Carmine Fiorillo – Crisi è decisione vitale, giudizio totale

Il Pensatore

The Thinker, Musee RodinA. Rodin, Il pensatore.

Crisi viene dalla parola greca – eminentemente polisemica – krísis,[1]  la cui radice è collegata al verbo kríno, anch’esso ricco di molteplici significati.[2]
È ben vero che crisi, anche in greco antico, connota un significativo e improvviso cambiamento, in senso favorevole o sfavorevole, che avviene nel decorso di una malattia. Individua altresì un accesso improvviso, un fenomeno violento, per lo più di breve durata (crisi isterica, crisi nervosa, crisi di pianto; anche: crisi di rigetto). In senso figurato, con riferimento alla singola persona, si dice appunto essere in crisi, di chi viva un momento difficile (crisi di coscienza, crisi spirituale, crisi religiosa, crisi adolescenziale, crisi matrimoniale); con riferimento alla vita di una collettività (crisi sociale), il turbamento vasto e profondo di una società (si pensi, tra gli altri, a testo di Huizinga La crisi della civiltà). L’espressione crisi economica è ormai diventata nell’uso corrente semplicemente crisi. Si parla anche di crisi parlamentare, crisi ministeriale, crisi politica, crisi costituzionale, crisi istituzionale, crisi sindacale, crisi energetica, crisi ecologica, crisi culturale. È parola davvero inflazionata.
Domandiamoci perché nel tempo si è andata perdendo la consapevolezza del senso originario più pregnante di crisi, come decisione e giudizio, come «decisione vitale» e «giudizio totale»? Forse proprio perché la filosofia, come la poesia,[3] vorrebbe essere ridotta alla stregua di mera «comunicazione», una «informazione» come un’altra. Preferiamo, anche per la parola crisi, tornare alle radici e rifarci a Eschilo,[4]  a Sofocle,[5] a Platone: kríno tò aletés te kaì me,[6] a Omero,[7] a Senofonte .[8]
A chi le domandava se oggi si può parlare di “poesia in crisi” e di “poesia della crisi”, una delle più profonde voci poetiche del Novecento, M. Guidacci, rispondeva: «Per me ogni clausola determinativa aggiunta al nome “poesia” è fortemente riduttiva. Bisognerebbe accostare questi due termini: poesia e crisi; facendo sentire che è solo un accostamento nel tempo (con innegabili rispecchiamenti), ma non una fusione, la poesia resta crisi. A meno che non si ricorra, anche questa volta, al senso greco, crisi=decisione, giudizio; nel qual caso l’idea di poesia-crisi mi piace moltissimo: la poesia è una decisione vitale e un giudizio totale, tridimensionale sull’universo, poiché costituisce essa stessa un accrescimento di tutto ciò che esiste» (in: “Riscontri”, n. 3, luglio-settembre 1980, pp. 117-119).
Chi si pone delle domande e si interroga sui criteri di valore della filosofia e della poesia (momento valutativo della critica) oggi  è fatto oggetto di scherno. Crisi della filosofia? Crisi della poesia? Meglio parlare di cedimento catastrofico, a partire dagli intellettuali. Per la filosofia come per la poesia continua ad essere valido lo Stirb und Werde, il «muori e diventa» goetiano. Crisi è per me decisione, giudizio: la filosofia è decisione vitale, giudizio totale.

Carmine Fiorillo

Note

1  forza distintiva, separazione; scelta; elezione; giudizio, decisione, sentenza; esito, risoluzione, evento, riuscita.
2  distinguo, scevero, secerno, separo; scelgo, preferisco;  decido, giudico; fo entrare in fase decisiva o critica; stimo, penso, credo, giudico, dichiaro.
poíesis è l’arte poetica, la poesia, come ci dice Platone (Gorgia 502); poiéo significa: fo, fabbrico, costruisco, lavoro, fo con arte, compongo, scrivo in versi. In latino i versi erano chiamati carmina e la parola carmen è assimilabile al sanscrito karma. La radice sanscrita kri, da cui viene karma, si ritrova nel verbo latino creare e ha lo stesso significato del verbo greco poiéin, cioé fare, lavoro in cui si racchiude ad un tempo l’umano e l’arte, e da cui deriva poíhsis, poesia, un “fare” operoso che è conoscenza di sé e del mondo, canto “cultuale” che è una ri-creazione del cosmo.
4  «Nel giudizio degli Dei»; Eschilo, Agamennone 1288]; k. aftonon olbon [preferisco una felicità che non desta invidia; Eschilo, Agamennone 471].
5  «Quando si tratta di scegliere fra uomini giusti e virtuosi»; Sofocle, Filottete 1050].
6 «Distinguo il vero e ciò che non è tale»; Platone, Teeteto 150.
7 «Sceverare al soffio dei venti il grano e la pula»; Omero, Iliade 5, 501.
8«Distinguere i buoni dai cattivi»; Senofonte, Memorabilia 3, 1, 9.

Luca Grecchi – Platone e il piacere: la felicità nell’era del consumismo

Il risveglio di Adone, John William Waterhouse, 1899

John William Waterhouse, Il risveglio di Adone, 1899

Con riferimento a un precedente mio articolo, intitolato I giovani e il piacere: la ricerca della felicità, un caro amico antichista, professore emerito, mi ha affettuosamente rimproverato per avere sintetizzato in maniera eccessiva il pensiero di Platone. L’amico aveva ragione. A mia parziale discolpa, posso solo dire che il testo era nato da una richiesta di approfondimento del pensiero di Aristotele. Poiché tuttavia questo chiarimento può avere un interesse generale, cercherò qui, seppur brevemente, di rimediare a questa mancanza verso l’antico filosofo ateniese.
Platone si è in effetti molto occupato del tema del piacere. La sua posizione, come ricordato, è solitamente ritenuta “intermedia” fra quelle edoniste e quelle antiedoniste, ambedue allora presenti in Accademia. Egli infatti, pur attribuendo molta rilevanza al piacere per la vita umana (come emerge ad esempio nel Protagora), aveva anche rimarcato la dannosità dello stesso assunto come fine primario della vita. Con riferimento a questa tematica, il tratto più evidente della sua opera consiste proprio nella condanna di ogni edonismo fine a se stesso (come emerge chiaramente nel Gorgia e nel Filebo).
Emblematica della complessiva posizione platonica è, a mio avviso, l’immagine dei giardini di Adone descritta nel Fedro (276 E – 277 A). In occasione della festa di Adone, infatti, gli Ateniesi realizzavano splendide composizioni floreali utilizzando semi appositi, che producevano fiori splendidi ma poco duraturi. Platone, assimilando metaforicamente questo comportamento alla ricerca del piacere – bella ma effimera – propria dei giovani, scrisse a tal proposito che l’uomo saggio utilizza un altro tipo di semi, più lenti a fiorire ma più resistenti, i cui fiori sono alla lunga ancor più belli. Si trattava, fuor di metafora, dei semi della ragione.
Platone in effetti fu sempre favorevole ad una educazione al piacere, il quale deve essere sperimentato, non evitato. Quanto Platone raccomanda, però, è che la ragione sia in grado in ogni caso di sovraintendere al piacere, e non ne diventi schiava. In tal caso, infatti, il piacere si trasformerebbe in dipendenza, e dunque in dolore. Platone era consapevole del contrasto sussistente tra la stabilità della ragione e l’instabilità della sensazione. Tuttavia la ragione, in virtù delle sue caratteristiche, era a suo avviso la sola facoltà umana in grado di valutare correttamente i piaceri e i dolori, per il fine della realizzazione della buona vita.
Il discorso metretico assiologico, ossia il discorso razionale sulla giusta misura del piacere, è presente in tutta l’opera platonica. Anche nel suo ultimo scritto, ossia nelle Leggi (733 A-B), Platone ricorda ad esempio come per l’uomo, che pure tende a desiderare il piacere e a rifiutare il dolore, talvolta è necessario accettare un piccolo dolore – una medicina amara, una ginnastica faticosa, l’astinenza dal cibo, ecc. – per ricevere poi un piacere maggiore. In generale, l’approccio di Platone era opposto a quello del sofista Callicle, descritto nella Repubblica (491 D – 492 C), secondo cui non si deve effettuare nessuna misurazione del piacere, essendo il fine della vita umana costituito dalla massimizzazione del soddisfacimento di tutti i desideri. A questa posizione Platone rispose indicando la natura finita dell’uomo, incompatibile con ogni ampliamento infinito dei desideri. L’arbitrio e la illimitatezza – che purtroppo l’attuale modo di produzione sociale semina nelle anime dei giovani, per i propri scopi autoreferenziali – costituiscono anzi, data appunto la impossibilità per chiunque di soddisfare ogni desiderio, le vie che conducono alla insoddisfazione, e dunque all’infelicità. All’uomo necessitano poche cose, data la propria natura finita, per realizzare la propria essenza ed essere felice.
Una delle virtù cardinali, per Platone, era proprio la virtù della temperanza. In particolare, come ribadirà poi Aristotele, Platone ha mostrato che massimamente felice è chi non ha bisogno di nulla – questa la condizione della divinità –, non chi insegue continuamente qualcosa. L’intemperante, ovvero colui che ricerca ogni piacere, era infatti da Platone paragonato, con nota metafora, ad un otre bucato, che deve costantemente essere riempito; o al caradrio, immaginifico uccello che mangia ed evacua senza posa (ma anche senza soddisfazione). Solo una vita rivolta alla verità e al bene, data la natura razionale e morale dell’uomo, era per Platone una vita realmente felice. Ciò in quanto tale vita, guidata dalla ragione verso i buoni piaceri, tende alla realizzazione di quella armonia che, così come favorisce la salute del corpo, favorisce anche l’equilibrio dell’anima, e per estensione della intera polis (Repubblica, 505 C).
Il rapporto fra uomo e polis è infatti sempre, per Platone, un rapporto diretto, nel senso che ciò che è bene per l’uomo è bene anche per la polis, e viceversa. Un’anima bene educata favorisce infatti rapporti sociali armonici, così come, reciprocamente, rapporti sociali armonici favoriscono la buona educazione delle anime. Per questo Platone, così come Socrate, insistette tanto sulla necessità di conoscere la propria anima e di prendersene cura: facendo questo, si compie il primo necessario passo per prendersi cura della intera polis e, per estensione, dell’intero tout court. Se l’anima infatti non è guidata dalla ragione, e non è dunque condotta dalla verità e dal bene, i discorsi falsi si sostituiscono a quelli veri, e i piaceri falsi a quelli veri. In questo modo, però, si viene a impedire, ai singoli uomini come alla polis, proprio la buona vita: quella stessa vita che la politica, unita alla filosofia, dovrebbe invece favorire.

Luca Grecchi
23/10/2015

Luca Grecchi

Luca Grecchi (1972), direttore della rivista di filosofia Koinè e della collana di studi filosofici Il giogo presso la casa editrice Petite Plaisance di Pistoia, insegna Storia della Filosofia presso la Università degli Studi di Milano Bicocca. Da alcuni anni sta strutturando un sistema onto-assiologico definito “metafisica umanistica”, che vorrebbe costituire una sintesi della struttura sistematica della verità dell’essere. Esso rappresenta, nella sua opera, la base teoretica di riferimento sia per la fondazione di una progettualità sociale anticrematistica, sia per la interpretazione dei principali pensieri filosofici. Grecchi è soprattutto autore di una ampia interpretazione umanistica dell’antico pensiero greco, nonché di alcuni studi monografici su filosofi moderni e contemporanei, e di libri tematici su importanti argomenti (la metafisica, la felicità, il bene, la morte, l’Occidente). Collabora con la rivista on line Diogene Magazine e con il quotidiano on line Sicilia Journal. Ha pubblicato libri-dialogo con alcuni fra i maggiori filosofi italiani, quali Enrico Berti, Umberto Galimberti, Costanzo Preve, Carmelo Vigna.

Libri di Luca Grecchi

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L’anima umana come fondamento della verità (2002) è il primo libro di Grecchi, che pone, in maniera stilizzata, il sistema metafisico umanistico su cui sono poi strutturati i suoi libri successivi. La tesi centrale di questo libro è appunto che l’anima umana, intesa come la natura razionale e morale dell’uomo, è il fondamento onto-assiologico della verità dell’essere. Questo sistema metafisico costituisce la base per una analisi critica della attuale totalità sociale, e per una progettualità comunitaria finalizzata alla realizzazione di un modo di produzione sociale conforme alle esigenze della natura umana.

Karl Marx nel sentiero della verità (2003) costituisce una interpretazione metafisico-umanistica del pensiero di Marx, che viene analizzato nei suoi nodi essenziali, spesso in aperta critica con la secolare tradizione marxista. Nato originariamente come elaborazione degli studi di economia politica dell’autore compiuti negli anni novanta del Novecento, il testo assume carattere filosofico-politico. Marx è analizzato come il pensatore moderno che, rifacendosi implicitamente al pensiero greco, realizza la migliore critica al modo di produzione capitalistico, pur non elaborando – per carenza di fondazione filosofica – un adeguato discorso progettuale.

Verità e dialettica. La dialettica di Hegel e la teoria di Marx costituisce in un certo senso una integrazione del precedente Karl Marx nel sentiero della verità. Il testo effettua una sintesi originale, appunto, sia della dialettica di Hegel che della teoria di Marx. Pur riconoscendo l’influenza del pensiero di Hegel nelle opere del Marx maturo, Grecchi propone la tesi che il pensiero di Marx, strutturatosi nei suoi punti cardinali prima del suo studio attento ed approfondito della Scienza della Logica, sia nella sua essenza non dialettico. Una versione sintetica di questo libro è stata pubblicata sulla rivista Il Protagora nel 2007.

La verità umana nel pensiero religioso di Sergio Quinzio (2004) con introduzione di Franco Toscani, è una sintesi monografica sul pensiero del grande teologo scomparso nel 1996. Il testo presenta al proprio interno una analisi del pensiero ebraico e cristiano, unita ad una rilettura poetica ed umanistica del testo biblico. Il tema centrale è quello della morte, e della speranza nella resurrezione su cui Quinzio ripetutamente riflette, e che vede continuamente delusa. Al di là dei riferimenti religiosi, la riflessione del teologo si presta ad una profonda considerazione sulla fragilità della vita umana.

Nel pensiero filosofico di Emanuele Severino (2005) con introduzione di Alberto Giovanni Biuso, è una sintesi monografica sul pensiero del grande filosofo italiano. Il testo presenta al proprio interno una analisi critica del nucleo essenziale della ontologia di Severino e delle sue analisi storico-filosofiche e politiche. Esiste uno scambio di lettere fra Severino e Grecchi in cui il filosofo bresciano mostra la sua netta contrarietà alla interpretazione ricevuta. Il testo, tuttavia, è segnalato nella Enciclopedia filosofica Bompiani come uno dei libri di riferimento per la interpretazione del pensiero severiniano.

Il necessario fondamento umanistico della metafisica (2005) è un breve saggio in cui, prendendo come riferimento la metafisica classica (ed in particolare le posizioni di Carmelo Vigna), l’autore critica la centralità dell’approccio logico-fenomenologico rispetto al tema della verità, ritenendo necessario anche l’approccio onto-assiologico. Per Grecchi infatti la verità consiste non solo nella descrizione corretta di come la realtà è, ma anche di come essa – la parte che può modificarsi – deve essere per conformarsi alla natura umana. Si tratta del primo confronto esplicito fra la proposta di Grecchi della metafisica umanistica e la metafisica classica di matrice aristotelico-tomista.

Filosofia e biografia (2005) è un libro-dialogo composto con uno dei maggiori filosofi italiani, Umberto Galimberti. Nel testo si ripercorre il pensiero galimbertiano nei suoi contenuti essenziali, ma si pone in essere anche una serrata analisi di molti temi filosofici, politici e sociali, in cui spesso emerge una sostanziale differenza di posizioni fra i due autori. Di particolare interesse le pagine dedicate al pensiero simbolico, all’analisi della società, ed alla interpretazione dell’opera di Emanuele Severino. Percorre il testo la tesi per cui la genesi di un pensiero filosofico deve necessariamente essere indagata, per giungere alla piena comprensione dell’opera di un autore.

Il pensiero filosofico di Umberto Galimberti (2005), con introduzione di Carmelo Vigna, è un testo monografico completo sul pensiero di questo importante filosofo contemporaneo. Si tratta di un testo in cui Grecchi, sintetizzando la complessa opera di questo autore, prende al contempo posizione non solo nei confronti della medesima, ma anche di filosofi quali Nietzsche, Heidegger, Jaspers, che nel pensiero di Galimberti costituiscono riferimento imprescindibili. Vigna, nella sua introduzione, ha definito il libro «una ricostruzione seria ed attendibile del pensiero del filosofo» in esame.

Conoscenza della felicità (2005), con introduzione di Mario Vegetti, è uno dei testi principali di Grecchi, in cui l’autore applica il proprio approccio classico umanistico alla società attuale, mostrando come essa si ponga in radicale opposizione alle possibilità di felicità. L’autore, seguendo la matrice onto-assiologica del pensiero greco, mostra che solo conoscendo che cosa è l’uomo risulta possibile conoscere cosa è la felicità. Scrive Vegetti, nel testo, che Grecchi è «pensatore a suo modo classico», per il suo «andar diritto verso il cuore dei problemi». Il libro è assunto come riferimento bibliografico, per il tema in oggetto, dalla Enciclopedia filosofica Bompiani. .

Marx e gli antichi Greci (2006) è un libro-dialogo composto con uno dei maggiori filosofi italiani, Costanzo Preve. Nel testo viene effettuata una analisi non tanto filologica, quanto ermeneutica e teoretica dei rapporti del pensiero di Marx col pensiero greco. I due autori, concordando su molti punti, colmano così in parte una lacuna della pubblicistica su questo tema, che risulta essere stato nel tempo assai poco indagato. Di particolare interesse l’analisi effettuata dai due autori di quale potrebbe essere, sulla base insieme del pensiero dei Greci e di Marx, il miglior modo di produzione sociale alternativo rispetto a quello attuale.

Vivere o morire. Dialogo sul senso dell’esistenza fra Platone e Nietzsche (2006), con introduzione di Enrico Berti, è un saggio composto ponendo in ideale dialogo Platone e Nietzsche su importanti temi filosofici, politico e morali: l’amore, la morte, la metafisica, la vita ed altro ancora. Scrive Berti, nella sua introduzione, che, come accadeva nel genere letterario antico dell’invenzione, Grecchi non nasconde lo scopo “politico” della sua opera, la quale «risulta essere innanzitutto un documento significativo di amore per la filosofia e di vitalità di quest’ultima, in un momento in cui l’epoca della filosofia sembrava conclusa».  

Il filosofo e la politica. I consigli di Platone, e dei classici Greci, per la vita politica (2006) è una ricostruzione del pensiero filosofico-politico di Platone effettuata in un continuo confronto con le vicende della attualità. In questo libro Grecchi pone esplicitamente Platone, in maniera insieme divulgativa ed originale, come proprio pensatore di riferimento. Il filosofo ateniese infatti, a suo avviso, pur scrivendo molti secoli or sono, rimane tuttora colui che ha offerto le migliori analisi, e le migliori soluzioni, per pensare una migliore totalità sociale, ossia un ambiente comunitario adatto alla buona vita dell’uomo.

La filosofia politica di Eschilo. Il pensiero “filosofico-politico” del più grande tragediografo greco (2007) costituisce una interpretazione, in chiave appunto filosofico-politica, dell’opera di Eschilo. Lo scopo principale di questo libro è quello di “togliere” Eschilo dallo specialismo degli studi poetico-letterari, per inserirlo – come si dovrebbe fare per tutti i tragici greci – nell’ambito del pensiero filosofico-politico. Nel testo viene presa in carico l’analisi precedentemente svolta da Emanuele Severino ne Il giogo (1988), ritenendone validi molti aspetti ma giungendo, alla fine, a conclusioni opposte circa il presunto “nichilismo” di Eschilo.

Il presente della filosofia italiana (2007) è un libro in cui vengono analizzati testi di alcuni fra i più importanti filosofi italiani contemporanei pubblicati dopo il 2000. Gli autori analizzati vengono ripartiti in quattro categorie: 1) pensatori “ermeneutici-simbolici” (Sini, Vattimo, Cacciari, Natoli); 2) pensatori “scientifici-razionalisti” (Tarca, Antiseri, Giorello); 3) pensatori “marxisti-radicali” (Preve, Losurdo); 4) pensatori “metafisici-teologici” (Reale). Il testo è arricchito da due appendici e da una ampia postfazione di Costanzo Preve. In questi testi Grecchi oppone criticamente, ai vari approcci, il proprio discorso metafisico-umanistico.

Corrispondenze di metafisica umanistica (2007) è una raccolta di testi in cui sono contenuti scambi epistolari, nonché risposte di Grecchi ad introduzioni e recensioni di suoi libri. Il testo rispecchia la tendenza dell’autore a prendere sempre seriamente in carico le altrui posizioni; secondo Grecchi, infatti, di fronte a critiche intelligenti, sono solo due gli atteggiamenti filosofici possibili: o fornire argomentate risposte, o prendere atto della correttezza delle critiche e rivedere le proprie posizioni. Il tema caratterizzante il testo è dunque la “lotta amichevole” per la emersione della verità.

L’umanesimo della antica filosofia greca (2007) è un libro in cui Grecchi effettua, in sintesi, la propria interpretazione complessiva della Grecità. Partendo da Omero, e giungendo fino al pensiero ellenistico, l’autore mostra come non la natura, né il divino, né l’essere furono i temi principali del pensiero greco, bensì l’uomo, soprattutto nella sua dimensione politico-sociale. L’uomo infatti assume centralità, in vario modo, in tutti i vari filoni culturali della Grecità, dal pensiero omerico a quello presocratico, dal teatro fino all’ellenismo.

L’umanesimo di Platone (2007) è un testo monografico sul pensiero di Platone, da Grecchi in quegli anni ritenuto come il più rappresentativo della Grecità. Ponendo in essere una analisi complessiva delle diverse interpretazioni finora effettuate del pensiero platonico, Grecchi applica al medesimo il proprio paradigma ermeneutico metafisico-umanistico, cogliendo in Platone la centralità del ruolo filosofico-politico dell’uomo, ed insieme la centralità della posizione anti-crematistica, all’interno di una considerazione progettuale e della totalità sociale.

L’umanesimo di Aristotele (2008) è un testo monografico sul pensiero di Aristotele, che sarà poi da Grecchi ripreso negli anni successivi come struttura teoretica di riferimento. Ponendo in essere una analisi complessiva delle diverse tematiche del pensiero aristotelico, Grecchi applica al medesimo il proprio paradigma ermeneutico metafisico-umanistico, cogliendo in Aristotele – così come in Platone, ma in forma differente – la centralità del ruolo filosofico-politico dell’uomo, ed insieme la centralità della posizione anti-crematistica, all’interno di una considerazione progettuale della totalità sociale.

Chi fu il primo filosofo? E dunque: cos’è la filosofia? (2008), con introduzione di Giovanni Casertano, è un libro suddiviso in due parti. Nella prima parte, prendendo come riferimento alcuni fra i principali manuali di storia della filosofia italiani, Grecchi mostra come essi spesso non definiscano l’oggetto del loro studio, ossia la filosofia, dichiarandola talvolta addirittura indefinibile. L’autore, invece, offre in questo libro la propria definizione di filosofia come caratterizzata da due contenuti imprescindibili: a) la centralità dell’uomo; b) la ricerca, il più possibile fondata ed argomentata, della verità dell’intero. Nella seconda parte l’autore esamina dieci possibilità alternative su “chi fu il primo filosofo”, giungendo a concludere che, pur all’interno del contesto comunitario della riflessione greca, il candidato più accreditato risulta essere Socrate.

Socrate. Discorso su Le Nuvole di Aristofane (2008) è una ricostruzione di fantasia, pubblicata nella collana Autentici falsi d’autore dell’editore Guida, di un discorso che avrebbe potuto essere tenuto da Socrate ad Atene l’indomani della rappresentazione della famosa commedia di Aristofane. Si tratta, come è nello stile della collana, di una ricostruzione al contempo verosimile e spiritosa, in cui Grecchi coglie l’occasione per offrire la propria interpretazione, insieme umanistica ed anticrematistica, del pensiero socratico. Tale interpretazione risulta convergente con quelle offerte, nella medesima collana, da Mario Vegetti su Platone e da Enrico Berti su Aristotele.

Occidente: radici, essenza, futuro (2009), con introduzione di Diego Fusaro, è un testo in cui l’autore analizza il concetto di Occidente e le sue tradizioni culturali costitutive, sempre in base al proprio sistema metafisico-umanistico. Analizzando le radici greche, ebraiche, cristiane, romane e moderne, ma soprattutto l’attuale contesto storico-sociale, Grecchi coglie nella prevaricazione derivante dalla smodata ricerca crematistica l’essenza dell’Occidente, ed individua per lo stesso un futuro cupo. Il testo è arricchito dal dialogo con Fusaro, alla cui introduzione Grecchi risponde in una appendice finale.

Il filosofo e la vita. I consigli di Platone, e dei classici Greci, per la buona vita (2009), è una raccolta di brevi saggi in cui l’autore, prendendo spunto da alcuni passi del pensiero platonico, e più in generale del pensiero greco classico, affronta sinteticamente alcune tematiche centrali per la vita umana (l’amore, la famiglia, la filosofia, la storia, le leggi, la democrazia, l’educazione, l’università, la mafia, la libertà, ecc.), col consueto approccio attualizzante, ovvero facendo interagire – nel rispetto del contesto storico-sociale dell’epoca in cui tale pensiero nacque – il pensiero platonico col nostro tempo. Il libro è arricchito da un lungo saggio finale di Costanzo Preve, intitolato “Luca Grecchi interprete dei filosofi classici Greci” (con risposta), in cui il filosofo torinese sintetizza le posizioni dell’autore.

L’umanesimo della antica filosofia cinese (2009) costituisce il primo volume di una trilogia sull’umanesimo dell’antico pensiero orientale (l’unica nel nostro paese effettuata da un solo autore). Il libro parte dalla constatazione che l’Oriente risulta essere pressoché assente dalle principali storie della filosofia occidentali. Tuttavia, in base alla definizione di filosofia fornita dall’autore, l’antico pensiero cinese risulta possedere, nei contenuti e talvolta anche nei metodi, caratteristiche tali da non poter essere considerato pregiudizialmente assente dal quadro filosofico. Non si tratta, comunque, di un manuale di storia della filosofia cinese, ma di una interpretazione umanistica dei principali contenuti costitutivi dell’antico pensiero cinese.

L’umanesimo della antica filosofia indiana (2009) costituisce il secondo volume di una trilogia sull’umanesimo dell’antico pensiero orientale. Il libro parte dalla constatazione che l’Oriente risulta essere pressoché assente dalle principali storie della filosofia occidentali. Tuttavia, in base alla definizione di filosofia fornita dall’autore, l’antico pensiero indiano risulta possedere, nei contenuti e talvolta anche nei metodi, caratteristiche tali da non poter essere considerato pregiudizialmente assente dal quadro filosofico. Non si tratta, comunque, di un manuale di storia della filosofia indiana, ma di una interpretazione umanistica dei principali contenuti costitutivi dell’antico pensiero indiano.

L’umanesimo della antica filosofia islamica (2009) costituisce il terzo volume di una trilogia sull’umanesimo dell’antico pensiero orientale. Il libro parte dalla constatazione che l’Oriente risulta essere pressoché assente dalle principali storie della filosofia occidentali. Tuttavia, in base alla definizione di filosofia fornita dall’autore, l’antico pensiero islamico risulta possedere, nei contenuti e talvolta anche nei metodi, caratteristiche tali da non poter essere considerato pregiudizialmente assente dal quadro filosofico. Non si tratta, comunque, di un manuale di storia della filosofia islamica, ma di una interpretazione umanistica dei principali contenuti costitutivi dell’antico pensiero islamico.

A partire dai filosofi antichi (2010), con introduzione di Carmelo Vigna, è un libro-dialogo composto con uno dei maggiori filosofi italiani, Enrico Berti. In questo testo viene ripercorsa l’intera storia della filosofia, apportando interpretazioni originali non soltanto – anche se soprattutto – dei principali filosofi antichi, ma anche di quelli moderni e contemporanei. Non mancano inoltre considerazioni su temi di attualità, nonché su temi di interesse generale, quali l’educazione, la scuola e la politica. Scrive Vigna, nella introduzione, che «questo testo è tra le cose più interessanti che si possano leggere oggi nel panorama della filosofia italiana».

L’umanesimo di Plotino (2010) è un libro in cui l’autore colma una distanza temporale fra il periodo classico ed il periodo ellenistico della Roma imperiale. Il testo si divide in due parti. Nella prima, in ossequio alla tesi per cui ogni pensiero filosofico deve essere inserito all’interno del proprio contesto storico-sociale (anche in quanto è all’interno del medesimo che esso spesso “deduce” le proprie categorie), l’autore realizza una analisi del modo di produzione sociale greco e di quello romano, per tracciare alcune differenze importanti fra l’epoca classica e l’epoca ellenistica. Nella seconda parte, che è la più ampia, è invece analizzato, in base alle dieci tematiche ritenute centrali, il pensiero di Plotino.

Perché non possiamo non dirci Greci (2010) è un libro in cui l’autore sintetizza, in termini divulgativi, le proprie posizioni generali sui Greci. Il testo prende spunto dalla rilettura, in controluce, del classico di Benedetto Croce intitolato Perché non possiamo non dirci cristiani, per mostrare non solo come le radici greche siano almeno altrettanto importanti di quelle cristiane per la cultura europea, ma soprattutto che una loro ripresa sarebbe fortemente auspicabile. Il testo è completato da una ampia appendice inedita che costituisce una analisi critica del pensiero ellenistico (in rapporto a quello classico) incentrata sulle opere di Epicuro e di Luciano di Samosata.

La filosofia della storia nella Grecia classica (2010) è il testo ermeneutico forse più originale di Grecchi. Alla cultura greca si attribuisce infatti, solitamente, la nascita dei tronchi di pressoché tutte le discipline filosofiche e scientifiche tuttora studiate nella modernità (con varie ramificazioni). Tradizionalmente, tuttavia, la filosofia della storia è ritenuta essere disciplina moderna, senza precedenti antichi. Analizzando l’opera di storici, letterati e filosofi dell’epoca preclassica e classica, l’autore mostra invece le radici antiche anche di questo campo di studi, contribuendo ad un chiarimento teoretico della disciplina stessa.

Sulla verità e sul bene (2011), con introduzione di Enrico Berti e postfazione di Costanzo Preve, è un libro-dialogo con uno dei maggiori filosofi italiani, Carmelo Vigna. In questo testo viene ripercorsa l’intera storia della filosofia, insieme agli importanti temi teoretici ed etici che danno il titolo al volume. Scrive Berti, nella introduzione, che si tratta di «una serie di discussioni oltremodo interessanti tra due filosofi che sono divisi da due diverse, anzi opposte, concezioni della metafisica, ma sono accomunati dalla considerazione per la filosofia classica e soprattutto da un grande amore per la filosofia in sé stessa».

Gli stranieri nella Grecia classica (2011) è un libro in cui l’autore, prendendo distanza dalle interpretazioni tradizionali che caratterizzano gli antichi Greci come vicini alla xenofobia, mostra che, sin dall’epoca omerica, essi furono invece aperti all’ospitalità verso gli stranieri. Preceduto da una analisi anti-ideologica delle categorie di “razza”, “etnia”, “multiculturalismo” ed altre, Grecchi rimarca come sia stato centrale, nel pensiero greco classico, il concetto di “natura umana”, il quale possiede basi teoretiche salde ed una costante presenza nella riflessione greca, che l’autore appunto caratterizza come “umanistica”.

Diritto e proprietà nella Grecia classica (2011) è un libro in cui l’autore prende in carico i temi poco indagati del diritto e della proprietà nella antica Grecia. Si tratta di temi molto importanti per comprendere il contesto storico-sociale in cui nacque la cultura greca, e che pertanto non possono essere ignorati da chi studia la filosofia di questo periodo. Il testo sviluppa inoltre un confronto con il diritto romano – che si rivela assai meno comunitario di quello greco – e con il nostro tempo, per mostrare come la cultura greca possieda, anche sul piano giuridico, contenuti che sarebbero tuttora importanti da applicare.

L’umanesimo di Omero (2012) è un libro in cui l’autore effettua una analisi teoretica ed etica del pensiero omerico, inserendo l’antico poeta nel novero del pensiero filosofico, rompendo il tradizionale isolamento nel campo letterario che da secoli caratterizza questo autore. Grecchi insiste in particolare sul carattere di educazione filosofica dei poemi omerici, mostrando come essi abbozzino temi ontologici e soprattutto assiologici poi elaborati dalla intera riflessione classica. Il testo si distingue per il continuo aggancio dei miti omerici alla contemporaneità.

L’umanesimo politico dei “Presocratici” (2012) è un libro in cui l’autore, centralizzando il carattere politico-sociale del loro pensiero, prende distanza dalle interpretazioni tradizionali che caratterizzano questi pensatori come “naturalisti”, e che li separano sia dalla poesia e dal teatro precedenti, sia dalla filosofia e dalla scienza successive. L’autore, facendo riferimento agli studi di Mondolfo, Capizzi, Bontempelli e soprattutto Preve, mostra il nesso di continuità del pensiero presocratico con l’intero pensiero greco classico. Risultano centrali, in questa trattazione, le figure di Solone e Clistene, oltre a quelle più consuete di Eraclito, Parmenide e Pitagora.

Il presente della filosofia nel mondo (2012), con postfazione di Giacomo Pezzano, è un libro in cui vengono analizzati testi di alcuni fra i maggiori filosofi contemporanei non italiani (fra gli altri Bauman, Habermas, Hobsbawm, Latouche, Nussbaum, Onfray, Zizek). Nella introduzione si rileva, come caratteristica principale della filosofia del nostro tempo, la presenza in solidarietà antitetico-polare di una corrente scientifico-razionalistica ed, al contempo, di una corrente aurorale-simbolica. Esse occupano il centro della scena escludendo dal “campo di gioco” la filosofia onto-assiologica di matrice classica, presente oramai solo in un numero limitato di studiosi.

Il pensiero filosofico di Enrico Berti (2013), con presentazione di Carmelo Vigna e postfazione di Enrico Berti, è un testo monografico introduttivo sul pensiero di questo importante filosofo contemporaneo, uno dei maggiori studiosi mondiali del pensiero di Aristotele. Rapportandosi a tematiche quali l’interpretazione degli antichi, la storia della filosofia, l’educazione, l’etica, la politica, la metafisica, la religione, Grecchi non si limita a descrivere il pensiero dell’autore considerato ma, come è nel suo approccio, valuta; in maniera solitamente concorde, eppure talvolta anche critica, in particolare nella opposizione fra metafisica classica e metafisica umanistica.

Il necessario fondamento umanistico del “comunismo” (2013) è un libro scritto a quattro mani con Carmine Fiorillo, in cui gli autori mostrano come la diffusa critica (marxista e non) al modo di produzione capitalistico, priva di una fondata progettualità, risulti sterile ed inefficace. Assumendo come base principalmente il pensiero greco classico (ma anche le componenti umanistiche di altri orizzonti culturali), gli autori mostrano che solo mediante una solida fondazione filosofica è possibile favorire la progettualità di un ideale modo di produzione sociale in cui vivere, che gli autori appunto definiscono – ma differenziandosi fortemente dalla tradizione marxista – “comunismo”.

Perché, nelle aule universitarie di filosofia, non si fa (quasi) più filosofia (2013) è un pamphlet in cui si mostra che le attuali modalità accademiche di insegnamento della filosofia, incentrate sullo specialismo, non ripropongono più il modello greco classico della filosofia come ricerca fondata ed argomentata della verità onto-assiologica dell’intero, che Grecchi assume invece ancora come centrale. L’autore mostra come la causa principale di questa situazione sia attribuibile ai processi socio-culturali del modo di produzione capitalistico.

La musa metafisica. Lettere su filosofia e università (2013), con Giovanni Stelli, costituisce uno scambio epistolare nato dal commento di Stelli al pamphlet Perché, nelle aule universitarie di filosofia, non si fa (quasi) più filosofia. A partire da questo tema lo scambio ha assunto una rilevanza ed una ampiezza tale, estendendosi a contenuti storici, culturali e politici, da renderne di qualche utilità la pubblicazione. In esso Grecchi anticipa alcuni temi portanti del suo testo che sarà intitolato Metafisica umanistica. La struttura sistematica della verità dell’essere, cui sta lavorando dal 2003.

Discorsi di filosofia antica (2014) è un libro che raccoglie i testi del corso di lezioni sull’uomo nella cultura greca, da Omero all’ellenismo, tenuto dall’autore alla università degli studi di Milano Bicocca nel 2013. Esso accoglie inoltre i testi di alcune conferenze sul pensiero antico svolte dall’autore nel 2013 e 2014, ed in particolare, in appendice, un saggio inedito sulla alienazione nella antica Grecia. Quest’ultimo è un tema poco indagato in quanto mancano, alla mentalità filologica – poco teoretica – tipica del mondo accademico di oggi, i necessari riferimenti testuali (i Greci non avevano nemmeno la parola “alienazione”); questo saggio tuttavia può aprire un filone di ricerca su una tematica tuttora inesplorata.

Omero tra padre e figlia (2014) è un libro-dialogo con Benedetta Grecchi, figlia di 6 anni dell’autore, sulle vicende di Odisseo narrate appunto nella Odissea di Omero. Il testo costituisce – come recita il sottotitolo – una “piccola introduzione alla filosofia”, passando attraverso i contenuti educativi dell’opera omerica già delineati dall’autore nel libro L’umanesimo di Omero. Questo dialogo tra padre e figlia mostra come la filosofia possa passare anche ai bambini evitando, da un lato, di essere ridotta a “gioco logico”, e dal lato opposto di essere presentata come “chiacchiera inconcludente”.

Discorsi sul bene (2015) è un libro che raccoglie i testi del corso di lezioni sul Bene tenuto dall’autore alla università degli studi di Milano Bicocca nel 2014. In appendice sono aggiunte una intervista filosofica e due relazioni su temi etico-politici. Il testo si rivela importante in quanto, all’interno di un approccio aristotelico – in cui in sostanza il Bene è il fine verso cui ogni ente, per natura, tende –, Grecchi indica nel rispetto e nella cura dell’uomo (e del cosmo: gli elementi portanti del suo Umanesimo) i contenuti fondamentali del Bene.

Discorsi sulla morte (2015) è un libro che raccoglie i testi del corso di lezioni tenuto dall’autore alla università degli studi di Milano Bicocca nel 2015. L’autore, delineando le principali concezioni della morte presenti nella storia della filosofia, con particolare riferimento agli antichi Greci ed a Giacomo Leopardi, mostra come la rimozione di questo tema costituisca una delle principali concause di alcune psicopatologie del nostro tempo.

L’umanesimo della cultura medievale (2016) è un libro che raccoglie i contenuti umanistici del pensiero medievale. Rispetto alle interpretazioni tradizionali, ancora caratterizzate da una descrizione del Medioevo come età oscura, questo testo mostra il carattere umanistico in particolare della Scolastica aristotelica. Rispetto ai consueti autori di riferimento, ossia Agostino e Tommaso, particolare importanza è attribuita in questo volume a due autori del XIII secolo, Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia (solitamente poco considerati), nonché alle ripetute condanne ecclesiastico-accademiche dell’aristotelismo che ebbero il loro punto culminante nel 1277.

L’umanesimo della cultura rinascimentale (2016) è un libro che critica la tradizionale interpretazione umanistica del pensiero rinascimentale del XIV e XV secolo. Rispetto, infatti, alla vulgata comune, che ritiene centrale in questo periodo la riscoperta filologica ed ermeneutica dei testi di Platone e di altri autori antichi, Grecchi reputa centrale la filocrematistica, e dunque la rottura – operata da modalità sociali sempre più privatistiche e mercificate, cui la cultura dell’epoca si adeguò – del legame sociale comunitario proprio dell’epoca medievale. Il Rinascimento costituì dunque, a suo avviso, la prima apertura culturale verso la modernità capitalistica.

In preparazione:

Umanesimo ed antiumanesimo nella filosofia moderna (e contemporanea);

L’umanesimo greco-classico di Spinoza;

Il sistema filosofico di Aristotele;

Metafisica umanistica. La struttura sistematica della verità dell’essere.

Alessandro Monchietto: Intervista a Costanzo Preve (Estate 2010, «Socialismo XXI»)

Spirito del capitalismo

In questo numero, ampio spazio è stato dedicato all’analisi di due contributi – il tuo libro scritto con Orso ed il volume di Boltanski e Chiapello – entrambi accomunati dall’intento di rivitalizzare una disciplina che (in tempi di postmodernismo e disincantamento del mondo) appariva totalmente demodé: la diagnosi (socio-filosofica) del capitalismo reale. Nel tentativo di mettere a fuoco motivi e argomenti che possono forse permettere al lettore di arricchire la propria prospettiva su tali questioni, prenderei le mosse da questi due rilevanti studi per iniziare la nostra breve discussione. Boltanski concludeva il proprio discorso con un’affermazione molto importante: nel capitalismo “la natura della risposta in termini di giustizia dipende in gran parte dalla critica.Se gli sfruttati, gli infelici, coloro che non riescono restano silenziosi ed esclusi, allora non c’è necessità per il capitalismo di rispondere in termini di giustizia”. Il fatto nuovo per il pensatore francese è che – nella terza età del capitalismo – il mondo del lavoro ha rinunciato a rovesciare il capitalismo, limitandosi ad aggiustarlo o riformarlo.

In una recensione dedicata a Le nouvel esprit du capitalisme, de Benoist evidenziava magistralmente come ci si continui a scontrare sulla ripartizione del plusvalore, ma non si discuta più sulla maniera migliore per accumularlo:

È quella che Jacques Julliard ha definito ‘l’interiorizzazione da parte dei lavoratori della logica capitalistica’. Ciò che sembra in tal modo scomparire è un orizzonte di senso che giustifichi ilprogetto di cambiare in profondità l’attuale situazione. Di fatto, tutti quanti si piegano perché nessuno crede più alla possibilità di un’alternativa. Il capitalismo viene vissuto come un sistemaimperfetto ma che, in ultima analisi, rimane l’unico possibile. La sensazione si diffonde a tal punto che non è più possibile sottrarsene. La vita sociale ormai viene vissuta esclusivamente nella prospettiva della fatalità. Il trionfo del capitalismo risiede innanzitutto in questo fatto, di apparire come qualcosa di fatale”.

Assistiamo oggi a una degenerazione del principio di realtà, un’assenza completa di illusioni e un’attrazione irresistibile della “forza delle cose”; “Adeguati!” è il comandamento psicologico-politico del momento: per sopravvivere bisogna andare “a scuola di realtà”.

Un’intera epoca – pervasa dalla certezza che la storia avesse un senso, in cui si era convinti che il passaggio dalla preistoria alla storia fosse una questione di anni o al massimo decenni – si è rovesciata dialetticamente nella sicurezza (tale da diventare quasi un pilastro del senso comune) che il mondo che ci troviamo davanti è qualcosa di immodificabile e intrascendibile.

Il sistema è un grande Moloch invincibile, contro cui è inutile battersi e a cui al massimo si può strappare qualche concessione. Viviamo in una sorta di “positivismo tragico” – come lo definisce Sloterdijk – “il quale, ben prima d’ogni filosofia, sa già che il mondo non va né interpretato né cambiato: esso va sopportato”.

Ci si adatta all’ingiustizia. Si perde l’abitudine ad indignarsi. E ci si autoinibisce a priori la possibilità di cambiare lo stato di cose presente. La disoccupazione, la mortalità infantile, la povertà sono oggi trattate come il risultato di forze impersonali che agiscono ad un livello globale, contro cui non si può fare nulla.

Qual è la tua posizione a proposito? C’è una possibile via d’uscita, o bisogna “rassegnarsi” come suggeriva Umberto Galimberti in una recente intervista?

 

Quando ero giovane, avevo un programma massimo, che era quello di cambiare il mondo. Diventato vecchio, ho ormai un programma minimo, quello di impedire al mondo di cambiarmi. Anche io, come Sloterdijk, sopporto il mondo. Ma, a differenza di lui e dei suoi innumerevoli cloni meno dotati, rifiuto di trasformare la sopportazione in esito terminale della filosofia della storia, e questo in base al principio elementare del pudore.

Civettando con il linguaggio di Hegel, la nostra è un’epoca di gestazione e di trapasso verso un’impotenza sociale collettiva senza precedenti storici. In mancanza di precedenti storici che ci permettano di fare analogie, non esistono filosofie del passato (neppure quelle ellenistiche dell’interiorità all’ombra del potere e del rifugio in una comunità protetta di amici) che possano veramente aiutarci a pensare la sconvolgente novità epocale del nostro tempo. Superate le precedenti fasi astratta e dialettica e giunto alla fase speculativa, il capitalismo sembra essersi rinchiuso da solo in una gabbia d’acciaio (Max Weber) ed in un dispositivo tecnico imperforabile (Martin Heidegger). Le facoltà di filosofia sono ormai in occidente o palestre per carrieristi disincantati, o cliniche antidepressive per gente con velleità culturali.

Gli oppressi restano silenziosi perché (esattamente come Sloterdijk, ma a differenza di lui senza sapere chi erano Kant o Hegel) ritengono che non ci sia niente da fare. Questo è ad un tempo elementare ed enigmatico. Fichte avrebbe definito la precarietà in termini di Non – Io, ma egli viveva in un tempo in cui l’Io era ancora concepito come l’intera umanità pensata come in grado di fare il proprio destino. In appena due secoli la situazione è rovesciata. Oggi il concetto filosofico novecentesco che sembra connotare meglio l’attuale situazione è quello heideggeriano di Dispositivo (Gestell), e questo non a caso. Naturalmente non sono in grado di dare indicazioni per il superamento dell’attuale situazione. La filosofia, come la nottola di Minerva, si alza al crepuscolo. So però che di fronte alla globalizzazione finanziaria non bisogna perseguire l’inclusione, ma l’auto – esclusione. Il rovesciamento magico della globalizzazione in comunismo postmoderno, e cioè la teoria di Negri, è una vera e propria vergogna. Come sempre è avvenuto nella storia, la Resistenza verrà in un tempo ed in uno spazio determinato, non in un mappamondo finanziario.

Non so però né dove, né come, né quando.

 

 

A tuo parere – come si può rinvenire in molti saggi da te pubblicati – il pensiero marxiano è inficiato da due “errori di previsione”, che falsano le analisi di Marx e da cui è necessario separarsi per non incappare nuovamente in un’inevitabile sterilità teorica e politica:

 

1) il proletariato non è affatto una classe rivoluzionaria in grado di attuare la transizione decisiva dal modo di produzione capitalistico alla società senza classi. Le classi subalterne non sono state in grado di resistere alla radicalizzazione della sottomissione del lavoro al capitale, che al contrario le ha integrate nei gruppi sociali di produzione capitalistica “smentendo empiricamente” l’attribuzione metafisica che aveva fatto di queste classi un soggetto intermodale.

2) il capitalismo (a differenza di quanto Marx credeva) si è mostrato capacissimo di sviluppare le forze produttive, ed a svilupparle anzi ad un ritmo prodigioso, nonostante i danni enormi che ha inflitto sia all’uomo che alla natura.

 

Nel momento in cui si decide di accettare tali critiche, la scientificità di ciò che un tempo si chiamava “materialismo storico” non rischia di entrare drammaticamente in crisi?

Cerco di spiegarmi meglio. Come sappiamo per Marx “una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza”; il Nuovo diverrà necessario esclusivamente allorquando il Vecchio si sarà tramutato in “vincolo e pastoia“.

Giungerà il momento in cui, compiutamente sviluppato, il capitalismo diverrà un limite alla produttività umana che fino ad allora aveva promossa, e sarà allora che il proletariato si ergerà come classe emancipatrice dell’intera umanità, chiudendo il ciclo storico delle società divise in classi e aprendo le porte alla futura società comunista.

Ma se – preso atto degli errori che inficiano l’analisi marxiana – è impossibile delineare il momento in cui il vecchio diviene “vincolo e pastoia”; e se inoltre il proletariato si rivela affetto da una “pittoresca ed incurabile subalternità”, la scientificità della concezione materialistica della storia non va completamente all’aria?

Il problema non è marginale. La forza e la fortuna avuta da Marx e dal marxismo nel novecento derivava infatti proprio dalla certezza che il materialismo storico avesse un carattere scientifico, previsionale. Quando Marx contrappone il suo socialismo, in quanto scientifico, al socialismo utopistico di Owen, di Saint-Simon e di Fourier, intende sostenere che il suo socialismo – a differenza dell’altro – è in grado non solo di dire come stanno le cose, ma anche di indicare che necessariamente dovranno andare in un determinato modo.

Bisogna trarre la conclusione che il famoso passaggio “dall’utopia alla scienza” è stato in fin dei conti illusorio, ed il comunismo non è affatto il movimento reale che abolisce lo stato presente di cose (né l’orizzonte verso cui conduce il meccanismo del modo di produzione capitalistico indagato scientificamente) ma un’utopia che viene spacciata come scienza? Ed in un quadro come questo, non è forse secondario continuare a discutere sullo statuto filosofico di Marx (idealista o materialista) mentre sarebbe necessario proporre una via d’uscita dall’empasse in cui la critica marxiana è finita?

 

Fino ad alcuni anni fa avevo l’abitudine di autocertificarmi e di autodefinirmi “filosofo marxista”, ma si trattava spesso di una pura intenzionalità ideologico – politica, di una testarda fedeltà alla mia giovinezza e ad amici defunti (Labica, eccetera), di un rifiuto dell’approdo liberaldemocratico o postmoderno, eccetera. Oggi capisco che si trattava di un inutile equivoco, ed ho rotto con questa autocertificazione.

In Marx esiste una specifica schizofrenia, che si tratta di individuare con precisione. Da un lato una filosofia della storia di origine idealistica (a metà fichtiana ed a metà hegeliana), fondata su di un uso originale del concetto di alienazione. Dall’altro una teoria della storia di tipo positivistico, fondata su di una concezione predittiva (o, più esattamente, pseudo – predittiva) delle leggi storiche, pensate come omologhe alle leggi delle scienze della natura (donde materialismo dialettico e teoria gnoseologica del rispecchiamento).

Questa schizofrenia non permette in alcun modo una coerentizzazione del pensiero complessivo di Marx, che infatti non è coerentizzabile. Il successivo marxismo Engels – Kautsky (1875 – 1895) non lo coerentizzò, ma edificò una variante di sinistra del positivismo su base gnoseologica neokantiana. Ebbene, meglio tardi che mai. Sebbene in ritardo, sono ormai estraneo sia all’illusione di avere scoperto il “vero” Marx, sia alla dichiarazione identitaria di appartenenza alla “scuola marxista”.

In quanto al fatto se Marx sia prevalentemente idealista o materialista, si tratta di un problema di storiografia filosofica che mi è ormai del tutto indifferente. Propendo tuttavia per l’interpretazione idealistica per un insieme di ragioni non storiografiche e non filologiche. Primo, troppo spesso il “materialismo” è o ateismo (con il bel risultato di far risucchiare il pensiero di Marx nel laicismo nichilistico), o strutturalismo (con gli esiti finali aleatori dell’ultimo Althusser), o teoria del rispecchiamento (adatta alle necessità conoscitive delle scienze della natura, ma non alla doppia conoscenza – valutazione veritativa delle filosofia). Secondo, idealismo significa scienza filosofica (vedi Scienza della Logica di Hegel), e la scienza filosofica dell’approdo alla libertà del concetto – soggetto è la sola alternativa alla scienza positivistica della previsione.

Il discorso sarebbe lungo, ma per ora può bastare. Comunque, per me oggi Marx non è più il solo classico di riferimento, ma è un classico fra gli altri, ed Aristotele ed Hegel gli stanno ormai davanti.

 

 

Uno dei centri della tua riflessione è la negazione della pertinenza attuale della dicotomia Destra/Sinistra come criterio di orientamento nelle grandi questioni politiche, economiche, geopolitiche e culturali.

Hai infatti più volte sostenuto la convinzione secondo cui la globalizzazione nata dall’implosione dell’URSS non si lasci più “interrogare” attraverso le categorie di Destra e di Sinistra, e richieda invece altre categorie interpretative. In un recente dibattito con Losurdo hai infatti scritto:

 

La mia bussola di orientamento oggi si basa su tre parametri interconnessi:

 

  1. a) il principio di eguaglianza massima possibile all’interno di un popolo su diritti, consumi, redditi, partecipazione alle decisioni. Centralità del tema dell’occupazione. Posto fisso preferibile al lavoro temporaneo, flessibile e precario. Diritti eguali agli immigrati (che non significa immigrazione incontrollata). Messa sotto controllo del capitale finanziario speculativo di ogni tipo. Preferenza del lavoro rispetto al capitale. Difesa della famiglia e della scuola pubblica;
  2. b) il rifiuto del colonialismo e dell’imperialismo, che oggi hanno come aspetto principale l’impero USA ed in Medio Oriente il suo sacerdozio sionista, che utilizza per i suoi crimini il senso di colpa dell’Europa e dei suoi intellettuali rispetto al genocidio effettuato da Hitler, che ovviamente non mi sogno affatto di negare. Diritto assoluto alla lotta per la liberazione patriottica (lo stato nazionale esiste, eccome, ed è un bene e non un male, come dicono i seguaci di Negri e del Manifesto) per l’Iraq, l’Afganistan e la Palestina. Appoggio a tutti i governi “sovranisti” indipendenti (Venezuela, Iran, Birmania, Corea del Nord, Bolivia, eccetera), il che non implica necessariamente l’approvazione di tutti i loro profili interni ed esteri;
  3. c) considerazione dell’elemento geopolitico e rifiuto della sua virtuosa ed infantile rimozione. A differenza di Losurdo, non penso affatto che la Cina abbia una natura sociale “socialista”. Ma la appoggio egualmente, perché un equilibrio multipolare è preferibile ad un unico impero mondiale USA con vari vassalli (fra cui l’Italia è la più servile, con possibile eccezione di Panama e delle Isole Tonga). Chi appoggia questa cose è per me dalla parte giusta. Se poi si dichiara di destra o di sinistra, questo è affare suo, della sua biografia politica e della sua privata percezione valoriale. Ma la percezione valoriale è un affare privato, come i gusti sessuali e letterari e la credenza o meno in un Dio creatore”.

 

Lasciando da parte la pur pertinente critica avanzata da Losurdo, secondo cui ciò che tu cacci dalla porta rientra dalla finestra, cosa bisogna fare per tradurre (e – soprattutto – cosa accade quando si traduce) politicamente la critica di questa dicotomia?

Cosa distinguerebbe ciò dalla semplice riproposizione di un’ideologia da “terza posizione”?

 

Sebbene io sia spesso considerato un pensatore del superamento della dicotomia Destra / Sinistra (cosa che ovviamente non rinnego affatto), questo per me è ormai un argomento superato, secondario e poco interessante. Mi interessa invece il superamento del presupposto storico – ideologico della dicotomia, che è a sua volta la falsa dicotomia Progresso (sinistra) / Conservazione (destra). Per me il progresso e la conservazione sono solo opposti simmetrici in solidarietà antitetico – polare, ed io li respingo entrambi, il che mi costringe anche a respingere la loro concretizzazione identitaria (la dicotomia Destra / Sinistra appunto). Il prezzo da pagare in termini di fraintendimenti e diffamazione fa parte di quella costellazione chiamata da Heidegger “chiacchiera” (gerede). Come non sono né laico né cattolico, parimenti non sono né progressista né conservatore. Se devo definirmi in positivo lo faccio da solo, e non mi faccio classificare dagli altri, e per di più da altri maligni, ostili ed in malafede.

Sul così detto rossobrunismo c’è un equivoco da sfatare. Io non mi considero assolutamente un rosso-bruno, non lo sono e so di non esserlo, e questo non solo politicamente (non mi sono mai sognato di appartenere a gruppi rosso – bruni), ma anche e soprattutto filosoficamente. Il rossobrunismo è del tutto interno all’accettazione ideologica della dicotomia Progresso / Conservazione, e semplicemente vuole unire i “lati buoni” di entrambe le posizioni.

E così si coniugano insieme Marx e Nietzsche, Stalin e Mussolini, con il risultato di fare non solo una grande confusione, ma anche di offrire agli ideologi del potere (e cioè della pseudo democrazia come fantasma di legittimazione) un repertorio di diffamazione su di un piatto di argento. Un conto è essere rosso-bruni, ed un conto è essere oltre il Rosso ed il Bruno. Mi spiace di dover usare un lessico alla Nietzsche / Vattimo, che come sai non mi appartiene, ma è necessario insistere sul fatto che cercare di essere oltre la dicotomia Rosso / Bruno significa non essere né Rossi, né Bruni, né infine rossobruni.

Come scrisse Dante Alighieri, bisogna “lasciar dir le genti”. La capacità di ragionare è inversamente proporzionale all’esibizionismo presenzialistico, che oggi il facile accesso ad internet ed il superamento (Umberto Eco) della separazione fra alta cultura e cultura di massa ha portato a livelli socialmente e culturalmente intollerabili.

 

 

Il potenziale del capitalismo di generare crisi ambientali sorpassa di gran lunga quello di tutti i sistemi economico-sociali precedenti, e ciò è intrinseco alla sua stessa logica di sopravvivenza.

Ben lungi dal riconosce il comune interesse delle generazioni presenti e future per la natura e la società quali condizioni dello sviluppo umano, il capitale converte la natura e le relazioni sociali in puri mezzi di sfruttamento e di accumulazione monetaria.

Fulcro della tua proposta filosofica è l’insistenza sul fatto che l’etica comunitaria dei greci era basata sul metron (ossia la misura opposta allo smisurato), da te intesa come il “cuore sempre vivo dell’insegnamento dei nostri maestri greci”.

Nei tuoi studi sostieni infatti la tesi secondo cui la democrazia della polis antica era prima di tutto una tecnica politica rivolta a limitare e ad addomesticare la dinamica spontanea dell’arricchimento illimitato di pochi (dinamica che porta infallibilmente alla dissoluzione della comunità), dichiarando altresì che la filosofia stessa “trova la sua origine storica nella piazza pubblica greca detta agorà, in cui i cittadini mettevano in mezzo (es meson) la loro capacità di ragione, linguaggio e calcolo (logos), e che questa messa in mezzo comunitaria era rivolta a portare la misura (metron) nelle cose pubbliche di tutti (ta koinà), in modo che concedendo ai cittadini l’eguale accesso regolato alla parola pubblica (isegoria) si potesse raggiungere un nuovo equilibrio (isorropia), e questo nuovo equilibrio potesse portare infine alla concordia fra cittadini (omonoia)”.

A tuo parere Marx stesso è hegelianamente un avversario della “illimitatezza indeterminata”, ed è aristotelicamente un amico della misura nella riproduzione sociale; per il pensatore di Treviri la contraddizione fondamentale del capitalismo sarebbe perciò quella fra ricchezza per il capitale e ricchezza per i produttori e le loro comunità.

In una recente intervista hai inoltre sostenuto che “il problema fondamentale del capitalismo attuale sta nella dinamica di sviluppo illimitato della produzione capitalistica, e nel fatto che l’infinito-illimitato è il principale fattore di disagregazione e di dissoluzione di qualunque forma di vita comunitaria”. Sembri perciò auspicare una rinnovata applicazione del concetto normativo di metron al mondo sociale (ed ambientale); è così?

Murray Bookchin sosteneva che «Il capitalismo non può essere “convinto” a porre dei limiti al proprio sviluppo più di quanto un essere umano possa essere “convinto” a smettere di respirare»; Condividi tale affermazione? A tuo parere, il sistema capitalistico potrebbe tramontare perché costretto a darsi un fine diverso dal profitto, vale a dire la salvaguardia della base naturale (e conseguentemente sociale)?

 

Murray Bookchin coglie genialmente il cuore filosofico della questione del capitalismo, anche se non sono affatto ottimista sulla possibilità di riuscire a darci un fine diverso dal profitto. Per questo ci vuole sempre la buona vecchia rivoluzione, anche se non si vedono soggettività individuali (teoria) e collettive (prassi) in grado di riprendere sensatamente il progetto rivoluzionario. Comunità politica e decrescita economica sono per ora soltanto idee – forza senza basi storiche realmente efficaci.

In greco antico metron significa misura, ma il termine non ha nulla a che vedere con il concetto di misura della rivoluzione scientifica moderna, che ha permesso di passare dal mondo del pressappoco all’universo della precisione (la formula è di Alexandre Koyrè). Si tratta di una misura sociale e politica, legata al termine logos, che non significa soltanto parola pubblica o ragione (logos contrapposto a mythos), ma significa soprattutto calcolo sociale (il verbo loghizomai significa calcolare). L’unione fra logos (calcolo politico e sociale) e metron (misura politica e sociale) sta alla base della teoria della giustizia antica (dike), che non ha ovviamente nulla a che vedere con le moderne teorie della giustizia (Rawls, Habermas, Bobbio), che prescindono tutte dalla sovranità democratica sulla riproduzione economica, eretta ad un Assoluto che ha sostituito il vecchio Assoluto religioso cristiano (comparativamente migliore, a mio avviso, al di là della sua pessima funzione ideologica di legittimazione feudale e signorile).

Polanyi ha fatto molto bene a tornare al concetto di metadoni ed alla distinzione aristotelica fra economia e crematistica (su cui fonda la sua ricostruzione dell’umanesimo greco il filosofo Luca Grecchi). Tutti coloro che invece enfatizzano unicamente i due significati di logos come discorso pubblico o come ragione (ad

esempio Hannah Arendt), dimenticando che invece il significato principale di logos è quello di calcolo sociale rivolto alla doppia fatale dismisura del potere e della ricchezza (metaforizzata, a mio avviso, dall’apeiron di Anassimandro), ci ripropongono una grecità normalizzata e “decaffeinata” (per usare un arguto termine di

Slavoj Zizek). Ma una grecità correttamente interpretata sarebbe ancora più attuale non solo della liberaldemocrazia ottocentesca, ma anche della stessa tradizione marxista, ribadendo che ciò che generalmente passa per “marxismo” non è che un positivismo di sinistra a base gnoseologica neokantiana.

 

 

Vorrei soffermarmi ancora brevemente su tale concetto. Tu infatti sostieni che impadronirsi della genesi della filosofia (e della democrazia) come “razionalizzazione logica (logos) e dialogica (dialogos)” dei conflitti sociali in termini di scontro fra Misura (metron) e Dismisura (apeiron) “è di importanza eccezionale, perché permette di tenere ferma ancora oggi la centralità del conflitto sociale e politico senza più fare ricorso al concetto di Progresso”.

Sembri quindi delineare la possibilità che – attraverso il recupero del principio greco del metron – sia possibile criticare ogni apologia incondizionata del progresso “illimitato”; è così?

Hai inoltre recentemente sostenuto che il principio ideologico del progresso ed il principio filosofico dell’emancipazione devono essere non solo distinti, ma separati, evidenziando la necessità di abbandonare il primo senza rinunciare ad una prospettiva emancipativa. Puoi sviluppare più ampliamente questa tua idea?

 

Molto spesso i critici del principio ideologico del progresso sono anche scettici sulla possibilità di realizzare concretamente il principio filosofico dell’emancipazione (pensiamo alla dialettica negativa di Adorno, al pessimismo radicale dell’ultimo Horkheimer ed al famoso “un solo Dio può ancora salvarci” di Heidegger). Inversamente, si hanno anche sostenitori del principio filosofico dell’emancipazione che restano attaccati al principio ideologico del progresso (pensiamo all’ontologia dell’essere sociale di Lukàcs o all’utopismo escatologico di Bloch). Si tratta allora di capire se vi sia una terza strada, diversa sia da quella di Adorno, Horkheimer ed Heidegger, sia da quella di Lukàcs e di Bloch. Il principio ideologico del progresso ed il principio filosofico dell’emancipazione sono dunque inscindibili ed inseparabili?

Non lo credo, e si tratta appunto di una delle mie principali tesi filosofiche, ed una di quelle cui tengo di più. Il principio ideologico del progresso è “ideologico” appunto perché nacque al servizio di una legittimazione ideologica della borghesia europea settecentesca, che costruì una filosofia progressistica della storia universale (poi sistematizzata in forma ulteriormente meccanicistica, deterministica e finalistica dal positivismo ottocentesco e dal suo fratellino minore, il marxismo storico). Ma ad esempio già l’idealista Fichte fonda la sua teoria dell’emancipazione non su di una ideologia del progresso, ma su di una interpretazione radicale del diritto naturale. Lo stesso “progressismo “ di Hegel (indubbiamente un pensatore progressista) è assai più una teoria dell’acquisizione di una libera autocoscienza, che una teoria della successione obbligata di “stadi” nella storia, come avvenne più tardi nel marxismo, dottrina integralmente “progressista”. Georges Sorel fu uno dei pochissimi pensatori che cercarono di separare il principio del progresso da quello dell’emancipazione, e ritengo che si muovesse nella direzione giusta, anche se il suo codice teorico benemerito era indebolito da una insufficiente comprensione del pensiero greco e di quello idealistico. Ma si tratta di riprendere un secolo dopo il corretto programma di Sorel, radicalizzandolo con un esplicito ritorno al pensiero dei greci, che definirei sommariamente un pensiero della giustizia sociale e politica, sia pure in assenza di una filosofia della storia nel senso moderno del termine.

 

 

In diversi tuoi libri hai sostenuto la tesi per cui in verità la realtà in cui stiamo vivendo è quella di un’oligarchia o, più esattamente, un sistema oligarchico controllato congiuntamente da un circo mediatico e da una rete di mercati finanziari: “un sistema di potere periodicamente legittimato da referendum elettorali di facciata, che ha incorporato residui costituzionali della tradizione liberale classica”.

La democrazia sarebbe in realtà un fantasma di legittimazione, così come erano fantasmi di legittimazione il carattere cristiano della societas christiana del Medioevo europeo o il riferimento al pensiero di Karl Marx del comunismo storico novecentesco. Puoi precisare questa tua argomentazione, facendo riferimento alla prospettiva delineata ne Il popolo al potere?

 

Come già in due casi precedenti (l’interpretazione controcorrente del pensiero filosofico di Karl Marx e la ricostruzione controcorrente della storia della filosofia occidentale dai greci ad oggi) anche nel caso della filosofia politica moderna (di cui la teoria della democrazia è parte integrante) io perseguo un esplicito riorientamento gestaltico. La teoria moderna della liberaldemocrazia insiste su di una dicotomia virtuosa, quella Democrazia / Dittatura. La democrazia è il lato buono, la dittatura (nelle sue varie forme, fasciste, comuniste, populiste, fondamentalistico – religiose, eccetera) il lato cattivo. Io considero questa dicotomia un fantasma di legittimazione, e “fantasma” perché il fondamento della democrazie, il popolo, deve essere in qualche modo sovrano sulla forma essenziale della sua riproduzione sociale. Ma questa sovranità non esiste, perché è nelle mani di oligarchie che nessuno ha eletto. La dicotomia non è dunque oggi (parlo di oggi, non del 1930) Democrazia / Dittatura, ma Democrazia / Oligarchia.

Se si accetta questo riorientamento gestaltico (ma esso è rifiutato da tutto il pensiero universitario, mediatico e politico, non importa se di destra, di centro o di sinistra) il problema non è più di forma, ma di contenuto. E il contenuto sta nella sovranità militare (niente basi atomiche straniere sul territorio nazionale), ed economica (niente delocalizzazioni industriali, precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro, eccetera), cui poi seguono “a cascata” tutte le altre sovranità (mediatica, culturale, linguistica, eccetera). È del tutto evidente che oggi non esistono neppure gli elementi minimi di questa sovranità, e per questo la presunta “democrazia” non è che un fantasma di legittimazione.

Vi è quindi “democrazia” oggi (sia in senso greco, che in senso popolare ottocentesco) soltanto quando si è in presenza di reali movimenti sociali e politici di tipo anti – oligarghico, che non si fanno spaventare dal teatro dei burattini delle accuse di “populismo”, categoria tuttofare che ha sostituito il vecchio mostro totalitario a due teste fascismo / comunismo, che è oggi obsoleto come la dicotomia Guelfi / Ghibellini. Benedetto Croce e Norberto Bobbio hanno fatto il loro tempo, e prima o poi forse qualcuno

se ne accorgerà, se riuscirà a perforare la crosta della dittatura ideologica dei mercati finanziari, dei politici, dei giornalisti e dei politologi universitari.

 

 

In questi ultimi anni hai lavorato moltissimo dando alla luce decine di importanti saggi (molti dei quali ancora inediti); prima di congedarci, ci concederesti qualche informazione circa i tuoi progetti editoriali futuri?

 

A proposito del lavoro svolto nei trent’anni precedenti io posso dichiararmi insieme soddisfatto ed insoddisfatto. Sono moderatamente soddisfatto sia per la quantità sia soprattutto per la qualità di molti miei lavori (non di tutti). È vero che non toccherebbe a me dirlo, ma penso che un autore debba avere una certa autoconsapevolezza soggettiva della natura del suo lavoro. Il riconoscimento sociale è stato pressochè nullo, ma tendo a pensare che la ragione di fondo sia dovuta all’assoluta novità delle soluzioni proposte, inaccettabili e irricevibili della casta degli “intellettuali di sinistra”. E’ possibile, anche se lo considero poco probabile, che ci possa essere un moderato riconoscimento postumo. In ogni caso, quando saremo ridotti in polvere, il riconoscimento o meno ci sarà del tutto indifferente.

Sono moderatamente insoddisfatto per almeno due ragioni. Primo, per l’incredibile ritardo identitario a sganciarmi anche formalmente dalla tribù marxista ufficiale – ufficiosa, laddove ormai ero divenuto un filosofo del tutto indipendente. Secondo, il fatto che da un lato ho sempre rimproverato Marx per non avere coerentizzato il suo pensiero, e poi dall’altro neanch’io sono riuscito a coerentizzare il mio. Lo ritengo una lacuna molto grave.

Detto questo, ad altri più giovani toccherà, se lo vorranno, giudicare il mio pensiero. Ritengo però che i miei lavori migliori e significativi siano ancora inediti, e ne segnalo il contenuto a quelle poche decine di amici di cui ho conquistato la stima.

Ho scritto molti saggi monografici su Marx, ma ce n’è ancora un ultimo inedito che ritengo più significativo di altri. In quest’ultimo ho esplicitato oltre ogni dubbio la mia interpretazione di Marx come pensatore tradizionale (e non progressista) e come filosofo idealista (e non materialista) e soprattutto come allievo minore di Aristotele e di Hegel. Non c’è nulla di definitivo finchè si vive, ma ritengo questa interpretazione il mio provvisorio bilancio definitivo di Marx.

Il lavoro cui tengo di più è però una mia originale storia della filosofia, di cui ho scritto una variante più breve (250 pagine) ed una più lunga (600 pagine). Si tratta di una ricostruzione dell’intera storia della filosofia occidentale che non ha precedenti (almeno a me noti), perché da un lato utilizza sistematicamente il metodo “materialistico” della deduzione storico – sociale delle categorie del pensiero filosofico (metodo proposto nel novecento da Alfred Sohn – Rethel, che io però utilizzo in modo del tutto originale), e dall’altro questo metodo è però inserito in una concezione pienamente veritativa del pensiero filosofico, ispirata non certo ai sociologi marxisti, ma ai greci e ad Hegel. È questo il lavoro che considero il più significativo della mia vita.

Vi sono poi alcuni saggi monografici inediti, non casuali, ma che compongono un disegno coerente. Primo, un saggio su Althusser, in cui esamino il suo pensiero, e ne prendo decisamente le distanze su di un punto essenziale. Mentre per Althusser l’equazione filosofica peggiore si scrive come (Soggetto = Oggetto) = Verità, questa per me è invece l’equazione filosofica migliore che si possa scrivere. Secondo, un saggio su Adorno, in cui prendo decisamente le distanze dalla dialettica negativa, considerandola in termini di una sofisticata apologia ideologica di adattamento al capitalismo travestita da opposizione radicale. Terzo, un saggio su Sohn – Rethel, in cui da un lato elogio il metodo della deduzione sociale delle categorie, dall’altro rifiuto la sua la sua critica dell’idealismo ed il suo sociologismo relativistico. Quarto, un saggio su Karel Kosìk, visto come uno dei pochissimi filosofi marxisti novecenteschi che non si sono vergognati di scrivere un capolavoro di filosofia pura (La Dialettica del Concreto) senza sempre travestirla da ideologia. Quinto, un ritorno meditato sulla Ontologia dell’Essere Sociale di Lukàcs, sempre lodata e stimata, ma anche questa volta maggiormente criticata per le sue insufficienze.

Vi sono anche altri studi sul comunitarismo, ancora inediti, e interventi su riviste che prima o poi qualcuno forse raccoglierà. Ma ciò che più conta in un filosofo è quello che i tedeschi chiamano Denkweg, e cioè il percorso di pensiero.

Approfondendo con radicalità il marxismo, ed applicando anche al marxismo stesso la marxiana critica delle ideologie (cosa che in generale i marxisti non fanno, mostrando così a tutti la loro miseria), sono arrivato alla fine a riscoprire il pensiero greco e la cosiddetta metafisica classica. E questo non certo per conversione o pentimento, ma al contrario proprio sulla base del metodo della critica immanente, metodo dialettico se mai ce n’è stato uno.

E con questo posso proprio chiudere.

Donato Sperduto – Agire o lasciar fluire? Emanuele Severino e Carlo Levi a confronto

Carlo Levi

Introduzione
Sia nei suoi scritti che nella  vita reale, lo scrittore torinese Carlo Levi ha sempre messo in relazione la dimensione ‘teoretica’ con quella ‘pratica’. Non si è ad esempio limitato a scrivere contro il fascismo, ma si è anche concretamente impegnato contro la persistenza di tale regime in Italia invitando gli italiani a non avere paura della libertà (non a caso Paura della libertà è il titolo del primo libro da lui scritto).
Anche il rinomato pensatore bresciano Emanuele Severino vede una correlazione tra ‘teoria’ e ‘pratica’, tra fede nel divenire e «nichilismo dell’Occidente». La celebre affermazione severiniana1 dell’eternità di ogni essere «sembra comportare di diritto la più radicale riforma antropologica»2. Infatti, tra etica ed ontologia esiste un legame inscindibile nel senso che ad una determinata toeria sull’essere segue una precisa dimensione antropologica. Ed è lo stesso Severino a ritenere che il pensare determina l’azione. Egli ha in effetti evidenziato le implicazioni etiche della concezione nichilistica dell’essere.
In questo mio lavoro scandaglio gli aspetti centrali del pensiero severiniano e di quello leviano mettendoli a confronto con l’intento di elucidare i punti che li avvicinano e che valorizzano anche il pensiero di Carlo Levi, il rinomato romanziere italiano autore anche di opere teoretiche ingiustamente trascurate.

1. La fluidità del tutto
Il filosofo bresciano ritiene che non tenendosi fermo all’estrema contrapposizione dell’ente e del niente, il pensiero occidentale ha smarrito il senso dell’essere, l’ha alterato e dimenticato, e così è caduto nell’estrema contraddizione, ha ammesso l’assurdo: che il non-niente (l’ente) è niente. Questo è avvenuto perchè quell’opposizione non è stata fatta valere necessariamente, assolutamente, ma è stata limitata temporalmente. Il nichilismo consiste proprio nella nientificazione di ciò che è, nella persuasione che l’essere divenga (esca dal nulla e ritorni nel nulla), potendo pertanto  non essere, e conseguentemente nella prassi (la volontà di pontenza) che scaturisce da questo convincimento.
Severino avvalora la sua tesi del nichilismo dell’Occidente rifacendosi ai filosofi  greci. Infatti, una volta escluso che il senso della cosa sia metastorico, ossia che non «sia apparso ad un certo momento» della storia umana (SFP, p. 369), egli afferma che il senso (nichilistico) della cosa è stato portato alla luce dalla metafisica greca (marcatamente da Platone).
La civiltà occidentale ha obliato il senso dell’essere, perchè ha voltato le spalle all’eternità dell’essere, affermata da Parmenide. A questo proposito, il motto di Severino è‚ appunto, «ritornare a Parmenide».
La fatidica affermazione della temporalità dell’ente ha dei risvolti etici. Allora quando si è persuasi che l’ente è nel tempo, «la nascita del progetto di dominio e di sfruttamento dell’ente non solo è possibile, ma è inevitabile» (AT, p. 31). Consistendo la volontà di potenza nella volontà che l’ente sia nel tempo, la caratteristica essenziale della civiltà occidentale non può che essere proprio la volontà di potenza.
Severino approfondisce questa tematica ricorrendo significativamente alla metafora del mare proprio perché il divenire esprime «la fluidità del mondo» (LeC, p. 122). Come per navigare occorrono le imbarcazioni, e prima ancora il mare, e, anzi, prima di tutto, che si creda nell’esistenza del mare, così per dominare il mondo occorrono degli strumenti, e prima ancora la dominabilità del mondo, e, «anzi, prima di tutto, che si creda nell’esistenza della dominabilità e flessibilità del mondo; occorre la fede nell’esistenza del dominabile» (FF, p. 109). Ora, essendo il mondo dominabile in quanto fluidità o divenire (le cose escono dal nulla e ritornano nel nulla), gli abitatori del tempo manipolano, producono e distruggono la totalità delle cose, perchè hanno fede nel divenire (nella fluidità) dell’ente, perchè credono di vedere questo divenire. Sì che, se il divenire dovesse risultare impossibile e non evidente, tale dovrà risultare anche il dominio del mondo. Ma allora, credendo nell’impossibile e agendo in base a questa fede (che però non è considerata una fede dall’abitatore del tempo), non sarà azzardato affermare che sulla terra domina ormai la follia estrema, che «la storia della nostra civiltà è la storia della follia estrema» (T, p. 218). Ed è proprio a questa conclusione che Severino perviene evidenziando la tesi della fluidità del tutto propria, a suo parere, al pensiero occidentale (ma, da quanto scrive, anche a quello orientale).

2. La distruzione degli immutabili
La volontà di potenza è incarnata dalle due fondamentali espressioni del nichilismo metafisico: Dio e la tecnica (EN, p. 183). Questi due “tecnici supremi” sottopongono ad una dominazione illimitata tutte le cose. Ma oramai «Dio è morto» ed è la tecnica ad esercitare questa dominazione illimitata. Come si spiega la morte del «vecchio re»? Per rispondere a questa domanda bisogna tener conto dell’interpretazione che Severino dà della storia del pensiero occidentale e che può essere definita così: inevitabile evocazione e distruzione degli immutabili.
I pensatori greci3 hanno inteso il divenire come l’uscire dal niente e il ritornarvi, da parte delle cose del mondo. Ma la fede nel divenire delle cose implica l’imprevedibilità del divenire e questa imprevedibilità genera terrore. Tutto ciò che diviene irrompe nel mondo ed incomincia ad essere, è stato un niente. Ed «è proprio per questo suo essere stato un niente che ciò che irrompe nel mondo è assolutamente, infinitamente imprevedibile […]; e quindi è la minaccia estrema rivolta alle cose esistenti» (LC, p. 23). Per difendersi dall’angoscia del divenire gli abitatori del tempo, a partire da Eschilo, hanno predisposto come rimedio del dolore la verità, l’epistème, ossia «ciò che sta, imponendosi su ogni negazione che vorrebbe travolgerlo» (L, p. 164) e su ogni divenire (FF, p. 12). L’immutabile è quindi il rimedio del dolore. Ma, come ha visto Nietzsche, «il rimedio è stato peggiore del male» (FC, p. 11). La civiltà della tecnica ha così dovuto distruggere l’immutabile perchè rende impossibile il divenire. L’immutabile, infatti, «è il senso prestabilito al quale ogni sopraggiungente deve adeguarsi e nel quale ogni sopraggiungente è anticipato» (AT, p. 123). Ma, una volta anticipato, ciò che diviene non esce dal niente, bensì dalla propria anticipazione. Allora il niente non è più niente (viene cioè entificato) e il divenire diventa apparenza.
Morto Dio, il nuovo rimedio, cioè la scienza e la tecnica, quest’ultima essendo la scienza applicata all’industria, hanno preso il suo posto. Col suo carattere ipotetico, la previsione scientifica riesce a dominare realmente il divenire, riconoscendone l’imprevedibilità. Ma questo non vuol dire che, con l’eclissi dell’epistème, non sia rimasto alcun immutabile. L’unico immutabile che non è stato distrutto dal divenire è «la fede nell’evidenza del divenire», perchè, come ha visto l’attualista Giovanni Gentile, è «quell’unico immutabile che consente al divenire di mantenersi aperto come divenire» (AT, p. 123). Tuttavia, restando all’interno della fede nel divenire, nemmeno scienza e tecnica possono liberare dal dolore (FF, parte IV).
Per Severino si presentano in questo modo almeno due problemi cruciali. Da una parte l’uomo contemporaneo non può più trovare rimedio al dolore nell’Ente eterno, dall’altra si prospetta la mancanza di una vera via che permetta all’uomo di liberarsi dal dolore. Inevitabile porsi la domanda decisiva e darle una risposta fondata: cosa bisogna fare per poter esser felici?
Come vedremo, in Severino ogni sopraggiungente, quindi anche l’alienazione della verità, non è qualcosa che sarebbe potuto non apparire, ma qualcosa destinato ad apparire. Si pone allora il problema del tramonto dell’«isolamento della terra». Cosa si deve fare affinchè tramonti l’isolamento della terra (ossia il mondo del mortale separato dal destino della verità)? La soluzione del problema non può però emergere dalla risposta a questa domanda, anzitutto perchè la domanda: “Che fare?” sorge e trova risposta «soltanto all’interno della fede originaria in cui consiste l’isolamento della terra» (DN, p. 405). Non è restando all’interno dell’alienazione della verità che si può uscirne! La salvezza della verità, che è l’autentico significato del tramonto del nichilismo e dell’isolamento della terra, non è il risultato di una “mia” o “nostra” impresa.
«Nell’orizzonte della verità, “io”, “tu”, “noi” non dobbiamo far nulla» (DN, p. 407). Ma questo non vuol dire che, se «tutte le cose sono e divengono necessariamente», «non occorrerebbe più che noi prendessimo delle decisioni, nè che ci sforzassimo laboriosamente» (Aristotele, De interpr., 18b 31-33). Per Severino, neanche con questo modo di pensare si esce dal terreno del nichilismo. «Chi è convinto che non gli rimane altro che incrociare le braccia – chi cioè è convinto di poterle incrociare e di poter rinunciare ad agire –‚ se tutto accade necessariamente, costui è convinto di essere libero di incrociarle e di rinunciare ad agire, e isola dal Tutto la dimensione delle proprie decisioni» (DN, pp. 447-448). Se il tramonto del nichilismo e dell’isolamento della terra è destinato ad accadere, non solo non si deve far qualcosa, ma non si deve nemmeno rinunciare ad agire – e tanto meno ricorrere all’“attendismo”.
La verità non è qualcosa che deve essere messo in pratica; la liberazione dal dolore del mortale non è quindi la salvezza del mortale, ma ne è il tramonto. «All’essenza della verità non appartiene dunque la domanda: “Che cosa si deve fare?”, ma la domanda: “Che cosa è destinato ad accadere?”» (SFP, p. 32; cfr. anche G, pp. 73-78). Nel destino della verità, ogni cosa si inoltra nel cerchio dell’apparire necessariamente, con un ordine immodificabile e insostituibile. L’isolamento della terra e il nichilismo, che appaiono all’interno della verità dell’essere, non possono non accadere.

3. L’eternità dell’essere
Mi pare opportuno, a questo punto, esporre succintamente i tratti essenziali del pensiero severiniano dell’eternità dell’essere ovvero di quella che vorrei chiamare la metafisica futile di Severino. Ecco a quale conclusione conduce l’argomentazione severiniana ancorata al principio che l’essere è necessariamente se stesso: è immediatamente autocontraddittorio affermare che qualcosa non sia, che si dia un tempo in cui l’essere non sia (che l’essere non sia sé, ma il suo opposto); allora all’essere – e alle sue determinazioni – conviene immediatamente l’essere. «Risiede nel significato stesso dell’essere, che l’essere abbia ad essere» (SO, p. 317) e dunque non si può non dare «l’identità dell’essenza con sé medesima (o la sua differenza dalle altre essenze), ma l’identità dell’essenza con l’esistenza (o l’alterità dell’essenza dall’inesistenza)» (ibid.). L’essere non è dunque indifferente a che sia o non sia e la negazione di proposizioni del tipo «L’essere (l’intero) non diviene» («L’essere è immutabile») e «L’essere (l’intero) non si annulla, e non esce da una iniziale nullità» «è intrinsecamente contraddittoria» (SO, p. 519). La verità dell’essere, la struttura originaria della verità è appunto l’essere (l’eternità) dell’essere ed è l’apparire dell’autonegazione della negazione della verità. Propria alla metafisica futile è, dunque, la “confutazione” (l’élenchos) della negazione della verità dell’essere (del resto sia in ‘futile’ che in ‘confutare’ è presente la radice latina FU, ‘versare’). Autonegandosi, la negazione lascia stare ciò che nega. Se si tiene presente che il verbo latino destino, costruito sulla radice sta, esprime «il senso fondamentale dello “stare”» (DN, p. 131), in questo senso si può parlare di «destino della verità», per indicare  che ciò che la verità dice non può essere rimosso, smentito, e che ogni ente, persino il più insignificante, è già da sempre e per sempre sollevato nell’essere (DN, pp. 124-125).
Tutto è eterno, tenendo presente che per Severino «l’eternità di ogni ente è l’eternità di ciò che esso è nel modo in cui lo è» (DN, p. 99). Tuttavia, tutto è eterno e ogni cosa appare e scompare. Ma quest’ultima affermazione non vuol significare che tutto diviene (appare e scompare). Vi possono essere divenire e percezione del divenire soltanto se “qualcosa” non diviene. Quel qualcosa di immoto è l’apparire trascendentale: ciò che sopraggiunge e esce dallo sfondo dell’apparire (ovvero dall’apparire trascendentale) non esce dal niente e non vi ritorna. Dunque, per Severino «il divenire che appare è sempre il divenire di una determinazione particolare, o “empirica”, del contenuto che appare» (EN, p. 98). Se l’apparire empirico (l’apparire di una determinazione particolare) entra ed esce dall’apparire, l’apparire inteso «come evento trascendentale, ossia come l’orizzonte della totalità di ciò che appare» (ibid.), non può apparire e scomparire. Gli enti possono apparire solo in quanto appare l’intramontabile cerchio, l’apparire trascendentale. Allora, divenendo, l’apparire empirico entra ed esce dall’apparire trascendentale, esce dall’ombra del non apparire ed entra nella luce dell’apparire (e viceversa). La totalità dell’ente (il Tutto) appare, quindi, processualmente, non si svela totalmente nell’apparire trascendentale (l’«eterno» severiniano non è pertanto atemporale). E in G Severino afferma poi che «il cerchio originario dell’apparire del destino esiste in una molteplicità di cerchi.» (G, p. 37)

5. Libertà e necessità
Una volta affermato che qualcosa si inoltra non nell’essere, ma nell’apparire, ossia che le variabili sopraggiungono ed escono dall’intramontabile cerchio dell’apparire, Severino deve risolvere un altro problema squisitamente filosofico: il problema della libertà. Esso può essere posto in questo modo: «le varianti seguono un destino necessario, nel processo del loro apparire e sparire, oppure appaiono, ma sarebbero potute non apparire e scompaiono ma sarebbero potute non scomparire? » (EN, p. 164). È con DN, che costituisce una notevole ‘svolta’ nel pensiero di Severino, che sopraggiunge nel cerchio dell’apparire il risolversi del problema della libertà.
In DN (e prima ancora in AT, pp. 108-111) viene testimoniata l’appartenenza della libertà all’essenza del nichilismo. Proprio con quest’affermazione inizia il cap. 1 di DN: «La libertà appartiene all’essenza del nichilismo, ossia all’alienazione che, completamente inavvertita, guida e domina lo sviluppo della civiltà occidentale» (DN, p. 19). Se la contingenza dell’ente  deve essere esclusa, perchè, oltre ad ammettere la possibilità che l’essere non sia, riferisce un predicato a qualcosa che non appare, e quindi tale riferimento non può esprimere un contenuto fenomenologico, proprio per questo stesso motivo si deve escludere la contingenza dell’apparire. Severino afferma, quindi, categoricamente che «Non solo ogni decisione è eterna e tutto è già da sempre deciso, ma le decisioni che appaiono sono il destino necessario della storia e nulla accade che non sia l’accadimento del destino» (DN, p. 94). Tutto ciò che accade (anche la follia dell’Occidente) è inevitabile, necessario. «Non esiste alcuna cosa che possa sfuggire alla necessità : perchè lo sfuggirle è il negarla […] e il negarla è autonegazione» (DN, p. 124). A differenza della libertà (l’esser disponibili all’essere e al niente), la necessità non è l’essenza della servitù (non è una costrizione): «il cuore di ogni cosa è la necessità stessa della verità, che dunque non ostacola e non imprigiona le cose, ma è il luogo in cui esse sono tutto ciò che possono essere» (ibid.). Il discorso di Severino non è‚ quindi, assimilabile al fatalismo. Nel cuore della libertà – o della contingenza – dell’ente sta invece la nientità dell’ente (DN, p. 120). Tutte queste affermazioni hanno fatto dire a C. Fabro che quella di Severino è «la negazione più radicale della libertà» in cui egli si sia mai imbattuto4.
Severino ci tiene a precisare che la necessità di cui lui parla (la “necessità futile”; cfr. § 11) non ha però nulla a che vedere con la “necessità” evocata dalla cultura occidentale, perchè alla radice di quest’ultima vi è la volontà di potenza. «Nella storia dell’Occidente la “necessità” compare sin dall’inizio divisa in se stessa: come la “necessità“ degli immutabili che dominano la ribellione del divenire, e come la “necessità“ del divenire che continua a sopravvivere sotto il dominio degli immutabii dell’Occidente e prepara la loro distruzione. La volontà di potenza sta alla radice di questa divisione della “necessità“» (SO, p. 97). Entrambe le facce della medaglia della “necessità” tradizionale sono inaccetabili per il filosofo bresciano (si tratterà allora di vedere come deve essere intesa esattamente la “necessità futile” della metafisica futile di Severino).
Dato che tutti gli enti sono eterni, non è semplicemente un fatto che ognuno di essi stia insieme agli altri, ma è inevitabile che ogni ente stia insieme agli altri e che sia «un loro inevitabile compagno. È cioè impossibile che un qualsiasi ente sia, senza che un qualsiasi altro ente sia. Ad esempio, è impossibile che il cielo stellato sia e questo cantare dei grilli non sia; o che la verità dell’essere sia e la storia del nichilismo non sia» (DN, p. 113). Ogni ente è necessariamente unito ad ogni altro, ogni parte è unita al Tutto e ad ogni altra parte. Tutto ciò che appare non può non apparire. «L’apparire di tutto ciò che appare appartiene alla necessità, detta dal dire necessario […], nel senso che la negazione della necessità è autonegazione non solamente in quanto essa nega l’opposizione dell’ente al niente, ma anche in quanto essa nega l’apparire di ciò che appare» (DN, p. 129). La necessità non è soltanto che l’ente non è un niente, ma anche che l’ente appare come concreto determinarsi dell’esser ente, «è dunque l’unione tra l’opposizione dell’ente al niente e l’apparire di una molteplicità di enti determinati […]. E quell’unione è la struttura originaria della verità, ossia la struttura originaria del destino» (DN, p. 130).

6. La Gioia e la Gloria
Come visto, ciò che accade non è il prodotto di azioni, non è ciò che il mortale crede che accade;  «ma ciò che accade è il destino […] che nessun dio e nessun uomo possono “tenere” e dominare» (DN, p. 489). Per Severino, le azioni non producono le “opere storiche”. «Le azioni sono astri eterni che chiamano, perchè si svelino, altri astri eterni. La “storia” è la risposta a questa chiamata. È l’intreccio del chiamare e del rispondere» (FF, p. 271). In quanto non ottiene ciò che essa vuole, la volontà fallisce nel suo intento di essere volontà, non riesce cioè ad essere volontà. Allora, avvalendosi di un verso di Eschilo (Prometheus, v. 314)5, Severino può rilevare che la téchne è molto più debole della necessità.
Ciò che manca alla volontà isolante per essere volontà – e al voluto per essere voluto – è il destino della verità. Esso è quindi eternamente ciò che la volontà non può mai riuscire ad essere. «Solo il destino è la volontà perfetta» (DN, p. 581). Nello sguardo del destino (eternamente apparente), la volontà è apparire e può volere soltanto il necessario e l’eterno: può volere soltanto ciò che è necessità che appaia, che è necessità che sia voluto. Nel cerchio dell’apparire, il destino della verità appare contrastato dall’isolamento della terra. Ma questo contrasto (questa contraddizione) appare come negato. È necessità che appaia come negato; «e questa negazione è essa stessa un tratto della necessità del destino. La volontà del destino è quindi volontà che vuole la negazione del contrasto tra il destino e l’isolamento, cioè vuole il completo tramonto dell’isolamento della terra» (DN, p. 583). Ed è necessità che (anche) questa volontà ossia che il destino appaia. La volontà del destino vuole il tramonto della volontà dell’isolamento della terra. L’apparire di questa volontà è  l’apparire della necessità del tramonto dell’isolamento, che è il tramonto dell’alienazione del destino della verità. E «proprio perchè ciò che appare è il destino, la volontà che vuole il destino» «è la volontà che ha già da sempre ottenuto ciò che essa vuole» (DN, p. 582). Nel discorso non finalistico di Severino, l’isolamento della terra è quindi già da sempre tramontato, oltrepassato – ma esso, nel cerchio finito dell’apparire, contrasta il destino della verità (il dolore «è eternamente oltrepassato dalla Gioia» (PM, p. 105)).
Inoltre, non solo la contesa tra il destino e l’isolamento della terra è già da sempre tramontata, «ma ogni contraddizione è già da sempre oltrepassata»(DN, p. 588). Prima di vedere come viene precisata questa tematica nel volume La Gloria, va rilevato che  ogni contraddizione appare (come negata e, insieme, come non oltrepassata) nel cerchio finito dell’apparire, che non può essere l’apparire del Tutto. Infatti, «l’apparire del Tutto è l’apparire dell’oltrepassamento di ogni contraddizione e, appunto per questo, apparire infinito» (DN, p. 589). L’apparire infinito del Tutto è il contenuto del cerchio finito dell’apparire nel suo aver già da sempre oltrepassato ogni contraddizione che avvolge tale contenuto in quanto finito. E questo contenuto è il destino, che, come contenuto finito, è la propria incapacità ad esser se stesso e che, nel suo aver già da sempre oltrepassato la totalità della contraddizione che lo avvolge in quanto contenuto finito, è se stesso. «II Tutto non è semplicemente altro dal contenuto del cerchio finito dell’apparire, ma è ciò che in verità questo contenuto è. In verità – cioè al di fuori del suo contraddirsi. II Tutto è l’esser se stesso del cerchio dell’apparire del destino» (DN, p. 590).
Ogni contraddizione è da sempre e per sempre un passato. Lo stesso mortale, in quanto contrasto tra il destino della verità e l’isolamento della terra, è già da sempre oltrepassato. E il mortale è appunto questo oltrepassamento: il Tutto è ciò che in verità il mortale è. Il Tutto è l’inconscio più profondo del mortale. Poichè ogni dolore, ogni pena è una contraddizione, il Tutto, come oltrepassamento di ogni contraddizione del finito, è la Gioia. E, quindi, la Gioia è l’inconscio più profondo del mortale.
In G, che costituisce la risoluzione di Destino della necessità, Severino arriva a dire che «la terra, inoltrandosi nel cerchio dell’apparire del destino, è destinata all’oltrepassamento della solitudine: il destino della verità è destinato a manifestarsi non contrastato dall’isolamento della terra. Questa destinazione appartiene al destino. Il disvelamento della Gioia, nel suo esser libera dal contrasto con la solitudine della terra, è la Gloria.» (G, p. 30) Ma la ‘buona novella’ (mi sia consentita l’espressione…) non finisce qui. Anzi, l’evoluzione (infinita?) del pensiero dell’eternità dell’essere fa entrare nel cerchio dell’apparire un ulteriore tassello dello stare della verità:  «la Gloria è il dispiegamento infinito, nel cerchio finito dell’apparire del destino, del suo essere già da sempre totalmente dispiegata nell’apparire infinito della Totalità dell’essente. Il culmine della Gloria è dunque il dispiegamento infinito della terra oltre la solitudine della terra.» (G, p. 32)
La Gloria che compete al cerchio finito del destino «è la necessità che ogni luogo raggiunto dalla terra sia oltrepassato e che dunque sia oltrepassato anche il luogo in cui consiste la solitudine della terra.» (G, p. 92)
Dunque, con La Gloria viene palesato l’oltrepassamento infinito proprio all’apparire e allo scomparire degli eterni: «Poiché è necessario che ogni luogo incontrato dalla terra – ogni eterna configurazione o fase della terra – sia oltrepassato, il dispiegamento della terra nel cerchio del destino è infinito; e quindi, dopo l’apparire di una qualsiasi configurazione, un’infinità di configurazioni della terra attende ancora di entrare nel cerchio del destino. E l’infinità di configurazioni che la terra è destinata a manifestare è a sua volta una parte del Tutto, ossia dell’eterno oltrepassamento concreto della totalità delle contraddizioni, nel quale consiste l’apparire infinito.» (G, p. 153)
Mi pare poi opportuno notare  anche che   per Severino «La Gloria non è una beatitudine futura che ancora attenda di essere: il dispiegamento infinito della terra è già, eternamente; e tuttavia è destinato a inoltrarsi nel cerchio dell’apparire del destino (e nella costellazione infinita dei cerchi) lungo un percorso che non è mai compiuto. Essere la Gloria significa, per ogni cerchio dell’apparire, essere questo disvelamento infinito del dispiegamento eterno della terra – che peraltro appare già eternamente nell’apparire infinito del Tutto, sì che in quel disvelamento non incomincia ad essere nemmeno l’apparire del dispiegamento infinito […] nello sguardo del destino della verità la Gloria di ogni cerchio del destino è insieme la Gloria di ogni altro cerchio. Essere la Gloria significa essere la costellazione infinita dei gloriosi» (G, pp. 155-156)

7. Il non-nonessere
Che ne è della radicale riforma antropologica operata da Severino? Gli scritti severiniani non dicono all’uomo cosa debba fare, come agire, in quanto «è impossibile agire ‘conformemente’ al destino della verità, perché l’agire stesso, in quanto tale, è difformità dal destino, ossia è l’illusione che, all’interno della terra isolata, ha fede nel proprio essere un io che ha la capacità di far diventar altro le cose della terra.» (G, p. 77)  Tutto accade necessariamente e «Già da sempre esiste dunque, ed appare, la totalità dei dolori e dei piaceri, dell’angoscia e della felicità che sono destinati a manifestarsi lungo il sentiero della solitudine della terra, e dei quali è per lo più portatore l’io dell’individuo. Ciò significa che all’Io finito del destino (ma anche all’io dell’individuo, e, poi, a ogni forma dell’io e ad ogni essente) non può accadere nulla che egli non sia già.» (G, p. 63) Carlo Levi direbbe che pertanto, non si tratta di dover agire, quanto di lasciar scorrere o fluire le cose. Vediamo come l’intellettuale torinese è arrivato ad un’argomentazione così radicale. È bene dire che l’ha fatto riferendosi al concetto di “futilità”.
I libri più prettamente filosofici di Levi sono il primo e l’ultimo da lui scritti: Paura della libertà e Quaderno a cancelli. Paura della libertà è stato pubblicato nel 1946, sebbene Carlo Levi l’abbia scritto «sette anni»6 prima, ossia in Francia, nel 1939. (Nel 1964 l’autore vi aggiunge un ulteriore capitolo: “Paura della pittura”, scritto nel 1942.) Questo libro, che Levi considera un «poema filosofico»7, è quindi stato scritto prima ma pubblicato dopo il più celebre Cristo si è fermato a Eboli8 (1945).
Da cosa ha origine l’individuo? Nel suo poema filosofico Levi risponde a questo quesito parlando della “massa”: «Più antica di ogni ricordo, più vaga di ogni speranza, più lontana della nascita, sta in tutti i cuori una oscurità illimitata […] zona nera di eterna passività, necessario nulla, dalla cui contraddizione hanno origine le cose, smisurata e senza termini» (PL, p. 105). Con un’arguta argomentazione che ricorda l’idealismo hegeliano e l’attualismo gentiliano, autori letti o riletti durante la sua detenzione nelle carceri torinesi9 perché legato all’area antifascista, Levi sviluppa questo discorso dicendo che ciò da cui l’uomo ha origine, la massa, è «un assoluto illimitato, e perciò inesistente, come il suo opposto, l’assoluta finitezza»; si tratta di «un concetto che contraddice se stesso», «è il nulla» (PL, pp. 105-106).
Da questo nulla, da questo «caos», nasce ogni individuo. L’uomo «viene dalla massa per differenziarsi» (PL, p. 23). La massa, dunque, è la condizione prima di ogni individualizzazione (o differenziazione, o rinascita). Levi la considera anche la  « forma delle forme»,  «quella forma che sta sotto a tutte le forme e che le comprende tutte, che non ne ha nessuna in modo determinato, ma che ha la possibilità di tutte le forme»10.
In Quaderno a cancelli11 Levi denomina «la pura Probabilità, o Futilità» (QC, p. 110) il punto da cui si origina il processo di individuazione visto che il risultato specifico di tale processo (il punto di arrivo) è ‘aperto’: «tutto è realmente possibile» (Cristo, p. 98). L’indeterminato, il concetto che contraddice se stesso, sembra essere il non essere, il cui opposto è l’essere. In realtà la massa (o l’indistinto originario) è la sintesi di essere e non essere, cioè un’entità che «è e non è insieme, e il suo non essere non ha per opposto l’essere, ma tutt’al più un non-nonessere (di cui non vedo il significato) : essa insieme, non dialetticamente, non è e non-non è» (QC, p. 110). Infatti, come dice  Hegel nella Scienza della logica, il puro essere ed il puro niente è lo stesso; l’inizio contiene dunque entrambi, l’essere e il niente: l’unità di essere e niente.
A quello di non-nonessere (alla massa) Levi associa il concetto junghiano di «indistinto originario»: «Esiste un indistinto originario, comune agli uomini tutti, fluente nell’eternità, natura di ogni aspetto del mondo, spirito di ogni essere del mondo, memoria di ogni tempo del mondo. Da questo indistinto partono gli individui, mossi da una oscura libertà a staccarsene per prender forma, per individuarsi – e continuamente riportati da una oscura necessità a riattaccarsi e fondersi in lui. Questo doppio sforzo sta fra due morti: la caotica prenatale, e il naturale spegnersi e finire. Ma morte vera è soltanto il distacco totale dal flusso dell’indifferenziato, vuota ragione egoistica, astratta libertà – e, all’opposto, l’incapacità totale a differenziarsi, mistica oscurità bestiale, servitù dell’inesprimibile» (PL, p. 23).
L’uomo può ritenersi ‘vivo’ quando prende le mosse dalla massa e le dà forma, senza però approdare nel suo opposto, l’astratta determinatezza : «i soli momenti vivi nei singoli uomini, i soli periodi di alta civiltà nella storia, sono quelli in cui i due opposti processi di differenziazione e di indifferenziazione trovano un punto di mediazione, e coesistono nell’atto creatore» (ibid.). Per Levi, l’animo umano oscilla tra l’indeterminatezza (la massa) e la determinatezza (l’individualità). E la dialettica massa-individualità ha una valenza storica e sociale, oltre che esistenziale: «Quello che è vero per l’individuo, è vero per la società e per lo stato» (PL, p. 55). Allora, il tendere come anche l’aver teso verso la categoria dell’indeterminatezza oppure della determinatezza concerne non soltanto la vita del singolo (la storia individuale), bensì altresì la storia del genere umano.
Un individuo – e un popolo, ed il genere umano – fruisce di autentica libertà nel preciso momento in cui riesce – creativamente – a mediare gli opposti differenziazione-indifferenziazione, a dare forma all’informe. La sintesi degli opposti (la ‘doppiezza nell’unità’), il processo di individuazione, funge da garanzia di libertà ed autonomia.

8. Opposizione tra arte e religione
Levi carica il processo di individuazione di valenze filosofiche e psicologiche. Ma non solo. Esso va infatti rapportato ai concetti di ‘sacro’ e di ‘religioso’: «non potremo intendere nulla di umano se non partiremo dal senso del sacro: il più ambiguo e profondo e doppio e vermaquilino dei sensi, l’oscura continua negazione della libertà e dell’arte, e, insieme, per contrasto, il generatore continuo della libertà e dell’arte. Né potremo intendere nulla di sociale se non partiremo dal senso del religioso, questo figlio poco rispettoso del sacro.» (PL, p. 21)
Il sacro e la religione non coincidono. Anzi, essi costituiscono un’altra coppia di opposti: mentre la prima dimensione connota l’informe e l’indistinto, la seconda ha una valenza negativa in quanto determinazione astratta e mutazione del «sacro in sacrificio» (ibid.). Tanto il sacro quanto la religione sono dei mezzi del processo di individualizzazione, ma ognuno in un diverso e opposto modo. «Il senso, e il terrore, della trascendenza dell’indistinto, lo spavento dell’indeterminato in chi è nello sforzo di autocrearsi e di separarsi, questo è il sacro.» (PL, p. 24)  Significativo il riferimento leviano allo sforzo di autocrearsi e di separarsi, ossia alla creazione. Per scoprire se stesso e il mondo, per autocrearsi, l’uomo deve partire dal caos (dal disordine, dall’informe) per generare il cosmos (l’ordine). L’uomo ha da essere ‘creatore’, ossia – platonicamente – Demiurgo, cioè Artista (Artigiano). Nei suoi scritti Levi ricorre, come Alain, a termini come ‘produttore’ o Contadino per designare la sua visione dell’individuo ‘sano’ che, in quanto tale, non ha reciso – e tanto meno ha intenzione di recidere – il cordone ombelicale che lo lega all’indistinto originario.
Al processo creativo fa da ostacolo la religione.  «Religione è la sostituzione all’inesprimibile indifferenziato di simboli, di immagini reali e concrete, in modo da relegare il sacro fuori della coscienza, porgendo ad essa degli oggetti finiti e liberatori.» (PL, p. 24)  La religione non mira a favorire l’invenzione della verità e la libertà dell’uomo. Al contrario, essa è  «un mezzo che tende, per liberare lo spirito dal senso terrificante della trascendenza, a sostituirla con simboli visibili, idoli.» (ibid.) Dal punto di vista storico, con questa operazione si è dato concretamente il via libera alla tirannide, alla divinizzazione (deificazione) dello Stato, alla hegeliana superiorità dello Stato sull’individuo. La religione protende essenzialmente a far obliare l’indistinto originario, l’autentico punto di partenza di ogni creazione, della libertà creatrice.
La libertà umana non può né consistere  «nella sostituzione all’uomo del suo simbolo, del suo idolo» (PL, p. 25) – ossia nella deificazione dello Stato –, né tanto meno nell’individualismo astratto in cui non si dà alcun senso di comunità o Stato. La libertà dell’uomo implica il continuo (o ciclico) ritorno ad un indistinto originario il cui oblio implica lo staticizzarne il fluire eterno. Queste prerogative vengono salvaguardate dall’arte, che è allora autentica espressione della libertà creatrice dell’uomo.
Dunque, l’affermazione e la determinazione dell’uomo possono avvenire – e di fatto sono avvenute nel corso della storia – in due modi radicalmente diversi: sotto la spinta della religione oppure della poiesis.  «La storia non è che la vicenda eterna del faticoso determinarsi della massa umana, e del suo risolversi in stato, poesia, libertà, o del suo celarsi in religione, rito, costume; e del ricrearsi continuo della massa dall’inaridire degli stati, dal cristallizzarsi delle religioni.» (PL, p. 106)  Le due possibilità di concretizzazione del processo di individualizzazione di cui parla Levi, con evidenti riferimenti al pensiero vichiano, non possono realizzarsi allo stesso tempo, pena la contraddizione. Infatti, mentre la religione  «è la limitazione simbolica dell’universale»,  «è la manifestazione certa di una servitù liberatoria e divina»,  «è rituale fisso», l’arte non può che essere «l’espressione concreta» dell’universale,  «la voce stessa della libertà umana»,   «mitologia». Date queste premesse, Levi non può che trarre la seguente conclusione:  «L’espressione religiosa è dunque l’opposto della espressione poetica» (PL, p. 69). Ricorrendo al religioso, l’uomo si appiglia alla  «certezza», ad una realtà  «trascendente e permanente», caratterizzata dall’immutabilità (PL, p. 71).
Tuttavia proprio l’immutabilità risulta essere espressione di inautenticità non consentendo all’uomo di essere ‘umano’, di essere cioè se stesso e perciò è fonte di alienazione. Invece l’espressione artistica è indice di  «creazione»(PL, p. 73) e libertà, ossia propriamente di mutevolezza e divenire. La religione limita la creazione e la libertà umana (impone loro dei limiti determinati, fissi); l’idolo, la divinità immutabile, impone la sua legge alla libertà e alla creatività, riducendole così in schiavitù, non facendole più essere autonome.  «Figurazione religiosa ed espressione artistica sono antitetiche: questa, creazione tutta umana, non conosce altra legge che la propria e implicita ed eternamente mutevole, anche quando raffiguri gli oggetti della religiosità: quella ha per suo compito di relegare l’arte sull’altare della certezza e della durata, di legarla nei suoi stessi schemi, perché essa continui; di sacrificarla, acciocchè essa possa diventare un legame simbolico, e quindi una pratica comunicazione tra gli uomini. L’opposizione è quella di creazione e di limite» (PL, pp. 72-73) (perciò, precisa Levi, non esiste,  «a rigore, un’arte religiosa: contraddizione in termini» (PL, p. 70)).

9. La morte degli dei (il Naufragio del Piloro)
Come detto, per Levi l’espressione artistica  «non conosce altra legge che la propria»: l’arte non è soggetta a nessuna legge estrinseca, non è soggetta ad altra legge che la propria, ed ubbidisce unicamente ad essa. Levi precisa che questa legge consiste nella libertà creatrice che prende le mosse dall’eterno fluire e dalla mutevolezza e che conserva queste peculiarità dell’umano. In altri termini, arte è sinonimo di divenire. In quanto tale, per usare una felice espressione di Gustavo Bontadini,  «il divenire come legge nega ogni legge del divenire, ogni legge che determini il contenuto del divenire.»12  Se l’arte si rifacesse ad una legge diversa dalla propria, se venisse inquadrata in schemi fissi, essa cesserebbe di essere libera (creazione). La sua legge (o autonomia) non le può consentire di accettare nessun’altra legge all’infuori della propria, ma, anzi, le impone di liberarsi da ogni altra imposizione, di distruggere ogni altra legge. Altrimenti l’arte non sarebbe arte, l’umano non sarebbe umano, ossia libertà creatrice e divenire. Il rifiuto della religione, la nietzscheana distruzione degli dei («Dio è morto») ovvero, per utilizzare la terminologia di Emanuele Severino, la distruzione degli immutabili è dunque necessaria perché essi – come visto – rendono impossibile o illusorio il divenire, la libertà. Soltanto con la distruzione degli immutabili (degli dei) sono possibili l’arte e l’individuo, è possibile forgiare (determinare) in modo originale e  ‘concretamente’ l’indeterminato. Con la morte degli dei è possibile creare od inventare la verità13. È questa la conclusione a cui perviene Carlo Levi fin da Paura della libertà. (Questa profonda tesi racchiude la chiave di lettura delle scelte e delle opere del Levi scrittore, pittore e politico.)
L’arte, di cui Croce proclama l’autonomia, non può quindi essere asservita e assoggettata. E ciò vale per qualsivoglia disciplina e dimensione umana. Il ‘detto’ che sintetizza alla perfezione il pensiero leviano è: «muoiono gli dei, si crea la persona umana» (PL, p. 134).
Per liberare l’uomo dalla paura della libertà, per salvare la libertà (filosoficamente, per ‘salvare i fenomeni’), Carlo Levi afferma coerentemente la necessità di negare gli dei immutabili. Difatti il divenire come legge nega ogni legge del divenire, cioè ogni legge che determini il contenuto del divenire, perché altrimenti il divenire sottosta ad una legge a lui estrinseca che gli impedisce di essere espressione di creatività, libertà e novità:  «perché l’idolo viva, ogni azione autonoma è sacrilega e mortale: solo è necessaria la obbedienza» (PL, p. 113). Dunque, l’idolo (la religione, lo Stato, ecc.) dice a ciò che è ancora informe come deve essere formato, a ciò che è come deve essere oppure non essere, impedendo ogni possibilità di libertà creatrice. Nel caso del dio Stato,  «la sua lingua è legge, e ogni legge è religiosa: poiché non è la norma interna di un’azione singola; ma la norma esterna e arbitraria di ogni possibile azione […]. Ogni autonomia, ogni atto creatore, è per sua natura, fuori di questa legge, nemico dello Stato, sacrilegio.» (PL, p. 112)  La filosofia  dello  scrittore piemontese non potrebbe essere meno esplicita e limpida su questo punto!
La conclusione che si prospetta? Se ci si affida agli dei  «finisce la libertà della legge morale interna alle cose, per iniziarsi la servitù della legge esterna, della legge religiosa» (PL, p. 121).
In uno scritto14 successivo a Paura della libertà Levi ritorna sul tema della morte degli dei descrivendo minuziosamente i vari elementi raffigurati in quadri e disegni concernenti il “Naufragio del Piloro”: «Un oceano artico, con balene, iceberg, gabbiani, pesci, foche, e poi onde nascenti, fino alla tempesta; e una nave [il Piloro], prima dolcemente navigante nella calma del mare, con tutte le sue vele gonfie; e poi il vento, il fulmine, l’albero maestro spezzato, le barche di salvataggio inutili, gli uomini vanamente cercanti scampo nel mare terribile, la poppa che si solleva mentre la nave precipita nell’abisso.» (corsivo mio)
Tuttavia il Naufragio del Piloro non si limita semplicemente a rievocare l’inabissamento di una grande nave. Oltre al senso letterale, affiora quello simbolico. Ciò che viene inghiottito dalle onde del «mare terribile» è sì una nave, che Ercole Levi, padre di Carlo, denominò il Piloro; ma Carlo Levi puntualizza che «il piloro era essere Padre» (questa la dimensione psicologica della tematica in questione). Non solo. Egli rileva inoltre che quel disegno simboleggia l’«infinita possibilità di creazione del reale» e gli fa vedere, «con estasi e rapimento, la realtà farsi, sotto le mani, forma e figura»; e insieme gli fa accorgere «con dolore, repulsione, angoscia, dell’errore, della contraddizione, della volgarità inespressiva che sta dentro la realtà, e nega la poesia.»15
Nel Naufragio del Piloro Levi rappresenta , quindi, in modo simbolico oltre che figurativo, la morte degli dei, la nietzscheiana ‘morte di Dio’. Il divenire è ovviamente rappresentato dal mare. Inizialmente, sotto la dominazione degli dei immutabili, è la calma del mare a regnare; è cioè l’immutabile a dominare le onde del mare. Ma il mare non può essere continuamente calmo, la sua forza ed il suo flusso non possono essere arrestati assolutamente. Ecco emergere pertanto le onde nascenti, indicanti l’affievolirsi della paura della libertà. La ribellione del divenire agli immutabili che intendevano farlo scomparire (negarlo) è a quasto punto inarrestabile: inevitabile la tempesta, lo spezzarsi dell’albero maestro, l’inabissamento della  nave. Gli dei sono troppo più deboli del divenire.
Ritengo pertanto che Carlo Levi vada forzatamente annoverato tra i pensatori moderni che, come vuole Severino, hanno espresso la necessità della distruzione degli immutabili. Oltre a Nietzsche, Leopardi e Gentile, autori ai quali si riferisce il filosofo bresciano, va aggiunto Carlo Levi.

10. Avvenimento versus azione
Per Severino, credendo nel divenire delle cose il mortale, avendo preteso recidere il cordone ombelicale che lo lega necessariamente al destino della verità, crede anche di manipolarle e di distruggerle. Vive conseguentemente nell’alienazione costituitata dal nichilismo (ossia il “Venerdì Santo” che precede la “Pasqua”).
Per Levi, l’uomo che si libera dagli dei non si separa da sé, non si aliena. Al contrario, riconquista l’immortalità ed il paradiso perduti vivendo  «in un tempo ritrovato, dove non vi è prima e poi, giorno e notte, ma dove ogni attimo è eterno»(PL, p. 125). Avendo ritrovato il tempo originario (o perduto), proprio alla massa (all’indistinto originario) e pertanto da identificare con   «l’eternità» o forse con   «il nulla» (Or., p. 15), l’uomo è libero di creare. Ne L’Orologio16, Levi qualifica con l’appellativo di Contadini gli individui « che fanno le cose, che le creano, che le amano »(Or., p. 166). Il Contadino ovvero l’Artigiano / Demiurgo di Platone dà ordine al disordine percependo (vivendo e pensando) il tempo vero, immagine dell’eternità,  «immagine pura di un fluire eterno» (Or., p. 10) ed unica garanzia della vita(lità) dell’individuo. Al Contadino si oppone il Luigino, il parassita che, obliando «l’oscuro fondo vitale di ciascuno di noi» (Or., p. 165) e non creando, per vivere si nutre di chi produce. L’etica dei Luigini si distingue nettamente da quella dei Contadini. E questa opposizione si basa su una diversa percezione del tempo. I Luigini sciolgono il legame che lega ogni essere all’indistinto originario e in questa maniera frazionano l’unità originaria e, dunque, il tempo immagine pura di un fluire eterno. Di conseguenza si affidano al ritmo matematico dell’orologio senza comprendere di vivere nell’alienazione della verità, di intraprendere il sentiero dell’alienazione. I  «due tempi» seguono  «un altro ritmo» ed obbediscono «ad altre leggi». Essi sono, «fra loro, incomunicabili» e già in Cristo si è fermato a Eboli, Levi rileva che essi danno luogo a due opposte civiltà (Cristo, p. 72).
Ma la distinzione tra due atteggiamenti esistenziali opposti figura già in Paura della libertà, proprio dopo che Levi ha trattato dell’indistinto originario. Lo scrittore torinese distingue l’«azione» dall’«avvenimento»: l’azione è «frutto della differenziazione completa: l’individuo, staccato dal tutto, si muove per darsi forma, e il suo movimento è incomprensibile se non a lui.» (PL, p. 23 (corsivo mio)) L’azione concerne quindi i Luigini (o, nel caso di Severino,  gli abitatori del tempo). «L’avvenimento è invece il prodotto dell’attività umana in quanto creatrice, ricca cioè nello stesso momento di differenziazione e di indifferenziazione, di individualità e di universalità[…], libera insieme e necessaria» (PL, pp. 23-24). L’avvenimento è pertanto proprio al Contadino, all’individuo vero.
Pur non anticipando la concezione severiniana dell’eternità dell’essere, le considerazioni leviane sulla dimensione temporale individuano l’importanza del concetto di eternità e della conseguente necessità di distinguere due opposte concezioni del tempo fondanti, ciascuna, un’etica diversa. In effetti, il tempo dell’orologio è l’opposto del tempo vero, della contemporaneità dei tempi: se nella dimensione meccanica del tempo si può distinguere il ‘prima’ dal ‘poi’, nella dimensione durativa del tempo – simile alla crociana contemporaneità ed alla bergsoniana durée réelle –  i tre tempi (passato, presente e futuro) esistono contemporaneamente (sviluppando le considerazioni sul tempo fatte da Sant’Agostino sulla base della teoria platonica del tempo immagine dell’eternità17, Levi avrebbe potuto dire che essi sono presenti, allo stesso tempo). Il tempo meccanico  «non fluisce, ma scatta in una serie di atti successivi, sempre uguali e monotoni»(Or., p. 11). Indubbio, allora, che il Luigino non può assolutamente essere un creatore.

11. La «necessità futile»
Le riflessioni contenute in Paura della libertà ritornano, come ha ammesso lo stesso autore, nei suoi successivi libri. Il cerchi si chiude con Quaderno a cancelli, l’ultimo libro scritto da Levi. In questa sorta di zibaldone, scritto in stato di cecità, Levi passa in rassegna varie tappe della sua vita, riespone ed ‘aggiorna’ molti aspetti e temi centrali del suo pensiero, della sua posizione filosofica.
Anche in Quaderno a cancelli egli parla dell’  «infinito ritorno a un indistinto anteriore prima del tempo […] fatto di archetipi prima di ogni possibile trasgressione» (QC, p. 222; chiaro il riferimento alla teoria junghiana degli archetipi) come anche della massa da cui ha origine la persona umana. Ora, come visto, questo punto di partenza viene denominato  « la Futilità » o anche la  «pura Probabilità» che  «è e non è insieme, e il suo non essere non ha per opposto l’essere, ma tutt’al più un non-nonessere» (QC, p. 110). Ma nella realtà dominano la divisione e la separazione del contemporaneo che hanno dato inizio al tempo degli dei. In Paura della libertà Levi fa riferimento al Paradiso perduto ed in Quaderno a cancelli si riferisce particolarmente alla rottura della  «naturale unità della sfera materno-filiale» (QC, p. 29), alla Morte della Madre. In entrambi i casi si tratta del distacco dal tempo prima dei tempi e della conseguente perdita dell’immortalità da parte dell’uomo. La vera differenza tra i due libri (il primo e l’ultimo di Carlo Levi) consiste nel fatto che mentre il primo   «non è solo un lamento funebre sulla civiltà che scompare, ma anche un volume folto di idee sulla rinascita e la riscoperta della civiltà»18, ossia indica all’uomo il sentiero del Giorno, il secondo libro non ritiene più recuperabile – quanto meno per l’autore – l’immortalità perduta. Inevitabile, quindi, l’attardarsi sul sentiero della Notte19.
Le affinità con il pensiero severiniano non devono sorprendere più di tanto. Infatti, la loro riflessione trova il suo fulcro da una parte nell’eternità e nell’unità del tutto, dall’altra nella critica della civiltà che ha voluto dividere l’indivisibile. Entrambi i pensatori si oppongono alla concezione classica del tempo implicante il “prima” ed il “poi” poichè questa interpretazione ‘malata’ della dimensione temporale implica uno stile di vita alienato, in quanto in tal modo l’uomo recide (o crede di recidere) il cordone ombelicale che lo lega all’eterno, dimentica cioè che l’inconscio dell’inconscio è costituito dall’eternità dell’essere. Al di là (o al di sotto) del tempo meccanico esiste il tempo vero, immagine pura di un fluire eterno (per Levi) o apparire e scomparire dell’eterno (per Severino). La dimensione psicologica affiora esplicitamente sia in Levi che in Severino ed entrambi propongono una concezione della felicità analoga a quella plotiniana, secondo cui l’uomo o, meglio, la parte superiore dell’anima umana, risiede stabilmente nell’intellegibile (nell’eterno), fonte di felicità: per Severino, l’uomo è da sempre e per sempre ancorato all’eterno (è eterno), alla gioia, perfino nell’oblio della verità dell’essere; per Levi, la felicità «è vano cercarla: perché non è raggiungibile che da chi ce l’ha»(QC, p. 203). Ed in Cristo si è fermato a Eboli parla in questi termini della sua consapevolezza dell’essere ancorato all’indistinto originario e della felicità che ne deriva: «Mi pareva di essere staccato da ogni cosa, da ogni luogo, remotissimo da ogni determinazione, perduto fuori del tempo, in un infinito altrove. Mi sentivo celato, ignoto agli uomini, nascosto come un germoglio sotto la scorza dell’albero: tendevo l’orecchio alla notte e mi pareva di essere entrato, d’un tratto, nel cuore stesso del mondo. Una felicità immensa, non mai provata, era in me, e mi riempiva intero, e il senso fluente di una infinita pienezza.» (Cristo, pp. 198-199)
Non è casuale che i due pensatori italiani considerino «invidiosi» (AT, p. 22) e «gelosi» gli dei dell’Occidente (QC, p. 208) che negano l’eternità agli altri esseri per farne una prerogativa esclusivamente loro. Essi si scagliano contro gli dei del Possesso, contro i Padroni che considerano tutti gli altri esseri dei servi. Non per niente, i due filosofi ‘antitradizionalisti’, seppure su una base in parte diversa, sono concordi nel ritenere che non ci si possa impossessare delle cose, parlarne come di qualcosa di ‘mio’ o di ‘tuo’. Levi si rifà sintomaticamente ad una realtà concreta, alla lingua Ronga : «Nella lingua Ronga / non puoi dire mio / così nessuno può offenderti nelle cose / nè privarti di quello che non hai. / Non un uomo, molto meno un dio / parola svanita di inchiostro / dove il pane non è nostro / e nostro non può essere il  Padre» (QC, p. 22).
Alla logica del possesso e dell’utile, tanto Severino quanto Carlo Levi  antepone la logica del futile:  «ma la Futilità / non è utile nè inutile / non appartiene e non possiede / non serve  (non è serva) / non è tenuta e non tiene / a nessuna di queste cose pertiene.» (QC, p. 25)  Ogni ente è se stesso, è eterno. Nessuna gerarchia ontologica è pertanto ammissibile. E nessuno (nessun eterno) può appropriarsi dell’eterno. Pertanto,  Emanuele Severino non può che essere considerato, insieme a Carlo Levi20,  un assertore del pensiero futile: per entrambi si tratta di “lasciar scorrere le cose” (etimologicamente, “futile” significa “che lascia scorrere”: basti pensare al vaso Futile delle Vestali). Sebbene sia soltanto lo scrittore piemontese a parlare di futilità – in relazione al punto di partenza di ogni determinazione umana –, per il filosofo bresciano non si tratta di suggerire all’uomo una norma di vita. Allora, anche per Severino centrale è la nozione di  futilità. La differenza tra i due pensieri futili consiste in questo: se per Levi la futilità è il punto di partenza di un processo che sfocia nella creazione, nell’«avvenimento», nell’impegno concreto, per Severino essa costituisce vuoi il punto di partenza, vuoi il punto di arrivo del suo pensiero: tutto accade (entra ed esce dall’apparire trascendentale) secondo “necessità”.
Allora uno dei principi fondamentali del pensiero severiniano è, propriamente, quello di futilità: la futilità del tutto, ossia il necessario apparire e scomparire dell’eterno. Si prospetta quindi quello che solo in apparenza può essere considerato un paradosso (‘etico’): l’uomo guidato dal principio di futilità. Ritengo pertanto che piuttosto che parlare di neoparmenidismo – o di spinozismo –, come confermato anche dalle pagine di G prese in considerazione nel caso del pensiero di Severino sia più appropriato parlare di metafisica o pensiero futile.  Inoltre, se per etimologia ed assonanza il termine ‘fluidità’ deriva proprio da “futilità”21, non resta che opporre, al senso greco del divenire e della fluidità esplicato da Severino, il senso severiniano del divenire e della fluidità: il necessario apparire e scomparire dell’infinità degli eterni (che si oppone alla ‘modernità liquida’). Visto poi che il filosofo bresciano distingue la “necessità” di cui parla la tradizione occidentale dalla sua nozione di “necessità”, reputo che quest’ultima possa essere considerata, sulla scorta di quanto sostiene Levi in merito al non-nonessere, la «necessità futile» (QC, p. 50): propria del pensiero severiniano è da un lato la necessità della confutazione della negazione della verità, dall’altro  la necessità dell’ apparire e dello scomparire degli enti come base dell’essere dell’uomo (nel caso di Levi, proprio dell’“indistinto originario” è il necessario fluire eterno da cui deve emergere la creatività umana). Quella severiniana è quindi una necessità doppiamente “futile”.
Severino ha avuto modo di dire che «Certo, non si può rendere pietra ciò che è fluido. Questo è l’errore della tradizione dell’Occidente, che al di sopra della fluidità del mondo (e dunque riconoscendola) pone la pietra di Dio. Ma quando si riconosce che il senso greco della fluidità, cioè del divenire, è il contenuto di un sogno […], allora ciò che è impietrito è solo il sogno del divenire, è solo un divenire dipinto, e quindi, affermando l’eternità di tutte le cose, non si impietra più una fluidità reale, ma ci si trova in ac-cordo col cuore delle cose, che ‘non trema’ e che via via va mostrandosi.» (LeC, pp. 122-123) Bisogna però aggiungere che affermando l’eternità del tutto, si arriva ad affermare – conseguentemente – la futilità / fluidità del tutto (prima valenza della “necessità futile”) come anche l’inconfutabilità della verità (seconda valenza della “necessità futile”).
Pertanto, a quella che  chiamo la metafisica futile di Severino fa da controparte, parallelamente, un’antropologia futile. L’uomo è necessariamente un essere “futile”, ovverosia “inaffidabile”. Infatti, in opposizione a Martin Heidegger, che parla di “Gelassenheit”, l’uomo severiniano lascia fluire l’essere (per  Heidegger si tratta invece di lasciar essere gli enti). Di conseguenza, per Severino l’uomo  non può né agire né prendere decisioni in quanto espressioni del nichilismo dell’Occidente. L’uomo, eterna apparizione dell’essere, sa che la verità non può essere messa in pratica. A tale uomo sono poi estranee tanto la fede nel divenire quanto la fede nella verità. La futilità del tutto non è quindi una fede, bensì la verità inconfutabile.
Carlo Levi, invece, pensa ad uomo che, dopo essersi immerso nel mare della “futilità”, agisce, crea ed “inventa” la verità: l’uomo vero è un Contadino, un Demiurgo.

(Mythenstrasse 31, CH-6020 Emmenbrücke – Svizzera; sperd-to@gmx.ch)

Note

1 Cito gli scritti di Emanuele Severino utilizzando le seguenti abbreviazioni (come viene indicato, solo per gli scritti che hanno conosciuto una nuova edizione ampliata le citazioni non si riferiscono alla prima edizione, ma alla nuova edizione): AT = Gli abitatori del  tempo, 2a ed., Armando, Roma 1981; DN =  Destino della necessità, Adelphi, Milano 1980; EN =  Essenza del nichilismo, 2a ed., Adelphi, Milano 1982 ; FC =  La filosofia contemporanea, Rizzoli, Milano 1986; FF = La filosofia futura, Rizzoli, Milano 1989; FM = La filosofia moderna, Rizzoli, Milano 1984; G =  La Gloria, Adelphi, Milano 2001; L =  Oltre il linguaggio, Adelphi, Milano 1992; LC =  Legge e caso, Adelphi, Milano 1979; LeC = La legna e la cenere, Rizzoli, Milano 2000; PM =  II parricidio mancato, Adelphi, Milano 1985; SFP =  Studi di filosofia della prassi, 2a ed., Adelphi, Milano 1984; SO =  La struttura originaria, 2a ed., Adelphi, Milano 1981; T =  Téchne, Rusconi, Milano 1979.
2 C. ARATA, L’aporetica dell’intero e il problema della metafisica, Marzorati, Milano 1971, p. 169.
3 Sull’umanesimo della metafisica greca, cfr. la trilogia di L. GRECCHI, L’umanesimo della antica filosofia greca, Petite Plaisance, Pistoia 2007; L’umanesimo di Platone, Petite Plaisance, Pistoia 2007 e L’umanesimo di  Aristotele, Petite Plaisance, Pistoia 2008.
4 C. FABRO, L’alienazione dell’Occidente, Quadrivium, Genova 1981, p. 151. Su E. Severino, cfr. inoltre L. MESSINESE, Essere e divenire nel pensiero di E. Severino, Città Nuova, Roma 1985; A. ANTONELLI, Verità, nichilismo, prassi, Armando, Roma 2003; L. GRECCHI, Nel pensiero filosofico di Emanuele Severino, Petite Plaisance, Pistoia 2005; AA.VV., Le parole dell’Essere. Per Emanuele Severino, Bruno Mondadori, Milano 2005; D. SPERDUTO, Vedere senza vedere ovvero Il crepuscolo della morte, Schena editore, Fasano di Brindisi 2007.
5 Su Eschilo, cfr. D. SPERDUTO, Eschilo in G. D’Annunzio, E. Severino e L. Grecchi, in AA.VV., Filosofia ed estetica, Petite Plaisance, Pistoia 2007, (Koiné, XIV), pp. 79-89.
6 C. LEVI, Paura della libertà [PL], Einaudi, Torino 1980 (1a ed. 1946), p. 12.
7 «Questo è veramente il più importante dei miei libri, nel senso che non è un racconto, e d’altra parte per me è assurda questa definizione di generi, oggi. Io stesso non saprei come definirlo; ma se vogliamo usare empiricamente un titolo, potrebbe essere un poema filosofico» (“Scuola viva: incontri con gli autori”, 1971, p. 13).
8 C. LEVI, Cristo si è fermato a Eboli [Cristo], Einaudi, Torino, 1975 (1a ed. 1945).
9 È questo il ’carcer tetro’? Lettere dal carcere 1934-1935, a cura di Daniela Ferraro, Il Melangolo, Genova 1991.
10 G. PELLEGRINI, Nel sole di Villa Strohl-Fern (Carlo Levi), Corbo e Fiore, Venezia 1985, p. 119.
11 C. LEVI, Quaderno a cancelli [QC], Einaudi, Torino 1979. A questo proposito, cfr. Carlo Levi inedito: con 40 disegni della cecità, a cura di D. Sperduto, Edizioni Spes, Milazzo 2002.
12 G. BONTADINI, Saggio di una metafisica dell’esperienza, Vita e Pensiero, Milano 1938, p. 52. Sull’attualità di Bontadini, cfr. D. SPERDUTO, Tra Gustavo Bontadini ed Emanuele Severino, “Aquinas”, XLIX (2006), nn. 2-3, pp. 671-679.
13 Cfr. D. SPERDUTO, Carlo Levi e l’invenzione della verità, “Critica letteraria”, XXXII (2004), pp. 789-796.
14 C. LEVI, Le tracce della memoria, a cura di M. Pagliara, Donzelli, Roma 2002, pp. 37-41.
15 Ivi., p. 38.
16 C. LEVI, L’Orologio [Or.], Einaudi, Torino 1989 (1a ed. 1950).
17 Cfr. D. SPERDUTO, L’imitazione dell’eterno. Implicazioni etiche della concezione del tempo immagine dell’eternità da Platone a Campanella con un saggio sulla nozione di tempo in Carlo Levi, Schena, Fasano di Brindisi 1998, pp. 41-44 e 85-109.
18 G. FALASCHI, Carlo Levi, La Nuova Italia, Firenze 1978 (1a ed. 1971), pp. 13-14.
19 Sulla ‘morte’ e sulla ‘rinascita’ in Levi, cfr. G. LUPO, Tra inferno contadino e paradiso americano: Carlo Levi, Dante e la Bibbia, “Otto/Novecento”, XXVIII (2004), n. 1, pp. 69-85 e D. SPERDUTO, La rosa bianca e la rosa nera: Il Notturno di Gabriele d’Annunzio e il Quaderno a cancelli di Carlo Levi, “Critica letteraria”, XXXIII (2005), pp. 699-714.
20 Sul pensiero futile di Carlo Levi sviluppato in Paura della libertà (1946) ed in Quaderno a cancelli (1979), cfr. anche D. SPERDUTO, La futilità del tutto. Emanuele Severino e Carlo Levi, “Sapienza”, LVII (2004), pp. 485-489.
21 Sulla “futilità” in Levi, cfr. R. GALVAGNO, Carlo Levi, Narciso e la costruzione della realtà, Olschki, Firenze 2004.

Giacomo Pezzano – Contributo alla critica della giuridsizione umanitaria del bene comune a partire dal diritto romano

giurisdizione umanitaria

Queste brevi note prendono spunto dalle questioni poste dal libro di Luca Grecchi Diritto e proprietà nella Grecia classica. Paralleli con il nostro tempo (Petite Plaisance, Pistoia 2011), e in particolare dal suo confronto con alcune posizioni di Oliviero Diliberto, il quale ha sostenuto che una determinata concezione del diritto è in grado di guidare (o accompagnare) la struttura di un modo di produzione sociale verso il comunismo. In particolare la concezione del diritto chiamata in causa dall’ex Ministro della Giustizia è quella del diritto romano, il quale viene invece da Grecchi criticato (in quanto diritto proprietario e contrattuale, jus utendi et abutendi, diritto all’uso e all’abuso sulle cose e sulle persone) in nome dell’anti-crematistico umanesimo greco, e della conseguente concezione greca del diritto. Cercheremo di contribuire alla critica del diritto romano che fa da sfondo all’intera opera di Grecchi, attraverso alcune riflessioni di Roberto Esposito e di Giorgio Agamben1.

1. Il paradigma politico moderno-contemporaneo:
il diritto di essere liberi individui proprietari

I. La politica moderno-contemporanea non solo non si fonda su alcun legame sociale, ma è addirittura possibile solamente a partire dal suo scioglimento, da quello «slegame» che s-lega i singoli, allontanandoli l’uno dall’altro per re-legarli in spazi individuali chiusi e asettici ob-ligandoli a obbedire a codici astratti. Il contratto (pactum unionis/associationis) è ciò che separa (nel senso letterale del ricondurre a se stessi) gli uomini proprio nel momento in cui li accosta e unisce (pactum societatis) come sommatoria di individui messi giuridicamente in relazione per consegnare al potere sovrano ogni forma di autorità e di controllo (pactum subjectionis).

II. Oggi si può affermare che dopo la morte di Dio è venuta quella del social-comunismo2, perché viviamo la politica come un regno di atomi gestiti da un potere centrale economicamente sovrano, viviamo il drammatico esito della «dimenticanza» (parafrasando Heidegger) di una distinzione che nel mondo greco continuava a essere fondamentale ancora dopo il periodo classico, quella tra economia (monarchica) e politica (poliarchica), tra oikos – dominio dell’idion nella sua occlusiva univocità nonché congrega di singoli uomini, letteralmente idioti – e polis – campo aperto del koinon nella sua irriducibile e molteplice diversità:
se il processo di unificazione viene spinto oltre a un certo punto, non vi sarà più alcuna polis. Una città è per natura un che di molteplice [plethos], e se diventa troppo una sarà un’oikia piuttosto che una polis e un anthropos piuttosto che un’oikia: in realtà dobbiamo ammettere che l’oikia è più una della polis e l’anthropos dell’oikia: di conseguenza chi fosse in grado di realizzare tale unità non dovrebbe farlo, perché distruggerebbe la polis (Aristotele, Politica, II, 2, 1261a 17-23).
L’economia e la politica differiscono non solo tanto quanto oikia e polis (queste in effetti ne costituiscono le rispettive materie), ma anche perché la politica [politikè] consta di molti capi [pollon archonton], l’economia [oikonomikè] invece è il governo di uno solo [monarchia] (Aristotele, Economico, I, 1, 1343a 1-4).

Come notava anche Hegel, la polis greca è stata lo spazio (concettuale e fisico) della continua mediazione tra uno e molteplice, e proprio per questo è stato il luogo di nascita della libertà europea, della libertà in quanto tale, della costruzione morale e politica che permette di battere la potenza distruttiva e nullificante di Kronos il divora figli3.

III. Il paradigma moderno della politica e della sovranità è contraddistinto da due aspetti fondamentali: la persona concepita come proprietaria e il sovrano (Re o Stato che sia) come colui che gestisce la vita degli individui. Il diritto, il cui fondamento è che «ciascuno difenda la sua vita e le sue membra per quanto è in suo potere» (Hobbes, De cive, I, 7)4, è il dispositivo chiamato a normare e a codificare tutto ciò: il diritto deve sancire la proprietà individuale (cfr. p. e. Locke, Secondo trattato sul governo, V, 25-51)5 e dichiarare il potere sovrano statuale come gestore unico, vero e proprio Leviatano (cfr. p. e. Hobbes, Leviatano, XVII-XVIII)6. L’aspetto che qui ci preme evidenziare è che è stato il diritto romano a codificare per primo in maniera sistematica e politicamente performativa questi due aspetti, come cercheremo brevemente di mostrare seguendo rispettivamente Esposito e Agamben. Questo non significa negare discontinuità, magari anche radicali, rispetto alla concezione giuridica moderna (maggiormente incentrata sul soggetto piuttosto che sulla persona, per esempio), ma semplicemente segnalare la persistenza, più o meno sotterranea, nella modernità di una visione della vita in comune degli esseri umani (visione sostanzialmente antiumanistica e – anzi: in quanto – anticomunitaria) la cui incarnazione giuridico-politica è stata resa possibile dallo jus romano (d’altronde, il soggetto giuridico moderno è pensabile proprio a partire dalla persona giuridica romana).
IV. In altri termini, la tesi che intendiamo sostenere è che è nel diritto romano che hanno trovato una prima fondamentale fondazione e codificazione alcuni tratti fondanti la soggettività personale giuridica moderna, espressione della capacità di penetrazione ideologica del capitale, come ben aveva colto Marx laddove notava che, anche attraverso il diritto, «la proprietà privata viene incorporata nell’uomo stesso, e lo stesso uomo si riconosce come l’essenza [Wesen] della proprietà»7, proprietà privata concepita «in quanto attività che è per sé, in quanto soggetto, in quanto persona»8: l’individuo soggetto del diritto è oggetto di una drammatica Trennung tanto rispetto al Mensch quanto al Gemeinwesen9. Infatti, per Marx nel diritto «si tratta della libertà dell’uomo in quanto monade isolata e ripiegata su se stessa […]. Il diritto dell’uomo alla libertà si basa non sul legame dell’uomo con l’uomo, ma piuttosto sull’isolamento [Absonderung] dell’uomo dall’uomo. È il diritto a tale isolamento, il diritto dell’individuo limitato, limitato in se stesso»10: «l’utilizzazione pratica del diritto dell’uomo alla libertà è il diritto dell’uomo alla proprietà privata»11, la libertà concepita come arbitrium si configura come «il diritto di godere a proprio arbitrio (à son gré), senza considerare gli altri uomini, indipendentemente dalla società, del proprio patrimonio e di disporre di esso, il diritto dell’egoismo»12. Il diritto tenta di realizzare l’estrema astrazione, senza però rendersi conto che in realtà gli uomini non possono essere atomi e non lo sono mai, in quanto l’uomo non abita nella divina (o animale) indifferenza, come aristotelicamente evidenziato da Marx ed Engels:
la proprietà caratteristica dell’atomo consiste nel non avere alcuna proprietà e perciò nessuna relazione [Beziehung] […]. L’individuo egoistico della società civile si può gonfiare […] fino a diventare l’atomo […]. Ma, poiché il bisogno del singolo individuo non ha senso evidente di per sé per l’altro individuo egoistico che possiede i mezzi per soddisfare quel bisogno […], ogni individuo è quindi costretto a creare questa connessione […]. Sono quindi la necessità naturale, le proprietà umane essenziali, per quanto alienate [entfremdet] possano apparire, l’interesse, che tengono uniti i membri della società civile; il loro legame reale è la vita civile, e non la vita politica […], essi sono atomi solo nella rappresentazione [Vorstellung], nel cielo della loro immaginazione – il fatto che nella realtà [Wirklichkeit] sono esseri fortemente distinti dagli atomi, cioè non sono egoisti divini, ma uomini egoistici13.

Gli uomini, dunque, proprio in quanto uomini, sono necessariamente in rapporto con gli altri, non sono indipendenti: non c’è individuo che non dipenda dal legame sociale per realizzare persino il proprio utile e l’interesse privato; è la natura umana, l’essere bisognoso proprio dell’uomo, a fare degli individui umani esseri non autosufficienti e non assoluti – né animali né dei14. Das menschliche Wesen, ricorda Marx nella Tesi su Feuerbach, è das ensemble der gesellschaftlichen Verhältnisse (VI), e la vita sociale è essenzialmente Praxis (VIII), umwälzende in quanto sinnlich menschliche Tätigkeit (I)15. Questo, in estrema sintesi, è quanto il diritto romano ha cercato di mettere da parte attraverso il suo capillare dispositivo normativo e normalizzante, che ha dato vita a una paradossale coimplicazione tra individualismo e assolutismo, perché la realizzazione dei diritti individuali, la garanzia della loro sicurezza, viene connessa alla subordinazione a un’obbligazione politica che possiede un carattere di assolutezza, all’alienazione di tutti i diritti, persino alla donazione della vita.

2. Persona, libertà e proprietà: il dispositivo individualizzante del diritto

I. Il diritto romano viene da Esposito considerato un vero e proprio dispositivo, per il suo ruolo performativo, ossia produttivo di effetti reali: esso distingue la persona, intesa come entità artificiale portatrice del diritto, dall’uomo, inteso come essere naturale «cui può convenire o meno uno statuto personale» (TP, p. 13). Ciò significa che per il diritto, vero e proprio «meccanismo di disciplinamento sociale» (ibidem), l’uomo può essere considerato tanto persona quanto cosa, come si evidenzia nel caso dello schiavo, che abita la zona di transito tra cosa vivente e persona reificata. Non solo: qualcuno può essere considerato pienamente persona (essere incluso da parte del dispositivo del diritto) solamente se qualcun altro viene spinto verso i confini della cosa (viene escluso da parte del diritto). In poche parole, il diritto possiede un carattere «privativo ed escludente» (ivi, p. 20), esclude colui che è privato del diritto, mentre include colui che è ammesso dal diritto soltanto in quanto privato cittadino, proprietario della sua persona prima ancora che delle cose che lo circondano e di cui fa uso.

II. La persona, dunque, viene intesa nel diritto romano come una maschera, come una vera e propria finzione, come l’assunzione di un ruolo economico-sociale: il diritto romano ha trasferito lo scarto singolare tra corpo e persona (tra ciò che nell’uomo è da considerare ulteriore e separato rispetto alla sua semplice corporeità) «dall’ambito singolare dell’individuo alla trama complessiva dei rapporti tra gli uomini» (ivi, p. 94). La generalità del diritto unisce gli uomini proprio tramite ciò che li divide, essi «sono divisi dalla forma che li collega in un unico destino» (ivi, p. 95), destino che li allontana dall’esistenza concreta e dalla densità corporea per dar vita a categorie astratte di esclusione/inclusione: schiavi e liberi, suddivisi a loro volta in ingenui (liberi per nascita) e liberti (liberi per affrancamento). Il diritto rende gli esseri umani soggetti nel senso che li assoggetta, li rende cioè oggetti in quanto li definisce in base a uno status che li codifica: «servi, filii in potestate, uxores in matrimonio, mulieres in manu, liberi in mancipio, ma anche addicti, nexi, auctoritati, sono tutte classi di esseri umani alieni iuris» (ibidem), sottoposti alla potestà del pater familias, «unico tipo di vivente sui iuris» (ibidem).

III. Lo schiavo, notavamo, è una figura particolarmente rivelatrice in quanto «eternamente sospeso tra la condizione di persona e quella di cosa, cosa con un ruolo di persona e persona ridotta allo stato di cosa, a seconda che si guardi ai compiti effettivi che assolve nella società romana oppure alla sua classificazione strettamente giuridica» (ivi, pp. 95 s.). Infatti, da un lato, egli è quasi la non-persona nella persona, la cosa all’interno della persona, è proprietà del padrone alla stregua di cose e animali, è strumento certo «parlante» ma pur sempre strumento da utilizzare e «in piena balia di colui cui appartiene nei suoi atti e nel suo corpo» (ivi, p. 96), è letteralmente dominato dal suo dominus. Eppure, dall’altro lato, «può, in alcuni casi, rappresentare legalmente il dominus assente o addirittura amministrare un peculium» (ibidem), così come, seppur destituito di ogni personalità giuridica, può «essere sottoposto a pena, purché particolarmente crudele e infamante o anche, sotto tortura, testimoniare davanti a un giudice» (ibidem). Qualora fosse stato ucciso non dal padrone (sempre legittimato a farlo), il suo assassino poteva essere, sempre a seconda della volontà del padrone, condannato per omicidio («come accade quando si procura la morte di una persona»: ibidem), o tenuto al risarcimento pecuniario al proprietario («come se gli avesse sottratto qualsiasi altro bene materiale»: ibidem). La stessa ambiguità la si ritrova nel rituale della vindicatio in servitutem, nel passaggio dalla schiavitù alla libertà o viceversa, caratterizzato da una serie di stati intermedi che rendono «mai definitivamente compiuto e sempre reversibile» (ibidem) il transito da persona a cosa. Se si prende infatti, per esempio, la manumissio, l’affrancamento dello schiavo, si nota che essa, sempre connessa alla volontà sovrana del proprietario, può assumere le tre forme vindicta, testamento e censu:

nella prima l’emancipazione scaturisce dalla circostanza che alla vindicatio in libertatem di colui che, d’accordo col dominus, veste i panni dell’adsertor libertatis, non corrisponde una contravindicatio da parte del padrone. Nella seconda, per testamento, la liberazione avviene solo alla morte di quest’ultimo, con la conseguente estinzione degli obblighi patronali che negli altri casi continuano a vincolare il liberto. Nella terza, infine, la manumissio consiste nella iscrizione, sempre da parte del dominus, dello schiavo nelle liste del censo, e dunque nella sua iscrizione al novero dei cittadini liberi. Ma ciò che caratterizza, in tutte le forme, la procedura di manomissione è sempre la sua incompiutezza – vale a dire la distanza residua, graduata secondo precise misure, rispetto alla condizione di libertà effettiva (ivi, pp. 96 s.).

In altri termini, la liberazione restava sempre in sospeso, lo schiavo veniva considerato statuliber, non semplice liber, o addirittura gli restava preclusa la possibilità di fare testamento, in quanto tornava schiavo al momento della morte. Esisteva persino un istituto, la diminutio capitis (minima, media o maxima) volto alla «depersonalizzazione»: ciò mostra che la libertà, sempre e comunque nella disponibilità del padrone, era limitata nella forma, nell’estensione e nel tempo, venendo intesa «non come una condizione originaria, bensì derivata, cui l’uomo poteva accedere, temporaneamente e occasionalmente, attraverso un processo artificiale di personificazione» (ivi, p. 97).

IV. Non si deve pensare che tutto ciò valesse solo per lo schiavo, perché per il diritto romano nessun uomo era in quanto tale – per natura – persona: persino il liber per divenire pater doveva comunque passare «per lo stato di filius in potestate» (ivi, p. 98), vale a dire che prima di poter rivendicare lo jus vitae ac necis in quanto soggetto di diritto egli doveva essere stato a sua volta oggetto di analoga rivendicazione. Lo statuto di filius nel diritto mostra più di una consonanza con quello dello schiavo, o forse era persino peggiore di quello di quest’ultimo, in quanto – per esempio – il figlio abbandonato o venduto dal padre non diventava nemmeno proprietà del nuovo pater, perché restava in quella del padre naturale (cfr. ivi, pp. 98 s.). La persona, codificata dal diritto come centro individuale, si distingue dalla res in quanto sua proprietaria; il diritto romano compie una prestazione fondamentale che la giurisprudenza moderna non farà che accogliere, riarticolare e riallargare, quella della «separazione presupposta, all’interno dell’essere umano, tra un elemento naturale, corporeo, meramente biologico e un altro trascendente, costituito di volta in volta in centro di imputazione giuridica, razionale, morale» (ivi, p. 118)16. Come aveva intuito Simone Weil, cui Esposito si riallaccia, il diritto romano è diritto di usare e abusare, è legato a una divisione, a uno scambio e una quantità che ne fanno qualcosa di commerciale e legato all’esercizio della forza17: il diritto personale-individuale, sin dalla sua codificazione romana anzi grazie a essa, è un vero e proprio privilegio, qualcosa che include solamente laddove può escludere, è qualcosa di «privato e privativo» (ivi, p. 123), ha un carattere «di per sé particolaristico» (ibidem). È dunque contrario alla comunità e all’uguaglianza: «il privilegio per definizione è diseguale»18, e la diseguaglianza è per sua natura anticomunitaria.

3. L’homo sacer e l’eccezione sovrana

I. Secondo Agamben il fondamento del potere sovrano moderno non va cercato tanto nella libera cessione, da parte dei sudditi, del loro diritto naturale, quanto piuttosto nella conservazione, da parte del sovrano, del suo diritto naturale di fare qualsiasi cosa rispetto a chiunque, di punire chiunque (cfr. HS, p. 118): il sovrano moderno è come il pater romano, il quale non tanto prende in carico dai dominati (schiavi o figli che siano) il loro (supposto, o comunque sempre provvisorio, come notato) diritto personale, quanto piuttosto è l’unico a poter continuamente esercitare il proprio diritto di proprietà e di controllo rispetto a essi. Gli uomini che vengono sottoposti al potere sovrano vengono considerati uguali proprio come i dominati che vengono sottoposti all’autorità della persona romana venivano considerati uguali: in quanto a disposizione, persino in quanto uccidibili (cfr. p. e. Hobbes, De cive, I, 3)19. Nei termini di Agamben, la sovranità moderna considera politica la vita solamente in quanto vita sacra, ossia uccidibile ma insacrificabile (uccidibile proprio in quanto insacrificabile e viceversa).

II. Per definire la figura della sacralità connessa alla vita umana Agamben si rifà proprio a una figura del diritto romano arcaico: «at homo sacer is est, quem populus iudicavit ob maleficium; neque fas est eum immolari, sed qui occidit, parricidi non damnatur; nam lege tribunicia prima cavetur “si quis eum, qui eo plebei scito sacer sit, occiderit, parricida ne sit”. Ex quo quivis homo malus atque improbus sacer appellari solet» (HS, p. 79)20. Sacro viene dunque definito dal diritto romano quell’uomo la cui uccisione resta impunita ma il cui sacrificio resta interdetto: se è vietato violare qualsiasi cosa sacra, è invece non sacrilego uccidere l’uomo sacro, se ogni uccisione viene punita dalla legge, è invece lecito uccidere l’uomo sacro. L’uomo sacro si pone così all’interno del diritto come colui che è al di fuori tanto dello ius divinum (non può essere sacrificato secondo le prassi rituali) quanto dello ius humanum (è uccidibile da tutti senza punizione): lascia entrambi in sospeso proprio nel momento in cui ne conferma l’esistenza in maniera più radicale. In altre parole, l’homo sacer, restando a metà tra giurisdizione divina e umana, si pone in una zona di indistinzione tra il diritto e la sua applicazione, nel senso che attraverso di lui il diritto è all’opera attraverso la sua disattivazione: il diritto viene messo letteralmente in sospeso attraverso una duplice eccezione (cfr. ivi, pp. 80-82 e 90 s.). «La vita insacrificabile e, tuttavia, uccidibile, è la vita sacra» (ivi, p. 91): essa occupa lo stato di eccezione, appartiene a Dio nella forma della non sacrificabilità ed è inclusa nella comunità nella forma dell’uccidibilità, laddove l’appartenenza a Dio è normalmente definita dalla sacrificabilità e l’inclusione nella comunità dalla non uccidibilità.

III. L’homo sacer, suggerisce Agamben, va considerato come la figura originaria «della vita presa nel bando sovrano» (ivi, p. 92), ciò che è catturato in esso è «una vita umana uccidibile e insacrificabile: l’homo sacer» (ibidem), il suddito in quanto tale. Ciò significa che il diritto romano ha codificato la struttura essenziale della sovranità moderna, la quale ha in carico la gestione delle vite dei singoli proprio in quanto può negarle: «sovrana è la sfera in cui si può uccidere senza commettere omicidio e senza celebrare un sacrificio e sacra, cioè uccidibile e insacrificabile, è la vita che è stata catturata in questa sfera» (ibidem). La legge conosce un caso in cui essa manifesta in tutta la sua potenza la sua capacità di applicazione: quando si applica disapplicandosi, come accade nel caso dell’eccezione, momento in cui la legge si consegna a una pura vigenza senza alcun significato (Geltung ohne Bedeutung), in cui avviene il pieno abbandono al bando sovrano, che accosta e lega al proprio controllo con più forza proprio ciò che considera bandito rispetto all’ordine sociale (cfr. ivi, pp. 34, 59, 68, 122 s.)21. In tale momento la sovranità rivela il suo volto, la sua capacità di includere per esclusione e di escludere per inclusione: «sovrano è colui rispetto al quale tutti gli uomini sono potenzialmente homines sacri e homo sacer è colui rispetto al quale tutti gli uomini agiscono come sovrani» (ivi, pp. 93 s.).

IV. Potremmo anche dire: il sovrano è il pater dei sudditi considerati quali «figli adottivi» del padre imperator22. Foucault affermava che uno dei privilegi caratteristici del potere sovrano è stato sempre la vitae necisque potestas: ebbene, tale potestà è stata originariamente definita dal diritto romano, come «incondizionata potestà del pater sui figli maschi» (ivi, p. 97). Nel diritto romano vita è un concetto non giuridico, indica cioè il semplice fatto di vivere o un particolare modo di vita, tranne che proprio nell’espressione vitae necisque potestas, in cui diventa un vero e proprio terminus technicus. Per Agamben questo mostrerebbe come nel diritto romano la vita appare solo «come controparte di un potere che minaccia la morte» (ibidem), di un potere dunque assoluto, quello che «scaturisce immediatamente e unicamente dal rapporto padre-figlio» (ivi, p. 98), che fa sì che il cittadino maschio libero si trovi di per sé in una condizione di «uccidibilità virtuale» (ivi, p. 100), di sacralità rispetto al pater, potere esteso in seguito all’intera sfera pubblica: «l’imperium del magistrato non è che la vitae necisque potestas del padre estesa nei confronti di tutti i cittadini» (ivi, p. 99). La vita considerata politicamente dal diritto romano è dunque quella sacra, perennemente esposta alla morte eppure proprio per questo non sacrificabile e non punibile: attraverso il diritto romano la vita «si politicizza attraverso la sua stessa uccidibilità» (ibidem), ossia soltanto tramite «l’abbandono a un potere incondizionato di morte» (ivi, p. 101). È solo a partire dall’orizzonte aperto dal diritto romano, sostiene Agamben, che nella modernità il potere supremo potrà essere concepito come «la capacità di costituire sé e gli altri come vita uccidibile e insacrificabile» (ivi, p. 113): persino il sovrano stesso si ritroverà investito della sacertà, di modo che la sua uccisione – crimine di lesa maestà – verrà considerata non un semplice omicidio (qualcosa di più, nel suo caso), e proprio per questo non potrà avvenire semplicemente seguendo i riti ordinari e le forme sancite (cfr. ivi, pp. 114 s.)23.

V. La politica moderna potrà prendere così in gestione la vita sacra in quanto nuda vita, sostiene Agamben, quella stessa nackte Leben che per Engels è quanto resta – e a malapena – dopo l’Auflösung der Menschheit in monadi da parte dello Scheidungprozess del capitalismo, modalità di produzione e di organizzazione sociale che dichiara apertamente la soziale Krieg, il bellum omnium contra omnes tanto temuto da Hobbes: «ognuno sfrutta l’altro, e ne deriva che il più forte si mette sotto i piedi il più debole, a malapena resta la nuda vita»24, in una situazione in cui «ciascuno vede nel suo prossimo un nemico da togliere di mezzo o tutt’al più uno strumento da sfruttare per i propri fini»25, e «questa guerra di tutti contro tutti non può stupirci, poiché non è altro che la concreta attuazione del principio già insito nella libera concorrenza»26. La vita viene così totalmente denudata e privata della sua essenza umana, quasi sino a scomparire – appaiono ancora tristemente valide alcune cupe parole di Adorno: «quella che un tempo i filosofi chiamavano vita, si è ridotta alla sfera del privato, e poi del puro e semplice consumo, che non è più se non un’appendice del processo materiale della produzione, senza autonomia e senza sostanza propria. […] Lo sguardo aperto sulla vita è trapassato nell’ideologia, che nasconde il fatto che non c’è più vita alcuna»27.

Note

1 Faremo riferimento in particolar modo a R. Esposito, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Einaudi, Torino 2007 (d’ora in poi TP in corpo testo) e G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995 (d’ora in poi HS in corpo testo).
2 È l’affermazione del Nobel per l’Economia del 1986 James M. Buchanan in: Il socialismo è finito, il Leviatano vive (1990), tr. it. di G. De Santis, in AA. VV., Le libertà dei contemporanei. Conferenze “Fulvio Guerrini” 1984-1993, presentazione di P. Ostellino, Centro di Ricerca e Documentazione “Luigi Einaudi”, Torino 1993, pp. 161-172.
3 Cfr. G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia (1840), vol. I, a cura di E. Codignola e C. Sanna, Sansoni, Firenze 1947, pp. 182 e 279 s.
4 Cfr. T. Hobbes, De cive. Elementi filosofici sul cittadino (1649), a cura di T. Magri, Editori Riuniti, Roma 2005, p. 25.
5 Cfr. J. Locke, Due trattati sul governo e altri scritti politici (1690), a cura di L. Pareyson, UTET, Torino 1982, pp. 247-263.
6 Cfr. T. Hobbes, Leviatano (1651), a cura di R. Santi, Bompiani, Milano 2001, pp. 275-303.
7 K. Marx, Manoscritti economici-filosofici del 1844, a cura di N. Bobbio, Einaudi, Torino 2004, p. 102.
8 Ivi, p. 101. Altrove Marx affermava che gli individui sussunti alla forma-merce «si riconoscono reciprocamente come proprietari, come persone la cui volontà permea le loro merci. Qui entra in ballo il momento giuridico della persona, e della libertà nella misura in cui vi è contenuta» (K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (1857-1858), 2 voll., tr. it. di E. Grillo, La Nuova Italia, Firenze 1997, p. 231).
9 cfr. K. Marx, La questione ebraica (1844), in B. Bauer – K. Marx, La questione ebraica, a cura di M. Tomba, Manifestolibri, Roma 2004, pp. 173-206: 193.
10 Ibidem.
11 Ibidem.
12 Ivi, p. 194.
13 K. Marx- F. Engels, La Sacra famiglia, ovvero Critica della critica critica. Contro Bruno Bauer e soci (1845), in K. Marx – F. Engels, Opere, IV: 1844-1845, a cura di A. Scarponi, Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 3-234: 134 s. Come ha scritto Charles Taylor, non solo «vivere in società è una condizione necessaria dello sviluppo della razionalità, in uno dei possibili sensi di questa proprietà, o della trasformazione [becoming] in un agente morale nel senso pieno del termine, o in un essere autonomo pienamente responsabile» (C. Taylor, Atomism, in Id., Philosophical Papers II: Philosophy and the Human Sciences, Cambridge University Press, Cambridge 1985, pp. 187-210: 191), ma persino «essere un individuo non equivale a essere un Robinson Crusoe; significa piuttosto essere collocato in un certo modo tra gli altri uomini» (C. Taylor, L’età secolare (2007), tr. it. di P. Costa e M. C. Sircana, a cura di P. Costa, Feltrinelli, Milano 2009, p. 206): persino l’asocialità è socialmente determinata ed è resa possibile solo a partire da un orizzonte sociale di fondo.
14 Marx ed Engels possono così scrivere: «solo nella comunità [Gemeinschaft] con altri ciascun individuo ha i mezzi per sviluppare in tutti i sensi le sue disposizioni; solo nella comunità diventa possibile la libertà personale […]. Nella comunità reale gli individui acquistano la loro libertà nella loro associazione [Assoziation] e per mezzo di essa» (K. Marx – F. Engels, L’ideologia tedesca. Critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti Feuerbach, B. Bauer e Stirner, e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti (1845-1846), tr. it. di B. Codino, introduzione di C. Luporini, Editori Riuniti, Roma 1975, pp. 54 s.). Proprio per questo nella kommunistische Gesellschaft lo sviluppo originale e libero degli individui non può che essere condizionato dalla Zusammenhang fra essi (cfr. ivi, p. 430), vale a dire che la società comunista certo non nega l’individualità, ma riconosce che la società non è costituita da individui, quanto piuttosto dalle relazioni materiali tra di essi (questo è il cum del comunismo): la vita individuale «abbraccia una grande cerchia di molteplici attività [Tätigkeiten] e relazioni [Beziehungen] pratiche con il mondo» (ivi, p. 245); «la società non consiste di individui [Individuen], bensì esprime la somma delle relazioni [Beziehungen], dei rapporti [Verhältnisse] in cui questi individui stanno l’uno rispetto all’altro» (K. Marx, Lineamenti fondamentali, cit., p. 242). In caso contrario si dà vita a vere e proprie Robinsonaden, «robinsonate» per le quali il punto di partenza viene considerato l’einzelne und vereinzelte individuo (cfr. ivi, pp. 3 s.), mentre persino l’interesse privato è configurabile solamente come elemento sociale, vale a dire che è possibile pensarsi come individui solo all’interno di una società che ha già posto i presupposti per farlo, ed è per questo che Marx poteva scrivere: «si tratta di interesse dei privati; ma il suo contenuto, come la forma e i mezzi della sua realizzazione, sono dati da condizioni sociali indipendenti da tutti. La mutua e generale dipendenza degli individui reciprocamente indifferenti [der gegeneinander gleichgültigen Individuen] costituisce il loro nesso sociale» (ivi, pp. 96 s.). Per un approfondimento di queste tematiche rimandiamo a L. Basso, Socialità e isolamento: la singolarità in Marx, Carocci, Roma 2008.
15 Cfr. K. Marx, Tesi su Feuerbach (1845), in K. Marx – F. Engels, Opere, V: 1845-1846, a cura di F. Codino, Editori Riuniti, Roma 1972, pp. 3-5.
16 Non deve allora sorprendere, sottolinea Esposito, che oggi alcuni tra i più importanti bioeticisti liberali (come Engelhardt o Singer) facciano esplicitamente riferimento al diritto romano, e in particolare alle figure di transito tra persona e cosa della manumissio e della municipatio, per articolare la loro concezione della persona (cfr. ivi, pp. 118-122).
17 Il riferimento di Esposito è allo scritto La persona e il sacro, dove tra le altre cose leggiamo: «la nozione di diritto è legata a quella di divisione, di scambio, di quantità. Ha qualcosa di commerciale. Evoca di per sé il processo, l’arringa. Il diritto non si sostiene che col tono della rivendicazione; e quando questo tono è adottato, la forza non è lontana, è subito dietro, per confermarlo, se no sarebbe ridicolo. […] Lodare l’antica Roma per averci trasmesso la nozione di diritto è singolarmente scandaloso. Perché se si vuole esaminare ciò che tale nozione era in origine, al fine di determinarne la specie, si vede che la proprietà era definita dal diritto di usare e abusare. E in effetti la maggior parte di quelle cose di cui ogni proprietario aveva il diritto di usare e abusare erano esseri umani. […] La nozione di diritto trascina naturalmente dietro di sé, per via della sua stessa mediocrità, quella di persona, perché il diritto è relativo alle cose personali. È situato a questo livello. Aggiungendo alla parola diritto quella di persona, il che implica il diritto della persona a ciò che si chiama la propria realizzazione, si farebbe un male ancora più grave» (in R. Esposito (a cura di), Oltre la politica. Antologia del pensiero impolitico, Mondadori, Milano 1996, pp. 75-78).
18 S. Weil, La persona e il sacro, cit., p. 78.
19 Cfr. T. Hobbes, De cive, cit., p. 23.
20 «Uomo sacro è, però, colui che il popolo ha giudicato per un delitto; e non è lecito sacrificarlo, ma chi lo uccide, non sarà condannato per omicidio; infatti nella prima legge tribunizia si avverte che “se qualcuno ucciderà colui che per plebiscito è sacro, non sarà considerato omicida”. Di qui viene che un uomo malvagio o impuro suole essere chiamato sacro».
21 Stato in cui, come negli ultimi mesi accade sempre più spesso in Italia ma non solo, a essere considerata normale è l’emergenza (nonché, con essa, il rischio e il pericolo).
22 Situazione che noi in Italia stiamo vivendo in maniera drastica negli ultimi mesi: colui che controlla governo, principali mezzi di comunicazione e di informazione e gran parte del movimento economico del nostro paese si ritrova a essere considerato come dispensatore personale (e spesso nei confronti di persone perlomeno poco raccomandabili) di ricchezze, di posti di lavoro, di abitazioni, persino di incarichi politici, come padre padrone di parlamentari, «attrici», politici, imprenditori, come vero e proprio detentore di un potere totale sulle vite di questi, costretti ad accettare la totale dipendenza per poter aspirare a una qualche forma di (evidentemente menzognera) indipendenza.
23 Analogamente a come un processo nei confronti dei parlamentari italiani deve passare attraverso il filtro dell’immunità e della votazione del Parlamento, o a come un processo per prostituzione minorile rivolto nei confronti di un esponente del Governo italiano (o, come ben sappiamo, del Capo di esso) può dover essere istituito presso lo specifico Tribunale del Consiglio dei Ministri.
24 F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra (1844), in K. Marx – F. Engels, Opere, IV, cit., pp. 235-514: 263.
25 Ivi, p. 362.
26 Ibidem.
27 T. W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa (1951), tr. it. di R. Solmi, introduzione e nota di L. Ceppa, Einaudi, Torino 1994, p. 3.

Alessandro Monchietto – «L’euro come metodo di governo. Il ciclo di Frenkel, le ragioni degli squilibri dell’eurozona e la mezzogiornificazione delle periferie europee»

Euro come metodo di governo

 

Euro come metodo di governo

 

1. Nella produzione di un ordine del discorso dominante, le notizie vengono selezionate, accorpate, differenziate: alcuni casi di cronaca vengono messi in risalto, altri lasciati in ombra o taciuti. Tutto si muove all’interno di una dinamica che sta a noi comprendere e districare, per non farci travolgere da un’ingiusta lettura del presente. C’è oggi nel mondo un discorso dominante, o che piuttosto si avvia a diventare dominante, relativo all’attuale crisi. Nella sostanza esso sostiene che l’odierna condizione di precarietà economica che caratterizza il continente europeo dipenda dai debiti pubblici, dalla loro quantità troppo elevata, dall’eccessivo rapporto fra debito e Pil. Il problema viene presentato come “crisi dei debiti sovrani”, in particolare di alcuni membri (i cosiddetti PIIGS) ordinariamente descritti come incapaci di controllare l’eccesso di spesa pubblica e la conseguente spirale debitoria; questo dato spaventerebbe gli investitori, determinando una diminuzione della fiducia del mercato azionario che – per questo motivo – comincerebbe a richiedere interessi sempre più alti. Per “tranquillizzare i mercati” occorrerebbero dunque drastiche scelte che migliorino il bilancio pubblico: aumento delle tasse e riduzione delle uscite (ergo tagli alla spesa sociale), privatizzazione dei beni e dei servizi pubblici, e una riforma del mercato del lavoro che introduca maggiore flessibilità, diminuzione delle tutele sindacali, facilità di licenziamento, in modo da favorire la riduzione del rischio d’impresa e l’aumento della produttività. La forza di questi ragionamenti sta nel senso di mortificazione che stimolano negli individui, e nello sfondo di “naturalezza” che danno a qualsiasi avvenimento negativo. In questo breve testo cercheremo di gettare luce su alcuni meccanismi del discorso dominante, nel tentativo di proporre un cambio di prospettiva.

2. Occorre innanzitutto mettere a fuoco cosa accade quando si riuniscono Paesi diversi in una unione monetaria. Questo tipo di analisi è stata egregiamente svolta da Roberto Frenkel e Martin Rapetti, due economisti argentini che hanno preso in esame vari episodi di crisi economico-finanziaria (dal Cile della fine degli anni ‘70, alla crisi asiatiche della seconda parte degli anni ‘90, sino alla crisi Argentina dell’inizio degli anni 2000), e ne hanno estratto uno schema comune. Sostanzialmente la vicenda ha due protagonisti: un paese sviluppato (il “centro”), con una forte base finanziaria e industriale, e un paese, o un gruppo di paesi, relativamente arretrato (la “periferia”). Il centro “suggerisce” alla periferia la liberalizzazione dei movimenti di capitale e l’adozione di un tasso di cambio fisso. In tal modo ottiene due vantaggi: in periferia i tassi di interesse sono più alti che in patria[1], e il centro può prestarle i propri capitali (i movimenti di capitali sono stati infatti liberalizzati) lucrando la differenza senza patire rischio di cambio (il cambio è fisso); inoltre, drogando coi propri capitali la crescita dei redditi della periferia, il centro si assicura un mercato di sbocco per i propri beni. Le economie periferiche perdono competitività rispetto a quelle del Centro, e questo si traduce in un peggioramento della bilancia commerciale: nella competizione con i paesi più forti, che presentano inflazione più bassa, gli Stati periferici vedono ridursi le esportazioni e aumentare le importazioni. La periferia si gonfia così come una bolla: l’accesso al credito facile fa salire l’inflazione, e se all’inizio ci si rivolgeva all’estero essenzialmente per comprare beni di lusso, col tempo i prodotti esteri diventano competitivi anche sulle fasce più basse, il deficit commerciale si approfondisce, e occorrono nuovi capitali esteri per finanziarlo. Questo fa sì che l’economia, nonostante la crescita, diventi più fragile. A un certo punto per un motivo X(ad esempio lo scoppio di una recessione) il centro comincia a dubitare della capacità della periferia di rimborsarlo: esige il pagamento di interessi più alti a copertura del rischio, lo spreaddecolla, e i paesi periferici vedono le proprie economie crollare e precipitare verso una spirale distruttiva da cui faticano sempre più a uscire[2].

3. All’interno di un’unione monetaria ci sono infatti degli elementi che impediscono il normale riequilibrio delle situazioni di crisi. Facciamo un esempio pratico, per chiarire: immaginiamo che Italia e Germania abbiano le loro monete nazionali, e che in un dato momento il cambio lira-marco sia uno a uno (un marco per una lira). Immaginiamo poi che, pian piano, la Germania accresca la sua competitività e quindi le sue merci vengano richieste maggiormente. Assieme alle merci verranno richiesti anche i marchi per pagarle, e quindi aumenterà anche la domanda di moneta tedesca. La valuta è infatti una merce, e in quanto tale è sottoposta alla legge della domanda e dell’offerta: attraversi tale meccanismo si determinerà dunque un aggiustamento del cambio, cioè un apprezzamento del marco e/o una svalutazione della lira. Ora vediamo cosa accade all’interno dell’euro. Italia e Germania hanno la stessa moneta, e quindi il cambio è sempre uno a uno (un euro per un euro). Nonostante i divari di inflazione e di competitività, il cambio resta fisso, anche quando, in realtà, la moneta italiana dovrebbe perdere valore rispetto a quella tedesca. Se il rapporto di cambio corretto, dati gli sbilanci commerciali, sarebbe due a uno (due lire per un marco), allora restare nell’euro (mantenendo un rapporto di cambio uno a uno) significa frenare l’apprezzamento del marco, e mantenere la divisa tedesca al di sotto del valore che dovrebbe avere, aumentandone la competitività[3]. Questa – come vedremo – è la logica del “regime di accumulazione” sulla quale si basa l’UE.

4. Il discorso dell’attuale crisi – dominante nei media come nell’accademia – sembrerebbe suggerire la tesi secondo cui il successo della Germania sia essenzialmente dovuto alla sua “capacità di innovare”, che le permetterebbe di vincere la “sfida della globalizzazione”. I dati tuttavia raccontano una storia diversa. Dal 1999 al 2007 la Germania ha avuto un deficit crescente verso i paesi emergenti e in particolare nei confronti dei BRIC (quello verso la Cina è ad esempio aumentato di circa 20 miliardi di dollari), mentre i 239 miliardi di aumento del surplus tedesco da inizio secolo sono spiegati per due terzi dagli scambi con i paesi europei[4]. L’innovazione c’entra ben poco: queste dinamiche sono spiegate dalla competitività di prezzo. E la dinamica favorevole dei prezzi in Germania è dovuta soprattutto al fatto che – negli ultimi dieci anni – gli aumenti di produttività non sono finiti nelle tasche dei lavoratori. In sostanza il segreto della “locomotiva tedesca” è una politica di moderazione/deflazione salariale, per cui a produttività crescente corrispondono salari reali calanti[5]. Non è dunque un problema di paesi “virtuosi” contro paesi “”cattivi”, come i tutori dell’ordine simbolico cercano ideologicamente di contrabbandare. La Germania ha infatti realizzato politiche del lavoro che hanno tenuto relativamente bassa la propria inflazione[6], e grazie a ciò è riuscita a impedire l’aumento dei propri prezzi, aumentando tuttavia a dismisura i problemi dei partner più deboli. La Germania ha pertanto immensamente squilibrato l’eurozona con la sua politica di depressione della domanda interna[7]. Di qui discende la necessità di una politica di compressione salariale in tutti i PIIGS: se non si copia quello che ha fatto la Germania, si continuano ad accumulare deficit commerciali, finanziati con afflussi di capitali (cioè con debiti), e si tratta di una situazione chiaramente insostenibile. [8]

5. Ha però senso accettare tali sacrifici? La nostra risposta è un secco NO. Una politica d’austerità e moderazione salariale generalizzata a tutta l’Europa farebbe cadere l’intero continente nella stagnazione, a causa dell’indebolimento della domanda. Se tutti paesi dell’eurozona adottassero le stesse politiche depressive, chi potrebbe infatti comprare le loro merci[9]? L’austerità non appare più dunque come un passaggio necessario per superare la crisi, ma si palesa come un meccanismo mirato a scaricare i costi della crisi sui soggetti deboli, siano essi i ceti popolari europei (che si vedono privati di diritti conquistati decenni addietro e che mano a mano si avvezzano alla nuova realtà di impoverimento diffuso) o i “capitalismi deboli” dei PIIGS. L’indebolimento causato dalle politiche di austerità potrà infatti rivelarsi la premessa per una politica di acquisizioni da parte dei soggetti forti del continente. Si è a proposito parlato di vera e propria «Mezzogiornificazione» europea[10]. Secondo questa ipotesi i PIIGS sono destinati a diventare zone depresse, così come avvenne paradigmaticamente al sud Italia nel corso del XIX e XX secolo: le leve di comando del capitale si concentreranno sempre più nelle aree centrali dell’unione, le periferie saranno colpite da fenomeni di desertificazione produttiva e migrazione di massa e le loro economie si conserveranno esclusivamente in funzione degli interessi e dei fini dei paesi forti del Nord.

6. Queste osservazioni permettono di rispondere a una possibile obiezione: si potrebbe infatti pensare che la Germania – con l’imposizione delle sopracitate politiche di austerità – stia segando il ramo sul quale è seduta, poiché in tal modo starebbe inevitabilmente restringendo la capacità di assorbimento delle merci alemanne da parte dei propri mercati di sbocco. È tuttavia ragionevole ritenere che essa abbia intrapreso questo percorso proprio perché tali politiche di austerità renderanno sempre più facile la conquista economica dell’euro-periferia da parte dei paesi centrali. Queste dinamiche, certamente ben note ai ceti dirigenti tedeschi, probabilmente rappresentano uno degli elementi su cui essi contano: la possibilità di investire acquisendo imprese locali a costi di saldo potendo operare con lavoratori privati di tutele e diritti, al fine di ridurre l’intera periferia del continente a una specie di “Cina dell’Europa”.

7.1 Cerchiamo ora di sintetizzare. Come si è visto, l’Ue è stata creata per imporre la massima apertura degli Stati alla libera circolazione di merci e capitali e per impedire ogni intervento statale che ostacoli la concorrenza e protegga le economie interne. È la decisione di aprire l’economia alla libera circolazione di merci, servizi e capitali che determina la necessità di regimi a cambi fissi, o ancor meglio di unioni monetarie. Senza di essi gli investimenti internazionali a medio-lungo termine sarebbero stati scoraggiati dal rischio di cambio[11], fattore assai limitante e inviso ai propugnatori del principio ideologico della “libera circolazione”.

7.2 L’unione europea non è che una realtà giuridica nata da circa un paio di decenni grazie all’adesione di alcuni Stati a determinati trattati internazionali. Sono questi documenti specifici (dal trattato di Maastricht – il cui spirito costitutivo e costituzionale è chiaro: meno Stato, ergo più mercato – al recentissimo Fiscal Compact) a definire cosa è l’Ue. Le politiche antipopolari, neoliberiste e iper-capitalistiche sono pertanto iscritte nei trattati stessi che definiscono l’Unione europea. Questi aspetti non sono linee di politica economica scelte da una maggioranza politica, che possono quindi cambiare in base al diverso colore politico dei governi. Essi sono il fondamento stesso dei trattati che definiscono l’Ue, ne permeano ogni pagina, e rappresentano l’intima essenza dell’Unione, delle sue istituzioni, della sua ragion d’essere. Decidendo di entrare a far parte della Ue (o di non uscirne), è alla teoria politico-economica liberista che si aderisce. Non c’è infatti nessuna possibilità all’interno del suo quadro istituzionale – interamente intriso dell’ideologia liberista – di realizzare politiche di segno diverso[12].

7.3 L’offerta di prestiti da parte di banche desiderose di collocare eccedenze finanziarie (risultato come visto dei surplus commerciali drogati dall’euro) ha indiscutibilmente favorito la “domanda” delle merci del centro. Banche che – consapevoli dell’esistenza di un rischio di insolvenza – hanno comunque indotto i cittadini e le imprese dei PIIGS a indebitarsi. Non sono stati dunque i cittadini greci, spagnoli o portoghesi a vivere al di sopra dei propri mezzi. Sono state le banche tedesche a farlo. Non sono stati i cittadini greci, spagnoli, portoghesi o italiani a pensare che qualcuno avrebbe pagato per loro: sono state le banche tedesche a sapere che qualcuno avrebbe comunque pagato per loro.

7.4 L’euro ha creato le condizioni di un afflusso di capitali che ha portato ad un forte indebitamento privato. Il fattore causale della crisi non è dunque la politica fiscale dello Stato, ma il peggioramento dei rapporti economici con l’estero[13]. Le misure di austerità non risolveranno pertanto nulla, dato che non determinano nessun miglioramento rispetto ai problemi strutturali dell’eurozona.

8. La nostra tesi è che l’uscita dall’euro sia condizione necessaria per impostare politiche economiche di giustizia sociale e sostenibilità ecologica. Non intendiamo tuttavia asserire che essa sia condizione sufficiente: non vogliamo cioè sostenere che l’uscita dall’euro comporti, di per sé, una maggiore giustizia sociale o l’inversione delle tendenze distruttive che il capitalismo sta mostrando. Sosteniamo però che tali problemi sono impossibili da risolvere, ed anzi sono certamente destinati ad aggravarsi di continuo, se si rimane nell’euro[14].

Note

[1] «Nella periferia normalmente i tassi di interesse sono più alti e questo per un dato fisiologico dell’economia, perché un’economia che è un po’ più arretrata, se vogliamo, offre delle importanti opportunità di investimento. Insomma, se in un’economia ci sono le autostrade, tutti i porti, tutte le strutture, le fabbriche, eccetera, e in un’altra ancora non ci sono, è chiaro che il capitale si dirigerà verso dove ancora non ci sono perché lì sarà più produttivo. Questo è un po’ la situazione così come te la racconterebbe un economista di estrema ortodossia» [A. Bagnai, Ce lo chiede l’Europa. Intervista a Alberto Bagnai a cura di Claudio Messora, http://www.byoblu.com/post/2012/07/06/alberto-bagnai-ce-lo-chiede-leuropa.aspx].

[2] Cfr. a riguardo http://goofynomics.blogspot.it/2012/11/il-romanzo-di-centro-e-di-periferia.html.

[3] «Da tutto ciò si evince che è la struttura dell’euro a rappresentare, essa sì, una svalutazione competitiva: la svalutazione competitiva della Germania contro i paesi più deboli di lei, contro i PIIGS e la Francia. […] la nostra proposta non è finalizzata a rilanciare le svalutazioni competitive, bensì a difendere il nostro paese dalla svalutazione competitiva operata dalla Germania grazie all’euro» [M.Badiale, F.Tringali, La trappola dell’euro. La crisi, le cause, le conseguenze, la via d’uscita, Asterios,Trieste 2012, p. 106].

[4] http://goofynomics.blogspot.it/2011/11/i-salvataggi-che-non-ci-salveranno.html

[5] In una cornice di coordinamento e collaborazione tra i paesi europei, la maggiore domanda a favore dei beni e del lavoro dell’industria tedesca avrebbe dovuto condurre a corrispondenti aumenti salariali. Questi si sarebbero trasferiti agli altri comparti che non hanno sperimentato rialzi di efficienza, determinando un’accelerazione delle dinamiche inflazionistiche rispetto a quelle dei partner: il rialzo delle retribuzioni, arrivato dal settore beneficiario del boom di produttività, sarebbe stato il motore del riequilibrio complessivo. Le cose, in Germania, sono andate in senso esattamente opposto. Il salario industriale, lungi dall’aumentare con la produttività, è bensì sceso: del 14,5 per cento in rapporto al valore del prodotto medio del lavoro tra il 2002 e il 2007. cfr. http://archivio.lavoce.info/articoli/-europa/pagina1001966.html; http://goofynomics.blogspot.it/2012/08/i-salari-reali-alamanni-sono-scesi-del-6.html.

[6] Sul rapporto tra moneta, inflazione e conflitto sull’attribuzione delle risorse cfr. http://www.youtube.com/watch?v=hhwtFGuvmvs

[7] Il punto decisivo non è il livello dei prezzi e dei salari, ma la loro variazione. I costi unitari della manodopera (ossia i salari rettificati in base alla produttività) sono aumentati del 35% nell’Europa meridionale, contro un aumento del 9% in Germania. Il nucleo si è alimentato così a spese della periferia, causandone il dissesto finanziario, e accumulando crediti esteri per oltre 1000 miliardi di dollari dal 1999 al 2009. Il problema di fondo del eurozona è pertanto quello della competizione interna, con la Germania e i paesi forti del Nord che accumulano surplus commerciali nei confronti di quelli del sud. Cfr. http://www.voxeu.org/article/should-we-believe-german-labour-market-miracle ; http://orizzonte48.blogspot.it/2012/12/per-chinon-guardasse-solo-google-e.html .

[8] La teoria delle aree valutari ottimali insegna che per evitare problemi, l’abbandono della flessibilità del cambio deve essere compensato introducendo altre flessibilità, come una maggiore mobilità dei fattori di produzione, una maggiore flessibilità dei salari e una maggiore diversificazione produttiva (che aiuta a superare difficoltà specifiche in un determinato settore). Occorre inoltre che i tassi di inflazione fra i paesi membri convergano, e se questo non si riesce ad ottenere diviene necessario progettare istituzioni per ovviare “a valle” a tali squilibri. Questo obiettivo si può raggiungere innanzitutto apportando un sistema di trasferimento di risorse dalle zone in espansione a quelle in recessione (integrazione fiscale) e inducendo a politiche espansive chi accumulato risorse tramite surplus, affinché agisca da locomotiva per il resto dell’unione (il cosiddetto coordinamento delle politiche fiscali). Non si può infatti essere in surplus se nessuno in deficit, e ai tagli nei paesi in deficit deve accompagnarsi un’espansione della domanda nei paesi in surplus. Su questi temi e sulla proposta avanzata da E. Brancaccio riguardo uno “standard retributivo europeo” per ridurre lo sbilanciamento tra paesi in surplus e paesi in deficit commerciale si veda http://csdle.lex.unict.it/archive/uploads/up_680855042.pdf

[9] Una Europa “germanizzata” non potrebbe generare al proprio interno la domanda a sostegno della produzione, mentre – almeno nel medio termine – non ci si può aspettare che tale domanda provenga dall’esterno.

[10] Cfr. E. Brancaccio e M. Passarella, L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa, Il Saggiatore, Milano 2012, pp. 89 ss.; http://www.emilianobrancaccio.it/2012/11/30/dalla-crisi-della-moneta-unica-alla-critica-del-liberoscambismo-europeo-brevi-note-sulla-mmt/

[11] Cfr. http://goofynomics.blogspot.it/2012/11/il-romanzo-di-centro-e-di-periferia.html ; http://goofynomics.blogspot.it/2013/06/postfazione-europa-kaputt-di-am-rinaldi.html

[12] «L’Ue è l’unione degli Stati europei definita dai trattati di Maastricht e di Lisbona, di cui il “fiscal compact” del 2012 è la naturale evoluzione. Chi vi aderisce accetta quella “Europa”. Pensare di aderire ad essa e contemporaneamente chiederne il rivolgimento sarebbe come aderire ad un’associazione di tiro con l’arco e poi chiedere di buttare via archi e frecce per dedicarsi agli scacchi. È ovvia l’insensatezza. Chi desidera giocare a scacchi farà bene a entrare in una associazione di scacchisti» [M.Badiale, F.Tringali, La trappola dell’euro, cit., p. 111].

[13] «Se il problema fosse il debito pubblico, dal 2008 la crisi avrebbe colpito prima la Grecia (debito al 110% del Pil), e poi l’Italia (106%), Belgio (89%), Francia (67%) e Germania (66%). Gli altri paesi dell’eurozona avevano debiti pubblici inferiori. Ma la crisi è esplosa prima in Irlanda (debito pubblico al 44% del Pil), Spagna (40%), Portogallo (65%), e solo dopo Grecia e Italia. Cosa accomuna questi paesi? Non il debito pubblico (minimo nei primi paesi colpiti, altissimo negli ultimi), ma l’inflazione» e l’indebitamento privato [cfr. http://goofynomics.blogspot.it/2011/11/luscita-delleuro-redux-la-realpolitik.html].

[14] «L’approccio “neo-mercantilista” tedesco sfrutta la moneta unica e la maggiore competitività delle proprie industrie per rubare quote di mercato agli altri paesi, non è così diverso dalla politica inglese dell’ottocento, che sfruttando la superiorità della propria produzione meccanizzata, si faceva alfiere del libero scambio (che permetteva alle sue merci di arrivare dappertutto) e del “gold standard” (che assicurava stabilità ai cambi) perché in quelle condizioni essi rappresentavano dei vantaggi per l’industria inglese. Ma il predominio dell’industria inglese rendeva difficile lo sviluppo industriale di paesi ad essa legati. In questo modo il predominio economico britannico durante l’ottocento ha contribuito alla creazione di ciò che più tardi si è chiamato “Terzo Mondo”.  Non è un caso che gli Stati Uniti abbiano adottato, per tutto o quasi l’ottocento, politiche di tipo protezionistico, proprio per proteggere la propria nascente industria dalla concorrenza inglese. Gli storici dell’economia hanno coniato, per la politica inglese ottocentesca nei confronti dei paesi sotto la propria influenza, ma non controllati politicamente in modo diretto, l’espressione “imperialismo del libero scambio» [M.Badiale, F.Tringali, La trappola dell’euro, cit., p. 53].

Luca Grecchi – A cosa non servono le “riforme” di stampo renziano e qual è la vera riforma da realizzare

Leonardo da Vinci

Aristotele sosteneva che l’esame della realtà politica necessita, fra le altre cose, di una analisi, oltre che dei fatti, anche delle opinioni rilevanti più diffuse. Da alcuni anni l’opinione politica più diffusa, almeno in Italia, è costituita dalla necessità di fare le riforme. Qualunque politico, anche privo di grandi idee, nei tempi ristretti di un talk show se la può sempre cavare affermando che “è necessario fare al più presto le riforme”, snocciolando una serie di campi da riformare: giustizia, fisco, scuola, lavoro, pubblica amministrazione, eccetera. C’è poi anche chi ritiene, pur avendo solo effettuato piccoli interventi – peraltro peggiorativi –, di avere già fatto le riforme, ma si tratta di un atteggiamento da lasciare all’esame di chi si occupa di retorica eristica (l’arte che insegna a prevalere nel discorso per il mero fine di vincere sull’avversario), non all’esame di chi è interessato al bene comune.
Può essere in ogni caso utile analizzare il tema della necessità delle riforme. Tutti sono in effetti d’accordo sul fatto che esse servono, poiché le cose in Italia, nei vari settori menzionati, non funzionano molto bene. Tuttavia, nel nostro paese ma non solo – in un mondo in cui oltre 2 miliardi di persone vivono in condizioni di grave disagio, non si può certo affermare che le cose vadano bene –, il problema sembra strutturale, relativo cioè alla struttura del modo di produzione capitalistico, che, come ogni struttura, sostiene tutto. L’attuale modo di produzione, infatti, ha un solo fine, la massimizzazione del profitto, e per realizzarlo strumentalizza e mercifica ogni cosa. Ciò conduce ad una generalizzata conflittualità, ed addirittura in molti casi alla devastazione della vita, umana e naturale. E’ molto probabile quindi che, per far andare bene le cose, esse debbano essere modificate sul piano strutturale, e dunque in maniera globale, coordinata, pianificata.
Di tutto questo, spesso, non ci si rende conto, poiché la nostra attenzione è incanalata da quanto accade nella esperienza (che, per quanto riguarda la politica, è costituita sostanzialmente da ciò che viene veicolato dai mass media). L’esperienza, tuttavia, riguarda solo il primo approccio con la realtà, la quale, per essere compiutamente conosciuta, richiede di andare oltre l’esperienza, ossia alla struttura profonda, alle cause prime della realtà. Aristotele, in merito, distingueva ciò che è primo “per noi” da ciò che è primo “per sé”. Prima “per noi” è appunto l’esperienza, in quanto la conosciamo per prima; prima “per sé” è invece la struttura della realtà, che conosciamo per ultima ma che è ontologicamente prima, in quanto da essa tutto dipende. Gli uomini che giudicano soltanto sulla base della esperienza (in questo caso coloro che si affidano al teatrino della politica) non conoscono la verità, e pertanto sono molto inclini all’errore.
Conoscere la struttura profonda della realtà conduce invece a capire che la effettualità, il mondo in cui viviamo, va modificato strutturalmente. Per non ampliare troppo la portata dell’analisi, può essere utile sviluppare questo ragionamento parlando solo dell’Italia di oggi. Chiediamoci: sono le singole parti della struttura economico-politica italiana che non funzionano, oppure è la struttura stessa nel suo insieme che non funziona, in quanto troppo corrosa da quei processi capitalistici che tutto corrompono, e che sopra abbiamo descritto? Qualora a questa domanda si dia la prima risposta, ossia che il problema riguarda solo limitate parti di realtà, le riforme – che sono appunto provvedimenti parziali – sarebbero la giusta soluzione; servirebbe poi sapere quali, ma questo sarebbe il passo successivo. Qualora invece alla stessa domanda si desse la seconda risposta, ossia che il problema riguarda la realtà economico-politica nella sua struttura, e quindi nella sua interezza, le riforme non sarebbero più sufficienti: sarebbe necessaria una rivoluzione.
La parola “rivoluzione”, di derivazione astronomica, incute generalmente timore, poiché è di solito associata alla violenza (la violenza che si teme è sempre quella delle masse, mai quella che le persone quotidianamente subiscono, nella loro dignità, a causa di processi socio-economici disumani ed incontrollabili: essa sembra non avere responsabili). Tuttavia, non è necessario che una rivoluzione sia violenta. Direi anzi che una vera rivoluzione, come sapeva Platone, può realizzarsi solo mediante il consenso generale, dunque tramite l’educazione, ossia attraverso la comprensione diffusa che una buona vita può realizzarsi solo all’interno di modalità economico-sociali comunitarie. Quale migliore rivoluzione, oggi, di un cambiamento in grado di porre la cura degli uomini ed il rispetto della natura come fini primari del processo economico-sociale complessivo?
Nel nostro paese, invece, si sta proprio in questi giorni presentando come una grande riforma la semplice riduzione di poteri di un ramo del Parlamento (il Senato), con connessa riduzione della possibilità di esprimere le proprie preferenze elettorali. Il fine dichiarato di questa riforma (la riduzione dei costi della politica) sembra peraltro differente dal fine reale della stessa (aumentare il controllo parlamentare da parte della maggioranza, a scapito della democrazia). Ambedue costituiscono peraltro ben poca cosa. Talvolta in effetti, osservando la pochezza dei fini di questo e simili provvedimenti, viene da chiedersi se in Italia, in alcuni casi, le “riforme” si facciano davvero per realizzare cose utili, oppure solo per poter poi dichiarare di aver fatto qualcosa, ben sapendo che ciò che sarebbe necessario fare non lo si riesce a – o non lo si desidera – realizzare concretamente.
                                                                                                    Luca Grecchi

Luca Grecchi – Cosa direbbe oggi Aristotele a un elettore (deluso) del PD

Aristotele

Cosa direbbe oggi Aristotele a un elettore (deluso) del PD

I dirigenti dei partiti tradizionali, quale è in Italia oggi soprattutto il Partito Democratico, si possono distinguere, in base al fine principale della loro attività, in due categorie: a) aventi come fine l’ottenimento di incarichi pubblici; b) aventi come fine la realizzazione di forme di giustizia sociale. Quando un partito governa, la prima tipologia, che di solito coincide con la cosiddetta “classe dirigente”, è contenta: si aprono infatti molte possibilità. La seconda tipologia, che di solito coincide con la cosiddetta “base militante”, tende invece paradossalmente ad essere scontenta: negli ultimi anni, in effetti, le politiche adottate dai governi non rispondono alle idee di giustizia sociale più condivise. Ciò accade in quanto, per riuscire ad ottenere il potere, i partiti devono sposare le teorie economiche dominanti, le quali si oppongono strutturalmente, nel modo di produzione capitalistico, alla giustizia sociale.

Non mi addentro, in questa sede, nella descrizione dei processi di conquista del potere da parte di organizzazioni, come i partiti, che pure dovrebbero essere democratiche (democrazia significa, in greco, “potere del popolo”). Il mio scopo è più limitato: vorrei solo mostrare come, a mio avviso, la delusione attuale di molti elettori PD sia principalmente frutto di una illusione, consistente nel ritenere possibili cose strutturalmente impossibili, per la struttura stessa del PD per come è divenuto. Saranno molto utili, in questa analisi, alcuni strumenti teorici forniti da Aristotele.

Come noto, l’antico filosofo invitava a distinguere tra ciò che un certo ente è in atto, e ciò che esso è in potenza. Il seme di una rosa è, in atto, un seme, ma in potenza è una rosa, poiché ciò è inscritto nella sua essenza. Diventerà anzi sicuramente una rosa, se non sarà impedito da qualche elemento accidentale. Ciò in quanto gli enti naturali hanno principalmente al proprio interno la causa del loro mutamento, ossia mutano soprattutto in base alla propria essenza, mentre gli enti sociali – quali sono anche i partiti – hanno tale causa principalmente all’esterno, ossia mutano soprattutto adeguandosi all’ambiente in cui vivono. Il PD oggi, in atto, non è un partito che si pone come fine prioritario la giustizia sociale, in quanto ha saputo adattarsi efficacemente all’ambiente capitalistico. Per comprendere se lo potrà diventare, occorre appunto cercare di comprenderne l’essenza.

Per la comprensione di tale essenza ci si deve basare su alcune evidenze e su alcune riflessioni, le quali paiono univoche nel mostrare che il fine prioritario del PD sta sempre più diventando la ricerca del potere. La prioritaria attenzione ai risultati elettorali, la presenza crescente di figure “acchiappavoti”, la vicinanza agli industriali più che ai lavoratori, i crescenti attacchi al sindacato, lo stesso atteggiamento “padronale” di molti giovani leader, paiono segnali inequivocabili. Ora: poiché – come insegna ancora Aristotele – quando muta il fine di un ente ne muta anche l’essenza, difficilmente il PD potrà in breve tempo, salvo appunto trasformazioni strutturali, divenire un partito avente come fine la giustizia sociale (la quale è cosa differente dai famosi 80 euro, i quali peraltro sarebbero stati anche di più semplicemente rinnovando in modo impersonale contratti di lavoro scaduti da anni).

Per concludere, è possibile chiedersi: davvero i militanti PD devono disilludersi di vedere attuata, nel futuro prossimo, una seria politica di giustizia sociale? Se i segnali che ho sinteticamente evidenziato sono corretti – ma in queste analisi, come Aristotele sapeva bene, è sempre possibile sbagliare, ossia considerare essenziali elementi che non lo sono, così come non considerare elementi essenziali –, direi che non possono farsi molte illusioni. La possibilità, cioè, che l’attuale PD realizzi riforme di giustizia sociale, è grosso modo la medesima che ha un seme di rosa di trasformarsi in una palma. Ciò che non è nel fine non è infatti nemmeno nella essenza di un ente, dunque non è in potenza presente in esso, e pertanto non può realizzarsi in atto. Si tratta di una vera e propria impossibilità, che una maggiore dimestichezza con la filosofia classica insegnerebbe a riconoscere. Forse è anche per questo che le riforme della scuola degli ultimi vent’anni hanno tolto spazio alla filosofia.

                                                       Luca Grecchi

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