-1616) – Date parole al dolore. La sofferenza interiore che non parla, sussurra al cuore troppo gonfio fino a quando si spezza.
William Shakespeare (1564-1616) – Se la musica è l’alimento dell’amore, seguitate a suonare, datemene senza risparmio. Oh, spirito d’amore, quanto sei vivo e fresco! Così multiforme si presenta amore, da esser, lui solo, il trionfo della fantasia.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – La scuola adattiva “amica” del mercato e “straniera” alla comunità. Cultura significa paideia, cioè educazione globale, non solo in senso scolastico, ma nel senso di accrescimento  della coscienza umana che dura tutta la vita.

Scuola adattiva
Salvatore Bravo

La scuola adattiva “amica” del mercato e “straniera” alla comunità

In assenza di una chiara definizione di natura umana, il presente è inemendabile.

La scuola come luogo di comunità e di pensiero.

Il sistema attuale – “inclusivo” – insegna solo ad adattarsi.

Cultura significa paideia, cioè educazione globale, non solo in senso scolastico,
ma nel senso di accrescimento  della coscienza umana che dura tutta la vita.

Il nichilismo oggi è la realtà ontologica ed assiologica della moderna società capitalistica.

Alla superficialità della scuola adattiva con il feticismo della quantità,
bisogna opporre l’intelligenza  della scuola di qualità.

La scuola adattiva “amica” del mercato e “straniera” alla comunità, è il sintomo macroscopico dell’alienazione divenuta la normalità del sistema mercato. Costanzo Preve, professore liceale e studioso, ha conosciuto l’istituzione scolastica dall’interno e l’ha analizzata applicando la categoria della totalità. Il relativismo è espressione dei bisogni del mercato, in assenza di definizione di natura umana, il presente è inemendabile, poiché non vi sono parametri metafisici ed assiologici per valutare l’attualità. Il valore di scambio e il plusvalore sono realtà della struttura liberista, la quale non è il substrato dell’essere umano, ma è struttura ed in quanto tale ha la sua genealogia nella storia. Essa può essere trascesa, perché non è la manifestazione della sostanza dell’essere umano, ma la sua negazione, in quanto ha sviluppato in modo esponenziale la specializzazione della persona, fino ad annichilire le potenzialità soggettive e comunitarie, in nome dell’integralismo del mercato. Preve seguendo la lezione di Marx dimostra che la struttura non sta “sotto”, ma “dietro”, per cui l’emancipazione ha il suo inevitabile cominciamento con lo smascheramento ideologico:

«Ci avviciniamo alla fine della seconda parte di questo breve scritto, e possiamo ricapitolare, per comodità del lettore, i punti essenziali fino ad ora trattati. Essi sono a nostro avviso tre: in primo luogo, è stato accertato che la cosiddetta “struttura” non consiste, secondo Marx, in qualcosa che sta “sotto”, ma in qualcosa che sta “dietro”, e che pertanto l’attività soggettiva degli uomini non è qualcosa che “deriva” da una base sottostante, ma è qualcosa che deve svelare, smascherare qualcosa che “nasconde”, e che richiede pertanto l’assunzione di un atteggiamento globalmente libero nei confronti della “struttura” stessa […]».[1]

La scuola, luogo di comunità e di pensiero, dovrebbe insegnare che il mercato e le conseguenti forme di alienazione non sono fenomeni fatali o naturali, a cui ci si deve adattare seguendo il corso inevitabile ed ingovernabile degli eventi. Dovrebbe bensì insegnare che la scuola e l’intera comunità devono porsi in tensione critica e dialettica verso le forme di alienazione che si materializzano in questo contesto. Senza tale finalità non vi è comunità, ma solo sudditanza generalizzata ad un sistema che non lascia scampo. A scuola si dovrebbe imparare ad uscire dalla gabbia d’acciaio, mentre il sistema attuale – “inclusivo” – insegna ad adattarsi, a convergere su obiettivi stabiliti da poteri altri, che in forme religiose negano ogni umanesimo in nome del plusvalore. La formazione finalizzata all’uso di tecnologie ed alle competenze linguistico-mercantali orientate verso il business, non solo favorisce l’incorporazione, ma è parte di un disegno generale della società: la si vuole trasformare in porzione integrante del nuovo capitalismo assoluto. Il pedagogismo non offre mezzi, contenuti e valori atti a decostruire il sistema capitale e le sue logiche nascoste, ma incentiva – con l’uso irriflesso delle tecnologie – l’accumulo di surplus dell’informazione. Destrutturare la natura umana spingerla nel caos perenne dell’innovazione senza la mediazione del logos è il mezzo più insidioso con cui il nuovo capitalismo opera il suo trionfo e rende stabile il suo impero. Costanzo Preve era ben consapevole della metamorfosi del capitalismo e della necessità di pensare nuove categorie di pensiero per poterlo decriptare. Al pedagogismo senza fondamento veritativo e senza logos ha opposto la sua tenace resistenza metafisica.

La cultura contro il pedagogismo relativista
La prassi hegeliano-marxiana svolge la funzione di portare la speranza, del non ancora e del possibile, dove vige il regno della fine della storia. Ogni pedagogia profonda si nutre e si consolida solo se il fondamento veritativo diviene prassi per riconfigurare una vita profondamente umana. Pedagogia e filosofia formano un sinolo imprescindibile nella teoretica di Costanzo Preve, espresso negli scritti come nel vissuto, in quanto ogni grande filosofia si esprime pubblicamente mediante la coerenza tra vita e pensiero. Vi è pedagogia, formazione, dove si accresce la coscienza umana, altrimenti vi è solo barbarie travestita da modernismo. La definizione di cultura di Costanzo Preve è esplicativa del suo progetto filosofico, pedagogico e politico, i tre termini sono da considerare in senso sincretico:

«Il termine di cultura, nel significato che intendo dargli, non significa solo “alta cultura”, la cultura scritta e visiva dei grandi scrittori e dei grandi pittori, e neppure cultura in senso antropologico come insieme dell’attività lavorativa, linguistica e simbolica dell’uomo, ma significa paideia, cioè educazione globale, non solo in senso scolastico, ma nel senso di accrescimento (e di autoaccrescimento) della coscienza umana che dura tutta la vita. La cultura è dunque un termine che connota sia l’individuo, sia i gruppi ristretti, sia l’intera società». [2]

 

Scuola “senza classi”
Il capitalismo, nella sua attuale fase definita da Costanzo Preve «speculativa» (da speculum, specchio), non può che guardarsi e specchiarsi senza riconoscersi. L’accumulo crematistico è la legge a cui il capitale è sottoposto: il suo destino in questa fase è pienamente realizzato. Ogni resistenza borghese è trascesa in nome del plusvalore. L’attuale fase non si può definire borghese, in quanto la borghesia è la classe della coscienza infelice, che sente la tragedia della scissione tra particolare ed universale. La borghesia è classe dialettica, al cui interno sono stati educati intellettuali che hanno progettato il superamento delle sue contraddizioni. L’attuale fase invece oppone il capitale finanziario alla borghesia. Il capitalismo finanziario si oppone ad ogni limite, e la borghesia è stata classe della disciplina, del risparmio, del decoro fino all’ipocrisia. La borghesia di tradizione è dunque un limite all’espansione del capitalismo finanziario. L’istituzione scolastica e le accademie sono oggi espressione di una nuova visione del mondo: “la società senza classi”, ovvero il regno dell’uniformità. Le differenze sono solo “apparenze colorate”, senza concetto, funzionali all’individualismo postborghese. Il tramonto della borghesia con i suoi valori è sostituita da una “società senza classi”. Quest’ultima è la società più diseguale che mai sia apparsa nella storia, ma per realizzarsi ha la necessità di diseducare ogni individuo dai concetti e di limite e di etica. La sopravvivenza del capitalismo speculativo dipende dal consumo illimitato. Pertanto le regole, la disciplina del lavoro e dei contenuti vengono attaccati frontalmente per formare l’individuo sregolato e destrutturato. Si tratta di mettere in pratica una rivoluzione antropologica: la persona deve diventare un cliente o un consumatore perpetuo. Affinché questo possa avvenire la scuola e le famiglie devono liberarsi dal senso del limite per diventare luoghi liquidi, dove si impara la liturgia mondana del consumo:

«Una simile società deve prima di tutto distruggere la scuola come luogo di educazione e sostituirla con una scuola come semplice luogo di socializzazione subalterna e di formazione professionale. Se non si capisce questo fatto strutturale si continuerà nelle geremiadi impotenti sugli studenti che non studiano più, sulla mancanza di disciplina, sul bullismo giovanile, e su altre idiozie secondarie di questo tipo. In realtà, il pesce puzza dalla testa, e non dalla coda. E la testa è una oligarchia che non è più interessata alla trasmissione dei valori classici tardo-signorili e protoborghesi, ma è interessata unicamente alla produzione di massa per consumatori decerebrati. La guardia plebea cui è stata delegata questa mostruosa trasformazione, manco a dirlo, è stata proprio la “sinistra scolastica”, un’Armata Brancaleone demenziale di sindacalisti semianalfabeti, pedagogisti pazzi, psicologi invasivi e virago della CGIL Scuola italiana». [3]

Si tratta di un progetto di subalternità a cui nessuna classe sociale sfugge. L’addestramento al consumo, con annessa sussunzione, riduce famiglie e scuole a centri di consumo, che clonano il mercato fino da incorporarlo in modo integrale. L’anomia si rende palese nell’iperattivismo, nella “cultura” del fare, delle attività pedagogiche plurali che costringono genitori e figli a diventare consumatori dell’offerta formativa. In tal modo non solo si ottiene una educazione all’attività poietica, alla produzione ed al consumo, ma si sostiene il mercato dell’educazione, mediante la perenne produzione di certificazioni delle competenze, di cui non si scorge il progetto, e dunque passivamente si subisce l’iperattività senza concetto:

«I centri di consumo prima implodono nell’anomia a causa della insensatezza, e poi esplodono in frammenti sulla base della fine della comunicazione sensata fra le tre generazioni (giovani, adulti ed anziani). In un’epoca di rapidissima trasformazione tecnologica gli anziani non hanno più competenze da trasferire ai giovani (computers, ecc.). Diventano inutili, ed il loro patetico brontolio non riesce a vincere il clima di disattenzione in cui vivono. Mamme trafelate passano la giornata ad accompagnare rampolli e rampolle a lezione di inglese, danza, flauto dolce, ecc., ma questo non fa cultura ma solo presenzialità ansiogena. Il deserto familiare è provvisoriamente coperto da tate e badanti messicane negli USA e moldave in Europa, ma questo non fa senso e prospettiva. La famiglia borghese, che a suo tempo Hegel correttamente ed intelligentemente metteva alla base della “eticità” viene liquidata dal capitalismo stesso, e non certo dai fumatori strafatti di canne e di paglie. Il sistema scolastico si trova di conseguenza nel centro di un tifone, e cioè nella crisi più grande dal tempo in cui ne è nata la versione moderna, fra il Settecento e l’Ottocento. Non si tratta solo di alcune stupidità assolutamente congiunturali ed alla moda oggi, come l’annientamento dell’educazione classica, l’odio provinciale e regressivo per la lingua francese in favore di un inglese da portieri d’albergo, l’indebolimento della stessa matematica in favore di una semplice alfabetizzazione informatica, ecc. Queste sono disgrazie come le invasioni delle cavallette, cui si può forse resistere. Più pericolosa e decisiva, a mio avviso (e parlo da competente sulla questione scolastica) è la scelta strategica dei quiz nel sistema di esami e controlli. Il sistema dei quiz, che a mio avviso merita solo di essere fatto saltare con una resistenza ad oltranza, è concepito per distruggere la lunga consuetudine al ragionamento logico ed ancor più al dialogo su cui si basa da più di due millenni la tradizione occidentale. Dialogo significa etimologicamente in greco dia-logos, il fatto cioè che la ragione passa attraverso due interlocutori almeno, ed in questo modo si incrementa e si modifica. La fine della scuola del dialogo è la fine della scuola così come l’abbiamo conosciuta, e questo al di là di tutti i discorsi secondari sull’asse umanistico e/o sull’asse scientifico, eccetera».[4]

 

Omologazione dello Stato-mercato
L’omologazione è resa evidente dall’imposizione dell’inglese. Non vi è scelta, la lingua del mercato è l’inglese, per cui “la scelta” è conseguente. Il dialogo è possibile se il “verbum” è consapevole della sua struttura significante. L’umanesimo è stato grande per il valore assegnato alla lingua, la quale non è un mezzo, ma è pensiero; con la lingua e con le parole si significa il mondo, si ordina il proprio “io” per aprirsi all’alterità nella chiarezza dei significati. L’umanesimo è stato filologia, in quanto perseguiva la razionalità delle parole. L’antiumanesimo attuale è tutto nella decadenza della lingua ridotta a mezzo per arpionare clienti, per inventare slogan con cui parlare alle pulsioni dei clienti consumatori. La lingua vissuta in astratto, sganciata dalla letteratura e dalla filosofia, diviene semplice attività linguistica priva di dialogo finalizzato alla ricerca dialettica della verità. Si destabilizza la lingua, per depotenziare la parola, poiché l’essere umano è la sua lingua, è intessuto di essa, per cui la lingua minima è coerente all’io minimo organico al mercato globale. La sottrazione delle parole contribuisce all’omologazione, diviene un mezzo potentissimo per condizionare e determinare comportamenti. Lingua minima e io minimo implicano l’ignoranza dell’identità culturale di appartenenza. Pertanto si prepara l’individuo a vivere in un mondo globale, ad avere identità fluide, a non appartenere a nessuna lingua, a nessuna storia: si è sotto la giurisdizione del mercato. In assenza di altri significati, la possibilità di creare alternative è neutralizzata. Il dispositivo linguistico del capitale opera per livellare la lingua all’interno della gabbia d’acciaio del capitale, che si riproduce in ogni individuo.

 

Da dove iniziare
La pedagogia della resistenza per poter avanzare necessita di un inizio all’altezza della situazione. In primis vi è bisogno di chiarezza filosofica nell’attuale contesto, in cui il caos del mercato indebolisce le coscienze e la radicalità del senso critico. Il pedagogismo dev’essere riportato alla sua verità, ovvero il relativismo del capitalismo assoluto. La cultura riporta alla chiarezza dei concetti, dove vige l’irrelevanza delle definizioni. Senza tale operazione non è possibile uscire dalle tenebre del pedagogismo:

«Il nichilismo oggi è la realtà (nel senso non hegeliano del termine) ontologica ed assiologica della moderna società capitalistica, che ha eroso prima i fondamenti naturali e poi i fondamenti sociali dello stesso legame sociale borghese e proletario che l’aveva geneticamente costruita. Il nichilismo è dunque oggi una situazione di partenza, non un possibile orizzonte di scacco e di fallimento. Il superamento del nichilismo non è per chi scrive una semplice scommessa nel senso di Pascal, ma è l’esito possibile della costruzione di una scienza filosofica della libertà e della verità». [5]

L’uscita dal pedagogismo e dalla sua gabbia d’acciaio non può che passare per il travaglio del negative. Bisogna attraversare il relativismo con le sue implicazioni per la prassi pedagogica che possa emancipare dal nichilismo crematistico.

 

L’ontologia dell’essere sociale
Il nichilismo è reazionario, in quanto non ha progetto comunitario, ma ambisce solo all’immediatezza dell’utile. La storia scompare dall’orizzonte progettuale per essere sostituita dalla quantificazione del presente. Il pedagogismo offre gli strumenti per l’affermazione della cultura acefala dell’immediato, non conosce senso del limite, in quanto gli manca la tensione filosofica con i fondamenti veritativi che orientano l’agire in modo consapevole e ne circoscrivono il raggio d’azione. Il pedagogismo diviene automatismo, meccanicismo didattico che introduce ed immette nell’attività di insegnamento l’innovazione fine a se stessa, vero riempitivo compensatorio del vuoto progettuale. L’ontologia dell’essere sociale, fondamento veritativo previano, fonda la possibilità di una pedagogia democratica e comunitaria, poichè l’agire didattico risponde ad un paradigma veritativo che ne determina, con i fini, i limiti entro cui disegnare la progettualità educativa e didattica.

L’ontologia dell’essere sociale permette di superare la scissione tra pensiero ed essere. La realtà diviene razionale se pensata concettualmente, per cui il pensiero razionalizza il reale. Senza tale operazione non vi può essere prassi, ma solo un irrazionale adattamento, perchè il soggetto subisce e non comprende il reale e dunque non può mutarlo. L’essere sociale riguarda la natura umana e si sostanzia di tre elementi fondamentali: l’ente naturale generico (Gattungswesen), che lo relaziona con il genere (Gattung) in base alla “conformità al genere” (Gattungsmässigkeit). L’essere umano è un ente generico che si definisce nella storia, ma non è plastico infinitamente, poiché assume forme storiche diverse all’interno del logos che calcola i limiti e le possibilità, del linguaggio e della socialità comunitaria. La natura può prendere forma nella relazione comunitaria, l’autocoscienza è momento imprescindibile per poter soggettivizzarsi:

«Il genere stesso, inoltre, non è pura vuota potenzialità riempibile all’infinito in modo relativistico (dynamis), ma è la realizzazione in atto di questa potenzialità (energheia) in quanto la realizzazione in atto di questa potenzialità, allude ad un contenuto, il contenuto antropologico dell’uomo come animale sociale, politico e comunitario (politikòn zoon), e dell’uomo come animale dotato di ragione, linguaggio e capacità di calcolo geometrico delle proporzioni applicato alle proporzioni sociali e comunitarie (zoon logon echon)».[6]

L’inferno economico in terra ha il volto rassicurante ed inclusivo del pedagogismo con la sua falsa concretezza. La pedagogia ad orientamento e fondamento veritativo è tacciata di astrazione. In realtà, “la campagna” contro i contenuti, le discipline e l’umanesimo in nome della concretezza e dei saperi volti al solo fare, sono profondamente astratti. Il concreto[7] ha la sua verità nell’etimologia della parola in cui vi è il sincretismo tra universale e particolare. Il comunitarismo in Costanzo Preve assolve a tale compito. Non a caso Preve distingue il comunitarismo dal collettivismo: il primo vive della tensione positiva tra individuale ed universale, il secondo nega l’individuale per l’universale. L’economicismo ed il pedagogismo sono forme astratte, poichè negano la relazione tra individuale ed universale lasciando che il soggetto si disperda nel pulviscolo dell’individualismo atomistico. Ogni prassi non può che avere il suo incipit dalla condizione storica in cui si è implicati. Alla superficialità della scuola adattiva con il feticismo della quantità, bisogna opporre l’intelligenza – “intus legere” (comprendere dentro) – della scuola di qualità, nella quale l’umanesimo affina strumenti formativi per poter vivere e capire il reale storico.

 

Salvatore Bravo

***

[1] Costanzo Preve – Gianfranco La Grassa, Oltre la gabbia d’acciaio. Saggio su capitalismo e Filosofia, Vangelista, Milano 1994, p. 184.

[2] Costanzo Preve, La crisi culturaledella terza età del capitalismo, Petite Plaisance, Pistoia 2010,  p. 4.

[3] Costanzo Preve, Capitalismo senza classi e società neofeudale. Ipotesi a partire da una interpretazione originale della teoria di Marx, Petite Plaisance, Pistoia 2010, pp. 25-26.

[4] Ibidem, pp. 18-19.

[5] Massimo Bontempelli – Costanzo Preve, Nichilismo Verità Storia. Un manifesto filosofico della fine del XX secolo, Petite Plaisance , Pistoia 1997, p. 187.

[6] Costanzo Preve, Una nuova storia alternativa della filosofia. Il cammino ontologico-sociale della filosofia, Petite Plaisance, Pistoia 2013, pp. 21-22.

[7] Concreto, dal latino concretus (p. pass. di concrescĕre) .

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Ermanno Bencivenga – Grazie a mia madre per avermi messo al mondo non in un attimo o in un’ora ma attraverso una lunga consuetudine di solidarietà e collaborazione, di accoglienza e fiducia.

Ermanno Bencivenga 01

«Ciò che ho perduto non è una figura (la Madre),
ma un essere,
e non solo essere, ma una qualità (un’anima):
non già l’indispensabile, bensì l’insostituibile».

Roland Barthes
(a proposito della morte della madre Henriette Binger),
Dove lei non è, Einaudi, Torino 2010.


 

È bello questo libro per almeno due motivi. Da un lato esso disegna l’immagine di una donna e madre straordinaria, in un discorso che ha sia l’aspetto di una ricostruzione ordita con sapienza, sia quello di un racconto fatto con immediatezza. Questo tono duplice dello stile dà fascino alla lettura di questa Lettera, che infatti solleva lo spirito e lo riempie di pensieri buoni e di ammirazione per la protagonista, in quanto exemplum di sapienza e bontà, e dunque di bene. Dall’altro, esso illustra con un esempio concreto la storia dell’Italia del dopoguerra e dei sacrifici straordinari fatti dagli italiani, anche attraverso le ben note migrazioni interne, e ci ricorda che la scuola italiana fino a pochi decenni or sono è stata un motore di promozione sociale e non un parcheggio degradante.

Inoltre, questo libro contiene molti tesori di saggezza: ne citerò soltanto due. Il primo è nella frase «la morte è quel che dà senso alla vita». E nel merito mi limito a rimandare a una serie di scritti pasoliniani, raccolti in ”Empirisco eretico”, dove questa frase viene chiarita nei saggi ”Osservazioni sul piano-sequenza”, ”Essere è naturale?” e ”I segni viventi e i poeti morti”. Il secondo tesoro è contenuto nella frase «la vita si vive nel futuro». Anche mi limitito a fare  riferimento al libro di Massimo Bontempelli ”Tempo e Memoria. La filosofia del tempo tra memoria del passato, identità del presente e progetto del futuro”. Entrambi questi tesori sono a mio avviso di una profondità inattingibile ai giovani, perché solo l’esperienza insegna veramente il loro significato.

Il libro contiene un riferimento alle ragioni del degrado della scuola italiana. Anche qui un testo di Massimo Bontempelli ci è di aiuto, ed è ”L’agonia della scuola italiana”.

Fausto Di Biase

 

«Sei una creatura dell’eterno presente» dice l’autore della madre mentre ne traccia l’itinerario esistenziale, con ammirato stupore per il suo equilibrio e la sua fermezza, e con gratitudine per la sua serena generosità: per averlo messo al mondo non in un attimo o in un’ora ma attraverso una lunga consuetudine di solidarietà e collaborazione, di accoglienza e fiducia. Scoprendo infine che a quel presente, all’invariabile presenza che la madre ha dentro di lui, manca ora un futuro, e che questa è la sorgente del suo strazio: di un dolore che abbatte ogni barriera e si manifesta come assoluta intimità.

 

Ermanno Bencivenga è distinguished professor di filosofia e scienze umane all’Università di California. Logico di fama, ha dato importanti contributi alla filosofia morale, alla filosofia del linguaggio e alla storia della filosofia. In Oltre la tolleranza, Manifesto per un mondo senza lavoro e Parole che contano ha elaborato un’utopia politica. Per il grande pubblico ha pubblicato recentemente La filosofia in ottantadue favole, La stupidità del male e L’arte della guerra per cavarsela nella vita. È autore del romanzo Il giorno in cui non tornarono i conti, delle raccolte di racconti I delitti della logica, Case e Amori, delle tragedie Abramo, Annibale e Alessandro e di sette raccolte di poesie, le ultime delle quali sono Le parole della notte (Di Felice 2015) e Amore per Milla (Di Felice 2019).

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Esiodo (VIII-VII sec. a.c.) – Il dono è bello. L’uomo che dona spontaneamente – anche quello che fa un grande dono – gioisce del dono e si rallegra nell’animo suo.

Esiodo e il dono

«Invita chi ti vuol bene alla tua mensa … Non procacciarti cattivi guadagni; i cattivi guadagni sono simini alle sventure. Ama chi t’ama e frequenta chi ti frequenta. E dona a chi dona, e non dare a chi non dà. Uno è solito dare a chi dona, ma nessuno dà a chi non dona.
Il dono  è bello, la rapina è cattiva, foriera di morte; difatti l’uomo che dona spontaneamente – anche quello che fa un grande dono –, gioisce del dono e si rallegra nell’animo suo; invece chi ubbidendo alla impudenza si prende qualcosa, per quanto sia poco, a costui si raggela il cuore!».

Esiodo, Opere e giorni, vv. 342, 352-360, in Esiodo, Opere, a cura di Aristide Colonna, UTET, Torino 1983, pp. 269-271

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Aristotele (384-322 a.C.) – L’individuo moralmente retto è in accordo con se stesso, impegnandosi per il bene. La sua mente è ricca di pensieri e piacevoli sono i ricordi delle azioni compiute e buone sono le speranze di ciò che accadrà nel futuro.

Aristotele non si pente

È amico colui che vuole e compie il bene altrui, che vuole che l’amico ci sia ed esista senza altri scopi.

L’individuo moralmente retto è in accordo con se stesso, impegnandosi per il bene.

Vuole vivere e conservare sia se stesso sia, soprattutto, la parte di sé con cui pensa.

Ciascuno è, o è soprattutto, l’intelletto. E la sua mente è ricca di pensieri.

Per l’individuo moralmente retto, è un bene esistere.

Sono piacevoli i ricordi delle azioni compiute e sono buone le speranze di ciò che accadrà nel futuro.

in effetti è uno che, per così dire, non si pente mai

Nessuno sceglie di avere tutto a condizione di diventare un altro.

Gli individui viziosi sono in disaccordo con se stessi, e fuggono se stessi.
Non avendo, poi, nulla per cui essere amati, non provano nessun affetto verso se stessi.

Le persone malvagie sono divorate dal pentimento.

I rapporti di amicizia che si hanno verso il prossimo, e cioè quelli in base ai quali si definiscono le amicizie, sembrano derivare da quelli che si hanno verso se stessi. Infatti si stabilisce che è amico colui che vuole e compie il bene altrui o quello che gli sembra che sia tale per l’altro, oppure colui che vuole che l’amico ci sia ed esista senza altri scopi, come fanno le madri nei confronti dei figli, e gli amici che hanno avuto delle incomprensioni; altri, invece, ritengono che sono amici coloro che vivono insieme e hanno gli stessi gusti, oppure che è amico colui che si addolora e si rallegra insieme all’amico, ma anche questo si dà soprattutto nel caso delle madri. L’amicizia si definisce sulla base di alcune di queste caratteristiche, e inoltre ciascuna di queste è anche tipica dell’individuo virtuoso nei confronti di se stesso (o degli altri in quanto assumono caratteri simili ad esso. A quanto pare, poi, come abbiamo già detto, misura di ogni cosa sono la virtù e l’individuo moralmente retto). Infatti costui è in accordo con se stesso e aspira alle stesse cose con tutta l’anima. E quindi vuole per se stesso i beni e quelli che gli appaiono tali, e agisce di conseguenza (infatti la caratteristica dell’individuo moralmente retto è proprio quella di impegnarsi per il bene) e lo fa per se stesso (infatti lo fa per l’elemento intellettivo che è considerato essere il vero “io” di ciascuno di noi). E vuole vivere e conservare sia se stesso sia, soprattutto, la parte di sé con cui pensa; infatti, per l’individuo moralmente retto, è un bene esistere.

Ciascuno, d’altro canto, vuole il bene per sé, ma nessuno sceglie di avere tutto a condizione di diventare un altro (infatti Dio anche ora possiede il bene), ma rimanendo ciò che era prima. E si ritiene che ciascuno è, o è soprattutto, l’intelletto. Un individuo di questo tipo vuole soprattutto vivere con se stesso; infatti lo fa con piacere. In effetti sono piacevoli i ricordi delle azioni compiute e sono buone le speranze di ciò che accadrà nel futuro; tutto ciò, poi, è piacevole. E la sua mente è ricca di pensieri. Inoltre si addolora e si rallegra soprattutto in relazione a se stesso; infatti, ogni volta, è la stessa cosa che gli procura dolore e piacere, e non cose diverse di volta in volta; in effetti è uno che, per così dire, non si pente mai.

Quindi, siccome ciascuna di queste caratteristiche è tipica dell’individuo virtuoso nei confronti di se stesso, dato che si comporta con l’amico come con se stesso (infatti l’amico è un altro se stesso), l’amicizia sembra configurarsi come qualcuno dei rapporti che abbiamo indicato precedentemente, e amici sembrano coloro a cui tali rapporti si riferiscono.

Tralasciamo per il momento la questione se si può essere o meno amici di se stessi. Sembrerebbe, poi, che vi sia amicizia in quanto si danno due o più delle caratteristiche ricordate, e che l’apice dell’amicizia sia simile a quella che si ha verso se stessi. D’altra parte è chiaro che le caratteristiche descritte si trovano anche nelle persone comuni, anche se tra di esse ci sono delle persone viziose. Ma forse partecipano di quelle caratteristiche in quanto si piacciono e credono di essere delle persone corrette? Infatti gli individui che sono irrimediabilmente viziosi ed empi non <solo non> hanno affatto queste caratteristiche, ma neppure sembrano averle.

E per gli individui viziosi vale quasi lo stesso discorso; infatti sono in disaccordo con se stessi, e i loro desideri tendono ad alcune cose e la volontà ad altre, come capita agli incontinenti; infatti scelgono cose piacevoli, anche se dannose, invece di quelle che loro stessi ritengono essere buone; altri, poi, per viltà e per pigrizia, si astengono da azioni che a loro stessi sembrano ottime; mentre altri ancora, che hanno compiuto molte azioni terribili, sono odiati per la loro nefandezza, fuggono via e si tolgono la vita. E i viziosi cercano qualcuno con cui trascorrere la giornata e fuggono se stessi; infatti se stanno da soli si ricordano di molte azioni terribili e ne progettano altre dello stesso tipo, mentre se stanno con altri se ne dimenticano. Non avendo, poi, nulla per cui essere amati, non provano nessun affetto verso se stessi; individui simili, poi, non provano gioie e dolori in accordo con se stessi; infatti la loro anima vive in stato di tumulto interiore e, di essa, un parte prova dolore a causa del suo vizio e si astiene da certe azioni, mentre una parte prova piacere per questo, e una parte tira da un lato, l’altra da un altro, come se volessero farlo a pezzi. Sebbene non si possa provare contemporaneamente dolore e piacere essi, tuttavia, dopo pochissimi istanti si rattristano del fatto di aver provato piacere e vorrebbero che tali cose piacevoli non fossero capitate loro; infatti le persone malvagie sono divorate dal pentimento. Quindi è chiaro che la persona malvagia non ha alcuna disposizione amichevole verso se stessa, perché non ha niente che meriti di essere amato. Se, quindi, questo stato è tremendamente penoso, bisogna fuggire la malvagità con tutte le proprie forze e sforzarsi di essere virtuosi. Infatti solo così si possono sia avere disposizioni amichevoli verso se stessi sia essere amici degli altri.

Aristotele, Etica Nicomachea, IX, 4, 1166 a 22 – 1166 3 34. In Aristotele, Le tre etiche e il Trattato sulle virtù e sui vizi, Saggio introduttivo, traduzione, note e apparati di Arianna Fermani; Presentazione di Maurizio Migliori, Bompiani, Il Pensiero occidentale, Bompiani, Milano 2018, pp. 851-855.


Aristotele – Questa è la vita secondo intelletto: vivere secondo la parte più nobile che è in noi
Aristotele (384-322 a.C.) – La «crematistica»: la polis e la logica del profitto. Il commercio è un’arte più scaltrita per realizzare un profitto maggiore. Il denaro è l’oggetto del commercio e della crematistica. Ma il denaro è una mera convenzione, priva di valore naturale.
Aristotele (384-322 a.C.) – La mano di Aristotele: più intelligente dev’essere colui che sa opportunamente servirsi del maggior numero di strumenti; la mano costituisce non uno ma più strumenti, è uno strumento preposto ad altri strumenti.
Aristotele (384-322 a.C.) – Da ciascun seme non si forma a caso una creatura qualunque. La nascita viene dal seme.
Aristotele (384-322 a.C.) – In tutte le cose naturali si trova qualcosa di meraviglioso.
Aristotele (384-322 a.C.) – Se l’intelletto costituisce qualcosa di divino rispetto all’essere umano, anche la vita secondo l’intelletto sarà divina rispetto alla vita umana. Per quanto è possibile, ci si deve immortalare e fare di tutto per vivere secondo la parte migliore che è in noi
Aristotele (384-322 a.C.) – Se uno possiede la teoria senza l’esperienza e conosce l’universale ma non conosce il particolare che vi è contenuto, più volte sbaglierà la cura, perché ciò cui è diretta la cura è, appunto, l’individuo particolare.
Aristotele (384-322 a.C.) – Diventiamo giusti facendo ciò che è giusto. Nessuno che vuol diventare buono lo diventerà senza fare cose buone. Il fine deve essere ipotizzato come un inizio perché il fine è l’inizio del pensiero, e il completamento del pensiero è l’inizio di azione. ⇒ Una Trilogia su Aristotele: «Sistema e sistematicità in Aristotele». «Immanenza e trascendenza in Aristotele». «Teoria e prassi in Aristotele».
Aristotele (384-322 a.C.) – Le radici della ‘paideia’ sono amare, ma i frutti sono dolci. Il modello più razionale di ‘paideia’ abbisogna di tre condizioni: natura, apprendimento, esercizio.
Aristotele (384-322 a.C.) – La virtù è uno stato abituale che orienta la scelta, individua il giusto mezzo e lo sceglie. Il male ha la caratteristica dell’illimitato, mentre il bene ha la caratteristica di ciò che è limitato.
Aristotele (384-322 a.C.) – Tutti gli uomini per natura tendono al sapere. L’intelletto è quanto di più elevato si possa pensare, è il «toccare» il vero, rappresenta la realtà più divina ed eccellente che c’è in noi.
Aristotele, La mano è azione: afferra, crea, a volte si direbbe che pensi. La mano ha fatto l’uomo, è l’uomo stesso, è lo strumento degli strumenti. In verità il pensiero si impone come artigianale così come la mano.
Aristotele (384-322 a.C.) – La poesia è qualche cosa di più filosofico e di più elevato della storia. La poesia tende piuttosto a rappresentare l’universale, la storia il particolare
Aristotele (384-322 a.C.) – In qualunque campo si raggiungerebbe la migliore visione della realtà, se si guardassero le cose nel loro processo di sviluppo e fin dalla prima origine.
Aristotele (384-322 a.C.) – Il fatto di vivere è comune anche alle piante. Ciò di cui andiamo in cerca per l’uomo è qualcosa di specifico. Il bene umano risulta essere l’attività dell’anima secondo virtù in una vita umana compiuta, in atto nel senso più proprio. un solo giorno o un breve periodo di tempo non rendono beato e felice nessuno.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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