Franco Fortini (1917-1994) – Chi si richiama al comunismo dovrà evitare di credere che l’uomo possa uscire dai propri limiti biologici e temporali. Un errore presente anche in Marx e in Lenin, e che oggi trionfa nella maschera tecnocratica del capitale. Comunismo è anche rifiutare ogni sorta di mutanti per preservare la capacità di riconoscersi nei passati e nei venturi.

Franco Fortini 03

«Chi si richiama al comunismo dovrà evitare l’errore di credere in un perfezionamento illimitato; ossia che l’uomo possa uscire dai propri limiti biologici e temporali. Questo errore, con le più varie manipolazioni, ha già prodotto, e può produrre, dei sottouomini o dei sovrauomini, egualmente negatori degli uomini in cui ci riconosciamo. Ereditato dall’illuminismo e dallo scientismo, depositato dalla cultura faustiana della borghesia vittoriosa dell’Ottocento, quell’errore ottimistico fu presente anche in Marx e in Lenin, ed oggi trionfa nella maschera tecnocratica del capitale. Quando si parla di un al di là dell’uomo, è dunque necessario intendere un al di là dell’uomo presente, non un al di là della specie. Comunismo è anche rifiutare ogni sorta di mutanti per preservare la capacità di riconoscersi nei passati e nei venturi».

Fraco Fortini, Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine, Garzanti, Milano, 1990, p. 101.

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Il testo di Franco Fortini, Extrema ratio, Garzanti, Milano 1990, pp. 99-101, è stato pubblicato per la prima volta nell’inserto settimanale satirico “Cuore” del quotidiano L’Unità del 16 gennaio 1989. Dopo la pubblicazione in Extrema ratio, questo testo è stato ristampato anche in: Una voce: comunismo, Edizioni del Centro di ricerca per la pace, Viterbo 1990;  in Non solo oggi, Editori Riuniti, Roma 1991; in Saggi ed epigrammi, Mondadori, Milano 2003; in “Contropiano”, Giornale comunista online, 2 maggio 2011.


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“Comunismo: termine con cui si designano dottrine che propugnano e descrivono una società basata su forme comunitarie di produzione ovvero di produzione e consumo, in alternativa a società basate su forme di proprietà privata ovvero di distribuzione e di consumo diseguali. Possesso comune della terra e dei mezzi di produzione, lavoro per tutti, regolazione pianificatrice dei bisogni e delle funzioni [...] parte integrante di tali dottrine è l’educazione comune, pubblica, di tutti gli individui” (Enciclopedia Garzanti).

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Il combattimento per il comunismo è già il comunismo. È la possibilità (quindi scelta e rischio, in nome di valori non dimostrabili) che il maggior numero di esseri umani – e, in prospettiva, la loro totalità – pervenga a vivere in una contraddizione diversa da quella oggi dominante. Unico progresso, ma reale, è e sarà il raggiungimento di un luogo più alto, visibile e veggente, dove sia possibile promuovere i poteri e la qualità di ogni singola esistenza. Riconoscere e promuovere la lotta delle classi è condizione perché ogni singola vittoria tenda ad estinguere la forma presente di quello scontro e apra altro fronte, di altra lotta, rifiutando ogni favola di progresso lineare e senza conflitti.

Meno consapevole di sé quanto più lacerante e reale, il conflitto è fra classi di individui dotati di diseguali gradi e facoltà di gestione della propria vita. Oppressori e sfruttatori (in Occidente, quasi tutti; differenziati solo dal grado di potere che ne deriviamo) con la non-libertà di altri uomini si pagano l’illusione di poter scegliere e regolare la propria individuale esistenza. Quel che sta oltre la frontiera di tale loro “libertà” non lo vivono essi come positivo confine della condizione umana, come limite da riconoscere e usare, ma come un nero Nulla divoratore. Per dimenticarlo o per rimuoverlo gli sacrificano quote sempre maggiori di libertà, cioè di vita, altrui; e, indirettamente, di quella propria. Oppressi e sfruttati (e tutti, in qualche misura, lo siamo; differenziati solo dal grado di impotenza che ne deriviamo) vivono inguaribilità e miseria di una vita incontrollabile, dissolta ora nella precarietà e nella paura della morte ora nella insensatezza e non-libertà della produzione e dei consumi. Né gli oppressi e sfruttati sono migliori, fintanto che ingannano se stessi con la speranza di trasformarsi, a loro volta, in oppressori e sfruttatori di altri uomini. Migliori cominciano ad esserlo invece da quando assumono la via della lotta per il comunismo; che comporta durezza e odio per tutto quel che, dentro e fuori degli individui, si oppone alla gestione sovraindividuale delle esistenze; ma anche flessibilità e amore per tutto quel che la promuove e la fa fiorire.

Il comunismo in cammino (un altro non esiste) è dunque un percorso che passa anche attraverso errori e violenze, tanto più avvertiti come intollerabili quanto più chiara si faccia la consapevolezza di che cosa gli altri siano, di che cosa noi si sia e di quanta parte di noi costituisca anche gli altri; e viceversa. Il comunismo in cammino comporta che uomini siano usati come mezzi per un fine che nulla garantisce invece che, come oggi avviene, per un fine che non è mai la loro vita. Usati, ma sempre meno, come mezzi per un fine, un fine che sempre più dovrà coincidere con loro stessi. Ma chi dalla lotta sia costretto ad usare altri uomini come mezzi (e anche chi accetti volontariamente di venir usato così) mai potrà concedersi buona coscienza o scarico di responsabilità sulle spalle della necessità o della storia.

Chi quella lotta accetta si fa dunque, e nel medesimo tempo, amico e nemico degli uomini. Non solo amico di quelli in cui si riconosce e ai quali, come a se stesso, indirizza la propria azione; e non solo nemico di quanti riconosce, di quel fine, nemici. Ma anche nemico, sebbene in altro modo e misura, anche dei propri fratelli e compagni e di se stesso; perché non darà requie né a sé medesimo né a loro, per strappare essi e se stesso agli inganni della dimenticanza, delle apparenze e del sempreuguale.

Dovrà evitare l’errore di credere in un perfezionamento illimitato; ossia che l’uomo possa uscire dai propri limiti biologici e temporali. Questo errore, con le più varie manipolazioni, ha già prodotto, e può produrre, dei sottouomini o dei sovrauomini; egualmente negatori degli uomini in cui ci riconosciamo. Ereditato dall’Illuminismo e dallo scientismo, depositato dalla cultura faustiana della borghesia vittoriosa dell’Ottocento, quell’errore ottimistico fu presente anche in Marx e in Lenin e oggi trionfa nella maschera tecnocratica del capitale. Quando si parla di un al di là dell’uomo, è dunque necessario intendere un al di là dell’uomo presente, non un al di là della specie. Comunismo è rifiutare anche ogni sorta di mutanti per preservare la capacità di riconoscersi nei passati e nei venturi.

Il comunismo in cammino adempie l’unità tendenziale tanto di eguaglianza, fraternità e condivisione quanto quella di sapere scientifico e di sapienza etico-religiosa. La gestione individuale, di gruppo e internazionale, dell’esistenza (con i suoi insuperabili nessi di libertà e necessità, di certezza e rischio) implica la conoscenza delle frontiere della specie umana e quindi della sua infermità radicale (anche nel senso leopardiano). Quella umana è una specie che si definisce dalla capacità (o dalla speranza) di conoscere e dirigere se stessa e di avere pietà di sé In essa, identificarsi con le miriadi scomparse e con quelle non ancora nate è un atto di rivolgimento amoroso verso i vicini e i prossimi; ed è allegoria e figura di coloro che saranno.

Il comunismo è il processo materiale che vuol rendere sensibile e intellettuale la materialità delle cose dette spirituali. Fino al punto di sapere leggere nel libro del nostro medesimo corpo tutto quel che gli uomini fecero e furono sotto la sovranità del tempo; e interpretarvi le tracce del passaggio della specie umana sopra una terra che non lascerà traccia.


Franco Fortini (1917-1994) – «I confini della poesia», Castelvecchi, 2015: «Misura, ossia senso del limite opportuno ma anche dell’illimitato che sta al di là»
Franco Fortini (1917-1994) – «Reversibilità». Anassagora giunse ad Atene che aveva da poco passato i trent’anni. Era amico d’Euripide e Pericle. Parlava di meteore e arcobaleni. Ne resta memoria nei libri. uomini che furono e che in noi sono fin d’ora?

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Aristotele (384-322 a.C.) – Chi è davvero virtuoso sopporta in modo estremamente dignitoso le vicende della sorte, in ogni occasione. In lui risplende il bello morale se è capace di sopportare molte e grandi sventure con animo sereno, non perché è insensibile ma perché è nobile e fiero. Mai potrà diventare misero, incostante e volubile, chi è felice.

Aristotele - Felicità e nobiltà

«[…] nessuna delle opere umane è dotata di tanta stabilità quanto le attività secondo virtù; esse, infatti, sono ritenute essere ancora più salde delle scienze; tra queste, poi, le più stimabili sono anche le più stabili, dal momento che coloro che vivono beatamente trascorrono in esse, in massima parte e in modo massimamente continuo, la loro esistenza; questa infatti, a quanto pare, è la ragione per cui non vengono più dimenticate. Quindi le caratteristiche che cerchiamo apparterranno alla persona felice ed egli sarà tale per tutta la vita; infatti sempre, o soprattutto, compirà le azioni secondo virtù e si dedicherà alla contemplazione, e sopporterà in modo estremamente dignitoso le vicende della sorte, in ogni occasione, con eleganza, come si confà a chi è davvero virtuoso, saldo e senza macchia. Siccome, poi, le vicende della sorte sono molte, e differenti tra loro per grandezza e piccolezza, le piccole fortune, come pure le piccole sfortune, è evidente che non hanno alcun peso all’interno dell’esistenza, mentre quelle grandi, e che si verificano in gran quantità, se positive, rendono la vita più beata (infatti, prese per sé, adornano l’esistenza e noi le utilizziamo in modo bello e moralmente retto) mentre, se si verifica il contrario, riducono e oscurano la beatitudine; infatti comportano dolori e impediscono molte attività. Ciononostante, anche in questi casi, risplende il bello morale, se uno è capace di sopportare molte e grandi sventure con animo sereno, non perché è insensibile ma perché è nobile e fiero. E se, come abbiamo detto, le attività costituiscono l’elemento più importante dell’esistenza, nessun individuo beato potrà mai diventare misero; infatti non compirà mai azioni odiose e riprovevoli. Noi infatti riteniamo che l’individuo veramente virtuoso e saggio sarà in grado di sopportare tutti gli eventi della sorte in modo decoroso, saprà sempre compiere le azioni più belle tra quelle che gli si presentano […]. Se le cose stanno così, chi è felice non diventerà mai misero […]. E neppure sarà un individuo incostante, né sarà volubile […]».

Aristotele, Etica Nicomachea, Libro I, 10, 1100 b 15-35 – 1101 a 1-10, in Id., Le tre etiche e il trattato sulle virtù e sui vizi, traduzione e cura di Arianna Fermani, introduzione di Maurizio Migliori, Bompiani, Milano 2018, pp. 469-471.


Aristotele – Questa è la vita secondo intelletto: vivere secondo la parte più nobile che è in noi
Aristotele (384-322 a.C.) – La «crematistica»: la polis e la logica del profitto. Il commercio è un’arte più scaltrita per realizzare un profitto maggiore. Il denaro è l’oggetto del commercio e della crematistica. Ma il denaro è una mera convenzione, priva di valore naturale.
Aristotele (384-322 a.C.) – La mano di Aristotele: più intelligente dev’essere colui che sa opportunamente servirsi del maggior numero di strumenti; la mano costituisce non uno ma più strumenti, è uno strumento preposto ad altri strumenti.
Aristotele (384-322 a.C.) – Da ciascun seme non si forma a caso una creatura qualunque. La nascita viene dal seme.
Aristotele (384-322 a.C.) – In tutte le cose naturali si trova qualcosa di meraviglioso.
Aristotele (384-322 a.C.) – Se l’intelletto costituisce qualcosa di divino rispetto all’essere umano, anche la vita secondo l’intelletto sarà divina rispetto alla vita umana. Per quanto è possibile, ci si deve immortalare e fare di tutto per vivere secondo la parte migliore che è in noi
Aristotele (384-322 a.C.) – Se uno possiede la teoria senza l’esperienza e conosce l’universale ma non conosce il particolare che vi è contenuto, più volte sbaglierà la cura, perché ciò cui è diretta la cura è, appunto, l’individuo particolare.
Aristotele (384-322 a.C.) – Diventiamo giusti facendo ciò che è giusto. Nessuno che vuol diventare buono lo diventerà senza fare cose buone. Il fine deve essere ipotizzato come un inizio perché il fine è l’inizio del pensiero, e il completamento del pensiero è l’inizio di azione. ⇒ Una Trilogia su Aristotele: «Sistema e sistematicità in Aristotele». «Immanenza e trascendenza in Aristotele». «Teoria e prassi in Aristotele».
Aristotele (384-322 a.C.) – Le radici della ‘paideia’ sono amare, ma i frutti sono dolci. Il modello più razionale di ‘paideia’ abbisogna di tre condizioni: natura, apprendimento, esercizio.
Aristotele (384-322 a.C.) – La virtù è uno stato abituale che orienta la scelta, individua il giusto mezzo e lo sceglie. Il male ha la caratteristica dell’illimitato, mentre il bene ha la caratteristica di ciò che è limitato.
Aristotele (384-322 a.C.) – Tutti gli uomini per natura tendono al sapere. L’intelletto è quanto di più elevato si possa pensare, è il «toccare» il vero, rappresenta la realtà più divina ed eccellente che c’è in noi.
Aristotele, La mano è azione: afferra, crea, a volte si direbbe che pensi. La mano ha fatto l’uomo, è l’uomo stesso, è lo strumento degli strumenti. In verità il pensiero si impone come artigianale così come la mano.
Aristotele (384-322 a.C.) – La poesia è qualche cosa di più filosofico e di più elevato della storia. La poesia tende piuttosto a rappresentare l’universale, la storia il particolare
Aristotele (384-322 a.C.) – In qualunque campo si raggiungerebbe la migliore visione della realtà, se si guardassero le cose nel loro processo di sviluppo e fin dalla prima origine.
Aristotele (384-322 a.C.) – Il fatto di vivere è comune anche alle piante. Ciò di cui andiamo in cerca per l’uomo è qualcosa di specifico. Il bene umano risulta essere l’attività dell’anima secondo virtù in una vita umana compiuta, in atto nel senso più proprio. un solo giorno o un breve periodo di tempo non rendono beato e felice nessuno.
Aristotele (384-322 a.C.) – Non si deve nutrire un infantile disgusto verso lo studio dei viventi più umili: in tutte le realtà naturali v’è qualcosa di meraviglioso che offre grandissime gioie a chi sappia comprenderne le cause, cioè sia autenticamente filosofo.
Aristotele (384-322 a.C.) – Moralmente bello significa fare il bene senza mirare al contraccambio. L’uomo moralmente retto ricerca per sé il bello morale e antepone il bello a tutto il resto.
Aristotele (384-322 a.C.) – Tra tutti i beni quelli scelti in vista di se stessi sono fini. Tra questi, poi, sono belli tutti quelli che sono degni di lode. Infatti questi sono quelli da cui derivano azioni che sono degne di lode ed essi stessi sono degni di lode.
Aristotele (384-322 a.C.) – La moneta è nata per convenzione. Essa ha il nome di moneta (nomisma), perché non esiste per natura ma per legge (nomos), e dipende da noi cambiarne il valore e porla fuori corso.
Aristotele (384-322 a.C.) – «Protreptico. Esortazione alla filosofia». La felicità della vita non consiste nel possesso di grandi sostanze, quanto piuttosto nel trovarsi in una buona condizione dell’anima. La conoscenza e il pensiero filosofico costituiscono il compito proprio dell’anima. Questa è la cosa più desiderabile per noi.
Aristotele (384-322 a.C.) – La natura dell’equità è proprio quella di correggere la legge laddove essa, a causa della sua formulazione universale, è difettosa. Ciò che è giusto e ciò che è equo sono la stessa cosa e, pur costituendo entrambe realtà eccellenti, l’equità è superiore.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Costanzo Preve ha analizzato la totalità sociale con gli occhi dell’intelligenza filosofica praticando la libertà dalle strutture di potere. Chiede di essere giudicato non sulla base di illusorie appartenenze di gruppo, ma sulla base esclusiva delle sue acquisizioni teoriche.

Costanzo Preve - Ritorno del clero

Costanzo Preve
Il ritorno del clero. La questione degli intellettuali oggi

pp. 64, , Euro 7 – Collana “Divergenze”

indicepresentazioneautoresintesi

Salvatore Bravo
Costanzo Preve ha analizzato la totalità sociale con gli occhi dell’intelligenza filosofica
praticando la libertà dalle strutture di potere.
Chiede di essere giudicato non sulla base di illusorie appartenenze di gruppo,
ma sulla base esclusiva delle sue acquisizioni teoriche

 

Intellettuali ed alienazione simbolica

La crisi della funzione dell’intellettuale è speculare alla crisi che coinvolge ogni settore della vita sociale ed economica. La totalità del sistema sociale in cui viviamo è falsa. È l’assurda “verità” della condizione contemporanea con l’aggravante che il falso non provoca scandalo. Non vi sono alzate di scudi contro la società dello spettacolo-mercato. Anzi, è osannata e portata religiosamente sugli altari per essere adorata. Ogni manifestazione della vita relazionale è segnata dall’assenza di verità, ogni azione reca in sé finalità acquisitive. Per raggiungere tale obiettivo si recita il falso: lo si insegna con linguaggio orwelliano, si chiama «educazione all’impresa». Si deve imparare a conoscere l’altro, a comprenderne i gusti e le fragilità per poterlo attrarre ed eventualmente saccheggiare. Il falso – in una perversa conversione del bene in male – è la legge che regna, è la finalità di ogni “educazione”. Nessuna educazione sentimentale, ma soltanto educazione al calcolo ed al cinismo. Nella vendita globale, nell’entificazione di tutti e di tutto, ciascuno vende ciò che può: c’è chi vende la propria immagine, perché sul mercato non ha altro da offrire. La svalorizzazione dell’essere umano è la legge del totalitarismo del mercato. Gli ultimi tra i sussunti sono costretti a vendere il proprio corpo che diviene un feticcio da adorare in una sorta di pubblica regressione pagana. I dominati spesso sono i complici inconsapevoli del sistema, non hanno conosciuto altro che la totalità come falsità. Dopo la caduta del muro nel 1989 il modello unico della ragion liberale – ormai senza katechon (limite) alcuno – governa. Nella società che si dichiara la più pluralista della storia, governa il modello unico del mercato, il quale è entrato nelle relazioni, nell’ordine dei concetti, nel corpo vissuto (Gestell): fuori dal mercato non vi è nulla. Un perverso essere parmenideo è planato tra di noi, assimila tutto, non ammette contrapposizioni dialettiche. L’asservimento alla nuova divinità totalitaria non potrebbe essere più completa, l’alienazione è diventata la legge della nuova libertà senza trasgressione, perché tutto è permesso, purché non si pensi. Il mercato come modello di vita non ha nessun livello assiologico, vive dell’irrilevanza. In questo contesto l’intellettuale, come gruppo sociale, è parte della totalità del falso. È il gruppo sussunto dai dominatori della finanza, il gruppo che si fa mediatore simbolico del falso.

Il potere dispone non solo dei corpi e dei comportamenti, ma specialmente delle parole. Gli “intellettuali” – che dovrebbero liberare mediante la parola – hanno invece impoverito il lessico, eliminato il congiuntivo, modo della possibilità, per il solo indicativo, modo della certezza, inaugurando l’alienazione del linguaggio.[1] Il linguaggio scurrile, che ammicca al linguaggio del popolo, è il modo più immediato per ottenere il consenso e condizionare i subalterni per spingerli nella gabbia del mercato. Il linguaggio non è più simbolo[2] che unisce, ma strumento perverso di inclusione. Gli “intellettuali” sono un gruppo divisorio, il loro intento è sussumere ed atomizzare, in quanto prezzolati dal potere. Giornalisti ed accademici divengono parte della struttura di potere, la clonano, la riproducono. Il simbolo, nel suo significato profondo, è unione, è parte dell’essenza della comunicazione, mette in comune per completare una prospettiva, per unire informazioni e giungere al concetto. Gli “intellettuali” invece lavorano, affinché questo non avvenga, al concetto hanno sostituito la chiacchiera (Gerede) con cui estraniare ciascuno da se stesso e dal mondo storico. L’alienazione linguistica è derealizzazione organizzata, un crimine contro l’umanità su cui regna il silenzio.

 

Costanzo Preve “intellettuale anomalo”

I “no” sono stati detti, sono rari, e per questo immensamente preziosi. Costanzo Preve ne è un esempio. Si è congedato dall’intellettuale “impegnato”, in quanto onnipresente, e limitrofo alla cultura del fare e dell’apparire. L’intellettuale impegnato rischia di essere parte del narcisismo socialmente integrato. L’impegno declinato in presenza dei media rischia di trasformarsi in attivismo narcisistico. Inoltre, la presenza ipertrofica dell’immagine comporta che l’intellettuale diventi parte del circo mediatico, perché per utilizzarlo deve pagare il pedaggio dell’onnipresenza visiva con la propria onestà intellettuale. L’alternativa all’intellettuale impegnato è stata l’intellettuale organico, il quale inevitabilmente diviene parte di un meccanismo: il partito e il movimento. Se si è parte di un sistema è inevitabile il compromesso, lo schierarsi parziale ed ideologico:

 

«Nel mio caso la prima decisione esistenziale (fine anni Cinquanta – inizio anni Sessanta) fu quella di non accettare l’insieme di valori adattativi al capitalismo della visione del mondo piccolo-borghese dell’Italia dell’epoca e di “contestarli”, ed in qual periodo storico il cosiddetto “marxismo” costituiva il principale modo di farlo (non l’unico, ce ne erano anche altri, il neofascismo, l’anarchismo, gli stili di vita detti “alternativi”, eccetera). Il “marxismo” era così assai spesso scelto esistenzialmente senza neppure conoscerne gli elementi minimi filosofici, sociologici ed economici, conoscenza che veniva dopo. Non si diventava “comunisti” dopo aver studiato il marxismo, ma si diventava “marxisti” dopo essersi autoproclamati esistenzialmente comunisti. In questo, niente di nuovo. La storia ci offre molti esempi di questo tipo. E tuttavia la prima “eresia” che caratterizzò la mia iniziazione al marxismo stava in ciò, che nell’ambiente che mi era più vicino (la piccola borghesia di Torino di “sinistra”) le due modalità ideologiche dominanti erano quelle dell’antifascismo azionista e dell’operaismo sociologico di identificazione. Entrambe mi erano profondamente estranee, esistenzialmente e culturalmente (inutile qui scendere in dettagli), per cui il mio “tradimento” del profilo identitario piccolo-borghese di integrazione subalterna nel capitalismo non mi portò ad un approdo collettivo nuovo in cui riconoscermi, ma da un’inedita solitudine. Dato il mio sostanziale disinteresse sia per l’antifascismo azionista (Bobbio, Antonicelli, eccetera) sia per l’identificazione operaistica (Panzieri, estremisti gruppettari successivi), il mio approdo al marxismo fu un approdo al marxismo “in solitudine”. Questo non significa affatto – ovviamente – non avere contatti permanenti, amici, compagni, ed anche estimatori. Significa però relazionarsi con i gruppi “militanti” organizzati come ci si relaziona con un autobus di linea. Lo si prende, ma si sale e si scende alla fermata che ci sembra più opportuna. Dato il clima intellettuale del periodo storico (1956-1991), che poi in una mia opera ho connotato come “tardomarxismo”, non potevo che essere attratto dalla figura dell’ “intellettuale”, nella doppia versione dell’intellettuale impegnato (Sartre) e dell’’intellettuale organico (Gramsci). Oggi sono lontanissimo da questi due profili, e non mi considero più nemmeno un “intellettuale”. So bene che all’interno della divisione del lavoro fra lavoro intellettuale e lavoro manuale ed all’interno di una gerarchia differenziale di conoscenze e di competenze specifiche di fatto si è spesso “intellettuali”, lo si voglia o non lo si voglia, in quanto produttori di profili ideologici articolati e sistematizzati che hanno poi una “ricaduta” ed un utilizzo manipolato da parte di ceti politici specializzati (intellettuali di “sinistra”) o da parte di apparati oligarchici di potere economico con il loro accompagnamento corale giornalistico (“opinione pubblica”, eccetera). E tuttavia gli intellettuali, a partire da fine Ottocento, sono un gruppo sociale specifico che non deve essere assolutamente confuso con gli studiosi, gli specialisti, gli artisti, gli scienziati, i filosofi, eccetera. Tutti costoro possono anche essere “intellettuali”, così come un medico può anche essere velista ed un avvocato può essere anche cacciatore. E tuttavia, gli intellettuali in quanto tali sono soprattutto produttori specializzati di profili ideologici articolati, arricchiti e sistematizzati. Nel mondo di “sinistra” della seconda metà del Novecento i due profili principali di intellettuale erano le figure convergenti e largamente complementari di intellettuale “impegnato” (Jean-Paul Sartre) e di intellettuale “organico” (Antonio Gramsci). Io ho cercato sinceramente di essere entrambi, ma ora ho cambiato idea. Vale la pena dire – sia pure brevemente – il perché. L’intellettuale impegnato (engagé) è quello che si impegna per le cause giuste contro quelle ingiuste (popoli del terzo mondo, classe operaia, sfruttati, eccetera). Tutto questo è molto nobile, corretto e non mi sogno certamente di criticarlo. E tuttavia non possiamo non riflettere sulla sua evoluzione. Oggi chi si impegnava per i popoli rivoluzionari si impegna per l’esportazione imperialista armata dei cosiddetti “diritti umani”, oscena protesi ideologica dell’impero americano distruttore della legalità internazionale. Se infatti il criterio fondamentale non è quello della comprensione del mondo ma è quello dell’ “impegno”, si passa la vita in una frenetica staffetta da un impegno ad un altro, con esiti inevitabilmente narcisistici ed autoreferenziali. Inoltre, con esiti soggettivistici. Ad esempio, Sartre si “impegnava” per l’Algeria, ma per la Palestina no (probabilmente per il timore di essere considerato “antisemita”). Ma gli oppressi si difendono da soli, ed hanno bisogno prima di tutto che si comprenda e si rispetti la loro causa, senza bisogno di grilli parlanti o di “funzionari dell’umanità”. L’intellettuale organico è l’intellettuale che, sulla base dell’interpretazione dicotomica del capitalismo come modo di produzione permanentemente scisso in polo borghese e polo proletario, si schiera contro la Classe Borghese per la Classe Proletaria. Ma dal momento che la classe in sé e per sé è una pura astrazione nella sua immediatezza diretta di fabbrica (a meno che si sia anarcosindacalisti e/o “operaisti”, ma è lo stesso), di fatto essere “organici” significa scegliere l’organicità ad un determinato partito o gruppo politico. Ma questa organicità non è che una forma di subalternità introiettata, che mette al servizio di gruppi specializzati di politici la funzione intellettuale di comprensione della società. Il fallimento è assicurato, ed il Novecento ne è stato uno scenario teatrale gigantesco. Con tutti i miei difetti soggettivi, psicologici e caratteriali, e con tutte le mie insufficienze oggettive, scientifiche e filosofiche, rivendico però a mio onore l’avere capito fino in fondo che l’autoidentificazione illusoria e fantasmatica con il gruppo sociale degli “intellettuali”, impegnati e/o organici che siano, non poteva che svilupparsi dialetticamente verso la rovina e l’autodissoluzione, che sono comunque sotto i nostri occhi (Veltroni, Sarkozy, eccetera). Gli intellettuali sono una forma moderna e postmoderna di clero, sia pure un clero non tenuto al celibato ma anzi invitato alla libera scopata postfamiliare. Eretico o ortodosso, giornalistico o universitario, celibe o scopatore, un clero rimane clero. Non dico che un clero non sia talvolta necessario. A volte lo è. Ma oggi il problema non è quello di aggregarsi per produrre collettivamente (inesistenti) profili ideologici articolati e sistematizzati per uso politico, ma di differenziarsi dai greggi esistenti per tentare di avanzare ipotesi teoriche radicalmente nuove. Questo è impossibile se si intende compatibilizzare l’avanzamento di questa ipotesi con l’appartenenza a gruppi intellettuali oggi esistenti, il cui conservatorismo è tale da produrre automaticamente l’esclusione del reo. Termino allora qui questa modesta autocertificazione. Il signor Costanzo Preve è stato a lungo un “intellettuale”, sia pure di seconda fila e non di prima. Ma oggi non lo è più, e chiede di essere giudicato non più sulla base di illusorie appartenenze di gruppo, ma sulla base esclusiva delle sue acquisizioni teoriche. E di queste cominceremo finalmente a parlare».[3]

 

Costanzo Preve non si giudicava un “intellettuale”, sottolineava la sua distanza dal circo mediatico, dal clero degli oratores, il nuovo clero dedito al meritricio della parola e non solo… Si giudicava un pensatore divergente. Divideva i pensatori in due classi: i convergenti ed i divergenti. I primi convergono verso percorsi sicuri ed accademici, i secondi sfuggono dal branco e dalle convenzioni, per divergere verso orizzonti che nessuno ha calpestato. Possono anche perdersi e sbagliare percorso, ma l’spetto più importante del pensatore è rischiare il nuovo, aprendo una breccia nella cappa plumbea del “politicamente corretto”. Il prezzo della libertà può essere la marginalità – spesso non priva di sofferenze – dai circuiti del potere costituito, ma non vi è altro modo se si vuole creare e comunicare un messaggio emancipativo. Socrate è il modello di Costanzo Preve: in un momento in cui la verità pare essere la vergogna da cui fuggire, il dialogo, il logos divengono la trasgressione massima. Soprattutto non l’immagine deve parlare, ma la parola, perché il logos si approssima all’universale con la parola significante, il resto è secondario.

Abbiamo necessità di parole e non di immagini, per questo necessitiamo di modelli che ci ricordano che un altro modo di vivere è possibile. La missione dell’intellettuale che vive e cerca in spirito di verità è quella di testimoniare che dalle lusinghe del falso e del potere ci si può congedare e che l’atteggiamento adattivo ed inclusivo è una delle possibilità del vivere, ma non l’unica, e non certo la migliore. L’intellettuale dev’essere intelligente. Questa affermazione sembra una banalità, ma non lo è. La parola intelligenza deriva da intus legere, leggere dentro. La persona intelligente deve insegnare ad andare oltre l’immediatezza e la riproduzione del falso, per essere veicolo di verità.

Per poter guardare la totalità presente con gli occhi dell’intelligenza bisogna praticare la libertà dalle strutture di potere, con annessi stereotipi. Significa impegno, ma non accettando l’asservimento ideologico all’istituzione che lo vuole ai ceppi.

 

Salvatore Bravo

***

[1] Costanzo Preve, Storia critica del marxismo, La Città del Sole, Napoli 2007, pag. 112.

[2] Il termine “simbolo” deriva dall’unione del prefisso σύμ– (sym-), “insieme” con il verbo greco βάλλω “getto”, letteralmente significa quindi “mettere insieme”.

[3] Costanzo Preve, Autopresentazione di Costanzo Preve [Scritta da lui medesimo].

 
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Vladimir Jankélévitch (1903-1985) – L’amore fa saltare in aria le artificiali categorie della convenzione sociale. Molti possibili si perdono, molte virtualità intristiscono in mancanza di un’eventualità che ne susciti l’attualizzazione. L’uomo luminoso di Rembrandt è il principio temporale che indica alla ronda notturna il cammino dell’aurora.

Vladimir Jankélévitch 03
Ronda di notte (De Nachtwacht) anche noto come Notte di veglia, è un dipinto a olio su tela (359×438 cm) di Rembrandt, realizzato nel 1642 e conservato nel Rijksmuseum di Amsterdam.

«L’amore fa saltare in aria le artificiali categorie della convenzione sociale. Scavalca la laboriosa prosaicità della Prassi e del lavoro; come nell’ebbrezza onirica della notte, la distinzione di possibile e impossibile tende a dissolversi. … Ogni possibile sarà alla portata di tutte le creature. Forse ci sono nell’universo molti possibili che si perdono, molte virtualità di riserva che intristiscono in mancanza di un’eventualità che ne susciti l’attualizzazione. L’avventura esplora le possibilità nascoste nello sconforto o sopite nell’uggiosa beatitudine. Allora ognuno potrà dare un saggio della propria bravura. Ci saranno possibilità per tutti! […] e a ognuno verrà riservata la sua parte di possibili. L’avventura libera il campo al centro del reale perseguendo oasi di fervore e intensità; ridà vita all’istante picaresco, esalta la deliziosa sdrucitura dell’esistenza.

[…] Quando l’uomo, riconciliato con il divenire, accoglie il succedersi dei giorni come un gratuito dono di cui si riconosce destinatario, ringrazia la nuova luce del nuovo mattino e della nuova primavera, accetta la nuova stagione dell’ anno come un dono al quale non aveva diritto, quando la sua riconoscenza per questa grazia inattesa gli dischiude il gioioso avvenimento di qualcosa d’altro, allora l’uomo convertito al carattere insolito dell’istante si meraviglia di trovare l’avventura nella vita più quotidiana; la trova nell’atto di aprire le persiane al mattino, […] nel germogliare della primavera dall’inverno […]. Nelle vite più meticolosamente regolamentate, l’uomo si scopre disarmato, privato dei propri mezzi, sorpreso quando meno se l’aspetta dall’irruzione della congiuntura e dall’istante imprevedibile.

[…] Quando la vita, che pure è il nostro tutto, e che in questo costituisce la serietà per eccellenza, spicca sul fondale del nulla, può apparire anch’essa come un’avventura assai bizzarra. […] Si conoscono le indimenticabili riflessioni che Pascal e Schopenhauer hanno dedicato alla gratuità della nascita, alla stranezza dell’esistenza e allo stupore provato dall’uomo nel trovarvisi dentro. E il vivente percepisce allora questa vita, che pure è unica, come provvisoria, frammentaria e segmentata quanto un pellegrinaggio.

Un celebre dipinto di Rembrandt, ora conservato presso il Museo di Amsterdam, ci farà forse comprendere la funzione dell’avventura. Nella Ronda di notte, posto in basso e a destra rispetto al centro del quadro, un uomo vestito di giallo emerge dalle tenebre che avvolgono quasi totalmente la scena. Cosa significa quell’uomo color oro di cui un poeta contemporaneo, J. Cassou, ha parlato in termini così ammirevoli? Non saremo noi a tentare la risposta. Ma sarebbe bello pensare che quest’uomo dorato costituisca il principio dell’avventura. Nell’oscurità della notte, l’uomo porta luce. […] Per la ronda che compie il suo giro nelle tenebre notturne senza sboccare da nessuna parte, l’uomo luminescente, l’Ulisse dei tempi moderni, indica l’apertura […]. L’uomo luminoso è il principio temporale che indica alla ronda notturna il cammino dell’aurora.

 

Vladimir Jankélevitch, L’avventura, la noia, la serietà, Introduzione di Enrica Lisciani-Petrini, Einaudi, Torino, pp. 33-35.


Vladimir Jankélévitch (1903-1985) – Il «pensiero» del niente è un niente di pensiero, perché il nulla dell’oggetto annichila il soggetto: non si pensa un niente, non più di quanto si veda un’assenza, cosÌ che pensare il niente è non pensare a niente, dunque è non pensare.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Karl Marx (1818-1883) – A 17 anni, nel 1835, Marx già ben sapeva quale sarebbe stata la carriera prescelta: agire a favore dell’umanità, perché operando per la comunità nobilitiamo noi stessi. «Il più felice è quegli che rese felice il maggior numero di uomini. Quando abbiamo scelto la condizione nella quale possiamo più efficacemente operare per l’umanità, allora gli oneri non possono più schiacciarci».

Karl Marx- Scritti giovanili

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In un saggio d’esame per la licenza liceale, scritto nel 1835, Karl Marx svolgeva il tema: “Riflessioni di un giovane sulla scelta della carriera“. La carriera prescelta da un giovane, dichiara il giovane Marx nel 1835, doveva essere:

«[…] quella che ci assicura la maggior dignità possibile, che è fondata su idee della cui verità siamo appieno persuasi, che ci offre il campo più ampio per agire a favore dell’umanità e per accostarci a quella mèta generale verso la quale qualunque posizione non è che un mezzo: la perfezione …
Se egli crea soltanto per sé, potrà bensl diventare un dotto celebre, un gran sapiente, un eccellente poeta, giammai però un uomo compiuto e veramente grande».

«Quelle posizioni che non combaciano con la vita reale, ma si bloccano con verità astratte, sono le più pericolose per un giovane dai fondamenti non ancora solidi, dalle convinzioni non ancora ferme e incrollabili, anche se appaiono sublimi e profondamente radicate nel petto, anche se per le idee che in esse regnano ci sentiamo in grado di sacrificare la vita e tutti i nostri sforzi ».
«[…] La storia chiama grandi uomini quelli che, mentre operavano per la comunità, nobilitarono se stessi; l’esperienza esalta come il più felice quegli che rese felice il maggior numero di uomini; la religione stessa ci insegna che l’Ideale al quale tutti aspirano si è sacrificato per l’umanità; e chi oserebbe disconoscere il valore di queste massime?
Quando abbiamo scelto la condizione nella quale possiamo più efficacemente operare per l’umanità, allora gli oneri non possono più schiacciarci, perché essi sono soltanto un sacrificio pel bene di tutti, allora non gustiamo piu una gioia povera, angusta ed egoistica, ché anzi la nostra felicità appartiene a milioni, le nostre imprese vivono pacifiche, ma eternamente operanti, e le nostre ceneri saranno bagnate dalle lacrime ardenti di uomini nobili».

Karl Marx, MEGA, I, 1 (2), 164; MEW EB I, 593-94 (trad. it., Scritti politici giovanili, a cura di Luigi Firpo, Torino, Einaudi, 1974, pp. 483-84).


 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Ernst Bloch (1885-1977) – La filosofia avrà coscienza del domani, prenderà partito per il futuro, solo se saprà della speranza, in caso diverso non saprà più nulla. L’«essere-per-la-morte» vuol conglobare nel proprio fiasco ogni interesse diverso e per indebolire la nuova vita, fa sembrare fondamentale, ontologica, la propria agonia.

Ernst Bloch contra Martin Heidegger
«La filosofia avrà coscienza del domani, prenderà partito per il futuro, solo se saprà della speranza, in caso diverso non saprà più nulla».

Ernst Bloch, Il principio speranza [1938-1947], vol. I, , Garzanti, Milano 1994, p. 10.

Bloch sostiene che la paura è il rovescio della speranza e indica nell’angoscia una paura senza oggetto, criticando in particolare le posizioni marcatamente conservatrici di M. Heidegger, che sull’angoscia e sull’essere-per-Ia-morte ha scritto pagine importanti nelle sue opere maggiori [cfr. M. Heidegger, Sein und Zeit (1927), tr. it. Essere e tempo, Utet, Torino 1978, Parte II, Capitolo I: La possibilità di essere-un-tutto da parte dell’Esserci e l’essere-per-la-morte, pp. 359-399; Was ist Methaphysik? (1929), tr. it. Che cos’è la metafìsica?, in Segnavia, Adelphi, Milano 1987, pp. 59-77].

Scrive Bloch,

« […] vuoI conglobare nel proprio fiasco ogni interesse diverso, contrapposto, e per indebolire la nuova vita, fa sembrare fondamentale, ontologica, la propria agonia. L’assenza di prospettiva dell’esistenza borghese viene dilatata ad assenza di prospettive della situazione umana in generale».

Ernst Bloch, Il principio speranza [1938-1947], vol. I, , Garzanti, Milano 1994,  p. 7.


Ernst Bloch (1885 – 1977) – Chi è scialbo si colora come se ardesse. La via esteriore è la più facile. Apparire più che essere: questo il suo motto.
Ernst Bloch (1885-1977) – Tutto ciò che vive ha un orizzonte. Dove l’orizzonte prospettico è tralasciato, la realtà si manifesta soltanto come divenuta, come realtà morta, e sono i morti, cioè i naturalisti e gli empiristi, che qui seppelliscono i loro morti.
Ernst Bloch (1885-1977) – È la filosofia la scienza in cui è viva, ha da esser viva, la consapevolezza del tutto. La filosofia ha a cuore soprattutto l’unità del sapere. La filosofia sta sul fronte.
Ernst Bloch (1885-1977) – L’utopia concreta sta all’orizzonte di ogni realtà. L’utopia non è fuga nell’irreale, è scavo per la messa in luce delle possibilità oggettive insite nel reale e lotta per la loro realizzazione.
Ernst Bloch (1885–1977) – La speranza non è rinunciataria. È superiore all’aver paura, non è né passiva come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccata nel nulla. Si espande, allarga gli uomini invece di restringerli.
Ernst Bloch (1885 – 1977) – «Vita brevis, ars longa», i regni passano, un buon verso resta eterno; in queste convinzioni legate all’arte ha posto solo l’opera plasmata. Nasce un’«ars longa», adornata dal nome della loro «vita brevis».
Ernst Bloch (1885-1977) – L’utopia è una forza di anticipazione, l’elemento più dinamico e attivo della coscienza anticipante, che costituisce l’anima profonda della speranza per creare spazio alla vita ed essenzializzarsi.
Ernst Bloch (1885-1977) – I filosofi dei nostri giorni hanno familiarizzato con il nihil. L’immagine di desiderio del nulla l’ha formulata Heidegger. il nulla di Jaspers e di Heidegger è tinto e ornato di penne di pavone, proprio in prospettiva del suo incanto di morte.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Günter Anders (1902-1992) – Non sono disposto a rinunciare alla visione della smisuratezza che noi esseri umani siamo in grado di provocare e che abbiamo effettivamente provocato.

Günter Anders 08 Discesa all'Ade

«Dobbiamo piuttosto utilizzare la fantasia come correttivo, giacché la verità delle nostre condizioni mostruose non è senz’altro percepibile, perlomeno non a occhio nudo. Il fantasticare che è oggi richiesto non consiste più in ciò che intendevamo finora con questo termine: non più nel trascendere “esageratamente” il reale, non più nel raffigurarci l’irreale o nell’immaginare esseri fiabeschi – chi continua a utilizzare tuttora un simile concetto di fantasia alla Böcklin si rende ridicolo. Al contrario, fantasticare deve significare attualmente confrontarci con la realtà davvero fantastica di oggi, interpretarla in modo adeguato. In sintesi: la fantasia, dal momento che il suo oggetto, la realtà fantastica, è esso stesso fantastico, deve funzionare come un metodo dell’empiria, come organo di percezione dell’effettivamente enorme, come uno strumento che non sia legato, al pari dell’occhio, a un organo corporeo, e “pertanto” alla sua difettività, cioè alla sua miopia. Al pari del telescopio, che non rende superflua la vista e, al contrario, solo nel momento in cui viene utilizzato consente all’osservazione e alla capacità di distinguere di esplicarsi davvero, così la fantasia non rende superflua la percezione, piuttosto è condizione della sua efficacia. Quantomeno dovremmo essere capaci di immaginare quella smisuratezza che noi stessi riusciamo a produrre e provocare. […] Non sono invece disposto a rinunciare alla visione della smisuratezza che noi stessi, vale a dire noi esseri umani, siamo in grado di provocare, che abbiamo effettivamente provocato: cioè alla visione della smisuratezza dei nostri crimini».

Günter Anders, Discesa all’Ade. Auschwitz e Breslavia, 1966, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 32.


Günter Anders (1902-1992) – L’Apprendista stregone è invidiabile perché fa ancora il tentativo di fermare ciò che ha provocato o che è sul punto di provocare. Oggi viviamo in una foresta di manici di scopa che diventa sempre più fitta
Günter Anders (1902-1992) – Il conformista ottimale non è solo conformista, ma anche “congruista”. Costui si assimila ai contenuti che gli sono forniti, e rende il contenuto della sua vita psichica coincidente con tali contenuti. Nella società conformistica la mancanza di pudore passa per franchezza, dunque per virtù, e questa virtù per un attestato di lealtà.
Günter Anders (1902-1992) – La metamorfosi dell’«Apprendista stregone». Oggi viviamo in una foresta di manici di scopa che diventa sempre più fitta.
Günter Anders (1902-1992) – L’odio è sì negazione dell’altro, ma è anche l’autoaffermazione e l’autocostituzione attraverso la negazione e l’eliminazione dell’altro.
Günter Anders (1902-1992) – Abbiamo rinunciato a considerare noi stessi come i soggetti della storia. ci siamo detronizzati e al nostro posto abbiamo collocato un solo altro soggetto della storia: la tecnica. Cambiare il mondo non basta. Nostro compito è anche interpretarlo.

Alessio Cernicchiaro

Günther Anders. La Cassandra della filosofia. Dall’uomo senza mondo al mondo senza uomo.
Prefazione di Giacomo Pezzano: Anders e noi.

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M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Karl Marx (1818-1883) – La vera essenza del denaro è il fatto che la proprietà di una cosa materiale, esterna all’uomo, diventa proprietà del denaro. La persona umana, la morale umana è diventata essa stessa articolo di commercio, un materiale per l’esistenza del denaro. Finché l’uomo non si riconosce come uomo, finché non ha organizzato umanamente il mondo, questa comunità appare sotto la forma dell’estraniazione.

Karl Marx - Essenza del denaro
La vera essenza del denaro è il fatto che la proprietà di una cosa materiale esterna all’uomo,
diventa proprietà del denaro
La persona umana, la morale umana è diventata essa stessa articolo di commercio
un materiale per l’esistenza del denaro.
Finché l’uomo non si riconosce come uomo,
finché non ha organizzato umanamente il mondo,
questa comunità appare sotto la forma dell’estraniazione.

La vera essenza del denaro non è il fatto che in esso viene estraniata la proprietà, ma il fatto che viene alienato il movimento o l’attività mediatrice, l’atto umano, sociale, in cui i prodotti dell’uomo si integrano scambievolmente, il fatto che la proprietà di una cosa materiale esterna all’uomo, diventa proprietà del denaro. Poiché l’uomo aliena questa attività mediatrice stessa, egli è qui solo come attività umana smarrita, disumanata; […] Attraverso questo intermediario esterno, l’uomo guarda alla sua volontà, alla sua attività, al suo rapporto con gli altri, come a una potenza indipendente da lui e dagli altri. Gli oggetti, una volta separati da questo intermediario, hanno perduto il loro valore. E dunque, soltanto in quanto la rappresentano, essi hanno valore, sebbene in origine sembrava il contrario: che esso avesse valore soltanto in quanto li rappresentava.

[…] Il credito è il giudizio dell’economia sulla moralità dell’uomo. Nel credito, al posto del metallo o della carta, l’uomo stesso è diventato l’intermediario dello scambio, non però in quanto uomo, ma in quanto esistenza di un capitale e del suo interesse. […] La persona umana, la morale umana è diventata essa stessa articolo di commercio, un materiale per l’esistenza del denaro. Non più moneta e carta, ma la mia propria personale esistenza, la mia carne e sangue, le mie virtù socievoli, il mio valore, sono la materia, il corpo dello spirito del denaro.

[…] Poiché l’essenza umana è la vera comunità degli uomini, manifestando la loro essenza gli uomini creano, producono la comunità umana, l’essenza sociale, che non è una potenza universale-astratta, contrapposta al singolo individuo, la sua propria attività, la sua propria vita, il suo proprio spirito, la sua propria ricchezza. Non dalla riflessione ha origine cioè quella vera comunità; anzi, essa appare prodotta dal bisogno e dall’egoismo degli individui, dalla immediata manifestazione della loro stessa esistenza. Non dipende dagli uomini che questa comunità sia o non sia; ma finché l’uomo non si riconosce come uomo, finché non ha organizzato umanamente il mondo, questa comunità appare sotto la forma dell’estraniazione. Perché il suo soggetto, l’uomo, è un essere estraniato a se stesso. E gli uomini sono questo essere estraniato non astrattamente, ma come individui reali, viventi, particolari».

Karl Marx, Texte zu Methode und Praxis, trad it.: Karl Marx, Scritti inediti di economia politica, Editori Riuniti, Roma 1963, pp. 6-7, pp. 11-12, pp. 13-14.


Karl Marx – Cristalli di denaro: “auri sacra fames”
Karl Marx – Il denaro è stato fatto signore del mondo
Karl Marx – Il denaro uccide l’uomo. Se presupponi l’uomo come uomo e il suo rapporto col mondo come un rapporto umano, potrai scambiare amore soltanto con amore
Karl Marx – La natura non produce denaro
Karl Marx (1818-1883) – A 17 anni, nel 1835, già ben sapeva quale sarebbe stata la carriera prescelta: agire a favore dell’umanità.
Karl Marx (1818-1883) – Il capitale, per sua natura, nega il tempo per una educazione da uomini, per lo sviluppo intellettuale, per adempiere a funzioni sociali, per le relazioni con gli altri, per il libero gioco delle forze del corpo e della mente.
Karl Marx (1818-1883) – La patologia industriale. La suddivisione del lavoro è l’assassinio di un popolo
Karl Marx (1818-1883) – Sviluppo storico del senso artistico e umanesimo comunista. La soppressione della proprietà privata è la completa emancipazione di tutti i sensi umani e di tutte le qualità umane. Il comunismo è effettiva soppressione della proprietà privata quale autoalienazione dell’uomo, è reale appropriazione dell’umana essenza da parte dell’uomo e per l’uomo
Karl Marx (1818-1883) – Il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità.
Karl Marx (1818-1883) – Gli economisti assomigliano ai teologi, vogliono spacciare per naturali e quindi eterni gli attuali rapporti di produzione.
Karl Marx (1818-1883) – Per sopprimere il pensiero della proprietà privata basta e avanza il comunismo pensato. Per sopprimere la reale proprietà privata ci vuole una reale azione comunista.
Karl Marx (1818-1883) – Noi non siamo dei comunisti che vogliono abolire la libertà personale. In nessuna società la libertà personale può essere più grande che in quella fondata sulla comunità.
Karl Marx (1818-1883) – La sensibilità soggettiva si realizza solo attraverso la ricchezza oggettivamente dispiegata dell’essenza umana.
Karl Marx (1818-1883) – Vi sono momenti della vita, che si pongono come regioni di confine rispetto ad un tempo andato, ma nel contempo indicano con chiarezza una nuova direzione.
Karl Marx (1818-1883) – Quando il ragionamento si discosta dai binari consueti, si va sempre incontro a un iniziale “boicottaggio”
Karl Marx (1818-1883) – L’arcano della forma di merce. A prima vista, una merce sembra una cosa ovvia. Dalla sua analisi, risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Ecco il feticismo che s’appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci.
Karl Marx (1818-1883) – Ogni progresso compiuto dall’agricoltura capitalista equivale a un progresso non solo nell’arte di DERUBARE L’OPERAIO, ma anche in quella di SPOGLIARE LA TERRA, ogni progresso che aumenta la sua fertilità in un certo lasso di tempo equivale a un progresso nella distruzione delle fonti durevoli di tale fertilità
Karl Marx (1818-1883) – Il sistema monetario è essenzialmente cattolico, il sistema creditizio è essenzialmente protestante. La fede nel valore monetario come spirito immanente delle merci, la fede nel modo di produzione e nel suo ordine prestabilito, la fede nei singoli agenti della produzione come semplici personificazioni del capitale autovalorizzantesi.
Karl Marx (1818-1883) – L’uomo «totale», è l’uomo che si appropria del suo essere onnilaterale. L’uomo ricco è l’uomo che ha bisogno di una totalità di manifestazioni di vita umane, l’uomo in cui la propria realizzazione esiste come necessità interna, in una società in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo.
Karl Marx (1818-1883) – Non è per vergogna che si fanno le rivoluzioni. La vergogna è già una rivoluzione, è una sorta di ira che si rivolge contro se stessa. E se un’intera nazione si vergognasse realmente, diventerebbe simile a un leone, che prima di spiccare il salto si ritrae su se stesso.
Karl Marx (1818-1883) – L’economia ha come suo dogma la rinuncia a se stessi, la rinuncia alla vita e a tutti i bisogni umani. Quanto meno tu sei, quanto meno realizzi la tua vita, tanto più hai, quanto più grande è la tua vita alienata, tanto più accumuli del tuo essere estraniato. Tutti i sensi fisici e spirituali sono stati sostituiti dalla semplice alienazione di essi tutti: sostituiti dal senso dell’«avere».

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Natoli – La tecnologia non solo manca gli obiettivi, ma dà luogo a controfinalità e ad effetti perversi. Il progresso tecnico si presenta carico di ambiguità e di pericoli. L’etica del finito nell’età della tecnica significa comprendersi a partire dalla propria finitudine. Un possibile modello: una vita lunga, non una vita eterna. In una parola, una vita buona.

Salvatore Natoli - I nuovi pagani

«Etica del finito significa comprendersi a partire dalla propria finitudine. Anche il cristianesimo postula un’etica del finito, ma, a differenza del paganesimo, per il cristianesimo l’uomo è finito perché è creato, mentre per il paganesimo l’uomo è finito perché è mortale. […] Per il paganesimo tutto ciò che nasce è destinato a perire, ma il fatto che tutto perisca non vuol dire che non sia degno di vivere. […] Ora, nella fine della cristianità, il paganesimo riaffiora come un possibile modello: una vita lunga, non una vita eterna. In una parola, una vita buona. Un’etica del finito nell’età della tecnica. […]

L’uomo contemporaneo non può ipotizzare per sé soluzioni utili che non siano tecnologiche e nel contempo la tecnologia non solo manca gli obiettivi, ma dà luogo a controfinalità e ad effetti perversi. In tal caso proprio ciò che offre sicurezza genera rischio e quel che dovrebbe rasserenare inquieta. In questo quadro, il progresso tecnico non è più configurabile secondo uno schema di crescita illimitata e continua, ma si presenta carico di ambiguità e di pericoli. Mai l’uomo in tutta la sua storia si era trovato di fronte a una possibilità così ampia di scelte, e nel contempo così piena di rischi».

Salvatore Natoli, Diagnosi e confutazione del nichilismo [1989], in I nuovi pagani. Neopaganesimo: una nuova etica per forzare le inerzie del tempo, il Saggiatore, Milano 1995, pp. 8-16 e p. 95.


Salvatore Natoli – Se il coraggio allude ad un’arditezza che oltrepassa ogni timore, senza perciò divenire temerarietà, il reggere nella sofferenza allude alla capacità di tenere oltre ogni dolore, senza decadere al livello della semplice sopravvivenza. Qui la dignità e la misura
Salvatore Natoli – Il perseverare esige l’essere forte ma nel senso del mantenersi saldo, di durare nel tempo. La perseveranza coincide con la continuità nel bene soprattutto a fronte, contro e in mezzo alle difficoltà. È uno stabile e perpetuo permanere nel bene.
Salvatore Natoli – Le parole, prima ancora di pronunciarle, bisognerebbe ascoltarle, ci sono state donate. La sapienza delle parole ha preceduto la filosofia.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Platone (428/427– 348/347 a.C.) – Chi, pur possedendo una erudizione enciclopedica, e pur avendo particolare abilità in molte tecniche, è privo però della scienza di ciò che è meglio per l’uomo, si fa trascinare di volta in volta da ciascuna delle altre conoscenze e così finisce per trovarsi travolto dai flutti.

Platone - Alcibiade minore 01

«Il possesso di molte scienze, quando non è accompagnato dalla scienza di ciò che è meglio sempre in ogni caso, poche volte è utile e il più delle volte danneggia. [ …] E chi per altro possiede la cosiddetta erudizione enciclopedica (πολυμαθία) e politecnica (πολυτεχνία), ma sia privo di questa scienza e sia menato di volta in volta da ciascuna di queste altre conoscenze, non si troverà giustamente e senza metafora in gran tempesta come chi sia fra i flutti del mare senza pilota, col rischio di perire in ogni istante».

Platone, Alcibiade secondo, 146 e –147 a-b.


Platone, «Filebo» – Senza possedere né intelletto né memoria né scienza né opinione vera, tu saresti vuoto di ogni elemento di coscienza
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Coloro che sono privi della conoscenza di ogni cosa che è, e che non hanno nell’anima alcun chiaro modello, non possono rivolgere lo sguardo verso ciò che è più vero e non possono istituire norme relative alle cose belle e giuste e buone.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Le relazioni con gli stranieri sono atti di particolare sacralità. Lo straniero si trova ad essere privo di amici e parenti, e quindi è affidato in modo particolare alla solidarietà degli dei e degli uomini. Non c’è colpa peggiore per un uomo che un torto fatto ai supplici
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Non esiste male maggiore che un uomo possa patire che prendere in odio i ragionamenti. L’odio contro i ragionamenti, e quello contro gli uomini, nascono nella stessa maniera.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – È questo il momento nella vita che più di ogni altro è degno di essere vissuto da un essere umano: quando contempla il bello in sé. La misura e la proporzione risultano essere dappertutto bellezza e virtù.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – L’educazione è l’orientamento dell’anima alla virtù. La virtù è il piacere verso ciò che bisogna amare e l’avversione verso ciò che bisogna odiare
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Non il vivere è da tenere in massimo conto, ma il vivere bene. E il vivere bene è lo stesso che vivere con virtù e con giustizia. Per nessuna ragione si deve commettere ingiustizia.
Platone & Aristotele – Il principio della filosofia non è altro che esser pieni di meraviglia, perché si comincia a filosofare a causa della meraviglia.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – È infatti la costituzione dello Stato che forma gli uomini, buoni, se essa è buona, malvagi in caso contrario.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Cosa di più bello avrei potuto fare nella mia vita se non affidare alla scrittura ciò che è di grande utilità per gli uomini e portare alla luce per tutti la vera natura delle cose?
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – La musica dà anima all’universo, ali al pensiero, slancio all’immaginazione, fascino alla tristezza, impulso alla gioia e vita a tutte le cose.  Essa è l’essenza dell’ordine, ed eleva ciò che è buono, giusto e bello, di cui è la forma invisibile ma tuttavia splendente, appassionata ed eterna.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Le forme di educazione al retto orientamento del piacere e del dolore vengono meno in gran parte agli uomini e si corrompono troppe volte nella vita. le opinioni vere e stabili è fortunato chi le possiede sulla soglia della vecchiaia.
Platone (428/427 – 348/347 a.C.) – il sogno raccomandava di creare musica, e siccome la filosofia è la musica massima, dunque io la facevo.
Platone (428/427 – 348/347 a.C.) – Non ti vergogni a darti pensiero delle ricchezze e invece della intelligenza e della verità e della tua anima non ti dai affatto né pensiero né cura? Non dalle ricchezze nasce virtù, ma dalla virtù nascono ricchezze e tutte le altre cose che sono beni per gli uomini.
Platone (428/427–348/347 a.C.) – Nell’uomo che ha imparato a contemplare l’infinito universo della bellezza, le sue parole e i suoi pensieri saranno pieni del fascino che dà l’amore per il sapere, per la filosofia.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Non dimentichiamo che l’unica moneta autentica, quella con la quale bisogna scambiare tutte le cose, non sia piuttosto la saggezza, e che solo ciò che si compera e si vende a questo prezzo sia veramente fortezza, temperanza, giustizia.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Bisogna che l’uomo comprenda ciò che si chiama Idea, passando da una molteplicità di sensazioni ad una unità organizzata dal ragionamento.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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