Glen Gould (1932-82) – L’arte non diventerà un’ancella del processo scientifico, e sarà capace di esprimere come l’impulso estetico sia privo di età, cioè libero dalle obbedienze che i tempi gli dettano.

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L'ala del turbine intelligente

L’ala del turbine intelligente

«L’arte non diventerà un’ancella del processo scientifico. Prenderà in prestito i suoi mezzi tecnici ma resterà indipendente dai suoi fini. Quel tipo di comunicazione che è l’arte rimarrà come sempre indefinibile. Tenterà ancora di parlare delle cose, di fornire immagini che nessuna misurazione scientifica può verificare. Ma la suprema ironia è forse che, prendendo a prestito dal mondo scientifico ciò di cui ha bisogno, lungi dal confermare le concezioni accumulatorie dell’informazione scientifica, l’arte sarà capace di esprimere come l’impulso estetico sia privo di età; cioè libero dalle obbedienze che i tempi gli dettano, libero dall’obbedienza che abbiamo permesso alla storia di dettarci».

Glenn Gould, scritt9 fra il 15)60 e il 1964, è stato pubblicato per la prima volta in francese
in G. Gou/d, « Ecrits», a cura di Bruno Monsaingeon, voI. II. «Contrepoint à la ligne», Fayard, Paris 1985, pp. 287-300. L’originale inglese, «Forgery and Imitation in the Creative
Process», è stato pubblicato, su iniziativa di Jean-Jacques Nattiez, in «Glenn Gou/d», II (195)6), n. I , pp . 4-9.

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No, non sono un eccentrico

 

 


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Tommaso Labranca (1962-2016) – Andy Warhol era un coatto. Decise di fare più soldi possibile con i suoi quadri coatti, la cui ispirazione nasceva nei supermercati. Andy come coatto era comunque un numero uno, una specie di capo banda. Ed incontrò Ronald Trump.

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Andy Warhol era un coatto

«Andy Wharol mi sta molto simpatico. Cerco di leggere tutto ciò che lo riguarda con la stessa passione con cui cerco di evitare ogni esposizione di sue opere.
Un tempo non era così: nel 1989, per esempio, andare a visitare la mostra Le cento opere di Andy Warhol fu per me d’obbligo come un pellegrinaggio al Divino Amore. Ma nonostante l’equivalenza nella devozione al Palazzo della Permanente di Milano il miracolo non si verificò. Cento opere: pensavo di dover camminare per ore attraverso sale e sale. Mi ero anche portato i panini avvolti nella stagnola. E invece la mostra era concentrata in un unico stanzone tutto diaccio e umido. Fu in quell’occasione che iniziai a detestare le mostre su Wahrol. Mi aggiravo per la sala e mi sentivo inappagato. Anche appoggiando il naso contro il vetro che proteggeva una Marilyn non provavo alcuna impressione. Sfiorai fugacemente e di nascosto dai custodi la superficie serigrafata di un Mao. Ancora nulla. Lo stesso brividozero che provo appoggiandomi, in metropolitana, a un manifesto della Philips
sapendo di poterlo ritrovare identico in tutte le stazioni, da Molino Dorino a Sesto F.S. Rifeci un’altra volta il giro dell’esposizione, tanto per dare un senso alle 5.000 del biglietto, e mi resi conto di una cosa: quasi rovinato dagli anni di scuola e da certi atteggiamenti accademici, tra quei quadri colorati simili alle pubblicità di tinte per capelli nei coiffeurs pour dames, io cercavo l’Artista aulico e non la sua vera essenza Insomma, volevo trovare i quadri e convincermi a ogni costo che quelle non erano pubblicità di tinte per capelli da coiffeurs pour dames. Per fortuna mi salvai in tempo. Lanciai una rapida maledizione all’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano che aveva rinchiuso la forza pop in un ambiente asettico e prestigioso e capii che in Warolh (ma dove va l’h?), al di là di tutte le pose, cuore e corpo coincidevano. Mi resi soprattutto conto di quanto, dentro e fuori, Wharol fosse meravigliosamente coatto (sostituire le ultime sei lettere con maranzo se si è a Lodi, tamarro se si è a Milano e dasai se si è a Tokio).
Il suo cognome per noi due volte esotico (il ceco Warhola americanizzato in Warhol) non nascondeva che una consistenza spirituale da apprendista edile bergamasco. Checché ne dicano i non-revisionisti, Andy non era figlio di Duchamp. Hwarol era fratello di Eros Ramazzotti, del quale condivideva, per fortuna, l’atteggiamento antiintellettualistico.
La Weltanschauung di Warolh era la stessa dei seguaci del primo Jovanotti, riconducibile alla formula lavoro-paga-discoteca-sesso.
Certo il lavoro di AW oggi è esposto nei musei, la paga era scritta con una $ seguita da numeri a molti zeri, la discoteca era l’esclusivo Studio 54 dei tempi d’oro e cambiava specularmente l’oggetto del sesso. Ma la filosofia di base era quella.
Come doveva godere il nostro artista pop quando si patinava (diceva proprio così) e arrivava in qualche posto con la limousine presa in affitto, in compagnia di Debbie Harris o di Grace Jones! Esattamente come gode il coatto celebrato dagli 883 in Sei un mito che, cosparso di deodorante musk acquistato alla Coop, arriva con i tappetini nuovi e l’arbre magique nella Golf, al fianco di una commessa ben zinnuta e con le calze a rete.
Insomma Andrea era un provincialotto, tale e quale il suo concittadino Vudi Alen e i giornalisti dei quotidiani di NY, per i quali il resto del mondo deve essere fantascienza. Ripensandoci, forse Andy era ancora meno di un coatto. Per esempio, viveva in una zona ben determinata dell’urbanistica newvorchese dalla quale usciva poco volentieri. Aveva notizie frammentarie di ciò che avveniva all’estero. Almeno i coatti nostrani d’estate vanno in Grecia o a Ibiza. Uorol parlava solo l’inglese, e anche piuttosto male. Un coatto, al confronto, è quasi un poliglotta: oltre all’italiano e al dialetto locale conosce l’inglese quanto basta per dire Dis is de ritm of de nait e per affrontare disinvoltamente anche le canzoni straniere nei locali karaoke.
Allo stesso modo dei coatti, però, Warhol non aveva prospettiva storica, non sapeva con precisione cos’era avvenuto prima di lui. Così, non potendo ispirarsi a un passato storico, si ispirò a un passato di verdura, quello della Campbell’s. Ne derivò un’ingente fornitura di zuppe in scatola, un successo mondiale e numerosi tentativi di imitazione. D’altronde, se date in mano una matita a un coatto credete che vi sforni una Madonna con Bambino? No. Disegnerà un’auto, un personaggio televisivo, una scatola di dadi.
Andy partiva dallo stesso livello, ma grazie alla sua profonda conoscenza dell’imbecillità dei critici, decise di fare più soldi possibile con i suoi quadri coatti, la cui ispirazione nasceva nei supermercati e dalla stampa. Ce la fece benissimo perché era un grande. Perché Andy come coatto era comunque un numero uno, una specie di capo banda, quello con l’auto più veloce e il car stereo più potente. Quello che tutti cercano di imitare. Negli ultimi anni di vita, ci fanno sapere i suoi Diari, Warol (tolgo l’h e non ci penso più) era angustiato dall’AIDS. Proprio come i coatti che vanno in giro col condom nel portafogli. Ma, invece di diventare sieropositivo, Andy divenne Xeroxpositivo, ossia oggetto di infinite imitazioni. Peccato che tutti questi emulatori trascurino il suo aspetto più vero e amabile, quello borgataro. Anzi, insieme a chi gli dedica le mostre, i cataloghi e le analisi storico-artistiche, quegli emulativo falliti fanno di tutto per creargli (e crearsi) un ingiustificato alone di aulicità e internazionalità, intellettualismo e raffinatezza. Una volta ho visto persino una Campbell’s Soup Can usata come illustrazione di copertina per un libro di saggi di Roland Barthes…».

Tommaso Labranca, Andy Warhol era u  coatto. Vivere e capire il trach, Castelvecchi, 2005.

 

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Tommaso Labranca,
Andy Warhol era u coatto. Vivere e capire il trach

 

Quarta di copertina
Il trash, o cultura di serie B, o spazzatura, è un fenomeno dalle molte facce, e non sempre è possibile circoscriverlo: sono trash le ragazzine che imitano Madonna, i presentatori delle Tv locali che si rifanno a Pippo Baudo, ma anche il Tg4 quando emula i notiziari in diretta della Cnn. Cos’è che li accomuna? È, in sintesi, il fallimento nell’imitazione di un modello «alto», quale che esso sia. Il trash è un’erba che attecchisce ovunque, e nessuno di noi può dirsene immune: qualunque cosa facciamo o diciamo, ci sarà sempre chi è «più a Nord di noi», pronto a deriderci. Che fare, dunque? Abbandoniamo il pregiudizio estetico, la boria accademica, l’illusione della purezza: come ci ha insegnato il genio «meravigliosamente coatto» di Andy Warhol, nel supermarket della cultura di massa possiamo sopravvivere solo se, non badando alle marche, alle firme o ai prezzi, compriamo liberamente ciò che ci piace.

 

 

La firma di Warhol sul dollaro.

La firma di Warhol sul dollaro.

«Fare soldi è un arte, lavorare è un arte.

Un buon affare è il massimo di tutte le arti»

 

                                                                      Andy Warhol

 

Andy Warhol e Donald Trump

Andy Warhol e Donald Trump.

Two dollars (Declaration of independence) Cartamoneta da 2 dollari 4 pezzi Firmata da Warhol

4 pezzi da 2 dollari 4 con firma di Warhol.

The Art History of Donald Trump, From Disappointing Christie’s to Becoming Warhol’s Bête Noire

 

Rappresentazione di Warhol della Trump Tower

Rappresentazione di Warhol della Trump Tower.

 

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«Fare soldi è un arte, lavorare è un arte.

Un buon affare è il massimo di tutte le arti»

                                                                      Andy Warhol

 


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Peter Sloterdijk – L’arte come baluardo di messa in crisi dell’attuale in favore di un possibile ancora non realizzato.

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Peter Sloterdijk, L’impeartivo estetico. Scritti sull’arte, Raffaello Cortina, 2017.

 

L’estetica di Sloterdijk non è semplicemente una filosofia dell’arte, ma anzitutto un modo eminente di fare filosofia. Al centro della riflessione che attraversa i saggi qui raccolti è la questione dell’aisthesis – la sensazione o sensibilità – nella sua più ampia declinazione. Da un lato si attribuisce all’arte “in senso stretto” uno spazio eccentrico rispetto alla norma, dall’altro si fa valere un modo alternativo di guardare all’esperienza estetica, riconoscendole un ruolo guida nelle scelte consapevoli e nelle condotte inconsapevoli dell’essere umano. Così concepita, l’estetica possiede un profondo potere euristico: ci aiuta a capire che tipo di mondo ci siamo costruiti, come ci “sentiamo” in questo mondo e in che modo potremmo cambiarlo, cominciando da noi stessi.
Con lo stile incisivo e la profondità analitica che gli sono propri, Sloterdijk affronta un ampio spettro di questioni tradizionalmente assegnate alla dimensione estetica – dall’architettura alla musica, dal design alla pittura, dalla forma della città alla letteratura – inquadrandole nella sua originale e innovativa antropologia filosofica.



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Mirella Bentivoglio – Il cuore della consumatrice ubbidiente

Mirella Bentivoglio

 

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M. Bentivoglio, Il cuore della consumatrice ubbidiente, 1975.

 

 

 

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Dalla parola al simbolo

Dalla parola al simbolo


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Luciano Fabro (1936-2007) – Lo sguardo intelligente, acuto, misura ogni punto con rispettosa cura, […] perché sa che, nel processo del suo lavoro, tutto ciò che gli sfugge renderà fragile il suo modo di procedere. Dunque chi pensa al come fare, prima deve guardare, e deve imparare a guardare.

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Arte tporna arte

Arte torna arte

«Il primo momento di azione è lo sguardo.[…] Lo sguardo del come fare è uno sguardo preciso: su qualsiasi cosa si posi, è come  se quella cosa fosse definitiva, quindi la penetra; non è uno sguardo eccitato, ma quasi solido: dovunque si punti, sia esso un oggetto banale o prezioso, questo sguardo lo tratta con la medesima cura, […] sta già compiendo un’operazione attiva sulle cose […] sta attento a non farsi sfuggire nulla. Naturalmente ci sono pause nel come fare: i momenti di riflessione, i momenti di attesa e di pazienza, però lo sguardo è sempre attento […]. È quello che noi consideriamo lo sguardo intelligente, acuto, perché misura ogni punto con rispettosa cura, […] perché sa che, nel processo del suo lavoro, tutto ciò che gli  sfugge renderà fragile il suo modo di procedere. Dunque chi pensa al come fare, prima deve guardare, e deve imparare a guardare».

Luciano Fabro, Arte torna arte. Lezioni e conferenze 1981-1997, Einaudi, 1999, p. 4.

 

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Luciano Fabro 1983 – Accademia di Brera


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GALLERIA DELL’ACCADEMIA – INCONTRO CON LUCIANO FABRO


Luciano Fabro – Araba Fenice


Luciano Fabro. Palacio de Velazquez. Museo Nacional Reina Sofía (2014-2015)


Luciano Fabro: L’arte nasce dal reale


Luciano Fabro: L’arte fuori dal tempio


Luciano Fabro: Gli spazi ‘semplificati’ dell’arte


Luciano Fabro: Forme per il David


Luciano Fabro. Disegno In-Opera


Luciano Fabro. Entrevista con João Fernandes


Luciano Fabro – Italia all’asta


Luciano Fabro: 100 Disegni (26. Januar – 14. April 2013)


 


Silvia Fabro, Direttrice Archivio Luciano e Carla Fabro, Milano



 

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Luciano Fabro (1936-2007) est l’un des protagonistes majeurs de l’Arte povera, qui regroupe, à la fin des années 1960, un cercle de créateurs italiens parmi les plus novateurs de l’époque. Si l’artiste participe à l’ensemble des manifestations du groupe, il n’en mène pas moins une démarche personnelle, singulière, souvent déroutante. Il a ainsi incarné l’autonomie à sa manière tout au long de son parcours d’artiste et d’enseignant. Il a su maintenir une approche critique et une attitude analytique l’amenant à questionner l’autonomie de l’artiste, de l’oeuvre et de leur rapport à la cité. Par une importante production de textes théoriques, il a défendu l’idée que le domaine spécifique de l’art est ce lieu où la liberté est un dilettantisme engagé et l’œuvre le résultat d’une position d’auteur. A la lumière précise de son oeuvre et de son travail théorique, critiques, historiens de l’art, artistes et commissaires sont réunis ici pour réfléchir ensemble à la question de l’autonomie et à la portée de l’oeuvre de Luciano Fabro aujourd’hui. Existe-t-il une histoire, ou encore une forme de l’autonomie ? Edité par l’Ecole nationale des beaux-arts de Lyon.

Fabroniopera. Luciano Fabro. Catalogo della mostra (Pistoia, Palazzo Fabroni arti visive contemporanee, 17 dicembre 1994-11 febbraio 1995)

Fabroniopera. Luciano Fabro. Catalogo della mostra (Pistoia, Palazzo Fabroni arti visive contemporanee, 17 dicembre 1994-11 febbraio 1995)


Luciano Fabro by Frances Morris

Luciano Fabro by Frances Morris


Luciano Fabro, A fogli intercambiabili9, 1965

Luciano Fabro, A fogli intercambiabili9, 1965


 

Luciano Fabro, Lavori, 1963-1986

Luciano Fabro, Lavori, 1963-1986


Luciano Fabro. Disegno in-opera

Luciano Fabro. Disegno in-opera


Luciano Fabro. Fernando Melani. Scultura a due voci

Luciano Fabro. Fernando Melani. Scultura a due voci


Luciano Fabro. Maestro torna Maestro. Atti delle giornate di studio (Milano, 3-4 febbraio 2010)

Luciano Fabro. Maestro torna Maestro. Atti delle giornate di studio (Milano, 3-4 febbraio 2010)


Viaggi nella parola. Intervista a Luciano Fabro

Viaggi nella parola. Intervista a Luciano Fabro


Lucianoi Fabro, Attaccapanni

Lucianoi Fabro, Attaccapanni

 



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Johann Joachim Winckelmann (1717-1768) – Se vi sembra inconcepibile che si possa mostrare la forza del pensiero in un’altra parte del corpo, che non sia la testa, imparate qui come la mano d’un artista creatore abbia il potere di spiritualizzare la materia.

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Torso arcaico di Apollo

Non conoscemmo il suo capo inaudito,
e le iridi che vi maturavano. Ma il torso
tuttavia arde come un candelabro
dove il suo sguardo, solo indietro volto,

resta e splende. Altrimenti non potrebbe abbagliarti
la curva del suo petto e lungo il volgere
lieve dei lombi scorrere un sorriso
fino a quel centro dove l’uomo genera.

E questa pietra sfigurata e tozza
vedresti sotto il diafano architrave delle spalle,
e non scintillerebbe come pelle di belva,

e non eromperebbe da ogni orlo come un astro:
perché là non c’è punto che non veda
te, la tua vita. Tu devi mutarla.

Rainer Maria Rilke

 

 

Il bello nell'arte

Il bello nell’arte

 

 

Torso di Mileto

«Ti conduco davanti al tanto celebre e mai abbastanza lodato Torso d’Ercole, davanti a un’opera che, nel suo genere, tocca il culmine delle perfezione e deve annoverarsi tra le maggiori creazioni artistiche giunte fino ai tempi nostri. Ma come potrò descriverlo, se gli mancano le parti più belle e più importanti che la natura ha date all’uomo! Come d’una meravigliosa quercia abbattuta e spogliata dei rami e delle fronde non rimane che il nudo tronco, così, deturpata e mutilata si vede l’immagine dell’eroe: gli mancano la testa, le braccia, le gambe e la parte superiore del petto. Al primo sguardo forse non scorgerai altro che un sasso informe: ma se hai la forza di penetrare nei segreti dell’arte, osservando quest’opera con occhio tranquillo, vi scorgerai un prodigio: Ercole ti apparirà allora come circondato da tutte le sue imprese, ed in quella pietra vedrai insieme l’eroe e il dio […]. Se vi sembra inconcepibile che si possa mostrare la forza del pensiero in un’altra parte del corpo, che non sia la testa, imparate qui come la mano d’un artista creatore abbia il potere di spiritualizzare la materia. Mi pare di veder sorgere dal dorso, curvo in profonda riflessione, una testa che con letizia ricorda le sue prodigiose gesta. E mentre una simile testa, piena di maestà e di sapienza, appare al mio sguardo, anche le altre membra mancanti incominciano a formarsi nel mio pensiero».

Johann Joachim Winckelmann, Il bello nell’arte, Torino, Einaudi 1973, pp. 75-78).

Quarta di copertina
Pochi studiosi hanno inciso sul pensiero e sulla cultura artistica del proprio tempo come Johann Joachim Winckelmann; ma il suo lascito va ben oltre il Settecento, se è vero che da allora e anche oggi lo si riconosce come fondatore dell'archeologia classica e della storia dell'arte. Proprio l'unanimità di questo riconoscimento ha portato spesso a guardare alla sua opera come a una sorta di monumento, ingessandone il contenuto in rigide formule, oppure identificandola completamente con l'esperienza neoclassica. In realtà i Pensieri del 1755 e i brevi scritti degli anni successivi, come poi le opere della maturità - la Storia dell'arte nell'antichità e i Monumenti antichi inediti - mostrano continuamente la ricchezza e la vivacità del suo pensiero, l'acutezza delle osservazioni sull'arte degli antichi e su quella dei moderni, la capacità di proporre ampie visioni storiche, ma anche di decifrare il minimo dettaglio. Nel frattempo la modernità viene come posta di fronte al mondo classico e costretta a confrontarsi con quello, da una parte sul piano dell'arte, dall'altra secondo la prospettiva della vita culturale, dei comportamenti, delle strutture politiche. L'antologia di scritti, apparsa da Einaudi già nel 1943, viene ora riproposta con testi recuperati nella loro integrità, una nuova scelta di passi, una bibliografia aggiornata e un apparato di note di commento.

 

 

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Museo del Louvre


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Sigmund Freud (1856-1939) – Il valore della caducità è un valore di rarità nel tempo. La limitazione della possibilità di godimento aumenta il suo pregio. Se un fiore fiorisce una sola notte, non per ciò la sua fioritura ci appare meno splendida.

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Opere, Vol VIII

Opere, Vol VIII

Caducità

«Non molto tempo fa, in compagnia di un amico silenzioso e di un poeta già famoso nonostante la sua giovane età, feci una passeggiata in una contrada estiva in piena fioritura. Il poeta ammirava la bellezza della natura intorno a noi ma non ne traeva gioia. Lo turbava il pensiero che tutta quella bellezza era destinata a perire, che col sopraggiungere dell’inverno sarebbe scomparsa: come del resto ogni bellezza umana, come tutto ciò che di bello e nobile gli uomini hanno creato o potranno creare. Tutto ciò che egli avrebbe altrimenti amato e ammirato gli sembrava svilito dalla caducità cui era destinato. […] Il valore della caducità è un valore di rarità nel tempo. La limitazione della possibilità di godimento aumenta il suo pregio. […] Se un fiore fiorisce una sola notte, non per ciò la sua fioritura ci appare meno splendida. …».[L’intera pagina nel PDF allegato]

Sigmund Freud, Caducità, in Opere, a cura di C. L. Musatti, Boringhieri, 1982, vol. VIII, p. 174.

 

Sigmund Freud, Caducità

 

Saggi sull'arte, la letteratura e il linguaggio

Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio

 


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Giorgio Morandi (1890-1964) – Ritrovare il significato delle cose per ricominciare a guardare le cose. Quello che importa è toccare il fondo, l’essenza delle cose.

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La città di Morandi

La città di Morandi

***

«Esprimere ciò che è nella natura, cioè nel mondo visibile, è la cosa che maggiormente mi interessa. […] Ciò che noi vediamo, credo sia creazione, invenzione dell’artista, qualora egli sia capace di far cadere quei diaframmi, cioè quelle immagini convenzionali che si frappongono tra lui e le cose. […] Ritrovare le ragioni per riguardare le cose da un punto di vista formale, ritrovare il significato delle cose per ricominciare a guardare le cose. […] Quello che importa è toccare il fondo, l’essenza delle cose».

Giorgio Morandi, intervista per The Voice of America, 25 aprile 1957, cit. in R. Renzi, La città di Morandi, Cappelli, Bologna 1989, pp. 113-114.

***

Giorgio Morandi, Autoritratto, 1925

Giorgio Morandi, Autoritratto, 1925

 

 

Fiori

Fiori

 

Natura morta, 1941

Natura morta, 1941


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Claudio Parmiggiani – Occorre proteggere, salvare tutto ciò che resta, tutto ciò che resiste del mondo spirituale. La memoria non significa passato, ma pensiero. Nessuna opera regge se dentro di sé non ha tutto il pathos e tutta la sofferenza dell’autore.

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«Come non mai oggi occorre proteggere,
salvare tutto ciò che resta,
tutto ciò che resiste del mondo spirituale.
Nell'infanzia del tempo l'arte fu preghiera.
Poco è rimasto di quella infinita bellezza.
Oggi non crediamo più in niente:
questo è il nostro terribile oggi».

C. Parmiggiani

***

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Incipit

C. Parmiggiani, Incipit.

«Ho imparato a conoscere il colore del sangue prima che i colori a olio. Sono nato a Luzzara, in una casa di via Lino Soragna. Molta parte della mia infanzia è trascorsa nella lontananza della campagna, in una casa rossa, isolatissima. Una casa politica, una sorta di direzione strategica del Partito comunista dove, nell’immediato dopoguerra, al lume di lampade a petrolio, si organizzavano interminabili riunioni notturne. […] Da quel luogo ho ricevuto il miglior insegnamento in pittura. Di notte, lungo i canali stellati, l’acqua lenta, cullando la malinconica luna, alimentava il fuoco assoluto. [ … ] Conservo di quei luoghi il ricordo di lente e nere barche e uomini come ombre che trasportavano sabbia e nebbia. Quelle ombre sono il mio simbolo, gli spiriti fluttuanti che hanno assunto nella mente l’immutabile aspetto dell’anima. Ombre così lontane da trasmutarsi in tutto e in nulla. Altro
non ho fatto, nel corso degli anni, nel cercare di dare un senso e un’immagine a quel nulla. Tutto quello che in seguito è apparso nelle mie opere proviene da quelle prime, decisive, incancellabili immagini che sono poi, davvero, le sole che contino e che nascono dall’emozione, vera sorgente dell’arte».

C. Parmiggiani, Incipit, Umberto Allemandi & C., Torino 2008, pp. IX.X.

Quarta di copertina

Un percorso a ritroso nel tempo, fino ad arrivare agli anni cinquanta del Novecento, quando il fotografo Paul Strand giunge a Luzzara, dove Claudio Parmiggiani è nato, per scattare fotografie che documentano la vita del paese, gli scorci, i volti, i mestieri. Immagini apparse nel libro Un paese, con il commento di Cesare Zavattini, edito da Einaudi nel 1955. Nella Didascalia Parmiggiani racconta con prosa poetica ed evocativa i suoi ricordi e spiega: «unicamente in ragione di una loro autentica comunione, senza alcun ordine né cronologia, come materia fluente, ho così accostato immagini di mie opere nate nel tempo, ad altre di quel libro, osservandole controluce, in filigrana, fino ad intravedere riflessa nel fondo di ognuna la luce dell’altra»


Stella sangue spirito

Stella sangue spirito

«Prerisco il silenzio al suono, alle parole e ai suoni preferisco le immagini perché sono silenziose.
[…] Un’opera deve essere come un pugno nello stomaco. Silenziosa ma dura, dura ma silenziosa, come un fuoco sotto la cenere. […] Il silenzio per me è un materiale dell’opera, una materia. Il silenzio è una forma di eloquenza. Un’opera non vive di silenzio ma dentro il suo silenzio.
[…] Personalmente provo quel fastidio che si ha di fronte a un qualcosa di troppo ideologizzato e che sembra scambiare la vita per un processo logico. Una pratica dove è bandita una delle parole che danno senso all’arte: Pathos, vena sotterranea che non si estingue.
[…] La memoria non significa passato ma pensiero. Mettere a contatto forme lontane, nel tempo e nella mente, far incontrare un tempo con un altro tempo, creare dei cortocircuiti; un’altra idea di tempo
[…] L’alfabeto della pittura non appartiene né alla parola né al pensiero logico. L’arte non ha bisogno di alcuna risposta: è una domanda che vuol restare tale.
[…] Tutta l’arte è in relazione con il tragico, con la morte. Vita e morte. È dentro questa circolarità, dentro questa essenza, che si costituisce qualsia pensiero umano, qualsiasi opera. Il tragico è in sentimento, una presenza che non può, non dovrebbe mai venir meno in un’opera»

C. Parmiggiani, Stella sangue spirito,
Nuova Pratiche, Parma 1995, p. 38, 108, 170, 174, 192.



Lettere a Luisa

Lettere a Luisa

«Tutta l’arte vera è tragica e si nutre di questo sentimento. Nessuna opera regge se dentro di sé non ha tutto il pathos e tutta la sofferenza dell’autore».

C. Parmiggiani, Lettere a Luisa,
Magonza, Arezzo 2016, pp. 76.


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Marco Perroni – … il libro è finito … l’angelo se n’è andato promettendomi un ritorno: «Non barattarlo mai, l’incanto che …».

Marco Perroni 01

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Nell’ottobre del 2001 insieme al mio amico Antonio, tra bicchieri di rosso, è nata l’idea di creare un libro che non avesse la forma del catalogo d’arte. Gli spunti sono stati tanti e, muovendomi in completa libertà, ne è risultato una sorta di mio diario suddiviso in trentasette giorni e in trentanove notti vissuti tra città, campagna e mare. Ho ritratto amici, amori svaniti, il bello e il triste che i miei occhi hanno visto nelle persone più diverse: i senza tetto dei portici della città in cui vivo, uomini e donne con la fragilità disegnata sui propri volti, i prepotenti, gli allegri, i buffoni, gli autoconvinti padroni del mondo, i violenti e le persone ancora incantate … Ho rivolto il mio sguardo anche agli animali che si rivelano un mio rifugio per quando l’uomo mi stanca. Questo è un libro realizzato per me stesso e soprattutto per i tanti amici.

Notturni d'inchiostro e giorni tinti

M. Perroni, Notturni d’inchiostro e giorni tinti

01Sante, 2001. Puntasecca su rame.

Sante Notarnicola, 2001.

… ovviamente è stato di notte che l’ho conosciuto …

***

02L'irregolare, 2001. Puntasecca su zinco

L’irregolare, 2001.

… sentivo cigolare qualcosa dietro quell’angolo …

***

03 Mia camminata, 2001. Linoleografia

Mia camminata, 2001.

… sessantatré scalini e poi fuori dal portone il freddo.
Amo il silenzio, ma quello di questa notte mi crea disagio.
Le nostalgie mi si aggrappano addosso: non c’è più neanche quel cane
che abbaiava mentre lei mi parlava …

***

04 Gli insabbiati, 2001. Acrilico su carta.

Gli insabbiati, 2001.

… tre razzisti discutevano animatamente,
mentre il terreno sotto di loro si faceva morbido …

***

05 Incomprensione, 2001. Tecnica mista su carta

Incomprensione, 2001.

… oggi quei due nel tentativo di comunicare non si capivano:
era così forte il vento che le loro parole venivano respinte dentro …

***

06 Due mimi. Tempera su carta

Due mimi, 2001.

… li avevo incontrati poco prima in piazza durante la loro esibizione …



Rufoism (Marco Perroni)

Nato a Cantù nel 1970, vive, disegna e suona a Bologna. Nel 1993 inizia a collaborare con la Galleria Poleschi Arte di Lucca e Milano. Nel 1999 espone al Teatro Massimo di Palermo e, a distanza di pochi mesi, nella galleria Arte in cornice di Torino. Nel 2004 sigla un rapporto di collaborazione con la Galleria Montrasio di Milano e Monza. Nel 2007 tiene una personale, ricca di tempere e acquerelli su carta nella sede storica della Galleria Montrasio in via Brera a Milano. Nello stesso anno, insieme all’amico pittore Nicola Villa, si trasferisce a New York nell’ambito del progetto “Harlem Studio Fellowship” ideato da Raffaele Bedarida e da Ruggero Montrasio. Nel 2010 è protagonista di una grande personale, “Bestiario Umano”, allestita al Palazzo del Broletto di Como. Il “Piccolo Bestiario Umano” viene presentato alla Galleria il Punto di Bologna. Nel 2014 espone alla Galleria Morone di Milano nell’ambito della collettiva dal titolo “Muse inquietanti ritratte da uomini inquieti”. A ottobre del 2015 tiene una personale nell’Harlem Room di Montrasio Arte a Milano dove presenta disegni digitali, creati con tavoletta grafica, stampati su carta e ritoccati a mano con colori a tempera. Fra le mostre collettive, si segnala la partecipazione, nel 1998, a “Omaggi a Giorgio Morandi” (Grizzana) e “Grandi Formati” alla Galleria Poleschi (Milano); nel 2002 “Il Cuore: Arte, Scienza e tecnologia”, alla Fondazione Antonio Mazzotta (Milano); nel 2007 alla rassegna “SerrOne: Biennale Giovani”, presso il Serrone della Villa Reale (Monza) dove vince il premio acquisto della giuria; nel 2008 alla XXIV Rassegna Internazionale Giovanni Segantini (Nova Milanese); nel 2009 figura in “44 Gatti d’autore”, a Ca’ la Ghironda (Bologna). Nel 2012 espone a Scope Art Basel, con la galleria Oltre Dimore. È presente ad Artefiera Bologna, ad Artissima Torino e al Miart di Milano per numerose edizioni, dal 1995 in avanti. Nella primavera del 2016 si terrà una personale a Innsbruck nella Project Room della galleria Km0. Hanno scritto di lui, fra gli altri, Enrico Mascelloni, Dino Carlesi, Nicola Miceli, Chiara Gatti e Marco Mancassola. Nel 2011 è segnalato, fra gli artisti emergenti, su Art Journal.


Psycodrammi

Una mostra di Marco Perroni
alla GalleriaPiù di Bologna (26-11-2015/22-01-2016)
La locandina della mostra alla GalleriaPiù

La locandina della mostra alla GalleriaPiù

Marco Perroni, in arte Rufoism, presenta alla GALLLERIAPIÙ un ciclo recente di lavori dedicati ai grandi temi dell’esistenza – l’amore, la morte, il destino, la solitudine – tutti riletti in chiave contemporanea, dal suo segno istintivo, graffiante, feroce. Una cinquantina di opere, su carta e su tela, mescolano tecniche diverse, la tempera, la grafite, la matita, la china, il pennarello, l’acquerello, e affrontano, con ironia amara, soggetti di scottante attualità: l’individualismo e l’ordinaria follia, il sesso come antidoto all’abbandono, il conformismo e la provocazione.
È una piccola commedia delle umane debolezze quella che Rufoism mette in scena, in un viaggio nelle tenebre del quotidiano, che ripensa iconografie classiche, come quella medievale del cavaliere, la morte e il diavolo (di matrice düreriana) e motivi ispirati invece all’espressionismo nordico, nei nudi alla Schiele, nei tramonti alla Nolde. C’è sofferenza e insieme riscatto, ossessione di un corpo torturato dal piacere e pace stremata sulle coste di un mare che accoglie, ma non consola.
Il gesto rapido della mano, la commistione fra i linguaggi della pittura figurativa e la nevrosi dell’informale, segnano immagini che commuovo e respingono allo stesso tempo. Come la realtà odierna dei fatti, sospesa in bilico fra aspettative e appagamento. Protagonisti di questo gap ansiogeno sono orde di personaggi in cerca d’autore, battitori liberi, businessman, fumatori, bevitori, modelle, asini e cani, che recitano a soggetto, trascinandosi storie personali, pesanti come macigni.
Spesso, Rufoism ritorna al suo antico bestiario, allegorie di tipi umani nascosti dietro gli occhi vitrei delle civette, fra i denti aguzzi dei caimano, nelle code mozze dei meticci, piccoli come pulci. Donne che hanno corpi di pesci, pesci che hanno corpi di donne nuotano in acque opache. L’erotismo che aleggia nell’aria si taglia col coltello e Rufoism lo seziona come un analista, un investigatore dell’inconscio armato di matita e temperino. Affilatissimo.Un po’ di pace – come sempre accade alle anime inquiete – viene dagli umori della terra e della natura. In certi paesaggi romantici e imprevisti, nei fiori recisi, nel mare che si muove e bagna le caviglie dei suoi villeggianti distratti, Rufoism riscopre il ritmo lento della pittura, che si spande sulle carte assorbenti. Macchie di presenze, spettri, apparizioni, epifanie in non-luoghi della mente, in quel non-nulla che fa la differenza fra attesa e felicità.
Una sezione collaterale della mostra, allestita nella project room della galleria, ospita “Porno Pop”, opere scelte di Rufoism sul tema dell’eros, del corpo e dell’amore senza tabù.

a cura di Chiara Gatti

 

 

 

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Big black swimming pool

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