Gaston Bachelard (1884-1962) – Come abitiamo il nostro spazio vitale, come mettiamo radici, giorno per giorno, in un “angolo del mondo”? La casa è il nostro angolo del mondo, il nostro primo universo. Ogni spazio veramente abitato reca l’essenza della nozione di casa.

Gaston Bachelard. la casa

Quand les cimes de notre ciel se rejoindront
Ma maison aura un toit.

Paul Eluard, Dignes de vivre, 1941.

«[…] è necessario dire come abitiamo il nostro spazio vitale in accordo con tutte le dialettiche della vita, come mettiamo radici, giorno per giorno, in un “angolo del mondo”. […] La casa è il nostro angolo del mondo […] il nostro primo universo. […] ogni spazio veramente abitato reca l’essenza della nozione di casa» (pp. 32-33).

«Ogni grande immagine semplice è rivelatrice di uno stato d’animo, La casa, ancor più del paesaggio, è “uno stato d’animo”, anche riprodotta nel suo aspetto esteriore, essa rivela una intimità» (p. 95).

 Gaston Bachelard, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari, 1975.


Gaston Bachelard (1884-1962) – L’immaginazione è la facoltà di formare immagini che superano la realtà, che cantano la realtà, testimonianza del processo di scoperta da parte dell’animo del proprio mondo, il mondo in cui vorrebbe vivere, il mondo in cui è degno di vivere.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Ivan Illich (1926-2002) – Come filosofi rivendichiamo il dovere di occuparci del suolo. Ciò era dato per scontato da parte di Platone, Aristotele e Galeno, oggi non non lo è più e proponiamo di organizzare forme di resistenza nei confronti di quegli esperti di ecologia che promuovono il disinteresse per la tradizione storica e la virtù terrestre dell’autolimitazione.

Ivan Illich 004

Dichiarazione sul suolo

di Ivan Illich, Lee Hoinacki, Sigmar Groeneveld
traduzione di Antonio Airoldi (da: www.lostraniero.net)


Questo appello è stato presentato il 6 dicembre 1990, in occasione del meeting organizzato a Oldenburg in onore di Robert Rodale, pioniere del movimento per l’agricoltura biologica negli Usa. Il testo originale è reperibile sul sito del Pudel Circle di Brema (www.pudel.uni-bremen.de).

Il discorso ecologico sul pianeta terra, la fame globale, le minacce alla vita ci sollecitano, come filosofi, a volgere umilmente lo sguardo al suolo. Noi poggiamo i piedi sul suolo, non sul pianeta. Proveniamo dal suolo e al suolo consegnamo i nostri escrementi e le nostre spoglie. Eppure il suolo – la sua coltivazione e il nostro legame con esso – è significativamente trascurato dall’indagine filosofica della nostra tradizione occidentale.

Come filosofi, ci dedichiamo a ciò che sta sotto i nostri piedi perché la nostra generazione ha perso il suo radicamento al suolo e alla virtù. Per virtù intendiamo la forma, l’ordine e la direzione dell’azione plasmata dalla tradizione, delimitata dal luogo e qualificata dalle scelte effettuate entro l’ambito abituale di esperienza di ciascuno; intendiamo quella pratica reciprocamente riconosciuta come il bene in una cultura locale condivisa che rinforza la memoria di un luogo.

Noi constatiamo che la virtù così intesa è tradizionalmente associata al lavoro faticoso, all’abilità artigianale, all’arte di abitare e di soffrire, attività sostenute non da astrazioni quali il pianeta terra, l’ambiente o il sistema energetico, ma dai suoli particolari che esse hanno arricchito con le loro tracce. Ma nonostante questo legame fondamentale tra il suolo e l’essere umano, tra il suolo e il bene, la filosofia non ha messo a punto i concetti che ci permetterebbero di porre in relazione la virtù con il suolo comune, qualcosa di radicalmente differente dal controllo pianificato del comportamento su un pianeta condiviso.

I nostri legami col suolo – le relazioni che limitavano l’azione rendendo possibile la virtù pratica – sono stati recisi allorché il processo di modernizzazione ci ha isolati dalla semplice sporcizia, dalla fatica, dalla carne, dal suolo e dalle tombe. La sfera economica dentro cui, volenti o nolenti, talvolta a caro prezzo, siamo stati assorbiti, ha trasformato le persone in unità intercambiabili di popolazione, governate dalle leggi della scarsità.

Gli usi civici e l’arte di abitare sono a mala pena immaginabili da chi è schiavo dei servizi pubblici e alloggia in garage ammobiliati. In questo contesto il pane è stato ridotto a mero genere alimentare, se non a calorie o a fibre. Dopo che il suolo è stato avvelenato e cementificato, parlare di amicizia, religione e sofferenza partecipata come stile della convivialità appare come una fantasia accademica a persone disseminate in modo del tutto casuale tra veicoli, uffici, prigioni e hotel.

Come filosofi, rivendichiamo il dovere di occuparci del suolo. Ciò era dato per scontato da parte di Platone, Aristotele e Galeno, oggi non lo è più. Il suolo su cui la cultura può crescere e il grano essere coltivato svanisce alla nostra vista allorché viene definito nei termini di sottosistema complesso, settore, risorsa, problema o “impresa agricola”, come per lo più accade nelle scienze agrarie.

Come filosofi, proponiamo di organizzare forme di resistenza nei confronti di quegli esperti di ecologia che predicano il rispetto della scienza ma promuovono il disinteresse per la tradizione storica, le attitudini locali e la virtù terrestre dell’autolimitazione.

Con tristezza, ma senza nostalgia, riconosciamo che il passato è passato. Sia pur con esitazione, cerchiamo allora di condividere ciò che vediamo: alcune conseguenze derivanti dal fatto che la terra ha perduto il suo suolo. Di fronte all’indifferenza per il suolo mostrata dagli ecologisti dei consigli di amministrazione proviamo fastidio, ma siamo altrettanto critici nei confronti di quei numerosi romantici, luddisti e mistici benintenzionati che esaltano il suolo facendone la matrice della vita anziché della virtù. Lanciamo perciò un appello a favore della filosofia del suolo: un’analisi chiara e disciplinata di quella esperienza e memoria del suolo senza le quali non vi può essere né la virtù, né alcuna nuova forma di sussistenza.


Ivan Illich (1926-2002) – Lo studio porti il lettore alla sapienza e non ad accumulare conoscenze al solo scopo di farne sfoggio. Il lettore è uno che si è volontariamente esiliato per concentrare tutta la propria attenzione e il proprio desiderio sulla sapienza.
Ivan Illich (1926-2002) – Eutrapelìa. Due sono le chiavi di questa virtù: il sorriso e la misura. L’austerità non significa isolamento o chiusura in se stessi. L’austerità fa parte di una virtù più fragile, che la supera e la include, ed è la gioia, l’eutrapelìa, l’amicizia.
Ivan Illich (1926-2002) – Lessico unidirezionale: «inclusione» contro «emancipazione». Un tempo il crescere non era un processo economico. Oggi gli stessi genitori sono diventati insegnanti ausiliari responsabili degli input di capitale umano, per usare il gergo degli economisti, grazie ai quali i loro rampolli otterranno la qualifica di “homo oeconomicus”.
Ivan Illich (1926-2002) – Elogio della bicicletta. La democrazia partecipativa richiede una tecnologia a basso consumo energetico, e gli uomini liberi possono percorrere la strada che conduce a relazioni sociali produttive solo alla velocità di una bicicletta.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Mircea Eliade (1907-1986) – Costruire una casa, una dimora, è una decisione vitale per l’intera comunità quanto per l’individuo, poiché si tratta di assumere la creazione del mondo che si è scelto di abitare. Si tratta insomma di creare il proprio mondo e di assumersi la responsabilità di mantenerlo e di rinnovarlo.

Mircea Eliade - Il sacro e il profano

Per Mircea Eliade costruire una casa, una dimora, è una decisione vitale per l’intera comunità quanto per l’individuo, poiché si tratta «di assumere la creazione del mondo che si è scelto di abitare». La casa costituisce una imago mundi, un’immagine del mondo. «Nella stessa struttura della casa si registra il simbolismo cosmico». Ancora oggi «insediarsi da qualche parte, costruire un villaggio o semplicemente una casa rappresenta una decisione di peso poiché l’esistenza stessa dell’uomo ne è coinvolta: si tratta insomma di creare il proprio mondo e di assumersi la responsabilità di mantenerlo e di rinnovarlo. Non si cambia casa a cuor leggero, perché non è facile abbandonare il proprio “mondo”». Eliade nota in maniera molto interessante che «ogni dimora si situa presso l’axis mundi». La molteplicità o addirittura l’infinità dei Centri del Mondo non crea «alcuna difficoltà» in tali società: non si tratta in verità del centro di uno spazio geometrico, ma del centro di uno spazio esistenziale.

Mircea Eliade, Le sacré et le profane, Gallimard, Paris 2001, pp. 50-55.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Ne parlava anche Paul Lafargue. Cronofagia, ovvero predazione del tempo. Per porsi domande e cercare risposte necessitiamo di tempo. Sottrarre tempo alla logica del capitale è già una forma di resistenza.

Paul Lafargue - Le droit à la paresse
Paul Lafargue, Le droit a la paresse, 1883, prima edizione originale

Salvatore Bravo

Cronofagia, ovvero predazione del tempo.

Per porsi domande e cercare risposte necessitiamo di tempo.
Sottrarre tempo alla logica del capitale è già una forma di resistenza.

1Francisco Goya, Saturno che divora i suoi figli (Saturno devorando a su hijo), 1821.

Iperattivismo di regime
Il capitalismo assoluto si caratterizza per una serie di attributi che riflettono la verità della sua sostanza. Comprendere il capitalismo assoluto nella sua attuale fase è possibile mediante un’attenta osservazione delle pratiche che ha introdotto. La velocizzazione è uno degli attributi del capitalismo attuale. L’inno alla velocizzazione è corale, i canti alla divinità del capitale sono perpetui, per cui ogni suo desiderio nel clero mediatico trova la sua conferma. Si inneggia senza problematizzare le conseguenze della cronofagia, ovvero della predazione del tempo. Ci si limita ad un coro sempre affermativo, sempre servile. Lo slogan attuale è la velocizzazione nella forma digitale e dei trasporti. Informazioni e merci devono scorrere senza limiti. Il feticismo della velocizzazione implica l’adeguamento degli esseri umani ai ritmi delle potenze della velocità. Non solo servitù: si richiede di diventare simile al padrone, alla macchina che detta i tempi, per cui ogni segmento temporale vissuto nell’ottica della categoria della qualità è giudicato una pericolosa trasgressione; la condanna sociale si fa stringente, il disprezzo è pubblico. Il famoso detto nietzscheano “Pubbliche opinioni, pigrizie private” è la nuova formula a cui i popoli devono abbeverarsi. Con la velocizzazione si è chiamati a svolgere sempre più attività, a raggiungere nuovi risultati in tempi sempre più brevi: in tal modo si sottrae tempo per ogni attività politica e pensante, per cui l’attività è solo di ordine strumentale. Alla capacità di effettuare innumerevoli attività corrisponde la pigrizia del pensiero; non v’è tempo per pensare il telos (fine) dell’attività: si è parte di un automatismo che divora con la velocità il concetto. Si derealizza la vita e si conserva lo stato presente. Affinché il reale possa essere pensato – e dunque razionalizzato – necessita del tempo del pensiero. Ma la propaganda inneggiante all’attivismo scoraggia ogni scelta legata al pensiero rappresentandola come inutile ed improduttiva. All’attivismo bisogna contrapporre l’ozio, la pigrizia positiva capace di rimappare i significati, di decodificare il presente. Paul Lafargue (Santiago 1842 – Draveil 1911), genero di Marx, in un’intelligente breve testo, Inno alla pigrizia, scorge nell’attivismo industriale che si profila già nell’Ottocento una nuova patologia sociale che mette in catena i sudditi del sistema: classe operaia e classi medie si piegano alla logica dell’iperattività non comprendendone il valore ideologico ed asservente:

«Una strana follia si è impossessata delle classi operaie delle nazioni in cui domina sovrana la civiltà capitalista. Questa follia trascina con sé quella miseria individuale e sociale che da due secoli tortura la triste umanità. Questa follia è l’amore per il lavoro, la moribonda passione per il lavoro, spinta fino all’esaurimento delle forze vitali dell’individuo e della sua progenie. Invece di reagire contro questa aberrazione mentale i preti, gli economisti e i moralisti hanno reso sacro e santo il lavoro: uomini ciechi e limitati hanno voluto essere più bravi del loro Dio, uomini deboli e spregevoli hanno voluto riabilitare ciò che il loro Dio aveva maledetto. Io, che non mi professo né cristiano, né economista o moralista, contro il loro giudizio, mi appello a quello del loro Dio, mi appello alle spaventose conseguenze del lavoro nella società capitalista contro le prediche della loro morale religiosa, economica e del libero pensiero. Nella società capitalista il lavoro è la causa di ogni degenerazione intellettuale, di ogni deformazione organica».[1]

Tanto più l’attivismo ghermisce la vittima, tanto più aumenta la miseria dell’operaio. Non solo miseria materiale, ma specialmente miseria morale. Il tempo accelerato del lavoro è causa di alienazione: ci si atomizza dal mondo per diventare semplici esecutori di operazioni il cui fine è incomprensibile.

 

Mediocrità programmata
Se il mondo greco ha conosciuto la grandezza del pensiero, se la cultura greca si è eternizzata ciò è accaduto in quanto l’ozio, quale tempo liberato dal lavoro, e dedicato al logos è stato il fondamento di un’intera civiltà. L’ozio favorito dalla schiavitù in assenza delle tecnologia, non è stato per i Greci semplice astensione oziosa e festaiola dal lavoro, ma simposio del pensiero, processo di umanizzazione e conoscenza. La pratica filosofica e del logos consentiva di vivere con l’essenziale senza rinunciare alla qualità di vita. La pornocrazia industriale, invece, non conosce che la quantità, per cui accumula, aumentando le miserie dell’abbondanza oltre ogni pensabilità:

«Anche i Greci del periodo classico non provavano che disprezzo per il lavoro: solo agli schiavi era permesso lavorare, l’uomo libero non conosceva che gli esercizi fisici e i giochi di intelligenza. Era il tempo in cui un manipolo di prodi sgominava a Maratona le orde provenienti dall’Asia che Alessandro avrebbe presto conquistato. I filosofi dell’antichità insegnavano a disprezzare il lavoro, degradazione dell’uomo libero; i poeti cantavano la pigrizia, dono degli Dei: Oh Meliboee, Deus nobis hæc otia fecit».[2]

Si alleva una nuova umanità organica al potere e mediocre nei desideri mediante l’intensificazione lavorativa. La mediocrità è rassicurante, non aspira che a se stessa, non concepisce che vi siano alternative e giudica il presente come intrascendibile, resta nell’immanenza della certezza sensibile.

 

Tempo correzionario
Allungare il tempo del lavoro e del consumo è la nuova formula correzionaria del capitalismo. Il lavoro sempre più tecnologico e cinetico consente una produzione sempre più elevata, per cui il produttore deve diventare il consumatore coatto delle eccedenze. È l’allevamento in serie del nuovo lavoratore-consumatore, similmente agli allevamenti in batteria degli animali da consumo:

«Dodici ore di lavoro al giorno: ecco l’ideale dei filantropi e dei moralisti del XVIII secolo. Ma siamo riusciti a superare questo nec plus ultra! Le fabbriche moderne sono diventate case di correzione ideali dove vengono incarcerate la masse operaie, vengono condannati ai lavori forzati per dodici e quattordici ore non solo gli uomini ma anche le donne e i bambini! E dire che i figli degli eroi del Terrore si sono lasciati corrompere dalla religione del lavoro a tal punto da accettare dopo il 1848, come una conquista rivoluzionaria, la legge che limitava a dodici le ore di lavoro nelle fabbriche; essi proclamavano il diritto al Lavoro come un principio rivoluzionario. Proletariato francese, vergogna! Solo degli schiavi sarebbero stati capaci di una tale bassezza. Ci vorrebbero vent’anni di civiltà capitalista a un greco del tempo eroico per concepire un tale abbruttimento».[3]

Miseria da lavoro
Il lavoro senza limiti osannato produce miseria collettiva. La qualità della vita decade, l’accumulo di tensione diventa aggressività, la distanza spaziale e temporale dagli affetti disintegra le micro e le macro comunità. L’accumulo di lavori in taluni diventa disoccupazione per altri, i lavoratori presi dalla gabbia della competizione sono l’uno contro l’altro nello stesso luogo di lavoro come a distanze chilometriche. La solitudine del lavoratore globale affonda le sue ragioni in un attivismo che mal distribuisce impegni lavorativi come i salari. Tanto più ciò, oggi, è scandaloso, se si considera che l’automazione può sostituire in molte mansioni i lavoratori e che la iperproduzione sta alimentando dinamiche distruttive ed irreversibili a livello ambientale ed umano. Non si ha tempo per pensare, per organizzare la resistenza individuale e di classe, in quanto il paradigma dell’attivismo batte come un martello esiziale nei pensieri di ciascuno: non più esseri umani, ma consumatori e produttori. Lo spirito (Geist) della storia non governa il mondo, al suo posto vi è un immenso ingranaggio cronofago che divora con le vite il tempo del pensiero e della politica:

«Lavorate, lavorate proletari, per aumentare il patrimonio sociale e la vostra miseria individuale; lavorate, lavorate affinché, diventando più poveri, abbiate più motivi di lavorare e di essere miserabili. È questa l’inesorabile legge della produzione capitalista. Poiché, dando ascolto ai fallaci discorsi degli economisti, i proletari si sono consegnati anima e corpo al vizio del lavoro, essi fanno precipitare la società intera in quelle crisi industriali da sovrapproduzione che sconvolgono l’organismo sociale. Allora, poiché vi è sovrabbondanza di merci e penuria di acquirenti, le fabbriche chiudono e la fame flagella il popolo lavoratore con il suo frustino dalle mille corregge. I proletari, abbrutiti dal dogma del lavoro, non capiscono che il superlavoro che si sono inflitti nel periodo di presunta prosperità è la causa della loro miseria attuale; non dovrebbero correre verso i granai gridando: “Abbiamo fame e vogliamo mangiare!… È vero, non abbiamo un soldo ma, benché pezzenti, noi abbiamo mietuto il grano, noi abbiamo vendemmiato l’uva…”. Altro che assediare i magazzini di Bonnet, a Jujurieux, inventore dei conventi industriali, gridando: “Signor Bonnet, ecco le sue operaie ovaliste, torcitrici, filatrici, tessitrici. Tremano di freddo sotto le loro vesti di cotone leggero così rattoppate da far piangere un ebreo; tuttavia sono state loro a filare e tessere gli abiti di seta delle cortigiane di tutta la cristianità».[4]

Cosa resterà della nostra “civiltà”? È una domanda che dovremmo cominciare a porci nei luoghi del lavoro e nei luoghi di formazione, ma per farsi delle domande e cercare risposte necessitiamo di tempo. Rubare tempo al capitale è già una forma di resistenza a cui non ci si può sottrarre.

Salvatore Bravo

[1] Paul Lafargue, Inno alla pigrizia, Aristos, Trieste 2013, pp. 13-14.

[2] Ibidem, pp. 15-16

“Oh Meliboee, Deus nobis hæc otia fecit” ; trad.: Un dio ci ha donato questi ozi (Virgilio, Egloghe, 1, 6).

[3] Paul Lafargue, Inno alla pigrizia, op. cit., pp. 19-20.

[4] Ibidem, pag. 26.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Le metamorfosi dell’ «Apprendista stregone». Dall’antica letteratura egizia a Luciano di Samostata, da J.W. Goethe a K. Marx e G. Anders, da P. Dukas a G. Faletti e A. Branduardi, da Topolino a N. Cage.

Le metamorfosi dell'apprendista stregone
Ascolta la musica
Paul Dukas, L’apprendista stregone, direttore  Arturo Toscanini e la NBC Symphony orchestra

Eucrate, l’apprendista stregone è un personaggio dei racconti della letteratura antica egizia.
Si tratta di una delle più antiche versioni della storia nota presso tante civiltà, dell’apprendista che riesce ad impossessarsi di un rito magico che però non è in grado di controllare.

Cfr. Favole e racconti dell’Egitto faraonico, a cura di Aldo Troisi, ed. Fabbri Editori, Milano, 2001 pa. 35-38.


L’«apprendista stregone» di Luciano di Samostata (120 -192)

Φιλοψευδής (Philopseudḗs , ovvero “l’amante del falso”) di Luciano di Samosata
Luciano di Samostata

“Ἐπειδὴ δὲ ἔλθοιμεν εἴς τι καταγώγιον, λαβὼν ἂν ὁ ἀνὴρ ἢ τὸν μοχλὸν τῆς θύρας ἢ τὸ κόρηθρον ἢ καὶ τὸ ὕπερον περιβαλὼν ἱματίοις ἐπειπών τινα ἐπῳδὴν ἐποίει βαδίζειν, τοῖς ἄλλοις ἅπασιν ἄνθρωπον εἶναι δοκοῦντα. Τὸ δὲ ἀπιὸν ὕδωρ τε ἐμπίπλη καὶ ὠψώνει καὶ ἐσκεύαζεν καὶ πάντα δεξιῶς ὑπηρέτει καὶ διηκονεῖτο ἡμῖν· εἶτα ἐπειδὴ ἅλις ἔχοι τῆς διακονίας, αὖθις κόρηθρον τὸ κόρηθρον ἢ ὕπερον τὸ ὕπερον ἄλλην ἐπῳδὴν ἐπειπὼν ἐποίει ἄν. Τοῦτο ἐγὼ πάνυ ἐσπουδακὼς οὐκ εἶχον ὅπως ἐκμάθοιμι παρ’ αὐτοῦ· ἐβάσκαινε γάρ, καίτοι πρὸς τὰ ἄλλα προχειρότατος ὤν. Μιᾷ δέ ποτε ἡμέρᾳ λαθὼν ἐπήκουσα τῆς ἐπῳδῆς, ἦν δὲ τρισύλλαβος σχεδόν, ἐν σκοτεινῷ ὑποστάς. Καὶ ὁ μὲν ᾤχετο εἰς τὴν ἀγορὰν ἐντειλάμενος τῷ ὑπέρῳ ἃ ἔδει ποιεῖν. Ἐγὼ δὲ εἰς τὴν ὑστεραίαν ἐκείνου τι κατὰ τὴν ἀγορὰν πραγματευομένου λαβὼν τὸ ὕπερον σχηματίσας ὁμοίως, ἐπειπὼν τὰς συλλαβάς, ἐκέλευσα ὑδροφορεῖν. Ἐπεὶ δὲ ἐμπλησάμενον τὸν ἀμφορέα ἐκόμισε, ‘Πέπαυσο,’ ἔφην, ‘καὶ μηκέτι ὑδροφόρει, ἀλλ’ ἴσθι αὖθις ὕπερον·’ Τὸ δὲ οὐκέτι μοι πείθεσθαι ἤθελεν, ἀλλ’ ὑδροφόρει ἀεί, ἄχρι δὴ ἐνέπλησεν ἡμῖν ὕδατος τὴν οἰκίαν ἐπαντλοῦν. Ἐγὼ δὲ ἀμηχανῶν τῷ πράγματι – ἐδεδίειν γὰρ μὴ ὁ Παγκράτης ἐπανελθὼν ἀγανακτήσῃ, ὅπερ καὶ ἐγένετο – ἀξίνην λαβὼν διακόπτω τὸ ὕπερον εἰς δύο μέρη· τὰ δέ, ἑκάτερον τὸ μέρος, ἀμφορέας λαβόντα ὑδροφόρει καὶ ἀνθ’ ἑνὸς δύο μοι ἐγεγένηντο οἱ διάκονοι. Ἐν τούτῳ καὶ ὁ Παγκράτης ἐφίσταται καὶ συνεὶς τὸ γενόμενον ἐκεῖνα μὲν αὖθις ἐποίησε ξύλα, ὥσπερ ἦν πρὸ τῆς ἐπῳδῆς, αὐτὸς δὲ ἀπολιπών με λαθὼν οὐκ οἶδ’ ὅποι ἀφανὴς ᾤχετο ἀπιών.”

Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini, Firenze, Felice Le Monnier, vol. 3, pagg. 74-75.

«Quando giungevamo in un albergo ei prendeva la sbarra della porta, o una granata, o un pestello, lo ravvolgeva in un mantello, vi diceva certe parole, e lo faceva camminare sì che a tutti pareva un uomo: e quello andava ad attingere l’acqua, ci preparava il cotto, ci rassettava le masserizie, ci faceva tutti i fatti di casa, come un ottimo servitore. Quando non c’era più bisogno di servigi, tosto egli con altre parole tornava granata la granata, e pestello il pestello. Io avevo una grande curiosità, e non sapeva come fare per imparar questo segreto, il solo che egli mi celasse, essendo facilissimo in tutt’altro. Un dì appiattatomi in un luogo scuro, udii l’incantesimo che era una parola di tre sillabe. Egli commesse al pestello ciò che si doveva fare, e uscì in piazza. Il dimani mentre egli per sue faccende stava fuori, io prendo il pestello, lo rivesto, gli dico le tre sillabe, e gli comando di portare acqua. Poiché ne portò e ne riempì le anfore: ‘Basta, dissi, non portarne più, e torna subito pestello’. Ma niente, non mi voleva più ubbidire, e portava acqua, e ne versava, e allagava la casa. Io non sapendo che farmi e temendo che se tornasse Pancrate non si sdegnerebbe meco per questo fatto, prendo un’accetta, e spacco il pestello in due pezzi: ma ciascun pezzo prende un’anfora e porta acqua: onde invece d’uno diventarono due servitori. In questa giunge Pancrate, che capita la faccenda, li tornò legni, come erano prima dell’incantesimo: e poi senza ch’io me ne avvedessi di botto mi piantò».

Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini, Felice Le Monnier, vol. 3, Firenze 1861, pp. 74-75.


Ed ecco il commento (tratto da Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini, Volume Primo, Firenze, 1861, Introduzione):

«Il titolo del Filopseude è la prima piacevolezza di questo dialogo piacevolissimo, nel quale Luciano deride coloro che facendo professione di sapienti, non erano vaghi della sapienza, ma della bugia, non filosofi, ma filopseudi; e andavano perduti dietro la medicina empirica, gl’incantesimi, la ciarlataneria, ed ogni specie di superstizioni religiose.
Essendo venuta meno quella forza d’intelletto che cercò la verità nel mondo della ragione e vi fece sì grandi conquiste, si cercava la verità nel mondo della natura e nel mondo dell’immaginazione. Onde questo dialogo, quantunque sia una satira dei filosofi del tempo, pure tratta di argomento religioso, e per dire più corretto, della superstizione religiosa. La quale non è dipinta in persone del volgo, ma in uomini di una certa intelligenza e conoscenza, cosicchè più spiccato è il contrasto che produce il ridicolo.Ecco adunque in casa di un filosofo, uomo assai riputato e dabbene, che giace in letto ammalato, una conversazione di filosofi di varie sètte, i quali ragionano di malattie risanate con rimedi strani e ridicoli, con parole ed incantesimi. In mezzo a questo mazzo di sapienti capita un uomo di buon senso che ride di tali sciocchezze, e quelli, come suole questa gente, dicono che egli non crede negli Dei. Or uno, or un altro raccontano di maghi ed incantatori che camminavano per l’aria e sull’acqua e sul fuoco, e risuscitavano morti, e facevano uscir dell’inferno le ombre, e scendere la luna dal cielo, e liberavano indemoniati: poi della virtù d’un anello; e dei prodigi che fa una statua che ogni notte scende del piedistallo, e va per la casa, e risana ogni specie di malattie.
Non sono impostori che vogliono ingannare, ma uomini ignoranti e fanatici, che credono pienamente alle loro fantasie, ed affermano di aver veduto con gli occhi loro quei prodigi che narrano, e che sono stati veduti da altri che essi allegano a testimoni. Specialmente il filosofo padron di casa racconta come in una selva ei vide la terribile figura di Ecate, e chiama in testimone un servo; e narra innanzi a due figliuoli giovanetti, come la madre loro e sua moglie già morta gli apparve una volta, e gli ragionò. Il medico presente a questo racconto dice, che anch’egli ha una statuetta d’Ippocrate, che la notte gli va camminando per la casa; e che egli conosce un uomo il quale morì e dopo venti giorni resuscitò. Il più leggiadro di questi racconti è quello dell’Egiziano, che sapeva fare d’un palo o d’un pestello un servitore che andava in piazza, spendeva, portava acqua, faceva il cotto, e tutte le faccende di casa: favola che il Goethe in una delle sue poesie ha saputo anche più illeggiadrire, e mettervi dentro un sentimento più vero.
Insomma costoro che insegnavano sapienza ai giovani, ed erano fiori di senno e di dottrina, raccontano le più matte fole di fantasmi, di anime, di miracoli, con la maggior fede e serietà. Quell’uomo di senno che sta ad ascoltare, li rimbecca e li punge con frizzi e motti; ma infine non potendo più, e parendogli scortesia contraddire più oltre, e motteggiare, vassene, lasciandoli liberamente scialare delle loro corbellerie. Il dialogo è fatto con arte assai fina; i racconti sono schietti ed efficaci per modo che ti pare di essere in mezzo a quei vecchi, e udirli parlare, e vedere le cose che raccontano. Quanto è vero il guizzare del giovanetto, quando il padre, parlando della mamma già morta, gli mette una mano su la spalla! Io crederei quasi che Luciano fosse stato presente a simili discorsi in casa di qualcuno: tanto al naturale ei ritrae le persone ed i discorsi, e con quella sobrietà e snellezza che è tutta greca, e tutta sua.

L’«apprendista stregone» di Johann Wolfgang von Goethe (1749 -1832)

ispirato a

Φιλοψευδής (Philopseudḗs , ovvero “l’amante del falso”) di Luciano di Samosata

Illustrazione di Ferdinand Barth dall’edizione di Der Zauberlehrling di Goethe del 1882 [Prima ed. originale del 1797]
J.W. Goethe, L’apprendista stregone, Donzelli, 2017

J. W. Goethe, Tutte le poesie, vol. I, tomo I, Mondadori, 1989

J. W. Goethe, L’Apprendista stregone: in J. W. Goethe, Tutte le poesie, vol. I, tomo I, Mondadori, 1989, pp. 273-279.

L’Apprendista stregone [prima esecuzione: 1897],
nel poema sinfonico di
Paul Dukas (1865-1935)

Ispirato dall’aopera letteraria di J.W. Goethe, esattamente un secolo dopo la pubblicazione della ballata goethiana.


Ascolta la musica
Paul Dukas, L’apprendista stregone, direttore  Arturo Toscanini e la NBC Symphony orchestra.
Paul Dukas, L’apprendista stregone, direttore  Arturo Toscanini e la NBC Symphony orchestra.
L’apprendista stregone, episodio del film Fantasia (1940)
con protagonista Topolino,
è a sua volta ispirato alla ballata di Goethe con l’accompagnamento della musica di Dukas.
Giorgio Faletti (1950-2014).
L’apprendista stregone è anche una canzone scritta da Giorgio Faletti

e interpretata da Angelo Branduardi nell’album Camminando camminando

.Angelo Branduardi.
Ascolta la musica
Giorgio Faletti, L’apprendista stregone, canta Angelo Branduardi.
Il film fantastico L’Apprendista Stregone,
di Jon Turteltaub del 2010 (con Nicolas Cage),
riprende vagamente l’episodio di Fantasia.
György Ligeti, Der Zauberlehrling,
titolo del decimo Étude pour Piano -secondo libro 1988-94),
dedicato a Pierre-Laurent Aimard.
Ascolta la musica
György Ligeti, Der Zauberlehrling, L’apprendista stregone,
Ching-Yun Hu plays Ligeti Etude No. 10
Aldo Carotenuto (1933-2005).
Lettera Aperta a un Apprendista Stregone (Bompiani, Milano 1998)
è un libro scritto nel 1998 da Aldo Carotenuto.

«La moderna società borghese, che ha evocato come per incanto così colossali mezzi di produzione e di scambio, rassomiglia allo stregone che si trovi impotente a dominare le potenze sotterranee che lui stesso abbia evocate».

K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista.

Guenther-Anders-rauchend
Günther Anders (1902-1992)
G. Anders, La metamorfosi dell’Apprendista stregone [testo del 1966 ],
in Id., L’uomo è antiquato. La terza rivoluzione industriale,
Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 369-382.

Si possono leggere e stampare le pagine del testo cliccando qui sotto:

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Gustav Mahler (1860-1911) – Lo spirito può affermarsi solo attraverso il mezzo di una forma chiara. La tradizione è la custodia del fuoco, non l’adorazione della cenere.

Gustav Mahler 02
Gustav Mahler-Richard Strauss, Carteggio 1888-1911, SE, 2012
«La tradizione è la custodia del fuoco, non l’adorazione della cenere».
«Lo spirito può affermarsi solo attraverso il mezzo di una forma chiara».
Gustav Mahler

Caro collega. Lettere a compositori, direttori d’orchestra, intendenti teatrali, il Saggiatore, 2017
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Marina Caffiero – Profetesse a giudizio. Donne, religione e potere in età moderna. Dove emergono spazi e dimensioni del ruolo femminile autonomo e autorevole.

Marina Caffiero
Marina Caffiero, Profetesse a giudizio. Donne, religione e potere in età moderna, Morcelliana, Brescia 2020

«La storia delle donne e di genere ha mostrato come il problema del potere, che resta centrale nella riflessione storiografica generale tutt’ora più attenta alla dimensione politica che a quella sociale e culturale, non possa ridursi quanto alle donne al solo rapporto asimmetrico fra i sessi, fatto di dominio o oppressione. In tal modo si ignorano interdipendenze, condizionamenti reciproci, complementarità tali da far emergere spazi e dimensioni del ruolo autonomo e perfino autorevole femminile».

Marina Caffiero, Profetesse a giudizio. Donne, religione e potere in età moderna, Introduzione, Morcelliana, Brescia 2020

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Ivan Illich (1926-2002) – Elogio della bicicletta. La democrazia partecipativa richiede una tecnologia a basso consumo energetico, e gli uomini liberi possono percorrere la strada che conduce a relazioni sociali produttive solo alla velocità di una bicicletta.

Ivan Illich - Elogio della bicicletta

El socialismo puede llegar solo en bicicleta

José Antonio Viera-Gallo
sottosegretario alla Giustizia nel governo di Salvador Allende


«Una politica di bassi consumi di energia permette un’ampia scelta di stili di vita e di culture. Se invece una società opta per un elevato consumo di energia, le sue relazioni sociali non potranno che essere determinate dalla tecnocrazia e saranno degradanti comunque vengano etichettate, capitaliste o socialiste» (p. 8).

«La democrazia partecipativa postula una tecnologia a basso livello energetico; e solo la democrazia partecipativa crea le condizioni per una tecnologia razionale» (p. 10).

«La democrazia partecipativa richiede una tecnologia a basso consumo energetico, e gli uomini liberi possono percorrere la strada che conduce a relazioni sociali produttive solo alla velocità di una bicicletta» (p. 20).

«La liberazione dal monopolio radicale dell’industria del trasporto è possibile solo istituendo un processo politico che demistifichi e detronizzi la velocità» (p. 69).

Ivan Illich, Elogio della bicicletta, a cura di Franco la Cecla, Bollati Boringhieri, Torino 2006.


Descrizione

Una apologia della bicicletta: della sua bellezza e saggezza, della sua alternativa energetica alla crescente carenza di energia e al soffocante inquinamento. Illich nota che la bicicletta e il veicolo a motore sono stati inventati dalla stessa generazione. Ma sono i simboli di due opposti modi di usare il progresso moderno. La bicicletta permette a ognuno di controllare la propria energia metabolica (il trasporto di ogni grammo del proprio corpo su un chilometro percorso in dieci minuti costa all’uomo 0,75 calorie). Il veicolo a motore entra invece in concorrenza con tale energia.


Ivan Illich (1926-2002) – Lo studio porti il lettore alla sapienza e non ad accumulare conoscenze al solo scopo di farne sfoggio. Il lettore è uno che si è volontariamente esiliato per concentrare tutta la propria attenzione e il proprio desiderio sulla sapienza.
Ivan Illich (1926-2002) – Eutrapelìa. Due sono le chiavi di questa virtù: il sorriso e la misura. L’austerità non significa isolamento o chiusura in se stessi. L’austerità fa parte di una virtù più fragile, che la supera e la include, ed è la gioia, l’eutrapelìa, l’amicizia.
Ivan Illich (1926-2002) – Lessico unidirezionale: «inclusione» contro «emancipazione». Un tempo il crescere non era un processo economico. Oggi gli stessi genitori sono diventati insegnanti ausiliari responsabili degli input di capitale umano, per usare il gergo degli economisti, grazie ai quali i loro rampolli otterranno la qualifica di “homo oeconomicus”.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Tucidide (460-399 a.c.) – Così presso molti la ricerca della verità viene trascurata, e a tal punto i più si volgono di preferenza verso ciò che è più a portata di mano

Tucidide 01

«Oὕτως ἀταλαίπωρος τοῖς πολλοῖς ἡ ζήτησις τῆς ἀληθείας,
καὶ ἐπὶ τὰ ἑτοῖμα μᾶλλον τρέπονται».

«Così presso molti la ricerca della verità viene trascurata,
e a tal punto i più si volgono di preferenza verso ciò che è più a portata di mano»».

Tucidide, Storie, I 20, 3

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Il disprezzo come modalità di governo. Il disprezzo è la vera cifra dell’esperienza «covid 19». il sintomo di una malattia carsica e profonda che attende la cura del pensiero e della prassi.

Coronavirus- covid 19

Salvatore Bravo

Il disprezzo come modalità di governo

Il disprezzo è la vera cifra dell’esperienza covid 19: il popolo è oggetto di una pedagogia regressiva e reazionaria, di un esperimento paternalistico ed ideologico. Si susseguono gli appelli a restare in casa in ogni foggia e maniera. Si cerca di raggiungere le diverse fasce di età utilizzando immagini, slogan, pubblicità di diverso genere, funzionali alle fasce di età. In genere per convincere a restare in casa si utilizzano “i volti preoccupati” dei vip di circostanza, i quali descrivono le loro giornate al tempo del covid 19, anche loro costretti, come tutti, a restare in casa, a rinunciare agli splendori quotidiani per una sana cattività.
La volgarità del disprezzo non ha pudicizia. Si cerca di convincere la popolazione che tutti siamo eguali ed uniti in un unico destino. Si occultano le differenze, si rimuove la solitudine dei tanti che sono lasciati soli e sono impediti nelle attività quotidiane. La violenza del potere si concretizza in una falsa immagine della popolazione. Nei servizi televisivi sulle vite dei vip viene abilmente occultato che la loro condizione è diseguale rispetto alla media della popolazione. La vita vera, perché esiste la verità del quotidiano, si materializza nella difficoltà nel reperire il necessario per la sopravvivenza. Le lunghe file per la spesa per anziani e disabili sono l’incubo quotidiano, a cui si unisce la solitudine delle vuote ore casalinghe. Dopo l’attesa e le file si deve subire la televisione di Stato e non, che magnifica il sacrificio dei cittadini mostrando che non ci sono privilegiati, ma che anche i ricchi piangono, anche i famosi sono chiamati a rinunciare alla loro vita di consumo per essere parte del sacrificio nazionale. Nei servizi televisivi appaiono nello splendore abbacinante del trucco di scena e colgono l’occasione per una nuova esposizione mediatica, si garantiscono un’ulteriore visibilità mediatica.
Le vite delle persone normali con le loro ansie non appare, scompare tra le fumisterie dei trucchi, delle luci dell’ideologia del privilegio camuffato per condivisione nazionale. I famosi si appellano al senso civico, invitano alla pazienza, a leggere libri ed al senso della famiglia. Le loro vite sono la negazione dei valori a cui si appellano, ma si tratta solo di un altro copione con cui recitare un altro ruolo. Il nichilismo è per sua natura liquido, si può recitare ogni ruolo, perché nessuno è vero. Offende ed umilia la popolazione la farsa quotidiana e l’assenza dei veri protagonisti di questa tragedia nazionale.

Multe
Le trasgressioni devono essere sanzionate, se mettono in pericolo le vite degli altri, ma se in una condizione di tracollo economico, con il lavoro nero da sempre tollerato e sostenuto, si multano i trasgressori fino a tremila euro, ci si deve chiedere: multe di tale entità possono essere pagate dal precario che lavora in nero e deve uscire di casa per sopravvivere? Gli stipendi medi non raggiungono i mille euro; è lecito, è giusto, multare con tremila euro una persona costretta, in molti casi, a trasgredire?
Ancora una volta la distanza tra governati e governanti è abissale. Alla retorica della bandiera, delle canzonette sul balcone, al retorico “andrà tutto bene” bisogna opporre la crudezza del vero. La pandemia sta mostrando le verità di un sistema sclerotizzato in contraddizioni che non trovano voce. La “sinistra” di governo tace, ma è parte della scena mediatica che ci vuole ubbidienti e senza pensiero. Si sta consumando l’ennesima “farsa dolorosa” con le complicità di sistema, il quale avvezzo da decenni alla sottomissione delle masse, mette in pratica il disprezzo come forma di governo. È un’arma da non sottovalutare: il disprezzo entra nella psiche, nelle relazioni, forma alla servitù. Nel trattare l’altro da servo imbecille, si porta l’latro al convincimento di esserlo e in questo modo lo si persuade di non meritare altro che disprezzo, i suoi diritti non sono che capricci: il covid 19 è un terribile esperimento sociale, in cui il disprezzo per le masse è la nuova formula alchemica dei dominatori. Talvolta il potere batte i pugni per difendere la popolazione dai dinieghi dei plutocrati di Bruxelles, è la parodia della paternalismo borbonico. Il popolo bambino-suddito deve “percepire” che vi è il Super io che lo protegge, ma non gli consente di essere libero e padrone di sé: deve imparare la dipendenza.

Linguaggio
Il linguaggio del potere verso i sudditi è sempre prescrittivo: “State a casa!”, “Lavatevi le mani!” “Uscite uno alla volta!”. Ai bambini si danno ordini in modo ripetuto, perché possono disobbedire. I bambini non hanno autocoscienza, pertanto devono essere controllati con le parole che mentre ordinano, per il loro bene, terrorizzano con la sanzione e nello stesso tempo con immagini che servono ad impaurire ed inibiscono il pensiero. Le immagini che a ciclo continuo ci subissano, non aiutano a capire, ma servono a tener buona la popolazione. Capire il motivo dell’anomalia del numero dei morti non è consentito, implicherebbe il potere che si mette a nudo con le sue responsabilità dalla gestione dell’epidemia ai tagli sociali. Se non si comprendono le ragioni, se non sono oggetto di pubblica discussione, il potere si assicura che il dopo sarà eguale al prima. È in atto una manovra di conservazione e di investimento sul futuro del potere.
Nella melassa degli appelli e della propaganda ci sono anche gli angeli e gli eroi: il personale medico. Ma quest’ultimo non è costituito da eroi ed eroine, ma da vittime. Sulla loro carne viva si consumano decenni di tagli alla sanità, di numero chiuso alle università. Lavorano più di quanto dovrebbero e le loro vite sono in costante pericolo. Designarli come eroi è un modo per aggirare il problema della sanità pubblica e delle politiche di pareggio dei conti. Nella confusione non mancano i pretoriani del potere che donano centinaia di milioni di euro alla sanità: i finanzieri globali si possono permettere gesti di generosità con i quali essere, ancora, nella luce della ribalta. Sono giudicati come benefattori del popolo tanto nessuno si chiede da dove provenga tanta ricchezza. Colgono un’ottima occasione per farsi pubblicità e cancellare il sospetto che siano parte sostanziale del problema e non la soluzione.

Religione come oppio dei poveri
Le messe ed i crocifissi che vengono esposti per fermare la pandemia sono un ottimo espediente per tenere buona la popolazione, perché crede che tutto ciò che accade è dovuto a cause trascendenti. Dopo decenni di disprezzo verso la religione la si scongela per rabbonire le masse. Il senso religioso non è questo, ma vive nella vita quotidiana del libero atto di fede che non si lascia strumentalizzare, ma vive la scelta di essere altro nel mondo rispetto ai canoni convenzionali. Il credente difende la fede dall’uso che il potere ne vuole fare all’occorrenza: la religione di circostanza è l’oppio che si dà a taluni per calmierare la rabbia e le domande. Lo spazio che viene concesso alla religione è parte del disprezzo generalizzato verso un popolo che dev’essere eternamente bambino.

Eroi della didattica mediatica
I tempi grami vogliono una pluralità di eroi e di eroine. La didattica mediatica ha i suoi protagonisti in docenti che vengono invitati ad usare le piattaforme per videolezioni. Nessuno spiega ai docenti i rischi delle videolezioni, i pericoli della rete e specialmente che la propria immagine e la propria voce possono essere manipolate ed oggetto di ogni genere di uso. Si invita, si blandisce all’uso non consapevole. Non è una forma di disprezzo l’invito all’uso senza la consapevolezza? Ci si appella alla relazione empatica dopo che la scuola è stata ridotta ad azienda nella quale i fini educativi sono solo forma, mentre la tecnica è tutto. Si esige che siano i docenti a rassicurare i discenti, rivelando che le famiglie ed il loro senso comunitario è stato estinto dall’individualismo di sistema. La scuola nella quale si è imparato a competere a livello orizzontale e verticale, ora, dev’essere empatica… I docenti sono niente come gli alunni, per cui ad essi si può chiedere tutto.

Tempi moderni
Al bambino la verità va detta gradualmente: si deve abituare alla sottrazione delle sue libertà poco alla volta. La verità non la si dice intera, ma data la costitutiva fragilità del bambino si scelgono i tempi con cui dirgli a cosa va incontro. Si verifica la reazione ai primi provvedimenti. Se è positiva, si procede oltre. Il disprezzo è tutto qui, il popolo è un suddito che va governato dosando i provvedimenti, osservando le reazioni per poi decidere che si può chiedere ed esigere ancor di più. Il fine non è svelato, la verità è solo del potere. Il bambino deve solo imparare ad obbedire e se non lo fa si minaccia di controllare la tracciabilità dello smartphone. Si rafforza tale modalità ripetendo che è momentanea e che è per il suo bene, perché il popolo è naturalmente incapace di capire cosa è il bene ed il male: c’è il potere che gli insegna cosa deve docilmente fare e come deve vivere.

Nichilismo passivo
È in scena il nichilismo. Il nichilismo non è una teoria, ma una pratica di vita circolare ed invasiva che deve addestrare, le menti come i corpi, alla sudditanza. Perché gli uomini e le donne sono niente, sono entità manipolabili, sono argilla pronta a prendere la forma voluta dal potentato di turno. Nichilismo circolare, perché è il sistema dal basso verso l’alto, dall’alto verso il basso, ad esserne coinvolto. Il covid 19 sta rilevando, ancora una volta, la struttura nichilistica dell’Occidente nella forma della finanza. Nichilismo passivo, poiché la microfisica del potere esige la passività dei sudditi e gli stessi governanti sono i sudditi dei paradigmi culturali che mettono in pratica. Ora che la verità appare tra le sue tragiche fessure, sta agli uomini ed alle donne di buona volontà e di verità non farsi sfuggire un’occasione storica per un nuovo inizio. Il nichilismo non è la fine della storia, ma il sintomo di una malattia carsica e profonda che attende la cura del pensiero e della prassi.

Salvatore Bravo

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