Enrico Berti – Il platonismo ha il grande merito di mostrare che c’è un’altra possibilità, che dunque la giustizia è possibile. Un messaggio che lascia indifferente chi se la spassa, ma non chi soffre, lotta e spera. Non si tratta, con buona pace di Nietzsche, di nichilismo, né passivo né attivo, né, con altrettanta pace di Heidegger, di oblìo dell’essere, ma di autentico impegno, filosofico, etico e politico.

Enrico Berti, Platone
Enrico Berti, Sumphilosophein. La vita nell’Accademia di Platone, Laterza, Bari 2012

Anche chi non è platonico, come chi scrive qui, deve tuttavia riconoscere che il platonismo, pur interpretato nella maniera più cruda, meno accomodante, meno simpatica, cioè come affermazione che il vero mondo è un «altro mondo», ha il grande merito di mostrare, appunto, che ci può essere dell’altro, che c’è un’altra possibilità, che dunque la giustizia è possibile.
Questo è un messaggio che, forse, lascia indifferente chi in qualche modo se la spassa, ma non può lasciare indifferente chi soffre, lotta e spera. Non si tratta, con buona pace di Nietzsche, di nichilismo, né passivo né attivo, né, con altrettanta pace di Heidegger, di oblìo dell’essere, ma di autentico impegno, filosofico, etico e politico.

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È possibile riconoscere l’attualità di Platone anche senza essere platonici? La domanda ha un senso, perché il mondo è ancora pieno di platonici, anzi lo è sempre stato, non solo tra i filosofi spiritualisti di ispirazione cristiana – meno tra gli ebrei e musulmani –, ma anche tra i “laici” (basti pensare ai neoplatonici). Questo è un fatto innegabile, sebbene alcuni aspetti del pensiero platonico sembrino francamente inaccettabili: la convinzione che il vero mondo non è quello in cui viviamo, ma un altro; l’assoluta indipendenza dell’anima dal corpo; la necessità che il governo politico sia in mano ai filosofi; l’abolizione della famiglia e della proprietà. Malgrado tutto ciò, anche chi non è platonico deve riconoscere che Platone è ancora attuale, non solo perché ha influenzato l’intera storia della filosofia, al punto che questa è stata considerata una serie di note al suo pensiero, e pare che ancora oggi sia il filosofo più citato di tutti, come sostiene chi si diverte con questo genere di calcoli, ma soprattutto perché ha determinato alcune svolte, dalle quali non si è più tornati indietro.

Indicare in che consiste l’attualità di Platone, però, non è facile, soprattutto perché non è facile stabilire esattamente qual è stato il suo pensiero. Non mi riferisco alla vexata quaestio – ormai, mi sembra, un po’ passata di moda – se il vero Platone sia quello dei dialoghi o quello delle «dottrine non scritte». Mi riferisco a un problema che nasce proprio dalla lettura dei dialoghi e del quale gli studiosi stanno prendendo coscienza in maniera sempre più acuta: dove sta il pensiero di Platone? In ciò che dice il Socrate della maggior parte dei dialoghi, o in ciò che dice, ad esempio, Parmenide nel dialogo omonimo, lo Straniero di Elea nel SoflSta, Timeo nel Timeo, insomma gli altri personaggi dei dialoghi? Questa relativa indeterminatezza sembra conferire al pensiero di Platone un fascino anche maggiore, perché non lo si può mai inchiodare su una posizione determinata, come ha tentato di fare per primo Aristotele, per poterlo meglio criticare.

Una prima svolta prodotta da Platone nella storia della filosofia è quella che Socrate chiama, nel Fedone, la «seconda navigazione». Il personaggio di Socrate, che qui è considerato portavoce di Platone, dopo avere raccontato che da giovane cercava di conoscere le cose con i sensi seguendo in ciò l’esempio di filosofi a lui precedenti come Anassagora – chiamati poi per questo «presocratici» –, afferma che a un certo punto gli parve necessario «rifugiarsi nei logoi e cercare in essi la verità degli enti». Che cosa sono questi logoi? Discorsi? Concetti? Idee? Ogni interpretazione è possibile. Ma certamente essi non sono più la realtà sensibile. Lo sono tra quelli che credono nella separatezza delle Idee platoniche – come Aristotele, ma anche come il «platonico» Cherniss –, tuttavia mi rendo conto che senza passare per le Idee, sia pure separate, non si sarebbe mai giunti al concetto astratto, e quindi alla dialettica, alla scienza, alla filosofia. Da allora, infatti, non si è più tornati indietro, fuorché in qualche filosofia rozza e primitiva che non merita nemmeno questo nome.

Un’altra svolta è stata la concezione del principio supremo non come Dio, o l’Essere, o l’Uno, ma anzitutto come il Bene. Ciò ha comportato tutta una serie di conseguenze a cascata. La filosofia non è più stata vista come pura conoscenza, metafisica astratta, ma come nuovo modo di vivere, come vera e propria conversione alla ricerca della giustizia, della virtù, del bene appunto, per se stessi e per gli altri: filosofia teoretica e insieme pratica, metafisica e insieme etica, ma anche politica, anzi soprattutto politica. È nata così la domanda «che cos’è la giustizia», per rispondere alla quale Platone nel suo capolavoro, la Repubblica, spiega addirittura come è fatta l’anima umana, mostrando quanto essa sia complessa, conflittuale, e come deve essere fatta la città, cioè la società politica, per essere “giusta”. Al di là degli aspetti paradossali di questa dottrina, di cui Platone stesso era perfettamente consapevole e che tuttavia hanno rivelato quale può essere l’efficacia anche storica dell’utopia, tutta la faccenda del governo dei filosofi e dell’abolizione della proprietà ha un significato profondo, imperituro. Essa significa che i governanti non devono avere interessi privati, per potersi dedicare interamente alla ricerca del bene comune. E che non devono essere solo onesti, ma anche intelligenti, cioè devono sapere qual è il vero bene e come lo si realizza. Anche gli aspetti secondari, se vogliamo chiamarli così, della Repubblica, hanno una loro grandezza, che permane immutata. Pensiamo alla grandiosa descrizione dei pericoli che corre la democrazia, quando nessuno obbedisce più ad alcuna legge, nessuno riconosce più alcuna autorità, e chi ne approfitta è solo il tiranno, che sta sempre in agguato e sa più di tutti persuadere, adulare, eccitare, sobillare, ingannare il demos. Ma pensiamo anche alla scandalosa condanna che Platone pronuncia dell’arte, della poesia in particolare, di Omero soprattutto, da lui considerato il più grande di tutti i poeti. Questa condanna dimostra che nessuno, meglio di Platone, ha capito la potenza straordinaria dell’arte e della poesia, la sua irresistibile capacità di incantare, la sua origine quasi divina, e per questo egli l’ha tanto temuta.

Allo stesso modo nessuno meglio di Platone, malgrado il suo rifugiarsi nei logoi, ha capito la potenza immane dell’eros che – come si legge nel Simposio – prima di sublimarsi nell’amore per la bellezza in sé e la bontà in sé, è amore per i bei corpi, desiderio di generare, e può diventare anche follia, tragica – ma in qualche misura anche demoniaca, che bisognerebbe tradurre con “soprannaturale”. Platone ha scandagliato per primo le profondità dell’anima umana, descrivendone i lati più oscuri, le voglie più ancestrali, ma al tempo stesso ha sentenziato che l’uomo è essenzialmente la sua anima e che questa deve cercare di liberarsi il più presto possibile del corpo, per essere felice tutta raccolta in sé stessa e assorta nella contemplazione delle Idee. Per Platone il bene, il vero Bene, non è «fragile», come ha sostenuto a proposito di Aristotele Martha Nussbaum, perché la filosofia è autosufficiente.

Nietzsche, seguito da Heidegger, ha visto nel platonismo l’emblema della metafisica intesa come nichilismo passivo, negazione della vita, evasione dalla realtà, e ha coinvolto nella sua condanna di questo platonismo anche il cristianesimo, da lui considerato una sorta di «platonismo per il popolo». Ma Nietzsche ha sempre ha avuto una grande ammirazione per Platone (come del resto per Gèsù Cristo), da lui intensamente studiato sin dalla giovinezza, mentre ha scritto invece parole crudeli all’indirizzo del povero Socrate. Anche chi non è platonico, come chi scrive qui, deve tuttavia riconoscere che il platonismo, pur interpretato nella maniera più cruda, meno accomodante, meno simpatica, cioè come affermazione che il vero mondo è un «altro mondo», ha il grande merito di mostrare, appunto, che ci può essere dell’altro, che c’è un’altra possibilità, che dunque la giustizia è possibile. Questo è un messaggio che, forse, lascia indifferente chi in qualche modo se la spassa, ma non può lasciare indifferente chi soffre, lotta e spera. Non si tratta, con buona pace di Nietzsche, di nichilismo, né passivo né attivo, né, con altrettanta pace di Heidegger, di oblìo dell’essere, ma di autentico impegno, filosofico, etico e politico.

 

Enrico Berti, Platone l’antiplatonico, articolo pubblicato in: “Il Sole-24 ore”, Domenicale del 30 dicembre 2006, p. 31.


 


Enrico Berti

Pensare con la propria testa?

Lezione tenuta nel Corso di Metodologia dell’insegnamento filosofico dell’Università di Padova il 31 maggio 2004. Il testo è stato pubblicato nel 2006 in: Enrico Berti, Incontri con la filosofia contemporanea, Petite Plaisance, Pistoia, 2006, pp. 281-294, cui si rimanda.

Enrico Berti

La filosofia deve essere insegnata a tutti da un lato per sviluppare in ciascuno la razionalità, lo spirito critico, la capacità di “pensare con la propria testa” in generale (non di fare filosofia con la propria testa), e dall’altro anche perché essa fa parte della cultura generale. Come potrebbe, infatti, essere considerata colta una persona che non sapesse nulla di Platone o di Kant? Nell’università invece, dove la filosofia viene insegnata a coloro che l’hanno scelta come professione e intendono dedicarsi professionalmente ad essa per tutta la vita, si può anche dire che l’insegnamento ha lo scopo di far imparare a filosofare, ma filosofare non significa costruire ciascuno un proprio sistema filosofico, bensì fare filosofia insieme con i grandi filosofi, “confilosofare” con loro, ed a questo scopo è necessario conoscere bene la storia della filosofia, e soprattutto leggere le opere dei grandi filosofi.

E. Berti

Incontri con la filosofia contemporanea

indicepresentazioneautoresintesi

Il titolo di questa conversazione riprende quello di un articolo di Franca D’Agostini, pubblicato nella rivista “Intersezioni” dell’agosto 2003,[1] aggiungendovi soltanto il punto interrogativo (di cui vedremo la ragione). Franca D’Agostini è la nota e intelligente autrice del fortunato libro Analitici e continentali (Milano 1997), che ha divulgato anche in Italia una contrapposizione del tutto impropria, perché costruita con due categorie tra loro eterogenee, una di tipo metodologico e l’altra di tipo geografico, ma tuttavia utile per classificare la maggior parte dei filosofi contemporanei. Tale contrapposizione è stata infatti coniata, non a caso, da un filosofo analitico, Kevin Mulligan, che l’ha lanciata, se non erro, nel Time’s Literary Supplement, contrapponendo per mezzo di essa i filosofi analitici a tutto il testo del mondo, e ha dato luogo a vari dibattiti, di cui in Italia è rimasto famoso quello sviluppato nel supplemento domenicale del “Sole-24 ore” del 1998. In quest’ultimo è intervenuto anche un altro filosofo analitico, Michael Dummett, con una perfetta illustrazione delle caratteristiche dei due tipi di filosofi, ovvero dei due stili, o modi, di fare filosofia.

Lo stesso Mulligan, in un recente saggio su John Searle, rivendica alla filosofia analitica il rifiuto del principio di autorità e il diritto a “pensare con la propria testa”, accusando i “continentali” di pensare con la testa dei filosofi del passato.[2] Egli così riprende la nota tesi di Kant, il quale nella Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?, non solo indicò “il motto dell’illuminismo” nella nota esortazione “abbi il coraggio di usare il tuo proprio intelletto!”, ma usò come equivalente a questa proprio l’espressione “pensare con la propria testa”. Dopo avere infatti osservato che pensare può essere faticoso, perché “io ho un libro che ragiona per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che per me decide quale debba essere la mia dieta, ecc., e quindi non ho bisogno di badare a me stesso. Purché solo possa pagare, non è necessario ch’io pensi; altri si assumeranno per me questa noiosa incombenza”, Kant aggiunge che tuttavia “si troveranno sempre […] delle persone che pensano con la propria testa, e che, scrollatesi di dosso il giogo della minorità, diffonderanno il sentimento d’un apprezzamento razionale del valore di ogni uomo e della sua vocazione a pensare da sé”.[3]

Kant, come è noto, faceva di questo concetto il nucleo della sua dottrina sul metodo dell’insegnamento della filosofia, secondo la quale non si deve insegnare la filosofia, ma si deve insegnare a filosofare. Già nello scritto “precritico” Notizia dell’indirizzo delle lezioni nel semestre invernale 1765-1766 egli sostiene infatti che in generale “uno studente non deve imparare pensieri (Gedanken), ma deve imparare a pensare (denken)”. E, per quanto riguarda in particolare la filosofia, egli precisa: “il giovane licenziato crede che imparerà filosofia, ma questo è impossibile, perché ora deve imparare a filosofare (philosophiren)”.[4] Mentre, infatti, altre scienze, quali ad esempio la geometria, esistono già in una forma sistematica, sulla quale tutti convengono, per esempio gli Elementi di Euclide, ciò non accade assolutamente per la filosofia. “Per imparare la filosofia – scrive Kant – bisognerebbe, anzitutto, che ce ne fosse realmente una. Bisognerebbe poter mostrare un libro e dire: vedete, qui è la sapienza e la conoscenza sicura; imparate ad intenderlo e a capirlo, poi costruiteci su, e sarete filosofi. Finché non mi si mostrerà un tal libro di filosofia […], mi si permetta di dire che si abusa della capacità delle persone”. Per questo, conclude Kant, “il metodo peculiare dell’insegnamento della filosofia è zetetico, come lo chiamavano alcuni antichi (da zetein), cioè indagativo, e diventa in vari punti dommatico, cioè determinato, solo per la ragione alquanto esercitata”.[5]

La stessa posizione Kant mantiene nella Critica della ragion pura, dove scrive: “Tra tutte le scienze razionali (a priori) soltanto la matematica si può imparare, ma non la filosofia (salvo storicamente); ma, per ciò che concerne la ragione, tutt’al più si può imparare a filosofare”. E più avanti: “Non si può imparare alcuna filosofia; perché dove è essa, chi l’ha in possesso, e dove essa può conoscersi? Si può imparare soltanto a filosofare, cioè ad esercitare il talento della ragione nell’applicazione dei suoi principi generali a certi tentativi che ci sono, ma sempre con la riserva del diritto della ragione di cercare questi principi stessi alle loro sorgenti e di confermarli o rifiutarli”.[6] Qui sono interessanti la riserva circa la storia e l’accenno alle sorgenti, su cui ritorneremo, ma non c’è dubbio che viene ribadita la tesi già espressa nella Notizia, la quale rimarrà una tesi classica nel dibattito sull’insegnamento della filosofia.

Alla tesi di Kant si ispira esplicitamente l’insegnamento della filosofia nelle scuole francesi, cioè nelle scuole del Paese che, insieme con l’Italia, è certamente quello in cui la filosofia occupa lo spazio maggiore nella formazione dei giovani, collocandosi all’interno del liceo. È noto, infatti, che in Francia si insegna filosofia al liceo, anche se, a differenza che in Italia, solo nell’ultimo anno; ma in quest’anno la filosofia è sicuramente l’insegnamento più importante, che in certi indirizzi raggiunge anche le nove ore alla settimana, per cui l’ultimo anno del liceo è chiamato anche classe de philosophie. Ebbene, nei documenti ufficiali diffusi dal Ministère de l’Education nationale, si è sempre dichiarato che lo scopo dell’insegnamento della filosofia è di insegnare ai giovani à faire de la philosophie (in francese non esiste il verbo “filosofare”). A questo proposito un recente Manifesto per l’insegnamento della filosofia in Francia parla della “dottrina ufficiosa” che ispira l’insegnamento della filosofia in Francia da più di un secolo e che si compendia nelle seguenti affermazioni: “L’insegnamento della filosofia è un insegnamento filosofico. La sua prima finalità non è che l’allievo sappia che cosa dice Platone o Cartesio, ma che apprenda a fare una riflessione filosofica con i propri mezzi e sviluppi così il suo spirito critico e la sua autonomia di giudizio”.[7] Anzi per molti anni negli ambienti scolastici francesi si è criticato il metodo italiano dell’insegnamento della filosofia, perché esso si limita esclusivamente alla storia della filosofia e non insegna minimamente a “fare della filosofia”.

Ma torniamo all’esortazione kantiana a “pensare con la propria testa”. Su di essa non si può non essere d’accordo: non solo l’insegnamento della filosofia, ma l’intera educazione deve formare a pensare con la propria testa, se con questa espressione si intende l’esercizio del senso critico, lo spirito di osservazione personale, il rifiuto dei pregiudizi, la disponibilità al confronto con gli altri, e tutte le capacità di questo genere. Ma siamo sicuri che questo sia l’unico significato della suddetta espressione? A proposito di essa fa alcune interessanti considerazioni Franca D’Agostini nell’articolo sopra citato. Anzitutto ella precisa che, con tale esortazione, Kant non intendeva affermare il primato delle proprie idee e il disprezzo delle idee altrui, poiché in una lettera a Herder del maggio 1768 egli scrisse: “quanto a me, non mi afferro saldamente ad alcunché e con profonda imparzialità combatto tanto le mie opinioni quanto quelle altrui”.[8] Ma poi la stessa D’Agostini osserva molto acutamente: “il problema di fondo, nel tema del ‘pensare con la propria testa’, è che se c’è una testa, per così dire, essa difficilmente è propria o interamente propria”.[9]

Qui emerge tutta la consapevolezza critica, propria dei filosofi “continentali”, degli innumerevoli condizionamenti a cui ciascuno di noi è sottoposto: l’ambiente sociale in cui si è nati, l’educazione che si è ricevuta, la propria storia, la propria cultura, le tendenze, le aspettative, le speranze, ma anche i pregiudizi, le idiosincrasie e, soprattutto oggi, l’influenza dei mezzi di comunicazione di massa, della pubblicità, della moda. Una volta, al tempo di Kant, bisognava guardarsi dal principio di autorità, perché qualche autorità c’era. Oggi non si sono più autorità, quindi non c’è più alcun pericolo di essere vittime di tale principio, ma quanto più lo si rifiuta, tanto più si è vittima di altri condizionamenti. Anche i filosofi, che dovrebbero essere gli spiriti più critici, sono terribilmente vittime delle mode. Non parlo solo di abbigliamento, è evidente, anche se l’accettazione immediata e passiva della moda nell’abbigliamento è già un segno che dovrebbe suscitare qualche sospetto. Parlo delle mode culturali, intellettuali, filosofiche, quelle per cui “dopo il tale (che può essere Kant, o Marx, o Nietzsche, o Freud, o Heidegger, o Quine) non è più possibile dire che”, oppure “oggi è ormai assodato che”, o “la tal epoca è ormai finita”, per cui bisogna necessariamente essere “post” qualche cosa, “post-metafisici”, “post-cristiani”, “post-moderni”, ecc.

Ciò fu visto con grande chiarezza, come ricorda D’Agostini, da Hegel, al quale si deve un’altra tesi, non meno classica di quella di Kant, anche se non più illuministica, da far valere nel dibattito sull’insegnamento della filosofia. Hegel, nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia, dichiara: “La smania di pensare con la propria testa sta in ciò, che ognuno metta fuori una sciocchezza più grossa di un’altra”[10]. L’uso dell’espressione “pensare con la propria testa” può dare l’impressione che Hegel intenda polemizzare proprio con Kant, ma ciò non è vero, perché, come giustamente nota D’Agostini, la polemica è rivolta invece contro i filosofi romantici, cioè Eschenmayer e Jacobi. “Quest’oratoria profetica e scevra di concetto – scrive a proposito di essi Hegel – proclama dal tripode questo e quello circa l’essenza assoluta, ed esige che ognuno debba trovare immediatamente tutto questo nel proprio cuore. Il conoscer l’essenza assoluta diventa affare di cuore; è una folla d’inspirati a parlare, e ciascuno di essi dice un monologo, e capisce veramente l’altro solo nella stretta di mani e nel silenzio del sentimento. Quel che essi dicono, sono per lo più cose banali, se si prendon così come sono dette; il sentimento, l’atteggiamento, la pienezza del cuore son essi che debbono dare forza al discorso, – per sé non dicono nulla. Essi cercano di superarsi l’un l’altro con le trovate della fantasia, con la poesia nostalgica”. Certo, si tratta di un modo molto particolare di intendere il “pensare con la propria testa”, ma esso non è raro nemmeno tra i filosofi di oggi – non tra gli analitici, va detto, bensì proprio tra i continentali – che spesso hanno l’aria di ispirati, o di iniziati, che hanno scoperto da soli la verità e si decidono a rivelarla al volgo, evitando qualsiasi argomentazione e lasciandosi andare, nel migliore dei casi, a una serie di asserzioni del tutto ingiustificate, quando non oscure o addirittura incomprensibili.

“Per il filosofare – continua Hegel – non c’è speranza, l’onore è perduto; infatti esso presuppone un fondo comune di pensieri e di principi, esige che si proceda scientificamente o per lo meno esige opinioni. Ma ora tutto è stato riposto nella particolare soggettività; ognuno è diventato altezzoso e sprezzante verso gli altri. A questo si ricongiunge la rappresentazione del pensare con la propria testa, come se ci potesse esser pensiero che non sia tale”.[11] Evidentemente l’esortazione kantiana a “pensare con la propria testa” aveva avuto successo, anche troppo, ed era stata distorta in un diritto ad esaltare la propria soggettività, la propria creatività, infischiandosi del “fondo comune di pensieri e di principi”. Le opinioni, che secondo Hegel il filosofare esige, sono quelle che devono essere messe in discussione, quelle che Kant voleva combattere, sia le proprie che le altrui, ma in un dibattito comune, in una dialogo con gli altri, il quale non sia il monologo di un ispirato, bensì la discussione di chi argomenta, di chi confuta o anche di chi dimostra.

È interessante, a questo proposito, richiamare anche le idee di Hegel sull’insegnamento della filosofia. Egli fu, come è noto, per alcuni anni rettore, cioè preside, del ginnasio di Norimberga (1808-1816), e questi furono gli anni in cui scrisse la Scienza della logica (1812-1816), cioè quelli in cui giunse ad elaborare in forma compiuta il suo sistema. Nel 1812 fu richiesto dal Regio consigliere scolastico superiore per la Baviera (una specie di ministro dell’istruzione), Immanuel Niethammer, di un parere riservato sull’insegnamento della filosofia del ginnasio. In questo parere Hegel scrisse, tra l’altro: “In generale, si distingue il sistema filosofico, con le sue scienze particolari, dal filosofare vero e proprio. Secondo la moda moderna, specialmente della pedagogia, non si deve tanto venire istruiti nel contenuto della filosofia quanto imparare a filosofare senza contenuto; ciò vuol dire, pressappoco: si deve viaggiare, viaggiare sempre, senza conoscere le città, i fiumi, i paesi, gli uomini, ecc.”.[12] Evidentemente la tesi di Kant aveva avuto successo anche in Baviera, specialmente tra i pedagogisti, anche allora nemici dei contenuti ed amici soprattutto dei metodi (nihil sub sole novum).

A questa tesi (dei pedagogisti bavaresi, più che di Kant) Hegel risponde con tre argomenti. “In primo luogo, nel conoscere una città, nel giungere poi ad un fiume, ad un’altra città, e così via, si impara senz’altro, in tal modo, a viaggiare, e non s’impara soltanto, ma si viaggia effettivamente. Così quando si viene a conoscenza del contenuto della filosofia, non si impara soltanto il filosofare, ma si filosofa anche già effettivamente”.[13] Evidentemente per Hegel, a differenza che per Kant, la filosofia da qualche parte esiste già ed è costituita, come vedremo tra poco, da un lato dal sistema delle scienze filosofiche, quello che lo stesso Hegel si accingeva ad esporre nella sua Enciclopedia, e dall’altro dalla storia della filosofia, la cui conoscenza, secondo Hegel, è già un modo per filosofare.

In secondo luogo – continua Hegel – la filosofia comprende i più alti pensieri razionali intorno agli oggetti essenziali, comprende l’universale e il vero dei medesimi: è di grande importanza acquisire familiarità con questo contenuto, e accogliere nella propria testa questi pensieri. Il procedimento triste, meramente formale, il perenne cercare e vagare, senza contenuto, l’asistematico sofisticare e speculare, hanno come conseguenza la vacuità e la mancanza di pensieri in testa, il fatto che non si sappia nulla. La dottrina del diritto, la morale, la religione costituiscono un campo dotato di un importante contenuto; anche la logica è una scienza ricca di contenuto: quella oggettiva (Kant: trascendentale) comprende i pensieri fondamentali di essere, essenza, forza, sostanza, causa, ecc.; l’altra i concetti, i giudizi, i sillogismi, ecc., determinazioni fondamentali altrettanto importanti; la psicologia comprende il sentimento, l’intuizione, ecc.; l’enciclopedia filosofica, infine, in generale questo campo nella sua interezza”. Il riferimento al “pensare con la propria testa” continua ad essere presente, ma viene inteso come un “accogliere nella propria testa questi pensieri”, e non in polemica con Kant, il quale anzi viene citato come autore della logica oggettiva. Si noti inoltre come Hegel non proponga quale contenuto della filosofia soltanto il proprio sistema, ma anche le discipline filosofiche tradizionali, di origine addirittura aristotelica.

Una riflessione merita anche, a mio avviso, la polemica contro “il perenne cercare e vagare”, oggi tanto di moda in nome della problematicità, della criticità, dell’apertura. La filosofia deve certamente cercare, lo dice il suo stesso nome, e il suo metodo non può essere che quello “zetetico”, come diceva Kant. Questi lo chiamava anche “metodo scettico”, ma aggiungeva subito: “Esso è da distinguere del tutto dallo scetticismo, principio di una inscienza secondo arte e scienza, che spianta le fondamenta d’ogni cognizione, per non lasciarle, possibilmente, in nessuna parte alcuna certezza e sicurezza. Giacché il metodo scettico mira alla certezza”.[14] Un cercare fine a se stesso è solo ipocrisia, perché chi cerca sinceramente, cerca per trovare, non per cercare. Chi cerca solo per cercare, non cerca, ma finge di cercare, perché non gli importa assolutamente nulla di ciò che cerca. Anche il mio maestro, Marino Gentile, diceva che la filosofia è “un domandare tutto che è tutto domandare”, ma con ciò intendeva dire che essa non contiene alcuna risposta già data, cioè presupposta, non che essa non aspira ad alcuna risposta. Anzi, a questo proposito paragonava il domandare alla potenza, ed affermava con Aristotele che più della potenza conta l’atto, e che una potenza incapace di passare all’atto non vale nulla.

Infine, ecco il terzo argomento di Hegel: “In terzo luogo, il procedere nella conoscenza di una filosofia ricca di contenuto non è altro che l’apprendere. La filosofia deve essere insegnata e appresa, al pari di ogni altra scienza. L’infelice prurito di insegnare a pensare da sé (Selbstdenken) ed a produrre autonomamente ha messo in ombra questa verità; come se, quando io imparo che cosa sia la sostanza, la causa o qualsiasi altra cosa, non pensassi io stesso, non producessi io stesso nel mio pensiero queste determinazioni, ma queste venissero invece gettate in esso come pietre”. In queste parole, forse discutibili nell’equiparazione della filosofia a tutte le altre scienze, io leggo la preoccupazione di salvaguardare il carattere professionale della filosofia, e quindi anche del suo insegnamento. Non ci si improvvisa filosofi, la filosofia non è un’attività spontanea, immediata, dilettantesca, ma è anche una professione, un sapere, che richiede una competenza, professionalità. E non è detto che questa competenza serva solo per fare filosofia: nella Facoltà di Medicina dell’Università di Padova, ad esempio, si ritiene utile da qualche anno impartire agli studenti di medicina, che non faranno mai i filosofi, alcune lezioni di filosofia: non di “filosofia della medicina”, ma di filosofia pura e semplice, in cui si spieghino, nella fattispecie, le nozioni di causa, effetto, fine, ecc.

Hegel continua la sua perorazione con un esempio che farà discutere: “Come se, quando ho imparato bene il teorema di Pitagora e le sue dimostrazioni, non fossi io stesso a conoscere questo teorema e a dimostrarne la verità; nella misura in cui lo studio filosofico è in sé e per sé un’attività autonoma (Selbsttun, un fare da sé), esso è un apprendere; l’apprendere una scienza già esistente, formata”. Questa sembra essere proprio una risposta a Kant, il quale osservava che la filosofia non esiste come una scienza già bell’e fatta, che si possa apprendere da un libro, e vedeva in questo la sua differenza dalla matematica, in cui rientra appunto il teorema di Pitagora. E non si può dargli torto, se per scienza si s’intende una scienza come la matematica. Ma non è alla matematica che pensa Hegel, malgrado il suo esempio. Egli infatti aggiunge: “Questa è un patrimonio costituito da un contenuto acquisito, elaborato, formato: questo bene ereditario disponibile dev’essere acquistato dall’individuo, ossia, venire appreso. L’insegnante lo possiede: egli lo pensa dapprincipio, e dopo di lui lo ripensano gli allievi. Le scienze filosofiche contengono dei propri oggetti, pensieri universali, veri; esse sono il prodotto risultante dal lavoro dei geni pensanti di tutti i tempi; questi pensieri veri superano ciò che un giovane non istruito produce col proprio pensiero di quanto quella massa di lavoro geniale supera la fatica di questo giovane”. Dunque è nel “prodotto risultante dal lavoro dei geni pensanti di tutti i tempi”, cioè nella storia della filosofia, che va ricercata la filosofia: in questo, come abbiamo visto, anche Kant era d’accordo, quando, dopo avere affermato che “tra tutte le scienze razionali (a priori) soltanto la matematica si può imparare, ma non la filosofia”, precisava “salvo storicamente”.

Certo, la storia della filosofia che contiene in sé la filosofia non è quella che lo stesso Hegel ha definito “la filastrocca di opinioni”, da Talete a giorni nostri, che ci raccontano i (cattivi) manuali o le storie della filosofia di impostazione dossografica. Queste non possono che produrre, nei giovani, il più completo disorientamento, e quindi lo scetticismo. La storia della filosofia che contiene in sé la filosofia è costituita dalle opere dei grandi filosofi, dalle quali anche i giovani che frequentano il liceo possono attingere qualche briciola di filosofia, leggendone qualche pagina, come leggono qualche pagina della grande poesia o della grande letteratura. In tal modo essi possono, almeno una volta nella vita, fare esperienza di che cosa significa affrontare un problema di senso, o di verità, in modo razionale, cioè senza fare ricorso ad una tradizione familiare, o ad una fede religiosa, o ad un’ideologia politica, ma con argomentazioni, con discussioni a favore e contro, con domande, risposte e confutazioni.

Ma vediamo anche che cosa pensava Hegel a proposito dell’insegnamento della filosofia nell’università. Sempre da Norimberga, nell’agosto del 1816, quando ormai stava per essere chiamato alla cattedra di filosofia dell’università di Heidelberg (ma già aveva insegnato, come Privat-dozent, all’università di Jena), Hegel scrisse al Regio consigliere, questa volta del governo di Prussia, Friedrich von Raumer, una lettera sull’insegnamento della filosofia nell’università, nella quale esordisce così: “Comincio subito come in generale si potrebbe cominciare questo discorso, poiché può apparire una cosa molto semplice, con l’osservazione che per l’insegnamento della filosofia dovrebbe valere soltanto quello che vale per l’insegnamento delle altre scienze”.[15] Per capire il senso di queste parole bisogna aver vissuto la situazione del professore di filosofia nell’università, continuamente tenuto a dover giustificare, presso i suoi colleghi delle facoltà scientifiche, la sua presenza, il suo diritto al riconoscimento di una dignità scientifica, e quindi a spazi adeguati, finanziamenti adeguati, posti di collaboratore adeguati. Se tutto ciò è invece incerto, o in discussione, è per colpa di quanti presentano la filosofia non come un sapere, ma come un “pensare con la propria testa”. Per fare questo, infatti, che bisogno c’è di spazi, di fondi, di posti? Basta avere una testa.

Forse anche al tempo di Hegel c’erano filosofi che giustificavano i sospetti dei propri colleghi scienziati, poiché nella citata lettera egli scrive: “Abbiamo visto dare una maggiore ampiezza alle idee generali con l’aiuto della fantasia, che mescolava alto e basso, vicino e lontano in un modo brillante ed oscuro (sottolineatura mia), spesso con profondità ed altrettanto spesso con superficialità assoluta, ed inoltre utilizzava quelle regioni della natura e dello spirito che sono per se stesse oscure ed arbitrarie. Un cammino opposto, diretto anch’esso ad una maggiore estensione, è quello critico e scettico, che ha nel materiale esistente una materia nella quale esso procede ma che d’altronde vanifica, traendone dispiacere e risultati negativi, fonti di noia. Se questo cammino serve pure in qualche modo ad esercitare l’acume, mentre il mezzo della fantasia vorrebbe invece sortire l’effetto di svegliare un effimero fermento dello spirito – ciò che si chiama anche edificazione – e di accendere di per sé nei pochi l’idea universale, nessuna di queste maniere fa tuttavia ciò che va fatto, e che è lo studio della scienza ”.[16]

L’insegnamento della filosofia nell’università (non stiamo più parlando del ginnasio o del liceo) dunque non deve né edificare, né semplicemente esercitare l’acume: altre discipline possono svolgere questo compito, forse meglio della stessa filosofia. Quanto al “modo brillante ed oscuro” con cui alcuni insegnano filosofia nell’università, Hegel coglie perfettamente la disonestà di questo atteggiamento, che per fare effetto si sottrae ad ogni possibilità di controllo, ed approfitta dell’inferiorità culturale degli studenti per épater. Piero Martinetti diceva, come è noto, che la chiarezza è l’onestà del filosofo, perché permette a tutti di valutare “con la propria testa” se ciò che il filosofo dice risponde a verità, o è minimamente convincente. Quando invece un filosofo è oscuro, chi può valutare ciò che egli afferma? La chiarezza è l’analogo, per il filosofo, di ciò che è il teatro anatomico per l’anatomista: in esso tutti possono constatare con i propri occhi, a distanza ravvicinata, se ciò che il docente afferma corrisponde a ciò che si vede.

Ma nell’università c’è un altro rischio che Hegel chiaramente denuncia, quello per cui ciascun professore vuole avere e insegnare il suo proprio sistema. “È diventato un pregiudizio – scrive Hegel sempre nella lettera a von Raumer – , e non solo nello studio filosofico, ma anche nella pedagogia – e in questa ancor più grave – che il pensare indipendente (Selbstdenken) debba essere esercitato e sviluppato, in primo luogo, nel senso che esso non dipenda dall’elemento materiale e, in secondo luogo, come se l’imparare fosse opposto al pensare indipendente […]. Secondo un errore comune, sembra che su un pensiero il sigillo dell’indipendentemente pensato (des Selbstgedachten) sia impresso solo quando esso si scosti dai pensieri degli altri uomini […]. In altre parole, è nata da qui la smania per cui ciascuno vuole avere un suo proprio sistema, e per cui un’idea è considerata tanto più originale ed eccellente quanto più è insulsa e folle, poiché essendo tale essa mostra al massimo la propria originalità e diversità dai pensieri degli altri”.[17]

L’errore a cui Hegel allude è quello di credere che “pensare con la propria testa” voglia dire avere un proprio sistema filosofico, necessariamente diverso da quelli già pensati da altri, e che il valore principale in filosofia non sia la verità, ma l’originalità. Naturalmente l’ammonizione a non cadere in questo errore vale sia per i docenti che per gli studenti. Ai docenti bisognerebbe inoltre ricordare quanto ebbe a scrivere Max Weber nella sua famosa conferenza su La scienza come professione, cioè che “la cattedra non è per i profeti e i demagoghi. Al profeta e al demagogo è stato detto: ‘Esci per le strade e parla pubblicamente’. Parla, cioè, dov’è possibile la critica. Nell’aula, ove si sta seduti di faccia a i propri ascoltatori, a questi tocca tacere e al maestro parlare, e reputo una mancanza del senso di responsabilità approfittare di questa circostanza – per cui gli studenti sono obbligati dal programma di studi a frequentare il corso di un professore dove nessuno può intervenire a controbatterlo – per inculcare negli ascoltatori le proprie opinioni, invece di recar loro giovamento, come il dovere impone, con le proprie conoscenze e le proprie esperienze scientifiche”. E più oltre: “L’insegnante universitario deve desiderare e proporsi di giovare con le sue conoscenze e i suoi metodi”.[18]

Contro l’originalità a tutti i costi, che spesso si trasforma in oscurità e incapacità di comunicare, Hegel osserva: “La filosofia ottiene la possibilità di essere appresa, per mezzo della sua determinatezza, con tanto maggiore precisione quanto più essa diventa, in tal modo soltanto, comunicabile e capace di divenire un bene comune. Come essa, da una parte, vuole essere oggetto di uno studio particolare, e non è già per natura un bene comune per il solo fatto che ogni uomo in generale è dotato di ragione, così la sua universale comunicabilità le toglie anche l’apparenza – che, tra le altre, essa ha avuto negli ultimi tempi – di essere un’idiosincrasia di alcune menti trascendentali”.[19] Da un lato, insomma, non si deve credere che ogni uomo sia filosofo per il solo fatto di possedere la ragione, perché la filosofia, come abbiamo visto, è un sapere ed esige una precisa competenza, una professionalità; dall’altro lato, essa è un sapere comunicabile, non riservato soltanto a pochi iniziati, o a menti dotate di un quoziente intellettuale eccezionale, ma deve essere resa accessibile a tutti, tramite – ovviamente – un adeguato lavoro di studio e di apprendimento.

Infine contro la concezione della filosofia come edificazione Hegel scrive: “Come scienza propedeutica la filosofia ha in particolare da provvedere all’educazione (Bildung) e all’esercizio formale del pensiero; essa può far ciò solo per mezzo di un completo allontanamento dal fantastico, per mezzo della determinatezza dei concetti e di un procedimento conseguente e metodico; essa deve poter procurare quell’esercizio in una misura superiore alla matematica poiché non ha, come questa, un contenuto sensibile. Ho menzionato prima l’edificazione che spesso ci si attende dalla filosofia; a mio parere, anche quando viene presentata alla gioventù essa non deve mai essere edificante. Ma deve soddisfare ad un bisogno affine […]; compito della filosofia dev’essere giustificare ciò che ha valore per la conoscenza, coglierlo e comprenderlo in pensieri determinati e quindi proteggerlo da oscure deviazioni”[20].

Ebbene, l’unica conoscenza filosofica su cui esista l’accordo universale tra i filosofi è la conoscenza della storia della filosofia. Perciò anche in Francia, recentemente, si è messa in discussione la “dottrina ufficiosa”, cioè tradizionale, secondo la quale bisogna insegnare a fare della filosofia, come risulta dal già citato Manifesto. Tale discussione ha portato a proporre tutta una serie di nuovi “cantieri”, ovvero criteri, per l’insegnamento della filosofia. Tra i primi ce n’è subito uno che recita: “Riconoscere che l’imparare a filosofare implica un apprendimento e che insegnare la filosofia è un mestiere”[21]. Rimane dunque lo scopo della “dottrina ufficiosa”, ma si riconosce che, per attingerlo, è necessario apprendere prima qualche cosa, cioè un insieme di conoscenze. Di conseguenza l’insegnante di filosofia – si sta parlando del liceo – prima di essere un filosofo, deve essere un professionista che sa trasmettere tale insieme di conoscenze. Infatti il “cantiere” continua dicendo: “Non è privo di controindicazioni identificare puramente e semplicemente il professore di filosofia con un filosofo. Chi fa il filosofo davanti ai suoi allievi non dà loro una formazione, perché li tratta come i discepoli che non saranno mai”.

Un altro “cantiere” del nuovo manifesto recita: “Riconoscere che la filosofia non serve soltanto a filosofare”, e spiega: “ L’insegnamento della filosofia non potrebbe giustificare la posizione che occupa oggi – e ancor meno la sua presenza nei corsi scolastici e universitari – se non potesse mostrare la sua utilità nella formazione intellettuale e culturale di tutti gli allievi”.[22] E un altro ancora recita: “Formarsi alla filosofia significa apprendere a pensare attraverso l’appropriazione di conoscenze filosofiche e non-filosofiche. Si è usato ed abusato della formula kantiana secondo cui non si può apprendere la filosofia ma solo a filosofare”, e spiega: “Per esempio, se il corso di filosofia è organizzato per problemi, questi non possono in modo serio essere affrontati dagli allievi se non attraverso la conoscenza delle principali opzioni filosofiche da cui derivano e attraverso la padronanza progressiva delle distinzioni concettuali che consentono di dar loro un senso. Queste opzioni e queste distinzioni non hanno niente di naturale o di spontaneo. È nella storia della filosofia che esse sono state prodotte ed è solamente lì che possono essere ritrovate. Non si può sfuggire alla domanda: che cosa gli allievi che si accostano al filosofare devono conoscere della storia della filosofia?”.[23]

Nel leggere queste parole si ha l’impressione di trovarsi davanti ad una vera e propria ritrattazione di tutte le critiche che da parte francese sono state rivolte alla scuola italiana ed alla preminenza in essa data all’insegnamento della storia della filosofia. Certo, il metodo “italiano” di insegnare filosofia nei licei non è esente da critiche, specialmente a causa delle deformazioni che i programmi originari della riforma Gentile hanno subito ad opera dei decreti De Vecchi, della conseguente introduzione dei manuali di storia della filosofia e della progressiva sostituzione della lettura dei classici con la “filastrocca di opinioni” menzionata sopra. Contro queste deformazioni ha inteso andare la relazione della Commissione Brocca, quando ha indicato nella lettura dei testi il momento fondamentale e caratterizzante dell’insegnamento della filosofia, dove per “testi” ovviamente si intendono – purtroppo c’è bisogno di precisarlo – le opere dei filosofi, possibilmente dei “grandi” filosofi.

Qualcuno obietterà che non sta scritto da nessuna parte quali sono i “grandi” filosofi e che la loro identificazione dipende dal tipo di filosofia che si professa. Ciò non è vero: come in letteratura esistono i “grandi” poeti, e a scuola si fanno leggere questi, così in filosofia esistono i “grandi” filosofi, cioè i classici, quelli che ritornano continuamente, quelli di cui non si può fare a meno. La loro esistenza si tocca con mano proprio quando si insegna la filosofia contemporanea. Per esempio all’università la maggior parte degli studenti vogliono occuparsi di filosofi contemporanei. Heidegger, naturalmente, è uno di quelli che vanno per la maggiore. Ma quando gli studenti ne prendono in mano le opere, si accorgono che Heidegger non fa che parlare di Platone e di Aristotele, di Kant e di Hegel (per non dire dei presocratici e di Nietzsche), e che non si capisce nulla di Heidegger se non si conoscono questi altri filosofi. Per questo la Commissione Brocca aveva indicato come autori obbligatori Platone, Aristotele, Kant e Hegel, scatenando una ridda di proteste, specialmente da parte dei filosofi analitici, i quali rivendicavano l’importanza degli inglesi (Locke, Hume, Mill). Ebbene, aggiungiamo pure qualche inglese, per far contenti gli analitici, e qualche francese (Descartes, Pascal), per far contenti i francesi (ma allora anche Vico), e qualche santo (Agostino, Tommaso), per far contenti i cattolici. In ogni caso, restiamo ben lontani dalla “filastrocca di opinioni” del manuale.

Non mi addentro nel problema di come leggere i classici, su cui esiste tutta una letteratura. L’importante è anzitutto capirli, realizzando quella che Gadamer chiamava la “fusione di orizzonti”, e poi discuterli, cioè metterli in questione e, se necessario, criticarli. Mentre sulla prima operazione concordo con gli ermeneutici, che oggi sono la maggioranza dei “continentali”, sulla seconda concordo con gli “analitici”, che discutono con i classici come si fossero nostri contemporanei. Le due operazioni sono entrambe necessarie e si riassumono in quell’attività che Aristotele per primo, credo, definì con un verbo che è rarissimo incontrare nella letteratura greca, cioè sumphilosophein, “confilosofare”, fare filosofia insieme. Facendo rientrare anche l’amicizia (philia) tra gli ingredienti che costituiscono la felicità, Aristotele concluse infatti la sua grande trattazione di questa virtù (due interi libri dell’Etica Nicomachea) dichiarando che, per gli amici, cioè per le persone che si vogliono bene, la cosa più desiderabile è fare insieme le cose in cui ciascuno maggiormente identifica il proprio essere, ossia ciò per cui desidera vivere: per i bevitori bere insieme, per i giocatori giocare insieme, per i patiti di ginnastica o per i cacciatori fare ginnastica insieme o andare a caccia insieme, per i filosofi fare filosofia insieme[24]. E chi, per un filosofo, può essere più amico dei grandi filosofi? Quindi facciamo filosofia insieme a Platone o ad Aristotele, a Kant o a Hegel, a Hume, a Wittgentsein o a Heidegger, leggendo e discutendo insieme le loro opere.

Non si tratta, dunque, di apprendere la filosofia da un unico libro che la contenga tutta già bell’e fatta, come temeva Kant: la filosofia non è la geometria (per questo l’esempio del teorema di Pitagora, portato da Hegel, non è il più calzante), cioè non è un discorso dotato di propri principi, a partire dai quali si possano dimostrare dei teoremi. La filosofia, come diceva Hegel, non ha il vantaggio di poter presupporre il proprio oggetto e il proprio metodo, cioè non ha principi. Essa mette in questione tutto, è un “domandare tutto che è tutto domandare”, ma tuttavia non è stata inventata né oggi né ieri, né ciascuno può inventarla da sé. Essa esiste già da tempo e va quindi cercata. Ma bisogna cercarla là dove essa si può trovare, cioè nelle opere dei grandi filosofi, e bisogna imparare a filosofare insieme con loro, cioè partecipando alla loro ricerca. Anche questo è un metodo “zetetico”, come quello voluto da Kant.

Se posso tentare di riassumere l’intero discorso in poche parole, distinguerei ancora una volta l’insegnamento della filosofia nel liceo dall’insegnamento della filosofia nell’università. Nel liceo la filosofia viene insegnata a tutti, anzi molti di noi auspicano che venga insegnata anche negli ex istituti tecnici, in modo che tutti i ragazzi italiani possano fare esperienza, almeno una volta nella vita, di che cosa significa affrontare un problema di senso in modo razionale. Ma dove la filosofia viene insegnata a tutti, non si può pretendere che tutti diventino filosofi. Quindi la filosofia deve essere insegnata a tutti da un lato per sviluppare in ciascuno la razionalità, lo spirito critico, la capacità di “pensare con la propria testa” in generale (non di fare filosofia con la propria testa), e dall’altro anche perché essa fa parte della cultura generale. Come potrebbe, infatti, essere considerata colta una persona che non sapesse nulla di Platone o di Kant? Nell’università invece, dove la filosofia viene insegnata a coloro che l’hanno scelta come professione e intendono dedicarsi professionalmente ad essa per tutta la vita, si può anche dire che l’insegnamento ha lo scopo di far imparare a filosofare, ma filosofare non significa costruire ciascuno un proprio sistema filosofico, bensì fare filosofia insieme con i grandi filosofi, “confilosofare” con loro, ed a questo scopo è necessario conoscere bene la storia della filosofia, e soprattutto leggere le opere dei grandi filosofi.

Enrico Berti

 

 

[1] F. D’Agostini, Pensare con la propria testa. Un problema metafilosofico e le sue implicazioni filosofiche, “Intersezioni”, 23, 2003, pp. 271-290.

[2] K. Mulligan, Searle, Derrida and the Ends of Phenomenology, in B. Smith (ed.), The Cambridge Companion to Searle, Cambridge 2003.

[3] I. Kant, Scritti sul criticismo, Roma-Bari 1991, pp. 5-6.

[4] E. Kant, Notizia dell’indirizzo delle lezioni nel semestre invernale 1765-1766, in Vega Scalera, L’insegnamento della filosofia dall’unità alla riforma Gentile, Firenze 1990, doc. 9, sez. 52.

[5] Ivi, doc. 9, sez. 53.

[6] E. Kant, Critica della ragion pura, trad. di G. Gentile e G. Lombardo Radice, riveduta da V. Mathieu, Bari 1959, pp. 649-650.

[7] Cf. ACIREPH (Association pour la création des Instituts de Recherche sur l’Enseignement de la Philosophie), Manifesto per l’insegnamento della filosofia in Francia, per un possibile confronto con l’Italia, trad. di M. Trombino, in S. Martini (a cura), Per un laboratorio di didattica della filosofia, Roma 2004, pp. 89-114, spec. p. 101.

[8] I. Kant, Epistolario kantiano,Genova 1990, p. 54.

[9] Art. cit., p. 275 (corsivi nel testo).

[10] G. W. F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, trad. di E. Codignola e G. Sanna, Firenze 1969, III, 2, p. 373.

[11] Ivi, pp. 372-373.

[12] G. W. F. Hegel, La scuola e l’educazione. Discorsi e relazioni (Norimberga 1808-1816), a cura di L. Sichirollo e A. Burgio, Milano 1985, p. 105 (corsivi nel testo).

[13] Ivi, p. 106.

[14] Kant, Critica della ragion pura cit., pp. 363-364.

[15] Hegel, La scuola e l’educazione cit., p. 112.

[16] Ivi, p. 115.

[17] Ivi, pp. 116-117.

[18] M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, trad. it. di A. Giolitti, Torino 1948, pp. 29-30.

[19] Hegel, La scuola e l’educazione cit., p. 117.

[20] Ivi, pp. 117-118.

[21] ACIREPH, Manifesto cit., p. 104 (corsivi nel testo).

[22] Ivi, p. 107

[23] Ivi, p. 109 (corsivo mio).

[24] Aristotele, Eth. Nic. IX 12, 1171 b 29-1172 a 8.

 

Lezione tenuta nel Corso di Metodologia dell’insegnamento filosofico dell’Università di Padova il 31 maggio 2004.

Enrico Berti – La fortuna di Aristotele nella storia della cultura. Oggi le sue idee sono tornate in auge in tanti modi: come l’irreversibilità del tempo di I. Prigogine, l’unità mente-corpo o il continuo matematico in R. Thom. Fanno sorridere le accuse rivolte ad Aristotele da Heidegger e dai suoi inconsci epigoni.
Nell’immagine in evidenza, in alto a dx.:
Aristotele, busto del filosofo a Kalloni (Καλλονή), periferia dell’Egeo Settentrionale.

Sembrava che la scienza moderna  avesse confutato Aristotele per sempre. In realtà, oggi le sue idee sono tornate in auge in tanti modi: come l’irreversibilità del tempo di I. Prigogine, l’unità mente-corpo o il continuo matematico in R. Thom. Fanno sorridere le accuse rivolte ad Aristotele da Heidegger e dai suoi inconsci epigoni.



La fortuna di Aristotele nella storia della cultura si è sviluppata a periodi alterni rispetto alla fortuna di Platone. Mentre Platone fu amato soprattutto nella tarda antichità, dai filosofi cristiani e dai neoplatonici, e poi dagli umanisti del Rinascimento, Aristotele fu riscoperto dai musulmani nel Medioevo e, per influenza di questi, dai filosofi cristiani della Scolastica, che lo chiamarono «il Filosofo» per antonomasia o, con Dante, «il maestro di color che sanno». Il califfo al-Mamun, regnante a Baghdad nel IX secolo, dichiarò addirittura di aver visto Aristotele in sogno e di averlo sentito proclamare la verità fondamentale dell’Islam, cioè che c’è un solo Dio. I più grandi filosofi musulmani, come l’arabo al-Kindi, il turco al-Farabi, il persiano Ibn Sina (Avicenna) e l’andaluso Ibn Rushd (Averroè), furono tutti aristotelici. Altrettanto si può dire di filosofi cristiani come Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, ma anche di Giovanni Duns Scoto e di Guglielmo di Occam. Indubbiamente musulmani e cristiani – ma anche ebrei come Mosè Maimonide – videro nel pensiero di Aristotele, interpretato attraverso il neoplatonismo, il sostegno più solido, cioè più “scientifico”, alle rispettive teologie. Così Aristotele divenne, senza sua colpa, il filosofo dei teologi.
Nel Rinascimento gli umanisti riscoprirono Platone, di cui rifondarono a Firenze l’Accademia, ma Aristotele rimase nelle università, in tutte le università europee, di cui costituì il fondamento filosofico. Se Lutero insultò Aristotele, da lui visto come il filosofo della Scolastica, il suo allievo e continuatore Melantone ne fece il maestro delle università protestanti dell’intera Germania.
La nascita della scienza moderna, con Galilei e Descartes, determinò nel Seicento l’eclissi della fisica e della cosmologia aristoteliche, ma la logica aristotelica continuò a dominare l’insegnamento universitario almeno fino a Kant, il quale dichiarò – anche se a torto – che dopo Aristotele la logica generale, cioè formale, non aveva fatto alcun progresso.
Anche la metafisica di Aristotele riscosse nell’Ottocento l’ammirazione di Hegel, che vide in essa la vera logica della filosofia aristotelica, ma fu sfruttata anche dai critici di Hegel, cioè Feuerbach, Marx e Kierkegaard, che trovarono in essa gli argomenti con cui criticare Hegel. Non parliamo poi di Brentano, che insegnò Aristotele a Husserl, a Meinong, a Twardowski, a Freud e, da postumo, a Heidegger.
Nell’Ottocento ebbe una breve eclissi l’etica di Aristotele, temporaneamente soppiantata dall’etica di Kant e poi dall’utilitarismo e dalle scienze umane (antropologia, psicologia, sociologia). Ma quando, a metà del Novecento, ci si rese conto dell’incapacità delle scienze umane di dare giudizi di valore e quindi di orientare la prassi, venne riscoperta l’etica aristotelica, anzi la «filosofia pratica» di Aristotele, intesa come forma di razionalità non scientifica e tuttavia autentica, capace di orientare la prassi. Di qui la valorizzazione della “saggezza” a opera di Gadamer e della sua scuola, delle virtù in generale da parte di McIntyre e dei comunitaristi, della nozione di eudaimonia come piena realizzazione delle capacità umane da parte di Martha Nussbaum e persino di un economista come Amartya Sen.
Ma con la filosofia pratica di Aristotele è stata riscoperta anche la sua filosofia politica, che indica nella naturalità della polis la possibilità di un superamento dello Stato moderno ormai manifestamente in declino per la perdita dell’autosufficienza. Un’utilizzazione della politica aristotelica nella direzione di una società politica multinazionale si trova nel cosiddetto «gruppo di Chicago», formato dal cattolico J. Maritain, dal protestante R.M. Hutchins, dall’ebreo M.J. Adler e da altri, autori nel 1951 di un progetto di costituzione mondiale.
La metafisica di Aristotele; oltre a rimanere alla base del tomismo, sia pure addomesticata secondo le esigenze della fede cattolica, continua a ispirare, con la sua dottrina delle categorie, della polisemia dell’essere, del cosiddetto focal meaning, gran parte della filosofia analitica anglo-americana, a cominciare dalla Scuola di Oxford.
Ma ciò che è più sorprendente è la ripresa di alcuni aspetti della fisica aristotelica, quali la teoria del continuo a opera del matematico R. Thom e la teoria della irreversibilità del tempo a opera di Ilya Prigogine. Sempre in tema di scienza, la biologia di Aristotele non ha mai conosciuto alcuna eclissi, suscitando l’ammirazione di C. Darwin nell’Ottocento e di Max Delbrück, di Ernest Mayr, di François Jacob nel Novecento.
E, sempre in tema di scienza, la psicologia di Aristotele, cioè la sua concezione dell’anima non come realtà a sé, ma come capacità del corpo di vivere e di funzionare a diversi livelli, è stata vista da molti come la soluzione più convincente del cosiddetto Mind-Body Problem, per esempio da Hilary Putnam, che ha intitolato la prima parte del suo Words and Life (1994) «Aristotele dopo Wittgenstein».

Fanno sorridere le accuse rivolte ad Aristotele da Heidegger e dai suoi inconsci epigoni
Di fronte a questa massiccia presenza nella filosofia contemporanea fanno sorridere le accuse, rivolte ad Aristotele da Heidegger e dai suoi inconsci epigoni, di avere concepito la metafisica come «onto-teologia», di avere dimenticato l’Essere e simili amenità. Del resto, uno dei più intelligenti filosofi post-moderni, Gianni Vattimo, malgrado le sue origini heideggeriane, nella sua autobiografia (Non Essere Dio, 2006) dichiara: «L’Essere non è altro che questo: il senso della parola “essere” nella storia della nostra lingua e nell’uso che ne facciamo» (pag. 133). Esattamente come sosteneva Aristotele.

 

Enrico Berti, La rinascita di Aristotele, pubblicato in «Il Sole-24 Ore», 10 dicembre 2006, p. 41.



Aristotele non era un teologo

Aristotele è senza dubbio il filosofo antico più utilizzato dai teologi cristiani e musulmani come base filosofica per la loro visione monoteistica della realtà. I cristiani dapprima privilegiarono Platone e il neoplatonismo – si veda il caso notissimo di Agostino –, ma poi, al seguito dei musulmani, che avevano fatto di Aristotele una specie di secondo Maometto, ne fecero anch’essi “il Filosofo” per eccellenza (per esempio Tommaso d’Aquino) e «il maestro di color che sanno» (Dante). È noto che, secondo una tradizione araba, Aristotele sarebbe apparso in sogno al califfo al-Mamun e gli avrebbe detto: «Il tuo dovere è dichiarare l’unicità di Dio», cioè precisamente la verità fondamentale dell’Islam. I musulmani videro infatti nel primo motore immobile, di cui Aristotele dimostra la necessità nel libro XII della Metafisica, l’unico Dio, creatore e signore del cielo e della terra, e quindi interpretarono questo libro come una specie di teologia, seguendo del resto in questo i commentatori greci tardo-antichi. A dire il vero essi dovettero trovare un po’ scarse le indicazioni teologiche fornite da Aristotele nel libro in questione, perché pensarono di confezionare un’opera intitolata Teologia di Aristotele, desumendone il contenuto dalle opere ben più ricche, in questo senso, di Plotino. E i cristiani furono tratti in inganno da questo falso, confermandosi nell’idea che Aristotele fosse il creatore della teologia naturale, o razionale. Dante, da sommo poeta qual era, riuscì a presentare il Motore immobile, che «muove in quanto amato», come «l’Amor che move il sole e l’altre stelle».
Naturalmente le differenze tra il primo motore immobile di Aristotele e il Dio della Bibbia, concordemente adorato da cristiani e musulmani, erano sotto gli occhi di tutti: ma esse divennero un pretesto per attaccare Aristotele, accusato di avere professato un concetto di Dio troppo astratto, meccanico, impersonale, egoista (il mio professore di filosofia antica, Carlo Diano, parlava con scherno del Dio di Aristotele «che si guarda la pancia»). In tale opera di denigrazione si scatenò una nobile gara fra cristiani e musulmani, che toccò i suoi vertici in campo musulmano col teologo al-Gazali, nemico dei filosofi aristotelizzanti, e in campo cristiano con Lutero, noto per avere ricoperto il povero Aristotele degli insulti più feroci (ma già Petrarca si era lasciato un po’ andare). Ancora oggi i musulmani e i cristiani integralisti non possono soffrire il “Motore immoto” di Aristotele, dichiarando che tale espressione fa pensare a un autocarro in panne e opponendogli, con Pascal, «il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Gesù Cristo».
Solo da pochi anni studiosi benemeriti hanno ristabilito la verità storica, mostrando che Aristotele non voleva affatto essere un teologo, che per lui la “teologia” non era una disciplina filosofica, ma l’insieme dei miti sugli dèi narrati dai poeti, e che gli dèi per lui erano semplicemente dei «viventi immortali e felici», i quali si distinguono dagli uomini perché questi sono, al contrario, mortali e infelici. Esemplare è stato in questo senso il libro di Richard Bodéüs, Aristote et la théologie des vivants immortels (Montréal 1992). A risultati analoghi sono giunti i contributi pubblicati nel volume della rivista «Humanitas» (4/2005) sotto il titolo Dio e il divino nella filosofia greca, a cura di Maurizio Migliori e Arianna Fermani, ma soprattutto il bel libro di Barbara Botter, Dio e Divino in Aristotele, uscito nella collana “Intemalional Aristotle Studies”, diretta da Carlo Natali (Academia Verlag 2005).
Quest’ultimo dimostra infatti con argomenti convincenti che in Aristotele e nei filosofi “pagani” in generale il termine “dio” è usato non come nome proprio, e nemmeno prevalentemente come sostantivo, bensì come attributo, o predicato, avente la funzione di indicare un grado di eccellenza in una scala ordinata di enti. Esso pertanto può essere attribuito agli dèi della religione tradizionale, ma anche agli astri, al mondo stesso nel suo insieme, all’intelletto umano, e anche al primo motore immobile. Ma in nessun caso dovrebbe essere scritto con l’iniziale maiuscola e senza articolo, come se fosse un nome proprio, bensì sempre con la minuscola e l’articolo, cioè “il dio”, come diciamo “l’uomo” o “il cavallo”. Ovviamente in un contesto monoteistico si scriverà “Dio” senza articolo. Se questa regola venisse seguita più in generale, si eviterebbe l’uso fastidioso di scrivere la parola con la maiuscola o la minuscola per mostrare che si crede o non si crede in Dio.
Una conferma a queste ricerche viene anche dalla pubblicazione, per la prima volta in traduzione italiana, di un’opera nota solo agli specialisti, le Divisioni, tramandate come opera di Aristotele da alcuni manoscritti e, in versione un po’ diversa, da Diogene Laerzio, a cura di Cristina Rossitto, che ne ha fornito anche un’ampia introduzione e un accurato commento (Bompiani 2005). Quest’opera è emblematica dell’uso che la tarda antichità fece di Aristotele. È molto probabile, infatti, che essa risalga, nel suo nucleo fondamentale, proprio ad Aristotele, come hanno sostenuto anche W.D. Ross e O. Gigon, anzi all’Aristotele giovane, ancora membro dell’Accademia platonica, come ipotizza Rossitto. Ma non c’è dubbio che vi hanno messo le mani anche altri autori, cristiani o comunque teisti, come risulta inequivocabilmente da alcuni passi. In essa si parla infatti degli dèi come di viventi immortali, a cui sono dovuti onori e pratiche di culto e ai quali appartengono beni specifici, quali l’eternità, e beni comuni anche agli uomini, quali l’eccellenza e la bellezza, ma non altri beni puramente umani quali la temperanza, il coraggio e la giustizia. In un passo di essa, tuttavia, come esempio di viventi immortali vengono citati non gli dèi, bensì gli angeli, specie in tale veste del tutto sconosciuta ad Aristotele, ma ben nota ai seguaci della Bibbia, che non potevano ammettere l’esistenza di una molteplicità di dèi.

Enrico Berti, Nuovi studi dimostrano che Aristotele non era un teologo, pubblicato in: Domenicale de Il Sole 24 Ore, 15 gennaio 2006, p. 16.

 

  • Migliori e A. Fermani (a cura di), «Dio e il divino nella filosofla greca», “Humanitas”, LX (2005), n. 4. pp. 658-920.

 

  • B. Botter, «Dio e Divino in Aristotele», Academia Verlag, Sankt Augustin 2005, pp. 306.

 

  • Aristotele ed altri autori, «Divisioni», a cura di C. Rossitto, Bompiani, Milano 2005, pp. 526.

«Platone – […] la ricchezza non ha nulla a che fare col bene della città. Mi sembra di avere portato argomenti abbastanza chiari a questo proposito nella Repubblica» (p. 20).

«Aristotele – Le elargizioni di denaro fatte per sedurre la moltitudine sono l’uso peggiore che si può fare della ricchezza. Esse producono infatti nei cittadini un piacere di breve durata e non portano alcun contributo permanente al bene comune […]» (p. 25).

«Aristotele – […] la sazietà, come dice il proverbio, genera prepotenza, mentre la mancanza di cultura, accompagnata da molti mezzi, genera stoltezza. In effetti, per coloro che sono di poco valore nelle cose che riguardano l’anima, né la ricchezza, né la forza, né la bellezza sono dei beni […]» (p. 55).

«Aristotele – Bisogna poi precisare che l’avarizia non consiste solo nello spendere troppo poco, ma anche nel desiderare troppo il denaro, nell’anteporre la ricchezza a qualunque altra cosa, nell’impegnare tutta la propria vita nell’unica attività del far soldi. Intesa in questo senso, l’avarizia, o meglio l’avidità di denaro, è oggi il vizio forse più diffuso» (p. 61).

«Aristotele – […] I bisogni umani, per natura, sono limitati, come risulta dal fatto che uno non può mangiare più di tanto, […] eccetera. Ora, l’arte di procurarsi i beni necessari a soddisfare questi bisogni è un’arte secondo natura, cioè giusta, buona, morale. Se invece uno vuole procurarsi una quantità di beni illimitata, va contro la stessa natura dell’uomo, e la sua arte sarà un’arte contro natura, cioè ingiusta, immorale.
Teofrasto – Ma come è nata, Aristotele, quest’arte contro natura e immorale che chiamiamo crematistica?
Aristotele – Essa è nata da un fatto del tutto naturale, cioè lo scambio dei beni. Poiché non tutti sono in grado di fare tutto, come spiega bene Platone nella Repubblica, gli uomini che abitano la città si distribuiscono i compiti, e l’uno fa il contadino, l’altro fa il calzolaio, il terzo fa il sarto, e così via. Ciascuno di questi produce un bene, o un servizio, in misura superiore a quella di cui ha bisogno per la sua famiglia, mentre non produce altri beni di cui pure ha bisogno. Nasce così la necessità di scambiarsi le merci: chi produce un certo bene in eccesso, ne dà una parte a chi non lo produce ma ne ha bisogno, per avere in cambio da lui ciò di cui ha bisogno lui e che l’altro produce in eccesso. Questo fa sì che ogni bene prodotto abbia, per così dire, due valori, un valore d’uso, che è quello per cui viene usato, e un valore di scambio, che è quello per cui viene scambiato. Un tale scambio è del tutto naturale, quindi è giusto e morale.
Teofrasto – E come accade che da questo scambio naturale e giusto nasca la crematistica contro natura e immorale?
Aristotele – Per comprenderlo, bisogna fare attenzione al mezzo di cui gli uomini si servono per facilitare lo scambio, cioè il denaro, la moneta. Questa infatti è un oggetto equivalente a qualunque possibile merce, perciò può essere usata al posto di qualsiasi merce, quando la merce non sia disponibile. Supponiamo che io abbia bisogno di un paio di scarpe, il cui valore è pari a quello di un sacco di grano, mentre il fabbricante di scarpe ha bisogno del grano. In luogo di questo io darò al fabbricante di scarpe una quantità di denaro pari al valore delle scarpe, e anche del sacco di grano, col quale egli potrà procurarsi il grano da chi lo produce. Questo è l’uso naturale, e quindi giusto, del denaro. Se io, invece, non ho bisogno di scarpe, ma le acquisto ugualmente pagando una certa quantità di denaro, allo scopo di rivenderle in cambio di una quantità di denaro maggiore, allora il fine dello scambio non sarà più quello di soddisfare un mio bisogno, ma sarà semplicemente quello di procurarmi una quantità maggiore di denaro. In questo caso lo scambio non sarà più naturale, ma sarà contro natura. La crematistica nasce quando, in luogo di scambiare merce con denaro, per ottenere altra merce, si scambia denaro con merce per ottenere altro denaro. Io mi sono spiegato con un esempio molto banale. Ma se tu moltiplichi questo tipo di scambi in quantità smisurata, vedi che nasce un’attività ugualmente smisurata, consistente nel cercare di procurarsi denaro all’infinito. In questo modo la ricchezza, costituita dal denaro, non è più il mezzo necessario a soddisfare i bisogni propri o della propria famiglia, ma diventa essa il fine, e questo è innaturale, quindi ingiusto e immorale. La cosa è ancora più evidente nella pratica dell’usura, dove non si scambia denaro con merce, ma denaro con denaro, cioè si presta denaro in una certa quantità per ottenerne, dopo qualche tempo, altro denaro in quantità maggiore. In tal caso il denaro serve a produrre altro denaro e quindi l’usura diventa l’emblema della crematistica smisurata» (pp. 64-67).

«Aristotele – […] Vorrei una città che conservi al suo interno […] l’uguaglianza tra i suoi cittadini, la libertà di discutere e decidere tutti insieme sulle cose da farsi, la divisione dei poteri, la giustizia, l’aspirazione alla pace. Una città […] in cui la preoccupazione più importante dei cittadini non sia quella di procurarsi le ricchezze, ma quella di vivere bene, cioè di essere felici, realizzando tutte le proprie capacità, non solo fisiche, ma anche spirituali, per mezzo dell’educazione, dell’arte, della scienza, della filosofia».
Platone – È proprio bello questo che tu dici, Aristotele! Speriamo che un giorno si avveri. Vedo però che anche tu ti abbandoni alle utopie, come hai rimproverato me di fare. In realtà un po’ di utopismo è sempre necessario, altrimenti ci si rassegna alla realtà esistente e non si cerca più di migliorarla» (pp. 89-89).

***

Enrico Berti, Aristotele. Ebulo e la ricchezza. Dialogo immaginario con Platone, Falsi Originali [Collana diretta di Giovanni Casertano], Guida Editori, Napoli 20129.

Il dialogo qui presentato è la ricostruzione immaginaria di un dialogo perduto di Aristotele, intitolato Della ricchezza, del quale si sono conservate solo tre citazioni. Si tratta chiaramente di un falso, confezionato tuttavia secondo criteri di verosimiglianza, cioè sulla scorta di notizie storiche accertate sull’Atene dell’epoca e sulle vite dei personaggi in esso coinvolti, nonché di brani tratti dalle opere conservate di Platone e di Aristotele. Il dialogo ha luogo nell’Accademia platonica, nell’anno 350 a. C., cioè tre anni prima della morte di Platone, e ha come personaggi Platone, lo stesso Aristotele, Speusippo, Senocrate e Teofrasto. Nella finzione esso porta come titolo Eubulo, nome di un imprenditore, noto soprattutto per la sua ricchezza, che realmente governò Atene a quel tempo.



Enrico Berti

Scritti su Heidegger

indicepresentazioneautoresintesi

Petite Plaisance

ISBN 978-88-7588-241-9, 2019, pp. 176, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [109].
In copertina: Statua in bronzo di Aristotele, ingresso della Albert-Ludwigs-Universität di Friburgo, Germania. In quarta di copertina: Paul Klee, Die Zeit, 1933.

Questo volume raccoglie alcuni fra i principali studi di Enrico Berti su Martin Heidegger. Il filosofo tedesco è stato infatti una presenza costante negli studi composti in questi decenni dallo studioso padovano, sovente in rapporto al pensiero di Aristotele. Con il suo consueto approccio “classico”, in questi saggi Berti non si limita a descrivere, ma valuta, ossia prende posizione, anche critica, nei confronti di colui che pure definisce come il maggiore pensatore del XX secolo.



Indice

 

Introduzione

Il nichilismo dellOccidente secondo Nietzsche, Heidegger e Severino

L’influenza di Heidegger sulla «riabilitazione della filosofia pratica»
Gadamer, o della «phronesis»
Ritter, ovvero dell’«ethos»
Hannah Arendt, o della «praxis»

Heideggers Auseinandersetzung mit dem

Platonisch-Aristotelischen Wahrheitsverständnis
Aristoteles
Platon
Abschluß

Heidegger and the Platonic Concept of Truth

Le passioni tra Heidegger e Aristotele
Appendice

Heidegger e il libro Epsilon della Metafisica di Aristotele
Prologo
Prime citazioni di Aristotele (Friburgo, 1921-1923)
Metaph. E negli anni di Marburgo (1923-1928): l’essere come verità
Metaph. E negli anni di Marburgo (1923-1928): essere ed ente
Metaph. E dopo il ritorno a Friburgo (1929): di nuovo l’essere come vero
Metaph. E dopo il ritorno a Friburgo: la metafisica come «ontologia»
Conclusione

***





Enrico Berti

Incontri con la filosofia contemporanea

Petite Plaisance

ISBN 88-7588-002-6, 2006, pp. 336, formato 140×210 mm., € 25,00 – Collana “Il giogo” [14]

indicepresentazioneautoresintesi

Il volume raccoglie più di venti saggi pubblicati dall’autore negli ultimi quindici anni e difficilmente reperibili, perché usciti in riviste a diffusione variabile e in atti di convegni accessibili per lo più ai soli partecipanti.
A differenza di altre raccolte dell’autore, che riuniscono saggi di carattere storico, questa contiene interventi di carattere prevalentemente teorico, suscitati da discussioni su filosofi contemporanei e con filosofi contemporanei. L’autore infatti è convinto che la ricerca storica e l’esercizio teorico della filosofia siano tra loro complementari e che non sia possibile praticare l’una delle due attività senza coltivare contemporaneamente anche l’altra.
I primi cinque saggi riguardano la dialettica, intesa nel senso antico del termine, che ha ritrovato una diffusa presenza nella filosofia contemporanea come tipo di argomentazione specificamente filosofica. I successivi sette saggi riguardano invece la metafisica, di cui viene presentata una versione in gran parte nuova, capace – secondo l’autore – di reggere il confronto con la filosofia contemporanea, sia nella sua versione ermeneutica e “continentale” che in quella analitica anglo-americana. Seguono altri sette saggi su temi di filosofia pratica, quali l’identità personale, l’idea di bene comune, i diritti umani e le pratiche filosofiche. Il volume si conclude infine con un’appendice di carattere parzialmente autobiografico, ma riguardante anche il problema dell’insegnamento della filosofia.

Qui di seguito sono riportati i riferimenti bibliografici
relativi ai saggi raccolti nel presente volume.

I
In tema di dialettica

Come argomentano gli ermeneutici?
“Filosofia ‘91”, a cura di G.  Vattimo, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 13-32.
La complessità della ragione
“Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. s. 154, gennaio-aprile 1995, pp. 27-40.
Logo e dialogo
“Studia Patavina”, 42, 1995, pp. 31-42.
La dialettica antica come modello di ragionevolezza
“Ars Interpretandi. Annuario di ermeneutica giuridica”, 7, 2002, pp. 17-28.
Il principio di non contraddizione: storia e significato
P. Bria e F. Oneroso (a cura), Bilogica e sogno. Sviluppi matteblanchiani sul pensiero onirico,
Milano, Franco Angeli, 2002, pp. 22-32.

II
In tema di metafisica

Per una metafisica problematica e dialettica
“Acta philosophica”, 1, 1992, pp. 176-190 (anche in “Per la filosofia”, 9, 1992, pp. 3-15).
La via “dinamico-noologica” alla trascendenza divina
in S.  Biolo (a cura), Trascendenza divina. Itinerari filosofici, Contributi al XLVIII Convegno del Centro di Studi Filosofici di Gallarate, aprile 1993, Torino, Rosenberg & Sellier, 1995, pp. 57-71.
La prospettiva metafisica tra analitici ed ermeneutici
“Seconda navigazione – Annuario di filosofia 2000”, Milano, Mondadori, 2000, pp. 45-62.
Quale metafisica per il terzo millennio?
in Proceedings of the Metaphysics for the Third Millennium Conference (Rome, September 5-8, 2000), Editorial de la Universidad Tecnica Particular de Loja (Equador), 2001, vol. I, pp. 29-44.
Una metafisica (espistemologicamente) “debole”
“Annuario Filosofico”, 16, 2000, Milano, Mursia, 2001, pp. 27-41.
Metafisica debole?
in Quale metafisica?, “Hermeneutica”, n. s., 2005, pp. 39-52.
Dialogo su Aristotele
in A. Petterlini, G. Brianese, G. Goggi (a cura),
Le parole dell’Essere. Per Emanuele  Severino, Milano, Bruno Mondadori, 2005, pp. 75-90.

III
In tema di filosofia pratica
Sostanza e individuazione
in AA. VV., La tecnica, la vita, i dilemmi dell’azione
(“Seconda navigazione – Annuario di filosofia 1998”), Milano, Mondadori, 1998, pp. 143-160.
Dal personalismo all’identità personale
in A.  Bottani e N.  Vassallo (a cura),
Identità personale. Un dibattito aperto, Napoli, Loffredo, 2001, pp. 65-78).
Persona, scienza e tecnica
in G. Galeazzi e B. M. Ventura (a cura),
Filosofia e scienza nella società tecnologica, Milano, F. Angeli , 2004, pp. 171-183.
L’idea di bene comune tra “destra” e “sinistra”
in E. Berti e  S. Veca, La politica e l’amicizia, Roma, Edizioni Lavoro, 1998, pp 35-62.
Prudenza
in “Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. 159, settembre-dicembre 1966, pp. 15-24.
Attualità dei diritti umani
“Ars Interpretandi”, Annuario di ermeneutica giuridica, 6, 2001, pp. 79-91.
Pratiche filosofiche e filosofia pratica
“Ars interpretandi”, Annuario di ermeneutica giuridica, 10, 2005, pp. 313-328.

IV
Appendice
Autoritratto
“Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. s. 176, maggio-agosto 2002, pp. 9-12.
Pensare con la propria testa?
“Bollettino della Società Filosofica Italiana”, n. s. 192, maggio agosto 2004, pp. 76-88.
Aristotele nel Novecento
“Scuola e Cultura”, 3, 2005, pp. 22-27


 



Luca Grecchi

Il pensiero filosofico di Enrico Berti

Petite Plaisance, 2013

ISBN 978-88-7588-110-8, 2013, pp. 240, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [51].

indicepresentazioneautoresintesi

In questo libro è sintetizzata l’opera filosofica di uno dei maggiori pensatori italiani contemporanei, Enrico Berti. Teorizzatore della metafisica classica, studioso di Aristotele, storico della filosofia, Berti ha proposto, in oltre 50 anni di attività culturale ed accademica, soluzioni di grande originalità e valore non solo su temi filosofici, ma anche su temi etici, politici, educativi.
La monografia, impreziosita da un saggio finale dello stesso Berti, si pone come una prima introduzione complessiva al suo pensiero.

Indice

Presentazione di Carmelo Vigna

Introduzione

I. Biografia
II. L’interpretazione degli antichi e di Aristotele
III. La storia della filosofia
IV. L’etica e la filosofia pratica
V. La politica
VI. L’approccio classico alla educazione
VII. Religione
VIII. La metafisica
IX. La critica

Postfazione Enrico Berti
A proposito della critica

Principali pubblicazioni di Enrico Berti
Volumi
Curatele
Principali articoli

Indice dei nomi e delle opere




Pensieri, riflessioni, rimandi …

Enrico Berti – La mia esperienza nella filosofia italiana di oggi.
Enrico Berti – Per una nuova società politica
Enrico Berti – La capacità che una filosofia dimostra di risolvere i problemi del proprio tempo è la condizione necessaria, anche se non sufficiente, perché essa sia giudicata eventualmente capace di risolvere i problemi di altri tempi, o del nostro tempo, e dunque possa essere considerata veramente “classica”.
Enrico Berti – Ciò che definisce l’uomo è anzitutto la parola. Non è del tutto appropriata la traduzione latina della definizione di uomo messa in circolazione dalla scolastica medievale, cioè animal rationale, la quale si basa sulla traduzione di logos con ratio. Certamente l’uomo è anche animale razionale, ma il concetto di logos è molto più ricco di quello di “ragione”.
Enrico Berti – Nichilismo moderno e postmoderno
Enrico Berti – È risonata più volte la proclamazione heideggeriana della fine dell’epoca della metafisica. Di fatto è esistita, e quindi ha una storia. Anche le più famose negazioni di essa sono state ridimensionate, e la metafisica appare oggi ancora viva e vigorosa.
Enrico Berti – Nessuno vorrà ritornare a concezioni metastoriche e disincarnate della filosofia. Il far filosofia non può essere infatti un’attività a buon mercato, non comportante alcun rischio, ma deve costar caro […].

Pubblicati su You tube e  … altrove

Enrico Berti – La natura del bello nel pensiero di Aristotele
Enrico Berti, L’etica in Aristotele

Enrico Berti, Aristotele e la “philia”

Incontro di studio con Enrico Berti – 13 giugno 2017

Enrico Berti, La Dottrina delle idee in Platone

Enrico Berti, Heidegger e l’etica aristotelica

Enrico Berti, La giustizia nella filosofia antica

Enrico Berti, Logos e techne nellafilosofia antica

Il realismo di Aristotele: vecchio o nuovo?

Enrico Berti, Aristotele, “Politica”

Enrico Berti, Dialogando

Enrico Berti, Intervista

Enrico Berti, Relazione al Convegno “Dio come essere”? Metafisiche classiche e analitiche

Enrico Berti, Relazione al “Festival della Filosofia” del 2 settembre 2018

Enrico Berti, Leggere Heidegger

Enrico Berti, L’ontologia aristotelica e analitica

Enrico Berti, Lectio magistralis, in occasione dell’Inaugurazione dell’Anno Accademico 2015-16 del Corso di Laurea in Filosofia dell’Università del Salento

Enrico Berti, L’etica delle virtù e l’educazione del futuro

Enrico Berti, La metafisica di Aristotele e il principio di non contraddizione

Enrico Berti, Sulla Metafisica (Filosofia prima) di Aristotele

Enrico Berti, Che cosa è la logica aristotelica?

Enrico Berti, Le prove della esistenza di Dio nella filosofia classica



Tra i molti libri pubblicati da Enrico Berti

La filosofia del primo Aristotele
(Univ. di Padova. Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia, vol. XXXVIII), 1962.


La filosofia del primo Aristotele, Cedam, 1962.


Il “De re publica” di Cicerone e il pensiero politico classico, Padova, Cedam, 1963.


L’unità del sapere in Aristotele, Cedam, 1965.


Studi aristotelici, Japadre, 1975.


Aristotele. Dalla dialettica alla filosofia prima, Cedam, 1977


Profilo di Aristotele, Studium, 1979.


I percorsi della filosofia, vol. I. Il pensiero antico e medioevale (con Sergio Moravia), Le Monnier, 1980.


I percorsi della filosofia. Il pensiero moderno e contemporaneo (con Sergio Moravia), Le Monnier, 1980.


Profilo di Aristotele, Nuova Universale Studium, 1985.


Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, L’Epos, 1987.


Il pensiero d’Occidente. Pagine e testimonianze (con Sergio Moravi), Le Monnier, 1987.


Le vie della ragione, il Mulino, 1987.


 


Le ragioni di Aristotele, Laterza, 1989.


Storia della filosofia. Antichità e medioevo, Laterza, 1991.


Aristotele nel Novecento, Laterza, 1992.


Persona e personalismo (con Georges Cottier e Giannino Piana), Gregoriana Editrice, 1992.


Etica, cultura e partecipazione politica (con Alberto Monticone), AVE, 1993

Il volume riflette l’esigenza di un approfondimento dei rapporti che intercorrono tra etica, cultura e partecipazione politica. Nel volume si delineano alcuni caratteri fondamentali della nostra vita civile: il sistema democratico, la concezione personalista e solidaristica quale fondamento della convivenza civile e dell’organizzazione sociale e politica del nostro Paese, la possibilità per le culture di ispirazione cristiana e per il movimento cattolico di dare un proprio contributo all’evoluzione della vita sociale e politica. L’impegno dell’Azione Cattolica resta quello per la formazione di un laicato adulto nella fede, capace di servizio e testimonianza in ogni ambito della propria vita ma anche quello di promuovere quotidianamente una cultura radicata nei valori del Regno e nei principi della centralità della persona umana e del bene comune.


Introduzione alla metafisica, Utet-Libreria, 1993.


Soggetti di responsabilità. Questioni di filosofia pratica, Edizioni Diabasis, 1993.


Aristotele, Il libro primo della «Metafisica» (a cura di E. Berti e C. Rossiitto), Laterza, 1995.


Aristotele, Laterza, 1997.

Rifacendosi in particolare ad un’analisi diretta della Politica e dell’Etica Nicomachea, i cui testi sono ampiamente antologizzati, e confrontandosi con il dibattito critico più recente, Berti illustra tutti i temi fondamentali del pensiero politico aristotelico, come ad es. il concetto di polis, o la vagheggiata «città felice». Né manca un’analisi in parallelo con le teorie di Platone. A differenza di altri studi pubblicati in Italia sul pensiero politico di Aristotele, che hanno un carattere parziale o un’impronta ideologica, il saggio introduttivo di Berti si distingue anche per la capacità di stabilire un dialogo continuo tra esso e il pensiero politico moderno e soprattutto contemporaneo.


Aristóteles no século XX, trad. D. Davi Macedo, São Paulo, Brasil, Edi. Loyola, 1997.


La filosofia del “primo” Aristotele, Vita e Pensiero, 1997.


As razões de Aristóteles, Ed. Loyola, 1998.

Esta obra configura uma intervenção autorizada no atual debate sobre o pensamento débil e a crise da razão, por sua capacidade de relacionar aos temas da filosofia contemporânea a aguda análise de um momento culminante na história da filosofia: o pensamento de Aristóteles.


La politica e l’amicizia (con Salvatore Veca), Edizioni Lavoro, 1998.

La politica e l’amicizia sembrano essere distanti l’una dall’altra: mentre la politica si orienta verso una condivisione più ampia possibile, l’amicizia evoca prospettive più intime, private, e dunque escludenti. Enrico Berti e Salvatore Veca intendono guidare, da angolature differenti, una riflessione sulla possibilità di un incontro fra politica e amicizia.


Novos estudos aristotélicos I – Epistemologia, lógica e dialética, 1999.

Nesta obra, encontram-se ensaios sobre a contradição, a dialética e a argumentação na obra do Estagirita, além de estudos sobre a dialética em Zenão, em Górgias e em Platão, com o objetivo de evidenciar a contribuição que deram à formação do pensamento de Aristóteles.


La navicella della metafisica.
Dibattito sul nichilismo e la “Terza navigazione”
(con altri), Armando editore, 2000.


Marino Gentile nella filosofia del Novecento, EDS, 2003.


Aristotele. Dalla dialettica alla filosofia prima. Con saggi integrativi, Bompiani, 2004.

Quest’opera, pubblicata originariamente nel 1977, è uno dei più importanti lavori di Berti. Essa si può considerare sia uno studio introduttivo ad Aristotele, di cui si passano in rassegna la vita, le opere, l’ambiente accademico e l’insegnamento, ma anche e soprattutto un saggio teoretico sulle costanti del pensiero metafisico: le idee, le categorie, i princìpi primi, le quattro cause, l’essere e il divenire. Il volume è arricchito da una serie di saggi dell’autore che completano il quadro della “filosofia prima” di Aristotele.


Aristotele. Eubulo o della richezza. Dialogo perduto contro i governanti ricchi, Guida, 2004.

Il dialogo qui presentato è la ricostruzione immaginaria di un dialogo perduto di Aristotele, intitolato Della ricchezza, del quale si sono conservate solo tre citazioni. Si tratta chiaramente di un falso, confezionato tuttavia secondo criteri di verosimiglianza, cioè sulla scorta di notizie storiche accertate sull’Atene dell’epoca e sulle vite dei personaggi in esso coinvolti, nonché di brani tratti dalle opere conservate di Platone e di Aristotele. Il dialogo ha luogo nell’Accademia platonica, nell’anno 350 a. C., cioè tre anni prima della morte di Platone, e ha come personaggi Platone, lo stesso Aristotele, Speusippo, Senocrate e Teofrasto. Nella finzione esso porta come titolo Eubulo, nome di un imprenditore, noto soprattutto per la sua ricchezza, che realmente governò Atene a quel tempo.


Filosofia pratica, Guida, 2004.

L’espressione “filosofia pratica” compare per la prima volta in Aristotele e in contrapposizione a quella teoretica: mentre quest’ultima ha per fine la verità ossia la conoscenza di come e di perché le cose stanno in un certo modo, la filosofia pratica ha per fine l’opera, cioè mira a conoscere e a rendere possibile un certo tipo di azione, in particolare l’azione buona e quindi tende a rendere migliore colui che agisce. Quindi il fine, lo scopo della filosofia pratica è il tentativo di raggiungere la perfezione dell’uomo stesso.


Nuovi studi aristotelici, vol. 1: Epistemologia, logica e dialettica, Morcelliana, 2004.

Il volume è il primo di un’opera che raccoglierà in quattro volumi l’insieme degli scritti di uno fra i maggiori specialisti della logica e della dialettica di Aristotele.


Aristotele. Il primo libro della «Metafisica» (con C. Rossitto), Laterza, 2005.


Nuovi studi aristotelici. 2 – Fisica, antropologia e metafisica, Morcelliana, 2005.

Il secondo volume degli studi aristotelici, dedicato a metafisica, fisica e antropologia, scritto dal maggior specialista italiano di Aristotele. Un libro che è una vera e propria introduzione alla “Metafisica” di Aristotele. L’Autore insegna storia della filosofia all’Università di Padova.


 

Soggetti di responsabilità. Questioni di filosofia pratica, Diabasis, 2005.


Incontri con la filosofia contemporanea, Petite Plaisance, 2006.

Il volume raccoglie più di venti saggi pubblicati dall’autore negli ultimi quindici anni e difficilmente reperibili, perché usciti in riviste a diffusione variabile e in atti di convegni accessibili per lo più ai soli partecipanti.
A differenza di altre raccolte dell’autore, che riuniscono saggi di carattere storico, questa contiene interventi di carattere prevalentemente teorico, suscitati da discussioni su filosofi contemporanei e con filosofi contemporanei. L’autore infatti è convinto che la ricerca storica e l’esercizio teorico della filosofia siano tra loro complementari e che non sia possibile praticare l’una delle due attività senza coltivare contemporaneamente anche l’altra.
I primi cinque saggi riguardano la dialettica, intesa nel senso antico del termine, che ha ritrovato una diffusa presenza nella filosofia contemporanea come tipo di argomentazione specificamente filosofica. I successivi sette saggi riguardano invece la metafisica, di cui viene presentata una versione in gran parte nuova, capace – secondo l’autore – di reggere il confronto con la filosofia contemporanea, sia nella sua versione ermeneutica e “continentale” che in quella analitica anglo-americana. Seguono altri sette saggi su temi di filosofia pratica, quali l’identità personale, l’idea di bene comune, i diritti umani e le pratiche filosofiche. Il volume si conclude infine con un’appendice di carattere parzialmente autobiografico, ma riguardante anche il problema dell’insegnamento della filosofia.


Struttura e significato della “Metafisica” di Aristotele, Edusc, 2006.


Aristotele e l’ontologia (con Bruno centrone e Paolo Fait), Alboversorio, 2007.

Le tesi di Aristotele rappresentano un punto di riferimento imprescindibile per chiunque si occupi di ontologia. Da lui, infatti, derivano gran parte dei termini ancora oggi utilizzati e dei problemi su cui non si è mai smesso di discutere. Questo libro permette, al lettore interessato, di avvicinarsi ad alcune prospettive contemporanee sull’argomento espresse da alcuni dei maggiori studiosi italiani.


Introduzione alla metafisica, Utet università, 2007.


Storia della filosofia. Dalla’antichità ad oggi.
Con materiali per il docente.
Ediz. compatta. Con espansione online. Per le Scuole superiori (con Franco Volpi), Laterza, 2007.


Antologia di filosofia. Dall’antichità ad oggi.
Con espansione online. Per le Scuole superiori (con Cristina Rossitto e Franco Volpi), Laterza, 2008.


Aristotele nel Novecento, Laterza, 2008.

La filosofia di Aristotele è un caso forse unico, nella storia, di “sistema aperto”, cioè di filosofia che è un vero sistema, dotato di una grande differenziazione interna, ma anche di una certa unità; ed è anche un sistema aperto, suscettibile di continue integrazioni, anzi di molteplici usi, data la sua grande versatilità, attestata da una fortuna tra le più longeve che mai si siano date e da una presenza massiccia nella stessa filosofia del Novecento. A essa si possono attingere concetti, categorie, distinzioni, dottrine, adoperabili per gli usi più svariati, nelle più diverse direzioni, sia filosofiche che scientifiche, sia teoretiche, cioè logico-metafisiche, che pratiche, cioè etico-politiche, per non parlare degli usi a fini poetici e retorici. Ma questi concetti, distinzioni, dottrine funzionano, cioè rispondono allo scopo per cui vengono impiegati, solo se sono utilizzati nel rispetto del loro significato originario. Si tratta di una coerenza non rigida, ma elastica, di una logica non monolitica, ma articolata e duttile, Dall’esistenzialismo di Heidegger alla filosofia pratica di Gadamer, dalla “nuova retorica” di Perelman e Toulmin alla nuova scienza di Prigogine e Jacob, alla nuova epistemologia di Kuhn e Feyerabend, Enrico Berti ritrova le tracce dell’inesauribile forza del pensiero aristotelico.


Dialectique, physique et métaphysique. Études sur Aristote, Éditions Peeters, 2008.

This volume contains around twenty articles, many of them already published elsewhere, but translated into French for the first time. They all deal with the dialectics, the physics and the metaphysics of Aristotle.


Aristotele, Protreptico. Esortazione alla filosofia (a cura di), Utet, 2008.


In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, Laterza, 2008.

La meraviglia è consapevolezza della propria ignoranza e desiderio di sottrarvisi, cioè di apprendere, di conoscere, dI sapere. Ecco perché proprio la meraviglia, secondo Aristotele, è l’origine della filosofia, ovvero della ricerca disinteressata di sapere. Stato d’animo raro e prezioso, la meraviglia è la sola espressione della vera libertà. Enrico Berti rilegge il pensiero dei grandi filosofi della classicità e costruisce un percorso attraverso le domande senza tempo che la filosofia occidentale ha continuato a porsi, formulate per la prima volta dai Greci.


Nuovi studi aristotelici. Vol. 3 Filosofia pratica, Morcelliana, 2008.

Il presente volume, terzo della serie dei Nuovi studi aristotelici, raccoglie gli scritti concernenti la “filosofia pratica” di Aristotele, contenuta nelle due Etiche autentiche (Nicomachea e Eudemea), e la filosofia politica, contenuta nella Politica. Come è noto, per Aristotele queste ultime due discipline sono parti di un’unica scienza, da lui chiamata più volte “scienza politica” e, almeno una volta, “filosofia pratica”. Perciò non ho diviso il volume in sezioni, come invece ho fatto nei volumi precedenti. Ho scelto, come sottotitolo dell’intera raccolta, “filosofia pratica”, perché questa espressione è diventata attuale dopo la cosiddetta “riabilitazione (o rinascita) della filosofia pratica”, movimento sviluppatosi nel corso degli anni Settanta del Novecento e ancora non del tutto esaurito.(dalla Prefazione)


Ser y tiempo en Aristótele, Editorial Biblios, 2008.

Enrico Berti, uno de los más reconocidos especialistas de Aristóteles, introduce este libro con una reseña de la presencia de Aristóteles en la Contemporánea. Luego desarrolla una exposición clara y profunda de la postura aristotélica, que va desde el tiempo cósmico de la Física hasta el tiempo humano de la Poética y la Ética. En el recorrido que realiza también visita la Metafísica, pero también obras menos transitadas, como De la memoria y la reminiscencia. Además, confronta la postura de Aristóteles con uno de los trabajos más determinantes de la Contemporánea: Ser y tiempo de Martin Heidegger.

Enrico Berti (1935) es profesor emérito de la Universidad de Padua. Enseñó filosofía en las universidades de Perugia, Padua, Ginebra, Bruselas y Lugano. Ha sido presidente nacional de la Sociedad Filosófica italiana, vicepresidente del Institut International de Philosophie y de la Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie. Es socio nacional de la Accademia dei Lincei y miembro de la Pontificia Academia de las Ciencias.


Struttura e significato della “Metafisica” di Aristotele, Edusc, 2008.

La Metafisica è l’opera più famosa di Aristotele. Si tratta degli appunti che Aristotele preparava per le sue lezioni all’interno del Peripato. Lo Stagirita pone qui i problemi fondamentali sull’essere e sul perché del divenire ricercandone le cause e i principi primi.


En el principio era la maravilla. Las grandes preguntas de la filosofía antigua,
traducción de Helena Aguilà, Madrid, Editorial Gredos, 2009.


Nuovi studi aristotelici.
Vol. 4\1. L’influenza di Aristotele. Antichità, Medioevo e Rinascimento, Morcelliana, 2009.

Il libro vuole essere un contributo allo studio della cosiddetta tradizione aristotelica, dell’influenza esercitata da Aristotele sull’intera storia della cultura “occidentale” (termine nel quale va compresa anche la cultura islamica). Tale influenza è stata sia di tipo positivo, nel senso che le dottrine di Aristotele sono state accolte, interpretate e trasformate dai filosofi posteriori, sia di tipo negativo, nel senso che esse sono state oggetto di critiche e spesso di dure polemiche, ma anche in questo caso hanno condizionato le filosofie posteriori. Del primo tipo è l’influenza esercitata da Aristotele sugli aristotelici: su Teofrasto, Aspasio, Alessandro di Afrodisia, Porfirio, i filosofi arabi ed ebrei, Tommaso d’Aquino, Marsilio da Padova, Giacomo Zabarella, William Harvey. Del secondo tipo è invece l’influenza esercitata da Aristotele sui suoi “avversari”: l’epicureo Filodemo di Gadara, Plotino, Bonaventura da Bagnoregio, Niccolò Cusano, Galileo Galilei. Un caso particolare è costituito dal rapporto tra la filosofia di Aristotele e il primo cristianesimo, emblematicamente rappresentato dal discorso di san Paolo agli Ateniesi, dove l’influenza di Aristotele è ravvisabile nel contributo da lui dato alla formazione di quel concetto di “Dio dei filosofi” che Paolo ripropone consapevolmente agli Ateniesi, ma al fine di integrarlo e superarlo nella rivelazione cristiana.


A partire dai filosofi antichi  (con Luca Grecchi), Il Prato, 2010.

I problemi filosofici esaminati vengono presentati nella forma di una discussione avvincente che rievoca l’andamento dei dialoghi platonici, in cui la verità emerge dal movimento del discorso che, nel suo correre incessantemente da un interlocutore all’altro, si fa «dia-logo» nel senso più alto. Del resto, i temi trattati dai due autori sono tra i più importanti tra quelli su cui si è andata formando la civiltà occidentale: il valore veritativo della filosofia, il rapporto tra fede e sapere, la morale, l’educazione, il ruolo dell’uomo, la libertà, la politica, la morte, l’ontologia, la metafisica, la critica, e moltissimi altri ancora. Ad accomunare, nel libro, questi temi così vasti ed eterogenei è il punto di partenza da cui ciascuno di essi viene sviluppato: il mondo dell’antica filosofia greca, concepita sia da Berti sia da Grecchi come fonte originaria delle «domande fondamentali» dell’uomo occidentale e come tentativo di elaborazione di alcune grandiose soluzioni che continuano a esercitare un fascino intramontabile. La filosofia greca fa da sfondo anche alle considerazioni svolte da Berti e da Grecchi intorno al pensiero di Kant, di Hegel e di Marx. A partire, appunto, dai «filosofi antichi», i due studiosi ripercorrono in maniera dialogica, anche attraverso la cinquantennale esperienza accademica di Enrico Berti, i nodi maggiori della tradizione filosofica e le problematiche fondamentali del nostro presente.


Nuovi studi aristotelici.
Vol. 4/2. L’influenza di Aristotele. L’età moderna e contemporanea, Morcelliana, 2010.

l secondo tomo del volume dedicato all’influenza di Aristotele comprende saggi relativi all’età moderna e all’età contemporanea. Per l’età moderna è evidente la persistenza della filosofia pratica di Aristotele, la quale, dopo essersi eclissata nell’antichità ellenistica e nella tarda antichità, ed essere stata riscoperta nel medioevo, sia musulmano che ebraico e cristiano, sopravvive nel Seicento e nel Settecento, soprattutto in Germania.Per quanto riguarda l’Ottocento i saggi riguardano la critica di Hegel al principio di non contraddizione, e l’influenza di Aristotele sui critici di Hegel: Feuerbach, Trendelenburg, Marx e Kierkegaard. Per la Germania è anche massiccia l’influenza di Aristotele su Brentano e, attraverso di lui, su tutti i suoi discepoli, da Husserl a Meinong, a Twardowski, a Freud. Interessante è anche il rapporto intrattenuto con Aristotele da Paul Natorp, che ebbe ad influenzare, insieme con la dissertazione di Brentano, Martin Heidegger.I capitoli dedicati all’età contemporanea illustrano la presenza di Aristotele in Heidegger e nella filosofia analitica inglese, ovvero nell’analisi del linguaggio ordinario condotta da J. Austin, G. Ryle, P. Strawson, D. Wiggins e altri. Indi illustrano la cosiddetta riabilitazione della filosofia pratica, prima in Germania, ad opera di filosofi come H.-G. Gadamer e J. Ritter, e poi negli USA, ad opera di A. MacIntyre, H. Jonas, Martha C. Nussbaum.


Profilo di Aristotele, Studium, 2010.

La filosofia di Aristotele, pur avendo dominato per circa due millenni la cultura occidentale ed essendo di conseguenza stata oggetto di innumerevoli contestazioni, continua a rappresentare un punto di riferimento obbligato nel dibattito filosofico odierno. Recentemente si è anzi dovuta registrare una vera a propria Aristoteles-Renaissance, che ha diffuso ed aumentato l’interesse per questo pensatore nei settori più diversi della vita culturale. All’Aristotele considerato tradizionalmente padre della sillogistica e della teologia razionale si è affiancato e spesso sostituito un Aristotele nuovo, maestro di filosofia del linguaggio, di dialettica, di metodologia della ricerca scientifica, di fenomenologia ontologica, ma soprattutto di filosofia pratica (etica e politica). Questo rinnovato interesse non è stato tuttavia sempre accompagnato da una conoscenza diretta, sufficientemente completa e veramente spregiudicata, delle sue opere. Questo libro delinea, sia pure in modo succinto, tutti i principali aspetti sia della personalità sia del pensiero del filosofo greco, facendoli emergere direttamente dai testi e ponendoli continuamente a confronto con la problematica filosofica attuale.


Sumphilosophein. La vita nell’Accademia di Platone, Laterza, 2010.

Cosa accadeva nell’Accademia di Platone? Di che si discuteva? Quali idee vi sono nate? E come vi sono nate? Quale valore ha avuto questa scuola fondata e diretta da un filosofo della grandezza di Platone e frequentata per vent’anni dal suo non meno famoso discepolo, Aristotele? Nata nel 387 a.C. come scuola di formazione degli uomini politici, l’Accademia fu in realtà la prima vera scuola di filosofia. Platone infatti riteneva che il politico debba essere anche filosofo, poiché deve conoscere che cosa è bene, giusto e utile alla città. Ma era una scuola anomala, in cui non c’erano solo un maestro che insegnava e degli allievi che apprendevano, ma una comunità di persone che cercavano insieme la verità nel campo delle scienze, della filosofia, dell’etica e della politica. A questa ricerca comune si riferisce Aristotele, che frequentò l’Accademia per vent’anni, quando nell’Etica Nicomachea scrive che quanti amano la filosofia desiderano “filosofare insieme” (sumphilosophein), cioè cercare la verità con gli amici. Il libro ricostruisce l’ambiente dell’Accademia, illustrandone il momento storico, il luogo fisico, le persone che la frequentavano, le strutture che la componevano, i dibattiti che vi si svolgevano. Ne risulta un quadro estremamente ricco, variegato e movimentato di posizioni filosofiche che restituisce lo spirito di ricerca comune, quella dialettica fatta di “domande, risposte e amichevoli confutazioni”, dalla quale sprizza la conoscenza del vero.


 

Invito alla filosofia, La Scuola, 2011.

Un libro per chiunque voglia accostarsi ad un sapere che parte dal sentimento della meraviglia per arrivare ad esercitare un uso consapevole della ragione. Un invito per chiunque sia alla ricerca di motivazioni (esistenziali, religiose, etiche, scientifiche, politiche) e voglia porre domande per scoprire la verità partendo da opinioni consolidate. Perché la filosofia, nel suo stesso modo di procedere dialettico-confutatorio, esalta l’essenza umana che si fonda sul ragionamento.


Preguntas de la filosofía antigüa, Tapa blanda, 2001.

Muchas de las grandes preguntas que la filosofía occidental ha seguido planteándose las formularon por primera vez los griegos. No todas, claro está. Por ejemplo, los griegos no se preguntaron cuáles eran, a priori, las condiciones del conocimiento, o qué leyes rigen la historia, o cómo indagar en el subconsciente del hombre y otras cosas por el estilo. Pero las preguntas que plantearon, a excepción de unas pocas (por ejemplo: ¿quiénes son los dioses?), son las mismas con las que se ha seguido enfrentando la filosofía occidental a lo largo de los siglos. Enrico Berti recorre el pensamiento de los grandes filósofos clásicos y traza un sorprendente itinerario a través de las preguntas sin tiempo que la filosofía occidental ha seguido planteándose y que los griegos formularon por primera vez: ¿Qué es el hombre? ¿Qué es la felicidad? ¿Quiénes son los dioses? ¿Cuál es nuestro destino?


Profilo di Aristotele, Studium, 2012.

La filosofia di Aristotele, pur avendo dominato per circa due millenni la cultura occidentale ed essendo di conseguenza stata oggetto di innumerevoli contestazioni, continua a rappresentare un punto di riferimento obbligato nel dibattito filosofico odierno. Recentemente si è anzi dovuta registrare una vera a propria Aristoteles-Renaissance, che ha diffuso ed aumentato l’interesse per questo pensatore nei settori più diversi della vita culturale. All’Aristotele considerato tradizionalmente padre della sillogistica e della teologia razionale si è affiancato e spesso sostituito un Aristotele nuovo, maestro di filosofia del linguaggio, di dialettica, di metodologia della ricerca scientifica, di fenomenologia ontologica, ma soprattutto di filosofia pratica (etica e politica). Questo rinnovato interesse non è stato tuttavia sempre accompagnato da una conoscenza diretta, sufficientemente completa e veramente spregiudicata, delle sue opere. Questo libro delinea, sia pure in modo succinto, tutti i principali aspetti sia della personalità sia del pensiero del filosofo greco, facendoli emergere direttamente dai testi e ponendoli continuamente a confronto con la problematica filosofica attuale.


Studi aristotelici. Nuova edizione riveduta e corretta, Morcelliana, 2012.

Il dovere di introdurre, e con ciò di giustificare nella sua unità, la presente raccolta mi fornisce l’occasione più opportuna per riflettere sulle ricerche da me compiute in questi anni e anche per risalire alle origini del mio interesse per Aristotele, allo scopo di determinarne il più esattamente possibile il senso e l’orientamento generale. Uno dei fili conduttori dei miei lavori è la persuasione del valore classico, cioè perenne, e quindi anche attuale di certe istanze del pensiero aristotelico. Si tratta di una valutazione di ordine teoretico, o filosofico, che oggi, a causa dell’imperante storicismo e del conseguente relativismo, può sembrare, nel migliore dei casi, ingenua. Tuttavia è una persuasione a cui tengo particolarmente; non ho difficoltà infatti a confessare che, se non la possedessi, non riuscirei a dare alcun senso al lavoro fatto. Le ragioni del valore classico della metafisica antica si trovano nel rilevamento, da parte di Aristotele, di un’inadeguatezza tra il sistema platonico e il problema da cui ogni filosofo deve prendere le mosse, cioè la problematicità integrale e assoluta. Questa problematicità si esprime in un “domandare tutto”, che è insieme un “tutto domandare”, in una domanda che investe la totalità del reale e, per il fatto di escludere ogni precedente certezza, è integralmente domanda; e si identifica con la stessa esperienza intesa come conoscenza di tutto e insieme domanda della ragione di tutto.


Sumphilosophein. La vita nell’Accademia di Platone, Laterza, 2012.

Cosa accadeva nell’Accademia di Platone? Di che si discuteva? Quali idee vi sono nate? E come vi sono nate? Quale valore ha avuto questa scuola fondata e diretta da un filosofo della grandezza di Platone e frequentata per vent’anni dal suo non meno famoso discepolo, Aristotele? Nata nel 387 a.C. come scuola di formazione degli uomini politici, l’Accademia fu in realtà la prima vera scuola di filosofia. Platone infatti riteneva che il politico debba essere anche filosofo, poiché deve conoscere che cosa è bene, giusto e utile alla città. Ma era una scuola anomala, in cui non c’erano solo un maestro che insegnava e degli allievi che apprendevano, ma una comunità di persone che cercavano insieme la verità nel campo delle scienze, della filosofia, dell’etica e della politica. A questa ricerca comune si riferisce Aristotele, che frequentò l’Accademia per vent’anni, quando nell’Etica Nicomachea scrive che quanti amano la filosofia desiderano “filosofare insieme” (sumphilosophein), cioè cercare la verità con gli amici. Il libro ricostruisce l’ambiente dell’Accademia, illustrandone il momento storico, il luogo fisico, le persone che la frequentavano, le strutture che la componevano, i dibattiti che vi si svolgevano. Ne risulta un quadro estremamente ricco, variegato e movimentato di posizioni filosofiche che restituisce lo spirito di ricerca comune, quella dialettica fatta di “domande, risposte e amichevoli confutazioni”, dalla quale sprizza la conoscenza del vero.


Aristotele e la democrazia,
in C. Rossitto, A. Coppola, F. Biasutti (a cura), Aristotele e la storia, Padova, CLEUP, 2013.


Aristotele, La Scuola, 2013.

«Tutti gli uomini per natura tendono al sapere. Segno ne è l’amore per le sensazioni: essi amano le sensazioni per se stesse, anche indipendentemente dalla loro utilità e, più di tutte, amano la sensazione della vista. In effetti, non solo ai fini dell’azione, ma anche senza avere alcuna intenzione di agire, noi preferiamo il vedere, in certo senso, a tutte le altre sensazioni. E il motivo sta nel fatto che la vista ci fa conoscere più di tutte le altre sensazioni e ci rende manifeste numerose differenze fra le cose». Metafisica, libro I.


The Classical Notion of Person and Its Criticism by Modern Philosophy,
in B. Babich and D. Ginev (eds.), The Multidimensionality of Hermeneutic Phenomenology, Heidelberg-New York-Dordrecht-London, Springer, 2013.


La phronêsis nella filosofia antica,
in A. Fidora, A. Niederberger, M. Scattola (eds.),
Phronêsis – prudentia – Klugheit. Das Wissen der Kluge in Mittelalter, Renaissance und Neuzeit, Fédération Internationale des Instituts d’Études Médiévales, Porto, 2013.


Mente e anima: due entità?,
in G. Erle (a cura), Il limite e l’infinito. Studi in onore di Antonio Moretto, Bologna, Archetipolibri, 2013.

La ricerca filosofica di Antonio Moretto segna una tappa fondamentale e innovativa all’interno della letteratura scientifica a proposito del rapporto tra filosofia e matematica. Questo vale in primo luogo, ma non solo, per una rinnovata comprensione della filosofia classica tedesca che rendeva necessario mostrare la rilevanza della conoscenza congiunta della storia e della teoria della matematica in autori come Kant e Hegel. Questi studi, assieme a quelli che egli ha dedicato a Descartes, Leibniz, Wolff, mostrano come i concetti matematici di finito e infinito racchiudano, nelle loro esigenze tecniche, un’urgenza profondamente umana, quella di dare senso, “mensurare” nell’accezione più ampia del termine. Sotto questo profilo, il passaggio per le scienze esatte nelle ricerche di Moretto non è affatto astratto, ma costituisce il necessario cammino verso quella che Kant avrebbe chiamato “la porta stretta”, varcata la quale meglio si comprendono anche le altre parti del sistema della filosofia, così come proprio Moretto ha dimostrato dedicandosi a discutere altresì questioni di etica, di filosofia della medicina, psicologia della percezione e, perché no?, della poesia di Albrecht von Haller. Coerentemente con questo percorso di ricerca, gli autori degli scritti che costituiscono questo volume si sono impegnati a mostrare la ricchezza di significati e valenze che i concetti di limite e di infinito possono assumere all’interno delle scienze filosofiche.


Una metafisica (epistemologicamente) «debole»,
n G. Riconda e C. Ciancio (a cura), Filosofi italiani contemporanei, Mursia, 2013.

Il volume presenta i risultati di un ciclo di seminari tenuti all’Università di Padova nel 2011 e 2012, all’interno del Progetto di Ateneo Filosofia e storia nel pensiero politico di Aristotele. Il tema generale è il ruolo della storia nel pensiero aristotelico, secondo le più ampie accezioni del termine. Innanzitutto che uso fa Aristotele dei dati storici, come e a qual fine li utilizza e qual è per lui il valore epistemologico della storia? Storia significa anche storiografia, cioè resoconto scritto dei fatti: possiamo capire il rapporto fra il filosofo e gli storici e tra la storiografia e la politica? I contributi qui raccolti aggiungono materia a queste riflessioni raccogliendo e confrontando punti di vista di storici dell’antichità e di storici della filosofia.


Aristotele,
in U. Eco (a cura), L’Antichità, 5. Grecia, Filosofia, EM Publishers srl., 2014.


Aristóteles. Pensamento dinàmico, Ideas Letras, 2014.

Neste volume, o leitor terá a oportunidade de conhecer o pensamento de Aristóteles, um dos maiores nomes da Filosofia na Antiguidade. A visão aristotélica é apresentada de modo sintetizado, por meio da análise das obras de Aristóteles, dos conceitos-chave de sua filosofia e seus desdobramentos na sociedade atual.


Il bene di chi? Bene pubblico e bene privato nella storia, Marietti, 2014.

Un affresco dell’intrecciarsi di bene pubblico e bene privato nella storia della civiltà occidentale. Enrico Berti fa comprendere le complesse radici culturali della situazione attuale e apre domande cruciali, da un lato sul destino e la sopravvivenza dello Stato e dall’altro sul fine dell’uomo e sulle condizioni di possibilità della vita sociale. Il libro è arricchito da un dialogo sul tema tra l’autore e i partecipanti alla “Lectio Magistralis” tenuta nel corso di una delle sessioni del 2013 della Winter School, centro di studi sociali, culturali e politici. Prefazione di Giovanni Maddalena.


Il luogo dei corpi secondo Aristotele,
in Lessico Intellettuale Europeo, Locus-spatium. XIV Colloquio Internazionale,
a cura di D. Giovannozzi e M. Veneziani, Olschki, 2014


La ricerca della verità in filosofia, Studium, 2014.

La verità è oggi temuta come una forma di violenza, specialmente da parte dei filosofi post-moderni. Questo timore spesso è dovuto a una concezione ideologica della verità come valore assoluto da imporre a tutti, mentre esso è del tutto ingiustificato rispetto alla concezione classica della verità, non riducibile alla teoria della verità come corrispondenza. In base alla teoria classica si danno diversi tipi di verità, verità di fatto e verità di ragione, verità storiche e verità scientifiche, verità di fede e verità poetiche: alcune facili da scoprire, altre implicanti complesse e faticose ricerche. In filosofia la ricerca della verità avviene in modi diversi, secondo il tipo di filosofia che si pratica, che può essere trascendentale, dialettico, fenomenologico, analitico-linguistico, ermeneutico, dialogico-confutativo. Un caso di ricerca della verità in filosofia è costituito dalla metafisica, intesa non nel senso tradizionale di ontologia o teologia razionale, bensì come metafisica problematica e dialettica, epistemologicamente debole ma logicamente forte. Esiste anche una verità pratica, che riguarda non la legge morale, ma il desiderio della felicità intesa come pieno sviluppo della persona umana, nel singolo individuo e nella polis.


Prologo a L. E. Varela, Filosofía práctica y prudencia. Lo universal y lo particular en la ética de Aristóteles, Editorial Biblos, 2014.

El trabajo se sostiene en un conocimiento completo y perfecto de toda la obra de Aristóteles concerniente a la ética, no sólo a la Ética nicomaquea y a la Ética eudemia, sino también a la Gran Ética y al Protréptico. Los textos de estas obras son analizadas de manera precisa y rigurosa, y el análisis de ellos es siempre acompañado por una discusión de las interpretaciones suministradas por la literatura crítica, con la cual Varela está constantemente en diálogo. De ello resulta una contribución de gran claridad, equilibrio, riqueza de información y de profundización, que lo hace extremadamente útil para una relectura y una valoración nueva, plenamente satisfactoria, de la ética aristotélica. 

Luis Enrique Varela. Doctor en Filosofía (Universidad del Salvador). Es actualmente profesor de Ética y de Metafísica en la Universidad Nacional de Mar del Plata. Asimismo, dicta Historia de la Filosofía Antigua en la carrera del Doctorado en Filosofía, y Ética dentro de la enseñanza de grado en la Universidad Nacional de Lanús. Dirige proyectos de investigación en temas de filosofía práctica y de metafísica tanto en la UNMDP como en la UNLA. También se desempeña como profesor de Historia de la Filosofía Antigua y del Seminario de Filosofía Práctica I en la carrera de filosofía de la Universidad de Ciencias Empresariales y Sociales (UCES). Además dicta materias de filosofía en la carrera de Filosofía del Instituto Superior del Profesorado “Joaquín V. González”.Como director del Círculo de Actualización en Filosofía de la Fundación Descartes, organizó junto con Germán García el “Encuentro Internacional Descartes 400” (1996) y “Lacan y la cultura filosófica” (2001).Es autor de numerosos

Enrico Berti (1935) es profesor emérito de la Universidad de Padua. Enseñó filosofía en las universidades de Perugia, Padua, Ginebra, Bruselas y Lugano. Ha sido presidente nacional de la Sociedad Filosófica italiana, vicepresidente del Institut International de Philosophie y de la Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie. Es socio nacional de la Accademia dei Lincei y miembro de la Pontificia Academia de las Ciencias.


What Remains of Aristotle’s Metaphysics Today?,
in C. Baracchi (ed.), The Bloomsbury Companion to Aristotle, Bloomsbury, 2014.

Aristotle is one of the most crucial figures in the history of Western thought, and his name and ideas continue to be invoked in a wide range of contemporary philosophical discussions. The Bloomsbury Companion to Aristotle brings together leading scholars from across the world and from a variety of philosophical traditions to survey the recent research on Aristotle’s thought and its contributions to the full spectrum of philosophical enquiry, from logic to the natural sciences and psychology, from metaphysics to ethics, politics, and aesthetics. Further essays address aspects of the transmission, preservation, and elaboration of Aristotle’s thought in subsequent phases of the history of philosophy (from the Judeo-Arabic reception to debates in Europe and North America), and look forward to potential future directions for the study of his thought.
In addition, The Bloomsbury Companion to Aristotle includes an extensive range of essential reference tools offering assistance to researchers working in the field, including a chronology of recent research, a glossary of key Aristotelian terms with Latin concordances and textual references, and a guide to further reading.

List of Contributors \ Acknowledgments \ Corpus Aristotelicum \ “Introduction: Paths of Inquiry” Claudia Baracchi \ Part I: Questions \ 1. Logos \ Saying What One Sees, Letting See What One Says: Aristotle’s Rhetoric and the Rhetoric of the Sophists Barbara Cassin \ Aristotelian Definition: On the Discovery of Archai Russell Winslow \ 2. Phusis \ Aristotle on Sensible Objects: Natural Things and Body Helen Lang \ On Aristotle’s Formula: Physics IV. 11, 14 Rémi Brague \ 3. Psuchê \ Phantasia in De Anima Eric Sanday \ Mind in Body in Aristotle Erick Raphael Jiménez \ The Hermeneutic Slumber: Aristotle’s Reflections on Sleep Marcia Sá Cavalcante Schuback \ 4. Philosophia Prôtê \ First Philosophy Alejandro Vigo \ First Philosophy and the History of Being in Aristotle’s Metaphysics Spyridon Rangos \ 5. Êthos \ Aristotle on Human Nature and the Foundations of Ethics, with an “Addendum” Martha C. Nussbaum \ The Visibility of Goodness Pavlos Kontos \ To Kakon Pollachôs Legetai: The Poly-vocity of the Notion of Evil in Aristotelian Ethics Arianna Fermani \ 6. Polis \ Education: The Ethico-Political Energeia Michael Weinman \ 7. Poiêsis \ Toward the Sublime Calculus of Aristotle’s Poetics Kalliopi Nikolopoulou \ Part II: Disseminations \ Aristotle on the Natural Dwelling of Intellect Idit Dobbs-Weinstein \ The Peripatetic Method: Walking with Woodbridge, Thinking with Aristotle Christopher Long \ What Remains of Aristotle’s Metaphysics Today? Enrico Berti \ Would Aristotle Be a Communitarian? Pierre Aubenque \ Glossary (Erick Raphael Jiménez) \ Chronology of Recent Research (Benjamin J. Grazzini) \ Bibliography (Erick Raphael Jiménez) \ Resources (Benjamin J. Grazzini and Erick Raphael Jiménez) \ Sources of Translated/Reprinted Essays \ General Index


Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, Morcelliana, 2015.

“Contraddizione” e “dialettica” sono due delle categorie costitutive della filosofia, fin dalla sua nascita nella Grecia del V secolo. Nei capitoli che sono idealmente una storia del pensiero occidentale – il lettore trova la chiara e puntuale ricostruzione dei tanti significati assunti da “contraddizione”, “non contraddizione”, “dialettica” tra Parmenide, Eraclito, Socrate, Platone e Aristotele, tra Kant e Hegel, tra Marx, Popper e la logica contemporanea. Sono categorie in cui è in gioco non solo il rigore della ragione: nella possibilità o no di superare il principio di non contraddizione è in questione la cosa stessa del pensiero. Considerando che lo stesso principio di non contraddizione si dice in più modi. Temi cui Enrico Berti ha dedicato più di cinquant’anni di studi, e che trovano qui un compendio.


È bene definire il bene?, Orthotes, 2015.

Il punto di partenza assunto nel saggio è la definibilità del bene, una volta che ci si occupi di esso non in quanto assoluto e irraggiungibile, ma piuttosto vedendolo come bene umano, praticabile e realizzabile. Come tale, esso è l’oggetto delle aspirazioni umane e concretamente indicato nei diritti fondamentali, nelle varie libertà e nei diritti politici, che documenti ufficiali hanno ormai sancito. Da Aristotele fino alla sua ripresa da parte di Martha Nussbaum, la felicità, per quanto fragile, si sostanzia proprio di questi beni, che possono essere presentati come vere e proprie “capacità”. Completa il testo un intervento di Berti sull’Etica nicomachea di Aristotele, da cui emerge il carattere pratico di una filosofia che punti a definire che cos’è il bene, ossia aristotelicamente la felicità, per l’uomo.


Aristotelismo, il Mulino, 2017.

A partire dagli autori fondativi, le diverse correnti di pensiero vengono caratterizzate attraverso l’esposizione dei loro temi portanti e delle figure in cui si sono concretati.


Guida ad Aristotele.
Logica, Fisica, Cosmologia, Psicologia, Biologia, Metafisica, Etica, Politica, Poetica, Retorica
, Laterza, 2017.

Un manuale in cui i maggiori studiosi di Aristotele analizzano e descrivono in modo sistematico e completo il pensiero del filosofo, attraverso le singole opere, seguendo un metodo rigorosamente storico, senza interpretazioni ideologiche o di parte.


Introduzione alla metafisica,
seconda edizione, UTET, 2017.

La nuova edizione dell’Introduzione alla metafisica di Enrico Berti ripropone la concezione originale della metafisica che l’Autore va presentando da anni, la quale ha suscitato l’interesse degli studiosi di filosofia, come dimostrano le traduzioni dell’opera in altre lingue. Essa contiene alcune correzioni rispetto all’edizione precedente, dovute a ulteriori studi, e soprattutto è corredata da cinque appendici, costituite da altrettanti articoli sul tema, pubblicati dall’Autore negli anni più recenti. L’opera comprende una parte storica, che illustra le diverse forme di metafisica elaborate nella filosofia occidentale, e una parte teoretica, che difende le ragioni di un certo tipo di metafisica, caratterizzata come «metafisica dell’esperienza», sviluppando gli spunti forniti in questa direzione dalla «scuola padovana» facente capo a Marino Gentile. Nel complesso si tratta di una delle rare proposte italiane di una filosofia autenticamente metafisica, in linea con la grande tradizione della «metafisica classica» di ispirazione aristotelica, ma al tempo stesso essenzializzata e aggiornata in modo da tenere conto delle critiche e delle esigenze del pensiero contemporaneo. Il rifiorire di interesse per la metafisica, manifestatosi soprattutto nell’ambito della filosofia analitica, conferma l’attualità dell’opera.


Tradurre la “Metafisica” di Aristotele, Morcelliana, 2017.

«Essendomi recentemente cimentato con l’arduo compito di tradurre la Metafisica di Aristotele, il libro forse più difficile dell’intera storia della filosofia, mi sono imbattuto in una serie di problemi, alcuni dei quali previsti e altri invece imprevisti, che hanno reso l’impresa, oltre che ardua, anche affascinante». Affrontando problemi inerenti alla trasmissione del testo, alla traduzione e alla interpretazione, Berti mostra – contro una lettura teologizzante, di origine neoplatonica – il tratto problematico della filosofia aristotelica: la metafisica non è né teologia, né ontologia, ma scienza delle cause prime.


Aristotele Eubulo e la ricchezza. Dialogo immaginario con Platone, Guida, 2019.

Il dialogo qui presentato è la ricostruzione immaginaria di un dialogo perduto di Aristotele, intitolato Della ricchezza, del quale si sono conservate solo tre citazioni. Si tratta chiaramente di un falso, confezionato tuttavia secondo criteri di verosimiglianza, cioè sulla scorta di notizie storiche accertate sull’Atene dell’epoca e sulle vite dei personaggi in esso coinvolti, nonché di brani tratti dalle opere conservate di Platone e di Aristotele. Il dialogo ha luogo nell’Accademia platonica, nell’anno 350 a. C., cioè tre anni prima della morte di Platone, e ha come personaggi Platone, lo stesso Aristotele, Speusippo, Senocrate e Teofrasto. Nella finzione esso porta come titolo Eubulo, nome di un imprenditore, noto soprattutto per la sua ricchezza, che realmente governò Atene a quel tempo.


Storia della Metafisica (a cura di), Morcelliana, 2019.

Sulla base del presupposto unanimemente riconosciuto che la metafisica, quale che sia il suo valore, ha avuto una storia, il volume individua i momenti salienti di quest’ultima in alcuni grandi filosofie correnti di pensiero: Platone, Aristotele, il platonismo antico, la metafisica arabo-islamica, Tommaso d’Aquino, Duns Scoto, Suárez, Cartesio, Kant, Hegel, Rosmini, Heidegger, il neotomismo, la filosofia analitica. Ne risulta una storia equilibrata, ricca e coinvolgente, forse unica nel suo genere, di indubbio interesse per chiunque si occupi di filosofia.


Carrellata di copertine



Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Antifonte (480 – 410 a.C.) – Nell’indugio spesso il tempo frapposto distoglie la mente dall’intenzione: il che a cosa fatta non è più possibile, nell’indugio invece può accadere.

Antifonte, indugio

«Nell’indugio spesso il tempo frapposto distoglie la mente dall’intenzione: il che a cosa fatta non è più possibile, nell’indugio invece può accadere» (frg. 58, Diels).

«Ci son di quelli che non vivono la vita presente, ma si preparano con molto zelo come se dovessero vivere non il presente, ma una qualche altra vita; e intanto il tempo si perde e fugge via» (fr. DK 87 B 53 a).

Citato in I presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di Gabriele Giannantoni, traduzione di G. Giannantoni et al, Laterza, 1983

Antifonte (480 a.C. circa – 410 a.C. circa) – Nell’effimera vigilia della vita nessuno di noi può esser definito né come barbaro, né come greco. Tutti infatti respiriamo l’aria con la bocca e con le narici, poiché di natura tutti siamo assolutamente uguali. Se violentiamo le norme poste in noi da natura si offende non l’opinione, ma la verità.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Tommaso Demaria (1908-1996) – Il problema del vivere e dell’agire umano oggi, nonché il problema delle grandi azioni collettive, sono inscindibilmente e solidarmente problemi teoretici e pratici ad un tempo. Soltanto dalla loro giusta soluzione si può ricevere la linfa vitale ed animatrice di cui abbisognano la buona vita e le buone azioni umane, o almeno il canale indispensabile per tale linfa.

Tommaso Demaria, metafisica e comunitarismo
Salvatore Bravo

Metafisica e comunitarismo


Il problema del vivere e dell’agire umano oggi,
nonché il problema delle grandi azioni collettive,
sono inscindibilmente e solidarmente problemi teoretici e pratici ad un tempo.
Soltanto dalla loro giusta soluzione si può ricevere
la linfa vitale ed animatrice di cui abbisognano
la buona vita e le buone azioni umane,
o almeno il canale indispensabile per tale linfa.


Tommaso Demaria è stato un comunitarista cattolico. Il pensiero metafisico, e come tale antinichilistico, è osteggiato in ogni sua forma filosofica. L’ostracismo di cui sono oggetto gli autori la cui ricerca è spesa nella rifondazione della metafisica, svela la verità del capitalismo ed il suo nichilismo ideologico e dogmatico. L’ostilità bellicosa contro la metafisica è assoluta. Per il capitalismo si tratta di un nemico e, pertanto, non vi sono espressioni metafisiche maggiormente tollerate rispetto ad altre: ogni fondazione veritativa è osteggiata in quanto antitetica al relativismo del capitalismo. La metafisica fonda la verità, delimita dei confini concettuali per discernere il bene dal male. Il capitalismo ha la sua verità nel nichilismo, e nella dismisura, pertanto non può tollerare limiti e confini, perché dove vi è verità necessariamente l’essere umano riconosce razionalmente, o in modo intuitivo, la presenza di confini e con essi la possibilità di progetti alternativi. La censura cade come una mannaia ideologica sui pensatori metafisici, formalmente tollerati, nei fatti sospinti al silenzio.
L’ostilità mediatica contro la metafisica comporta l’inevitabile marginalità culturale. La verità è la prima vittima della struttura economica del capitalismo che, per proliferare, necessita dell’assenza di ogni fondamento veritativo, divorando ogni confine, attaccando ogni limite geografico ed etico pur di sopravvivere. Il capitalismo assoluto non conosce altra legge che il profitto «è il dito di dio (il mercato) della contemporaneità». Non vi è più civiltà, in tal modo, ma solo mercato.
Il capitale non è “fenomeno esterno”, ma interno: governa la mente dei popoli. Riconoscerlo significa identificare la sua presenza nel modo di pensare, nel linguaggio, nell’agire di ciascuno. Emanciparsi dal nichilismo capitalistico significa confrontarsi con se stessi, riconoscerne la presenza. Senza tale attività interiore ogni progetto è inutile, ogni resistenza mostra la propria incoerenza.
Nulla è più osteggiato dei concetti come “bene”, “universale”, “vincoli etici”. Al loro posto vi è il termine “giustizia” utilizzato in modo ideologico. Si tratta di giustizia senza “bene”, e pertanto limitata alla meritocrazia conseguente la competizione. Giustizia astratta e formale, priva di concretezza e fondamento ontologico. La giustizia senza fondamento è semplicemente ridotta ad una formale distribuzione dei beni secondo “l’ordine del merito” coniugato allo sviluppo intensivo dell’economia. In tal modo si procede ad instaurare un’organizzazione sociale senza progetto. Il “bene” non solo comunica significato teoretico alla giustizia, ma stabilisce gerarchie assiologiche. Senza il “bene” non vi può essere vita buona, non vi è comunità e specialmente non vi è storia. La giustizia formale dei diritti individuali non intacca le contraddizioni, ma le consolida, le naturalizza e riduce la vita ad «ente statico», a solo corpo senza storia.

L’ente statico
L’essere umano è dominato da un sistema organizzativo che nega la progettualità e riduce la vita di ciascuno a “semplice cranio” senza relazione. L’ente statico è l’essere umano ridotto a sola natura, e dunque astratto dalla storia. Il capitalismo assoluto destoricizza per potersi naturalizzare ed eternizzare. Gli esseri umani sono indotti ad autorappresentarsi come “pura biologia” senza storia vissuta, in tal modo il regno del capitale governa sovrano. il soggetto si ripiega su se stesso e non vi è storia in un mondo di soli corpi:

«L’ente statico quindi viene così chiamato, non per altro che per questo: perché appunto, per creazione divina o per produzione e generazione naturale, vien posto all’esistenza come ente già bell’e fatto. Ciò non impedisce che l’ente statico esistenzialmente appaia come un ente magari attivissimo e con una fenomenologia in continuo movimento anche come crescita, dando luogo ad una apparente contraddizione in termini: quella precisamente di un ente statico che agisce, si muove e forse cresce. Ma bisogna tener conto del significato tecnico della parola, superandone il significato volgare ed empirico corrente, che per quanto tale non ha diritto al monopolio lessicale. E nel significato tecnico da noi stabilito, per una ragione metafisica che andrà man mano chiarendosi, lo statico, ripetiamo, non nega affatto né l’attivismo né il movimento. Nega soltanto l’ente in costruzione, affermando che l’ente statico è già bell’e fatto fin dal primo istante della sua esistenza. L’ente statico così inteso viene a coincidere con l’ente di primo grado, sì che i due diventino sinonimi. Ambedue infatti corrispondono e qualificano l’ente in natura rerum, sia pure con sfumature diverse. L’ente statico qualifica l’ente in natura rerum come essere (e conseguentemente anche – lo vedremo fra breve – come essenza); l’ente di primo grado invece lo qualifica geneticamente, nel senso che lo pone come ente “primogenito” rispetto all’ente di secondo grado, che metafisicamente è sempre un “secondogenito”. Ciò posto, sarà facile controllare la verità dell’ente statico come da noi concepito, guardando alla natura rerum. Qualsiasi pianta od animale sarà ente statico non perché fisicamente o fenomenicamente sia immobile, ma semplicemente perché, fin dal primo istante della propria esistenza, piante ed animali sono già quel dato essere completo, bell’e fatto. Un bambino, un gatto, un cane, una pianta qualsiasi, nascono già possedendo il loro essere, specificamente completo e inconfondibile. Nascono col loro essere già bell’e fatto. In una parola, metafisicamente sono enti statici, nonostante l’attivismo e la molteplice fenomenologia in movimento che li accompagna».[1]

L’ente statico vive fuori della storia, è astratto, sradicato dalla comunità, la quale non è luogo neutro, ma è radicamento nel linguaggio, nella tradizione storico-filosofica e specialmente nella responsabilità. Entrare nella storia significa schierarsi, situarsi in una posizione ideologica e progettuale. L’ente statico, in quanto passivo dinanzi agli eventi storici, inevitabilmente diviene il suddito fedele dei falsi assoluti che appaiono e scompaiono dal suo orizzonte vitale. Ogni ideologia che riduce l’essere umano ad “ente statico”, ne lede la verità che lo sostanzia. L’essere umano, cioè, è un ente che non può essere limitato al semplice corpo: diventa umano entrando nella storia e radicandosi responsabilmente in un progetto comune.

L’ente dinamico
L’ente dinamico, dunque, è l’essere umano che completa se stesso e la sua natura (ente statico) entrando nella storia, dove incontra la comunità viva. L’ente statico assume valore solo se integrato nell’ente dinamico. Il corpo vissuto partecipa alla costruzione della storia, diventa concreto integrandosi con l’ente statico; diviene, così, veicolo di relazioni e storia, altrimenti è solo «nuda vita»:

«Ne segue un completamento del panorama dell’essere e dello sviluppo della sua relativa metafisica. E ciò, fin dall’inizio dell’Ontologia, senza discontinuità e senza disorientamenti, senza contraddizioni o rinnegamenti, poiché si tratta di un puro adeguarsi realistico al significato e al quadro effettivo dell’essere, che è insieme ente statico ed ente dinamico. Ed è tale, ci sia lecito ripeterlo ancora una volta, non a titolo di una qualsiasi estrosità soggettiva, ma per suggerimento del dato di esperienza, e per una imprescindibile esigenza della cultura e della vita di oggi, sulla linea dell’integrazione teoretica e della indispensabile apertura pratica dello stesso sistema realistico. Si tratta infatti, sul piano pratico, in continuità e in sintonia con un rinnovamento cristiano del mondo che rimane l’unica vera rivoluzione, di adeguarsi alla più grande rivoluzione storica in atto, che è quella del passaggio dall’homo faber (semplice artigiano) alla umanità costruttiva della nostra civiltà industriale. Ciò che esige, sul piano teoretico, l’integrazione dinamica dello statico, a cominciare da quella integrazione radicale, l’unica veramente decisiva, che consiste nella integrazione ontologica. Integrazione dinamica dello statico, diciamo; e non rifiuto di esso. Il dinamico non è rifiuto dello statico. Al contrario, ne è una postulazione e rivalorizzazione. L’ente di secondo grado non può né esistere né avere un senso, senza l’ente di primo grado e la sua indispensabile premessa metafisica. L’autentico rapporto tra statico e dinamico, quindi, sia detto una volta per sempre, rimane quello della reciproca postulazione, solidarietà ed integrazione, sia teoretica che pratica. Il che si rifletterà necessariamente anche sulla tradizione, che nella dialettica dell’ente dinamico, non solo non può venir rifiutata, ma deve essere accolta rianimata, decisamente rivalorizzata, e dinamicamente rilanciata. La tradizione non è l’essere, ma interpretazione dell’essere. Il suo rilancio implica quindi il passaggio dall’ente statico all’ente dinamico. Senza tale passaggio muore la tradizione, e si blocca la costruzione».[2]

 

Dinontorganico
Tommaso Demaria utilizza il termine dinontorganico (Dinamico, ontologico, organico): significa che la Realtà Storica è costruita dal libero agire degli uomini. L’essere umano è concreto, perché si umanizza nella storia, nella quale realizza la sua verità profonda: è parte di un tutto, per cui il suo agire storico è comunitario, e si storicizza in istituzioni, comunità e modelli economici nei quali realizza “creativamente” la sua essenza di essere concreto e libero. La verità, in questo modo, fonda la giustizia.

Tommaso Demaria, come di molti studiosi metafisici (Costanzo Preve,[3] Massimo Bontempelli[4]), ha testimoniato con coerenza la necessità di una rifondazione metafisica e comunitaria del pensiero senza la quale l’essere umano è solo quantità, e dunque oggetto di “cattivi infiniti”. Il filosofo deve entrare nella storia per vivere e pensare i problemi che essa pone, deve dimostrare “concretezza”, altrimenti è solo servo del potere e tradisce la sua vocazione politica ed etica:

«La realtà storica è una realtà viva, impegnata nell’azione e impregnata di azione, che addirittura si risolve in una costruzione del mondo. Niente di meno invitante ad una speculazione metafisica pura, inerte, sganciata dalla pratica, per non dire evasione, talvolta, da ogni impegno e funzionalità pratica. A costo di ripeterci, diciamo ancora una volta che ci interessiamo della metafisica della realtà storica non già per una tendenza alla contemplazione pura o per un istinto di evasione dalla pratica, tacitando se mai la propria coscienza di fronte al dovere operativo, col pensiero che ogni idea si riflette, sia pur mediatamente e remotamente, nell’azione. Il motivo del nostro interesse, e del nostro passaggio dalla realtà storica alla sua metafisica anziché ad un impegno pratico immediato, è proprio l’opposto: è indettato dalle esigenze del problema operativo, e nient’altro. Il motivo del nostro interesse nasce dalla convinzione che il problema del vivere e dell’agire umano oggi, nonché il problema delle grandi azioni collettive, tanto sul piano naturale che soprannaturale, sono inscindibilmente e solidarmente problemi teoretici e pratici ad un tempo. Essi affondano le loro radici appunto nel problema metafisico della realtà storica. E soltanto dalla giusta soluzione di questo possono ricevere la linfa vitale ed animatrice di cui abbisognano, o almeno il canale indispensabile per tale linfa».[5]

 

Il comunitarismo cattolico di Demaria ha molti punti di contatti con i comunitaristi italiani e con gli studiosi che silenziosamente ricercano per fondare una nuova metafisica (Luca Grecchi, con la sua metafisica umanistica,[6] ne è un esempio) pone problemi che non possono essere elusi, perché sono l’urgenza della contemporaneità.

Salvatore Bravo

***

[1] Tommaso Demaria, Ontologia realistico-dinamica, vol. I, Ed. “Costruire”, Bologna 1975, p. 45.

[2] Ibidem, p. 60.

[3] Cfr. Costanzo Preve, Elogio del comunitarismo, Controcorrente, Napoli 2006; Costanzo Preve, Lettera sull’umanesimo, Petite Plaisance, Pistoia 2012. Cfr. anche: Salvatore Bravo, L’albero filosofico del Ténéré. Esodo dal nichilismo ed emancipazione in Costanzo Preve. Dalla metafora del deserto (Nietzsche-Arendt) al fondamento veritativo in Costanzo Preve, Petite Plaisance, Pistoia 2019.

[4] Cfr. Salvatore Bravo, L’umanesimo integrale di Massimo Bontempelli, Petite Plaisance, Pistoia 2020.

[5] Tommaso Demaria, Ontologia realistico-dinamica, op. cit., pp. 19-20.

[6] Luca Grecchi, Compendio di metafisica umanistica, Petite Plaisance, Pistoia 2018.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Giacomo Leopardi (1798-1837) – Gli uomini compassionevoli sono sì rari, e la pietà è posta, massimamente in questi tempi, fra le qualità le più riguardevoli e distintive dell’uomo sensibile e virtuoso.

Giacomo Leopardi, compassione

«Ma la compassione che nasce nell’animo nostro alla vista di uno che soffre è un miracolo della natura che in quel punto ci fa provare un sentimento affatto indipendente dal nostro vantaggio o piacere, e tutto relativo agli altri, senza nessuna mescolanza di noi medesimi. E perciò appunto gli uomini compassionevoli sono sì rari, e la pietà è posta, massimamente in questi tempi, fra le qualità le più riguardevoli e distintive dell’uomo sensibile e virtuoso».

Giacomo Leopardi, Zibaldone, 108, aprile 1820, in Id., Zibaldone, ed. critica a cura di Giuseppe Pacella, Garzanti, Milano 1991, 3 voll.

Giacomo Leopardi – Cos’è la lettura per l’arte dello scrivere
Giacomo Leopardi (1798-1837) – Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione
Giacomo Leopardi (1798-1837) – La felicità non è che la perfezione, il compimento della vita.
Giacomo Leopardi (1798-1837) – Un sorriso e una poesia possono aggiungere un filo alla trama brevissima della vita, accrescendo la nostra vitalità.
Giacomo Leopardi (1798-1837) – La più sublime, la più nobile tra le Fisiche scienze ella è senza dubbio l’Astronomia. L’uomo s’innalza per mezzo di essa come al di sopra di se medesimo.
Giacomo Leopardi (1798-1837) – «Dialogo della Moda e della Morte». La moda appartiene perciò a quel tipo di fenomeni che tendono a un’estensione illimitata. Cara Morte, mostri di non conoscere la potenza della Moda, perché ho messo nel mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa, così per rispetto del corpo come dell’animo, è più morta che viva.
Giacomo Leopardi (1798-1837) – Parlerò della miseria umana, degli assurdi della politica, dei vizi e delle infamie non degli uomini ma dell’uomo.
Giacomo Leopardi (1798-1837) – Come l’uomo dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto, l’altezza e nobiltà sua, l’immensa capacità della sua mente.
Giacomo Leopardi (1798-1837) – Niente nella natura annunzia l’infinito, l’esistenza di alcuna cosa infinita. L’infinito è un parto della nostra immaginazione, della nostra piccolezza ad un tempo e della nostra superbia.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Ernst Bloch (1885-1977) – L’utopia è una forza di anticipazione, l’elemento più dinamico e attivo della coscienza anticipante, che costituisce l’anima profonda della speranza per creare spazio alla vita ed essenzializzarsi.

Ernst Bloch 010

«Marx ha determinato ciò che deve verificarsi nell’economia, il necessario cambiamento economico-istituzionale, ma non ha ancora assegnato l’auspicabile autonomia all’uomo nuovo, allo slancio, alla forza dell’amore e della luce, ossia al momento morale in sé, nell’ordinamento sociale definitivo. […] L’economia è stata eliminata, eppure mancano l’anima e la fede, a cui si doveva far posto; lo sguardo attivo e intelligente ha distrutto ogni cosa, molte volte certo con ragione […]. È stato sconfessato a ragione anche il socialismo troppo arcadico e astrattamente utopico ricomparso dal tempo del Rinascimento come forma secolarizzata del regno millenario […]. Ma di tutto ciò non si è compresa l’implicita tendenza utopica, né si è colta e giudicata la sostanza delle sue immagini prodigiose, né tantomeno si è soppresso l’originario desiderio religioso che in ogni movimento e in ogni meta della trasformazione del mondo voleva creare uno spazio alla vita per essenzializzarsi in modo divino e infine stabilirsi chiliasticamente in bontà, libertà e luce del telos».

Ernst Bloch, Spirito dell’utopia , trad. it. di V. Bertolino, F. Coppellotti, Sansoni, Milano 2004, pp. 323-325.

«Ogni progetto e ogni creazione che siano stati spinti ai limiti della loro perfezione hanno sfiorato l’utopia e […] proprio alle grandi opere culturali, che seguitano sempre ad agire in senso progressivo, hanno dato un’eccedenza al di là della loro mera ideologia di valore locale, e con ciò niente di meno che il sostrato dell’eredità culturale».

Ernst Bloch, Il principio speranza , trad. it. di E. De Angelis, T. Cavallo, Garzanti, Milano 2005, pp. 184-185.

«L’utopia è una forza di anticipazione», ovvero l’elemento più dinamico e attivo della «coscienza anticipante», che per Bloch costituisce l’anima profonda della speranza. «La funzione utopica strappa le questioni della cultura umana alla comoda poltrona di mera contemplazione; in tal modo, su vette effettivamente conquistate, essa apre la vista ideologicamente non deformata sul contenuto umano della speranza» (Ivi, p. 186).

«Tutti gli ideali sono varianti del contenuto fondamentale, il sommo bene» (Ivi, p. 204).

« […] emerge dunque una costruzione di desiderio, una costruzione razionale, priva ormai di qualunque certezza della speranza chiliastica, ma tale da pensarsi in compenso come realizzabile con le proprie forze, senza appoggi o interventi trascendenti. L’Utopia è sempre più progettata nel non-divenuto della terra, nella tendenza umana alla libertà – come un minimum di lavoro e di stato, come un maximum di gioia» (Ivi, p. 599).

Ernst Bloch (1885-1977) – Tutto ciò che vive ha un orizzonte. Dove l’orizzonte prospettico è tralasciato, la realtà si manifesta soltanto come divenuta, come realtà morta, e sono i morti, cioè i naturalisti e gli empiristi, che qui seppelliscono i loro morti.
Ernst Bloch (1885-1977) – È la filosofia la scienza in cui è viva, ha da esser viva, la consapevolezza del tutto. La filosofia ha a cuore soprattutto l’unità del sapere. La filosofia sta sul fronte.
Ernst Bloch (1885-1977) – L’utopia concreta sta all’orizzonte di ogni realtà. L’utopia non è fuga nell’irreale, è scavo per la messa in luce delle possibilità oggettive insite nel reale e lotta per la loro realizzazione.
Ernst Bloch (1885 – 1977) – «Vita brevis, ars longa», i regni passano, un buon verso resta eterno; in queste convinzioni legate all’arte ha posto solo l’opera plasmata. Nasce un’«ars longa», adornata dal nome della loro «vita brevis».
Ernst Bloch (1885-1977) – I filosofi dei nostri giorni hanno familiarizzato con il nihil. L’immagine di desiderio del nulla l’ha formulata Heidegger. il nulla di Jaspers e di Heidegger è tinto e ornato di penne di pavone, proprio in prospettiva del suo incanto di morte.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Claudia Baracchi – Filosofia antica e vita effimera. Migrazioni, trasmigrazioni e laboratori della psiche

Claudia Baracchi, Filosofia
Claudia Baracchi

Filosofia antica e vita effimera

Migrazioni, trasmigrazioni e laboratori della psiche

ISBN 978-88-7588-245-7, 2020, pp. 112.

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I testi qui raccolti ripercorrono due seminari residenziali in cui confluivano studi di filosofia antica e un’insolita composizione di temi: il rapporto tra greco e non greco, e le peripezie del pen­siero tra il Mediterraneo degli Elleni, il Levante, l’Egitto, in onde migratorie che saranno costitutive dell’Europa; il rapporto tra filosofia e vita, soprattutto la vita sofferente, quale è variamente ma senza eccezioni la vita mortale, esposta e vulnerabile a ogni rovescio; il rapporto tra l’esercizio della ragione e ciò che la ec­cede, si chiami natura, dio, intelletto o in altro modo; al limite, il rapporto tra theoria e praxis. Volgersi al passato in una modalità interrogativa significa soprattutto ricalibrare la nostra domanda su noi stessi, chiederci come siamo diventati quello che siamo, attraverso quali vicende, ma anche e soprattutto attraverso quali dimenticanze, quali sparizioni, quali discontinuità e ricadute nella latenza. Vale a dire: come siamo giunti qui dove ci troviamo, per quali percorsi consapevoli, ma anche inconsci e bui – giacché il passato (tanto individuale quanto collettivo) è saturo di ciò che, di esso, non è stato ancora mai visto e deve ancora accadere.

 


Indice

Introduzione. Teoresi delle farfalle

Primo incontro: seminario d’autunno
Heidegger: la fine e l’inizio
Esercitare la vita

 

Secondo incontro: laboratorio di primavera
Aristotele, i poeti, Eros rilucente
Aristotele, gli antichi, gli dèi
Spazio, tempo, contraddizione

 

Immagini sulla soglia di Platone
L’albero
Il fuoco
Il rasoio e i cavalli

 

Il guerriero e la morte
Compito del guerriero
Il mito del guerriero

Riferimenti bibliografici

Claudia Baracchi – Incontrare l’antico può liberare risorse inattese per il pensiero, mettere a fuoco domande che non hanno cessato di riguardarci. E l’amicizia è il nome di un’apertura all’inconsueto.
Claudia Baracchi – Amicizia è disposizione verso il bene, verso il bene della vita, e non richiede conformismo. Tra amici similitudine e reciprocità vanno intesi alla luce di una propensione all’eccellenza, al perfezionamento della vita.
Claudia Baracchi – L’universalismo moderno sorge nell’astrazione. Invece, per l’esperienza antica, l’universale sorge nell’ampliamento d’orizzonte capace di cogliere la tessitura complessiva. Il filosofo rivela l’umano proprio nello slancio dell’umano oltre se stesso, in quell’apertura al possibile e nel possibile. Così, l’esplorazione del possibile trasgredisce e rivolta i confini del noto.


Claudia Baracchi, Diventare madre – YouTube


Un tuffo …

… tra alcuni dei  libri di Claudia Baracchi …


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Claudia Baracchi

Amicizia

Mursia, 2016

«Uomini e donne».

Platone, Apologia di Socrate, 41b-c.

L’universalismo moderno sorge nell’astrazione, nella separazione dai fenomeni eterogenei e irregolari, nella lontananza che uniforma.
Per l’esperienza antica, invece, l’universale sorge nell’ampliamento d’orizzonte che contempla i singoli fenomeni cogliendone a un tempo le differenze irriducibili e i nessi, la tessitura complessiva

« […] la concezione antica dell’anthropos mostra che non c’è contraddizione, né incompatibilità, tra il mio interesse e quello degli altri […]. Per l’umano così inteso, l’amicizia è il fondamento di ogni registro e variazione relazionale. È il luogo in cui il singolo si realizza e in cui può darsi la solidarietà che rende l’insieme coeso. Ed è qui, in questa esperienza concreta, vissuta, singolare, che si radica lo sviluppo universale.
L’universalità non è una invenzione cristiano-moderna; gli antichi conoscono bene la prospettiva “secondo il tutto“, ma pervengono ad essa per una via completamente differente. L’universalismo moderno sorge nell’astrazione, ovvero nella separazione dai fenomeni eterogenei e irregolari, nella lontananza che uniforma.
Per l’esperienza antica, invece, l’universale sorge nell’ampliamento d’orizzonte, ovvero in uno sguardo che, divenuto più capiente, contempla i singoli fenomeni cogliendone a un tempo le differenze irriducibili e i nessi, la tessitura complessiva.
Così intesa, l’universalità si articola su uno sfondo esperienziale, mantiene il contatto con la concretezza dei vissuti, sempre differenti e cangianti, eppure anche visti nell’insieme. È così che diventa possibile comprendere la relazione, l’essere in comunione e comunanza non come insidia o camicia di forza per il singolo, ma come risorsa. […]
L’amicizia pensata more graeco […] suggerisce che stare insieme non è un caso da sopportare malvolentieri, per contratto, con rassegnazione, ma un piacere, e una possibilità di realizzazione. E soprattutto: più che un limite alla mia libertà di individuo, l’altro, gli altri, il “noi” sono ciò che rende possibile il mio essere, sono costitutivi del mio essere quello (quella) che sono, proprio l’individuo singolare che io sono.» (pp. 17).

«Noi abitanti della modernità tarda siamo a malapena in grado di intendere quello che dicono gli antichi: per loro essere buoni significa essere felici, sentirsi dischiudere nella vastità della vita, ricercandone l’inveramento» (p. 57).

Noi moderni della tarda ora siamo connessi, ma non tra di noi, bensì alla macchina, eampiamente risucchiati fuori di noi, prosciugati, come gusci vuoti appesi ai terminali della rete
«Noi moderni della tarda ora, venendo dopo Kant, abbiamo creduto di poterci emancipare dal bene-dovere rovesciandolo, appunto, in parodia. […] Resta molto arduo, per noi, intendere del bene altri risvolti, altre configurazioni possibili. E per questo, nella nostra epoca tarda, termini o espressioni come “bene comune”, “cittadinanza”, “comunità”, rischiano di perdere il senso concreto e la prossimità viva. Non riconoscendo il bene come realizzazione di sé in seno a un noi, crediamo di trovare libertà e felicità in comportamenti puramente arbitrari e sconnessi.
Oppure siamo connessi, ma non tra di noi, bensì alla macchina, e tramite “la macchina” comunichiamo globalmente, ormai ampiamente risucchiati fuori di noi, prosciugati, come gusci vuoti appesi ai terminali della rete. Ma, così intesa, la connettività è contraffazione della comunità degli amici, così come la “realtà aumentata” è contraffazione della pienezza della vita» (p. 58).

Il filosofo rivela l’umano proprio nello slancio dell’umano oltre se stesso,
in quell’apertura al possibile e nel possibile.
«Preso da una indominabile visione di felicità, il filosofo intravede una possibilità, indovina un riverbero di ciò che l’umano può e può essere. Tale esperienza di rapimento (un’esperienza travolgente, potenzialmente devastante nei confronti delle costruzioni umane) agisce come un promemoria inesorabile dell’irriducibilità dell’umano alle sue stesse istituzioni. Rammenta all’essere umano ciò che, in lui, supera la dimensione umana, indicandogli quello che può diventare.
Il filosofo rivela l’umano proprio nello slancio dell’umano oltre se stesso, in quell’apertura al possibile e nel possibile. Nell’esperienza filosofica è al contempo ricordato e annunciato l’essere umano a venire.

Il filosofo è una figura inaugurale che ritiene le tracce del lascito
ma insieme lascia presagire un’umanità nuova
Così, dunque, nell’inflessione filosofica l’eroe diventa qualcosa di radicalmente altro: una figura inaugurale, che ritiene le tracce del lascito ma insieme lascia presagire un’umanità nuova; un guerriero disarmato, privo di nome e reputazione, per il quale la lotta e il combattimento si svolgono lontani dal campo di battaglia, dalle competizioni, dagli onori e dalle benemerenze. […] La visione socratica di un altro mondo, in cui “uomini e donne” possano confrontarsi e crescere insieme evoca la comunità degli amici come comunità di dialogo e ricerca. È notevole che Socrate vi includa esplicitamente le donne. In Platone e nella tradizione pitagorica questo gesto è frequente e, allo stesso tempo, in netta controtendenza rispetto agli usi della polis. E, dovremmo dire, non soltanto in contrasto con la Atene del V e IV secolo, se è vero che nel discorso filosofico stesso finirà presto col prevalere la celebrazione dell’amicizia come relazione esclusiva tra uomini» ( p.107).

L’esplorazione del possibile trasgredisce e rivolta i confini del noto

«La visione aperta dell’essere umano e della sua potenzialità (dynamis), di ciò che può fare, essere e divenire, rende possibile non solo intravedere una comunità fin qui inimmaginabile, ma anche considerarla in quanto tale non impossibile. L’esplorazione del possibile trasgredisce e rivolta i confini del noto» (p. 145).

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Risvolto di copertina

 «L’amicizia sorge in seno all’estraneità, rivolgendosi all’esterno: cerca il rapporto non tanto con chi sta vicino, ma con chi viene da lontano. Ancora prima di designare l’approfondimento dell’intimità e della consuetudine, l’amicizia è il nome di un’apertura all’inconsueto». Affrontare il tema dell’amicizia nell’epoca di Facebook e dei social network richiede coraggio e perfino una certa impertinenza. La relazione amicale comporta fiducia, fedeltà, disponibilità alla condivisione profonda. Ebbene, assicurano i sociologi, mai questo atteggiamento fu più improbabile che nel nostro tempo di drammatica riconfigurazione antropologica. La ricerca sull’amicizia non può dunque prescindere dal pensiero antico: con profondità ineguagliata esso ne indovina le più ampie implicazioni, affettive quanto politiche. Le epoche successive non oseranno tanto, e l’amicizia scomparirà dal pensiero politico così come da ogni considerazione complessiva sull’essere umano. L’Autrice percorre gli snodi della riflessione antica, nella convinzione che abbia a che fare con mondi a venire.


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Claudia Baracchi

L’architettura dell’umano
Aristotele e l’etica come filosofia prima

Vita e Pensiero, 2014

Il secolo scorso ha variamente proclamato la fine della filosofia in quanto metafisica. Nel nuovo millennio si indovinano, a livello istituzionale, sintomi di una sempre più conclamata obsolescenza degli studi umanistici, e quindi della filosofia intesa come disciplina accademica ed esercizio puramente intellettuale. Eppure, nel gesto ampio di questo transito epocale, trovarsi di fronte ai testi antichi può essere occasione di esperienze sorprendenti. Vale a dire, avvicinarsi al testo nella sua materialità impervia, nell’effetto straniante della sua opacità, nella sua refrattarietà alla risoluzione interpretativa o manualistica, può liberare risorse inattese per il pensiero, mettere a fuoco domande che non hanno cessato di riguardarci – che interrogano l’umano, le sue vicende e possibili configurazioni, le scelte, i percorsi, l’ipotesi della felicità. Incontrare l’antico (Aristotele, per esempio) in questo modo implica coltivare l’intimità con ciò che ancora ci elude. Allora diagnosticare la fine, intravedere altri inizi, non significa superare, passare oltre, né ancora andare altrove. L’origine ci scruta enigmatica. Il suo mistero inconsumato ci sta davanti. Lungi dal comportare una deposizione o un ritorno, lo sguardo volto al passato si espone a ciò che nel passato resta impensato, inaudito. Forse è proprio cogliendo l’antico nel suo carattere insondabile che si vi può intravedere la possibilità inespressa, ciò che si annuncia ma resta in ombra: nella fine, in seme, il compito del pensiero a venire.


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Claudia Baracchi

Aristotle’s Ethics as First Philosophy

Cambridge University Press, 2007

In Aristotle’s Ethics as First Philosophy Claudia Baracchi demonstrates the indissoluble links between practical and theoretical wisdom in Aristotle’s thinking. Referring to a broad range of texts from the Aristotelian corpus, Baracchi shows how the theoretical is always informed by a set of practices, and specifically, how one’s encounter with phenomena, the world, or nature in the broadest sense, is always a matter of ethos. Such a ‘modern’ intimation can, thus, be found at the heart of Greek thought. Baracchi’s book opens the way for a comprehensively reconfigured approach to classical Greek philosophy.

Estratto:

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Il cosmo della Bildung

Il cosmo della Bildung

Risvolto di copertina

Montagna theologica, caverna cosmica o cielo della controriforma, la Cupola di Santa Maria del Fiore ha sempre rappresentato un grandioso programma idealedidattico per l’architettura. Possiamo trascriverlo in un’equazione: l’educazione sta all’ideale come l’architettura sta all’attuale. Un’espressione a quattro incognite vincolate tra loro. Tra queste quella dell’ideale è la meno chiara per le scienze e la più oscura per le coscienze. Comunque, nella cultura del nostro tempo, l’educazione è ridotta ad accumulazione di regole, l’ideale al funzionale, l’architettura a pratica socionormativa, l’attualità a cronologia. In altre parole l’ideale ci richiede sempre un enorme sforzo critico rispetto a tutti i saperi. Esso ci costringe a ripercorrere la biforcazione secolare impressa dalla cultura tecnico-scientifica all’idea di “reale”: quella tra trascendenza e immanenza.




M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Immanuel Kant (1724-1804)  – Lettera a Marcus Herz: «Parlo dell’obiettivo di diffondere disposizioni d’animo buone, basate su princìpi solidi, e di salvaguardare queste disposizioni assicurandole fermamente nelle anime ricettive, indirizzando gli altri a coltivare i propri talenti solo in direzioni utili».

Immanuel Kant, lettera a Marcus Herz

Lettera di Kant a Marcus Herz (Inizi di Aprile 1778)

Mio prezioso amico, amico scelto, lettere come quelle che ricevo da te mi trasportano in uno stato emotivo che ingentilisce la mia vita, esattamente come vorrei che la vita ne fosse ingentilita, quasi fosse una sorta di assaggio di un’altra vita. Questo avverto nel momento in cui, se le mie speranze non sono vane, intravedo nella tua anima onesta e grata una prova rincuorante che l’obiettivo dominante della mia vita accademica, che ho sempre presente nella mia mente, non è stato perseguito invano: parlo dell’obiettivo di diffondere disposizioni d’animo buone, basate su princìpi solidi, e di salvaguardare queste disposizioni assicurandole fermamente nelle anime ricettive, indirizzando gli altri a coltivare i propri talenti solo in direzioni utili. Tuttavia, questo mio piacere si tinge di una certa nota di malinconia, se considero che davanti a me si aprirebbe un’arena molto più vasta in cui promuovere questo obiettivo, ma che d’altra parte ne sono escluso per la limitata vitalità che mi caratterizza. Sai che non mi entusiasma particolarmente il pensiero di far profitti o di ricevere applausi su un grande palcoscenico. Piuttosto, una situazione tranquilla, che soddisfi la mia necessità di una dieta variabile di lavoro, riflessione e rapporti con gli altri, una situazione in cui il mio spirito, ipersensibile ma per altri versi leggero, e il mio corpo, precario ma mai tutto sommato malato, possano tenersi in esercizio senza eccessivo sforzo… è questo tutto ciò che ho desiderato e che sono riuscito ad ottenere. Tutti i mutamenti mi spaventano, anche quelli che prospetterebbero un miglioramento significativo delle mie condizioni. E penso di dover obbedire a questo istinto della mia natura, se voglio dipanare il filato tenue e delicato che il Fato ha intessuto per me. I miei ringraziamenti più sentiti, quindi, vanno ai miei amici e sostenitori che nutrono di me un’opinione così generosa, e si dedicano al mio benessere. Al contempo, però, chiedo sinceramente che dirigano questo genere di disposizione d’animo a proteggermi e sostenermi nella situazione che vivo adesso, in cui (finora) ho avuto la fortuna di vivere senza notevoli apprensioni. Ti sono grato, quindi, della tua prescrizione di medicinali nel caso di un’eventuale emergenza, carissimo amico, ma includendo essa dei lassativi, che in genere influiscono pesantemente sulla mia costituzione e comportano inevitabilmente una costipazione intensa, e considerata la regolarità del mio corpo ogni mattino, penso di essere in una saluta buona, pur fragile (buona a mio modo, perlomeno, non avendo mai esperito una salute migliore dell’attuale), e quindi ho deciso di lasciare interamente la questione alla natura, intervenendo con i rimedi artificiali laddove questa desistesse. La notizia secondo cui alcune pagine del libro su cui sto lavorando siano state già date alle stampe è prematura. Non desidero obbligarmi a sforzi per pubblicare in fretta (intenderei continuare i miei lavori su questa terra ancora per un po’), e lascio che altri progetti interrompano il mio lavoro sul libro. Esso prosegue, comunque, e penso di portarlo a compimento l’estate ventura. Mi auguro che tu riconosca, dalla natura e l’ambizione del progetto, che ci sono buoni motivi per cui un libro di questo genere, pur non straordinario per numero di pagine, mi abbia assorbito così tanto. Tetens, nel suo diffuso trattato sulla natura umana, ha scritto osservazioni penetranti, ma indubbiamente il testo dà l’impressione di essere stato edito direttamente dopo la stesura, senza correzioni. Introducendo il suo lungo saggio sulla libertà nel secondo volume, deve aver sperato di districarsi da un labirinto del genere inseguendo schizzi di idee abbozzati in tutta fretta da lui stesso, almeno così mi parrebbe. Dopo aver esaurito se stesso e il lettore, ha lasciato la questione esattamente al punto di partenza, suggerendo al lettore di farsi scortare dai propri sentimenti. Se la mia salute non vorrà peggiorare, penso proprio che sarò in grado di presentare il mio promesso libricino ai lettori la prossima estate. Mentre ti scrivo, ricevo un’altra amabile lettera, da Sua Eccellenza, il Ministro von Zedlitz, che mi ribadisce la sua offerta di un posto a Halle. Devo rifiutare, per le ragioni che ti ho già descritto. Siccome ho il dovere di rispondere immediatamente a Breitkopf a Lipsia, che mi chiedeva di rielaborare il mio saggio sulle razze del genere umano in maniera più approfondita, devo attendere il prossimo passaggio del postiglione per inviarti la presente lettera. Ti prego di salutare il Sig. Mendelssohn per me, riferendogli la mia speranza che la sua salute migliori, e il mio augurio di raccogliere il frutto del suo cuore naturalmente allegro e del suo spirito sempre fertile. Mantieni il tuo affetto e la tua amicizia nei miei confronti.

Il tuo servo sempre devoto e fedele, I. Kant

 

Immanuel Kank in un ritratto del pittore tedesco Adolf von Heydeck, inizio del IXI secolo.

Il dono della parola

Questa lettera di Kant mi è stata donata da un amico traduttore, Angelo Magliocco. Ne cito il nome, poiché il suo lavoro di traduzione è sempre stato rispettoso delle parole verso le quali si ha ormai un’intenzionalità veloce, le si usa senza ascoltarle, mentre esse racchiudono un corpo, un’anima ed una storia. La lettera ci consente di vedere la grandezza da vicino. Siamo abituati alla grandezza seduttiva e rumorosa che non lascia spazio che a se stessa. Grandezza spaziale e barocca che deve occupare lo sguardo con la forza magnetica del sogno e della distopia dell’eccesso. La grandezza che ritroviamo in Kant riscalda il cuore e ci riconcilia con il mondo. Le parole nella lettera sono disposte in modo da comunicare all’amico un senso di mitezza ed accoglienza. Non vi è nessuna parola che possa essere associata a protervia o ad arroganza intellettuale, anzi vi è la consapevolezza che la produzione filosofica e scientifica necessitano di lentezza.

La pratica filosofica
Il filosofo educa al pensare non solo nell’attività professionale, ma sempre, nel privato come nelle relazioni: filosofare è una pratica che unisce in un filo sottile ogni segmento temporale della vita. Nella lettera le parole ci lasciano immaginare la gestualità lenta e delicata del pensare. Pensare è il regno delle parole, le quali per potersi configurare necessitano di tempo, di intenzionalità temporale qualitativa e non quantitativa. Il successo con i suoi abbagli non lo attrae. L’erotica del sapere lo induce ad essere gratificato dall’agire nel sapere, mentre il palcoscenico con i suoi applausi non lo affascina, poiché il sapere ostentato è interruzione della profondità a favore della dispersione in vane e convenevoli parole. Il tempo del pensiero è prezioso e non lo si può dissipare nella vanità e nella dipendenza dalle adulazioni. La brevità della vita conferisce al tempo vissuto di ciascuno un valore assoluto.

Grandezza autentica
La grandezza vista da vicino palesa la consapevolezza dei limiti di ogni esistenza e la necessità di dare senso alla propria vita con scelte che testimoniano un insegnamento etico senza “moralismo” o “giudizio”. Vivere con coerenza l’amore per il sapere nella condivisione discreta e dialogica, assume valenza educativa per coloro che hanno la fortuna di poter incontrare la vera grandezza. Ma anche coloro che nel tempo pongono lo sguardo lontano dal loro presente, per incontrare modelli a cui potersi ispirare e rigenerare dalla volgarità dell’eccesso, ritrovano nella vera grandezza una stella polare pronta a brillare sul loro cammino. Kant scrive che il fine della sua vita accademica è diffondere “disposizioni d’anime buone”. Si può essere certi che tale “disposizione” ha attraversato il tempo e continuerà a splendere per chi sa guardare ed ascoltare la profondità delle parole. Se tanta grandezza ha attraversato i secoli, vi è da chiedersi cosa resterà nel tempo di questi nostri anni.

Salvatore Bravo


Immanuel Kant (1724-1804)  – Nell’uomo esiste un tribunale interno: è la coscienza. Egli può magari cadere in un grado tale d’abbiezione da non prestare più alcuna attenzione a questa voce, ma non può evitare di udirla
Immanuel Kant (1724-1804) – Lo studente non deve imparare dei “pensieri”, ma a “pensare”. Non lo si deve “portare” ma “guidare”, se si vuole che in seguito sia capace di camminare da solo. Rovesciando questo metodo, lo studente acciuffa una sorta di ragione prima ancora che in lui si sia formato “l’intelletto” e s’appropria d’una “scienza” posticcia che in lui è soltanto appiccicata , non maturata.
Immanuel Kant (1724-1804) – Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Herbert Marcuse (1898-1979) – La fantasia ha un proprio valore di verità. L’immaginazione tende alla riconciliazione dell’individuo col tutto, del desiderio con la realizzazione, della felicità con la ragione.

Herbert Marcuse, Eros e civiltà

«Come processo psichico fondamentale e indipendente, la fantasia ha un proprio valore di verità, che corrisponde a un’esperienza propria – il superamento cioè della realtà umana antagonistica. L’immaginazione tende alla riconciliazione dell’individuo col tutto, del desiderio con la realizzazione, della felicità con la ragione. Mentre quest’armonia è stata relegata nell’utopia dal principio della realtà costituita, la fantasia insiste nell’affermare che essa deve e può diventare reale, che dietro all’illusione sta vera conoscenza.[Nell’immaginazione e quindi nell’utopia], le forme di libertà e felicità che essa invoca pretendono di liberare la realtà storica».

Herbert Marcuse, Eros e civiltà [1955], trad. di L. Bassi, Einaudi, Torino 1968, p. 171 e p. 176.


Herbert Marcuse (1898-1979) – È possibile distinguere tra bisogni veri e bisogni falsi
Herbert Marcuse (1898-1979) – Se vogliamo costruire una casa di abitazione nel posto in cui sorge una prigione, dobbiamo prima demolire la prigione, altrimenti non possiamo neppure iniziare i lavori.
Herbert Marcuse (1898-1979) – Il presupposto fondamentale della rivoluzione, la necessità di un cambiamento radicale, trae origine dalla soggettività degli individui stessi, dalla loro intelligenza e dalle loro passioni, dai loro sensi e obiettivi. La soggettività liberatrice si costituisce nella storia interiore degli individui. Solo come straniamento l’arte svolge una funzione cognitiva. Essa comunica verità non comunicabili in nessun altro linguaggio: essa contraddice.
Herbert Marcuse (1898-1979) – Ciò che si definisce “utopico” non è più qualcosa che “non accade” e non può accadere nell’universo storico, bensì qualcosa il cui prodursi è impedito dalla forza delle società stabilite.
Herbert Marcuse (1898-1979) – La spontaneità soggettiva dell’uomo moderno viene trasferita sulla macchina, della quale è al servizio, così da subordinare la sua vita al “realismo” nei confronti di un mondo nel quale la macchina è il soggetto attivo e lui il suo oggetto.
Herbert Marcuse (1898-1979) – Un filosofo può commettere molti sbagli, ma in Heidegger non si trattò di un errore, bensì di un tradimento della filosofia e di tutto quello che essa rappresenta. allora rimane un’unica filosofia, una filosofia della rinuncia, della resa.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Martin Buber (1878-1965) – L’immagine utopica è un’immagine di ciò che «deve essere», di ciò che colui che immagina desidera che sia. Questa immagine prima e originaria è un desiderio.

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L’immagine utopica è un’immagine di ciò che «deve essere», di ciò che colui che immagina desidera che sia […]. Quel che domina qui è la nostalgia per ciò che è giusto, che viene sperimentato nella visione religiosa o filosofica come rivelazione o come idea, e che per la sua essenza non può realizzarsi nel singolo, bensì solo nella comunità umana in quanto tale. […] [L’immaginazione è il fulcro, ma con una precisa direzione e in una connessione rigorosa fra idea e desiderio] Si è soliti in genere descrivere tali immagini come prodotto della immaginazione; ma con ciò si dice ben poco. Perché questa immaginazione non divaga, non viene sospinta qua e là da ispirazioni mutevoli, ma va concentrandosi in maniera solidamente strutturata intorno a una immagine prima e originaria, che dovrà elaborare, e questa immagine prima è un desiderio.

Martin Buber, Sentieri in utopia. Sulla comunità (1947), trad. it. di D. Di Cesare, Marietti, Genova-Milano 2009, p. 48.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – L’umanesimo integrale di Massimo Bontempelli. Filosofia Storia Pedagogia

Massimo Bontempelli-Salvatore Bravo
Salvatore Bravo

L’umanesimo integrale di Massimo Bontempelli. Filosofia Storia Pedagogia

ISBN 978-88-7588-176-4, 2020, pp. 128

indicepresentazioneautoresintesi

In copertina:
Paul Klee, Einst dem Grau der Nacht enttaucht …
(Dapprima innalzatosi dal grigiore della notte …),
acquarello, inchiostro e matita su carta argentata, 1918, Berna, Kunstmuseum.

Il titolo dell’opera fa riferimento all’incipit di una poesia scritta probabilmente da Klee:
Dapprima innalzatosi dal grigiore della notte
poi grave e prezioso
e reso forte dal fuoco …
Infine etereo avvolto di blu,
si libra su campi innevati,
verso cieli stellati.


Massimo Bontempelli
(1946-2011)

Massimo Bontempelli, professore di liceo, è stato filosofo olistico: l’originalità della sua teoretica è nel tenere assieme filosofia, storia e pedagogia, al fine di orientare la paideia sul fondamento veritativo che coniuga l’asse ontologico-assiologico all’azione educativa. Ha avvertito l’incombere plumbeo del nichilismo sul destino dell’Occidente, guardando con gli occhi della mente il dramma in cui è impigliata la cultura occidentale ormai planetaria. Trascendere il nichilismo ha significato per lui interpretarlo, inseguirlo nei meandri della sua genealogia, per sfidarlo, e quindi, ricostruire il percorso verso la verità. La sofferenza teoretica per lo stato presente, si è sublimata in pensiero e pratica educativa. Filosofo dalla passione intellettuale per il presente, con l’impegno rivolto fortemente al futuro, ha teorizzato l’alternativa al nichilismo consumistico dei nostri giorni. Ha rielaborato il pensiero teoretico e po­litico di Hegel mediandolo col pensiero di Marx. Con Hegel ha condiviso l’urgenza della metafisica, senza la quale il soggetto è lasciato alla sua accidentalità e dissolto nel pulviscolo del conflitto economico. Il suo stile filosofico ed educativo ha un significato simbolico e sostanziale: l’essenziale è la parola, veicolo della qualità contro la quantità. Ci ha lasciati eredi non solo della sua attività teoretica, ma della sua esperienza umana vissuta fuori dalla caverna della società dell’immagine e della pornografia mediatica spacciata per trasparenza.

 Questi i temi discussi

Prologo / L’uroboro / Nichilismi / La tirannia del presente: l’isola di Pasqua / Il verme nel nocciolo / Il pensiero debole / Massimo Bontempelli / L’olismo come paradigma irrinunciabile / La bicicletta di Bontempelli / La metafora della caffettiera / Concreto ed astratto / Lo sguardo contro il nichilismo / Destra-Sinistra / Pedagogia della passività / Le categorie della quantità e della qualità / La categoria della quantità e la morte / Modelli metafisici / Il regno dei lupi / La libertà / La derealizzazione / La sussunzione / Il bene / Il narcisismo-derealizzazione / Perché educare? / A scuola di nichilismo / Filosofia e Storia / La storia come necessità / Tempo e memoria / Msssimo Bontempelli/Costanzo Preve / Narcisismo, concretismo e arbitrarismo / Le miserie dell’abbondanza / La metafora della valle / Verità e libertà / “Ex ducere” / Mutazione antropologica / La Storia come asse culturale / Il Gesù di Bontempelli / La società del disprezzo di sé / Bontempelli interprete di Marx / Marx ed Hegel / L’esperienza della decrescita / Umanesimo integrale.


I libri di Salvatore Bravo



Salvatore Antonio Bravo – Una morale per M. Foucault?

Salvatore Bravo – Aldo Capitini e la omnicrazia. L’apertura è sentire la compresenza dell’altro, sentire la propria vita fluire nell’altro, lasciarlo essere, amarlo per quello che è, liberarlo dalla paura del potere, della mercificazione.

Salvatore Bravo – L’abitudine alla mera sopravvivenza diviene abitudine a subire. Ma possiamo scoprire, con il pensiero filosofico, che “oltre”, defatalizzando l’esistente, c’è la buona vita.

Salvatore Bravo – La filosofia è nella domanda di chi ha deciso di guardare il dolore del mondo. Responsabilità della filosofia è il riposizionarsi epistemico per mostrare la realtà della caverna e rimettere in azione la storia.

Salvatore Antonio Bravo – L’epoca del PILinguaggio. Il depotenziamento del linguaggio è attuato dalla globalizzazione capitalistica, nel suo allontanamento dalla persona e dalla comunità.

Salvatore Bravo – Sentire se stessi è possibile attraverso l’uscita dalla caverna dei cattivi pensieri quotidianamente inoculati assumendo la libertà di vivere i poliedrici colori del possibile.

Salvatore Bravo – La tolleranza è parola invocata nel quotidiano terrore dei giorni. La tolleranza nasconde il volto aggressivo della globalizzazione. È la concessione della legge del più forte, il diritto di vivere concesso dal potere.

Salvatore Antonio Bravo – Il tempo che ha la sua base nella produzione delle merci è esso stesso una merce consumabile. Ogni resistenza dev’essere svuotata della sua temporalità e colonizzata dalle immagini dello spettacolo globale.

Salvatore Antonio Bravo – Le miserie della società dell’abbondanza. La verità del consumo è che essa è in funzione non del godimento, bensì della produzione.

Salvatore Antonio Bravo – La società dei cacciatori. L’atomismo sociale e la deriva individualista dei nostri giorni, trovano la loro sostanza in un’immagine esplicativa della condizione umana postmoderna: il cacciatore.

Salvatore Antonio Bravo – «Le vespe di Panama» di Z. Bauman. La filosofia perde la sua credibilità e la sua natura critica e costruttiva se vive nel mondo temperato delle accademie e degli studi televisivi e mediatici, dove campeggia l’uomo economico: turista della vita, vagabondo tra le mercificazioni.

Salvatore Antonio Bravo – Il comunista è un pensatore militante, consapevole dunque che la sua azione è perenne: non vi sono sistemi o regimi che concludono la storia e pacificano gli animi. In Marx l’idea del comunismo si concretizza anzitutto nell’immagine di una società in cui l’individuo, liberato dall’alienazione, diventa un uomo totale, universale, cioè capace di dar pieno sviluppo alla sua personalità.

Salvatore Antonio Bravo – Theodor L. Adorno, in «Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa», ci comunica l’urgenza di un nuovo esserci. Chi vuol apprendere la verità sulla vita immediata, deve scrutare la sua forma alienata, le potenze oggettive che determinano l’esistenza individuale fin negli anditi più riposti. Colui che non vede e non ha più nient’altro da amare, finisce per amare le mura e le inferriate. In entrambi i casi trionfa la stessa ignominia dell’adattamento.

Salvatore Antonio Bravo – «Viva la Revoluciòn» di E. Hobsbawm.

Salvatore Antonio Bravo – Evald Ilyenkov e la logica dialettica. Occorre studiare il pensiero come un’attività collettiva, in cooperazione. Il capitalismo è profondamente anticomunitario, trasforma tutto in merce, disintegra le comunità, smantella la vita nella sua forma più alta: il pensiero comunitario consapevole.

Salvatore Antonio Bravo – «Il giovane Marx», di György Lukács. L’intera opera di Marx è finalizzata dall’amore per l’umanità che si fa pensiero consapevole della disumanità di ogni condizione di alienazione, e di ogni reificazione negatrice della libertà.

Salvatore Antonio Bravo – Il libro di Norman G. Finkelstein, «L’industria dell’olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei».

Salvatore Antonio Bravo – Il mercato e l’asservimento della Scuola: il mito dell’orientamento consapevole. Ciò che occorre invece è tempo per un’educazione da esseri umani, per lo sviluppo intellettuale, per l’adempimento di funzioni sociali, per rapporti socievoli, per il libero gioco delle energie vitali fisiche e mentali.

Salvatore Antonio Bravo – Marx poeta nel suo anelito all’universale: «Non rimaniamo immobili Senza volere né fare niente. Non subiamo passivamente il giogo ignominioso. Il desiderio, la passione, l’azione sono parte di noi».

Salvatore Antonio Bravo – L’industria culturale capitalistica utilizza solo autori che interpretino K. Marx in senso riduttivo, proprio per evitare possibilità di sviluppo teorico progettuale con una conseguente prassi rivoluzionaria.

Salvatore A. Bravo – Il collare e le catene delle navi negriere, sono ora sostituiti dal controllo digitale, un panopticon che controlla per spezzare sul nascere la possibilità di un pensiero che voglia progettare un mondo altro.

Salvatore Bravo – Estetiche del turbocapitalismo. La paideia negativa e nichilistica dell’immagine. Contrapporre alla notte delle immagini la cultura dell’impegno, sottraendosi alla violenza dell’incultura dell’immagine.

Salvatore Bravo – Il flâneur, passeggiatore annoiato, è l’uomo massa della società dell’abbondanza che vive nella distanza dallo sguardo altrui. Essere astratto e distratto vive l’esperienza senza simbolizzarla in prassi, al servizio del sistema mediante le protesi tecnologiche, che esigono automatici comportamenti.

Salvatore Bravo – L’assenza di futuro è il nichilismo dell’assoluto presente. Il trionfo dell’immediato-astratto forma individui e non persone. Il radicamento nell’attimo fa del soggetto un ente che si piega alle circostanze.

Salvatore Bravo – Il pensiero corporante all’epoca del capitalismo assoluto, con la sua promessa dell’Eden restituisce soltanto un corpo esausto e violento, come nel mito della caverna di Platone. Si immilla la frustrazione. Il capitalismo oggi esige che l’uomo lotti contro se stesso oltre che contro gli altri.

Salvatore Bravo – Il disorientamento gestaltico e le parole valigia. Le parole valigia e lo spettacolo sempre in scena reificano il soggetto umano riducendolo a semplice funzione del gioco perverso della produzione.

Salvatore Bravo – Il modello Marchionne trasforma gli uomini in soldati dell’efficienza, inibisce ogni discussione sul senso e sulla dignità del lavoro, il cui scopo non è la sopravvivenza biologica, ma l’espressione di sé, della propria identità, la conoscenza di se stessi, come afferma la Costituzione. Il lavoratore è persona, non un servo dell’azienda.

Salvatore Bravo – L’umanesimo del lavoro in Marx. Il lavoro dell’«uomo macchina» distrugge il lavoro come progetto creativo in cui conoscersi perché il lavoro coatto brucia la creatività e inibisce la possibilità di costruire e produrre secondo le leggi della bellezza.

Salvatore Bravo – Tecnica e cultura classica. La potenza della tecnica non è garanzia di virtù e bene. Cultura classica come formazione alla libertà consapevole.

Salvatore Bravo – Lo sradicamento è vita fuori dalla storia, dalla coscienza, dalla comunità in cui la vita fiorisce. Lo sradicamento massimo è la riduzione di tutto sulla linea della quantità, è associare il bene solo alla quantità. Ma se il bene è la quantità, il male è per tutti.

Salvatore Bravo – ll presente non è tutto, lo diviene in assenza di domande. La domanda è già utopia concreta. Per pensare l’utopia concreta l’immaginazione è imprescindibile, essa è operazione critica, domanda radicale e filosofica, è una diversa rappresentazione del presente: mentre configura il futuro, opera nel presente investendolo di nuova vita. Un mondo senza pensiero ed immaginazione empatica è solo distopia.

Salvatore Bravo – L’epoca dello straniamento. Se ignoriamo che cosa mai noi siamo come potremo conoscere l’arte per render migliori noi stessi? Dalla peccaminosità assoluta alla colpevole innocenza. La vera trasgressione è il pensiero critico contro l’attività perenne senza consapevolezza.

Salvatore A. Bravo – Il bisogno di filosofia è un bisogno autentico, in quanto filosofare è proprio dell’essere umano. Nulla è facile, ma tutto diventa più difficile in un mondo senza teoretica.

Salvatore A. Bravo – Vogliamo ricordare Costanzo Preve, l’uomo e il filosofo che, con la sua resistenza al capitalismo speculativo, ha testimoniato che è possibile vivere diversamente dal nietzschiano “ultimo uomo”. È sceso nelle profondità sistemiche della nostra epoca e scandagliato filosoficamente la genesi dell’odierno economicismo nichilistico.

Salvatore A. Bravo – Le metafore nella filosofia. La metafora è bussola concettuale per guardare oltre l’orizzonte dell’angusto presente.

Salvatore A. Bravo – Plebe e popolo: rivoluzione passiva e tecnologie. Vi è popolo solo dove vi è sovranità partecipata. Il popolo diventa plebe in assenza di pensiero e di linguaggio. Il popolo è comunità manifesta, è progetto partecipato. Non possiamo sottrarci alla responsabilità del divertere.

Salvatore A. Bravo – La prudenza è virtù che coniuga qualità e misura dando un significato alla quantità, determinandola. La società dell’imprudenza si concretizza nella forma del nichilismo economicistico.

Salvatore A. Bravo – Senza progettualità, in un mondo senza virtù e nell’epoca della normalità del male, non vi è che l’eternizzazione dell’attimo che si ripete.

Salvatore A. Bravo – Ma che genere di uomini è questo? Quod genus hoc hominum? Quale barbara patria permette un’usanza simile? Quaeve hunc tam barbara morem permittit patria? Ci negano il rifugio dell’arena; muovono guerra impedendoci di scendere a terra e di fermarci sulla spiaggia. L’impegno civile è resistenza antropologica.

Salvatore A. Bravo – I barbari e l’Occidente. La comunità è il luogo del dono. La barbarie è l’incapacità di pensare la possibilità del dono. La bellezza germina nel pensiero che medita sull’esperienza. L’edonismo struttura un mondo senza intelligenza.

Salvatore A. Bravo – Massimo Bontempelli interprete di Karl Marx. Marx era prima di tutto un rivoluzionario: questa era la sua reale vocazione. La lotta era il suo elemento. Ed ha combattuto con una passione, con una tenacia e con un successo come pochi hanno combattuto.

Salvatore A. Bravo – La laicità all’epoca dell’integralismo laicista. Si può resistere alla mutazione antropologica messa in atto dal capitale assoluto in nome dell’aziendalizzazione della vita, della parola, delle relazioni.

Salvatore A. Bravo – La pedagogia del coding. Pensare come una macchina. L’efficienza è l’obiettivo finale. L’obbiettivo e disellenizzare. Il coding è costruzionismo attivistico. Al coding si può opporre la cultura classica.

Salvatore A. Bravo – La superstizione scientista. La verità è qualche cosa di infinitamente più dell’esattezza scientifica.

Salvatore A. Bravo – L’albero filosofico del Ténéré. Esodo dal nichilismo ed emancipazione in Costanzo Preve. Dalla metafora del deserto (Nietzsche-Arendt) al fondamento veritativo in Costanzo Preve.

Salvatore A. Bravo – Storia, filosofia ed oblio in Massimo Bontempelli. Sulla necessità di coniugare lo studio della storia e della filosofia di fronte alla pianificazione dell’oblio alienante e nichilistico.

Salvatore A. Bravo – Salviamo le Cattedrali dalle fiamme del plusvalore.

Salvatore Bravo – Superare L’inquietudine e l’indifferenza nell’estasi del camminare eretti, con l’entusiamo che scaturisce nell’anima da un punto originale che genera valore e determina valore, continuando ad ardere anche dopo tutte le catastrofi empiriche. È necessario, oggi, difendere il diritto alle passioni.

Salvatore Bravo – Siamo nella rete della globalizzazione della chiacchiera, ma abbiamo l’illusione di essere liberi. La chiacchiera, che è alla portata di tutti, non solo esime dal compito di una comprensione genuina, ma diffonde una comprensione indifferente, per la quale non esiste più nulla di incerto.

Salvatore Bravo – Populismo pedagogico e scuola senza concetto. La scuola facile non libera, non permette al pensiero di configurarsi, ma lo destruttura in chiacchiera. La scuola difficile e dell’impegno educa alla domanda, forma alla temporalità distesa e densa di contenuti.

Salvatore Bravo – La filosofia è per sua natura anticrematistica e comunitaria. è resistenza all’inverno dello spirito che avanza. L’uscita dallo “stato capitale” necessita della radicalità della filosofia, senza di essa non vi è prassi, non vi è verità, non vi è domanda, ma solo l’antiumanesimo.

Salvatore Bravo – I nuovi «dannati della terra» sono in grado di sfidare la paura. L’essere umano è pensiero, coscienza. per quanto forte sia il condizionamento, nessun potere potrà occupare lo spazio interiore dell’uomo, perché l’infinito è nell’essere umano.

Salvatore Bravo – Il 23 Novembre del 2013 veniva a mancare Costanzo Preve. Ci lascia una importante eredità morale e filosofica: cercare verità, complessità, libertà dalle conventicole. La filosofia non ha il compito di rassicurare, ma di porre domande, rinunciando alle facili risposte.

Salvatore Bravo – Intellettuali, parola e potere.

Salvatore Bravo – La filosofia umanizza, strappa l’essere dall’abbandono in cui vive, per consegnarlo a se stesso, al suo progettare nella storia. Scindere la verità dalla prassi e dalla responsabilità dispone l’essere umano alla passività. Ma così la filosofia diviene gioco ed intrattenimento per mediocrità acculturate.

Salvatore Bravo – La voce del padrone sulla scuola della sola “quantità”. In campo la «Fondazione Agnelli» ed «Eudoscopio».

Salvatore Bravo – filosofia e ordine del discorso. La «passione durevole» di György Lukács per la filosofia è finalizzata a trascendere i condizionamenti del capitalismo che vuole anestetizzare la corrente calda del pensiero critico perché nella prefigurazione del fine la coscienza struttura la prassi dell’emancipazione.

Salvatore Bravo – L’irrazionale-razionale del capitalismo si palesa con la legge della “nuova civiltà”: l’arbitrarismo.

Salvatore Bravo – L’automa è l’ideale del nuovo integralismo economicista: sussumere il corpo, l’anima e le relazioni. Ma dove regna la quantificazione la vita si consuma e si logora nell’utile. Vivere è aprirsi al mondo con le nostre domande di senso.

Salvatore Bravo – Il vessillo dell’Occidente consumistico è la libertà astratta dell’homo consumens. La modernità trionfante soddisfa l’istinto dell’animalità troglodita.

Salvatore Bravo – Il mito del progresso e Pasolini. Il simulacro (capitalismo) non nasconde la verità, ma non ha verità e teme di svelare il nulla che è.

Salvatore Bravo – Pensare la didattica alternativa e non subirla. Se un docente è stato capace di trasmettere contenuti, metodi, motivazioni, se ha testimoniato con il suo impegno silenzioso la consapevolezza del suo ruolo non vi è distanza che possa cancellare ciò che si è radicato nella profondità relazionale di ciascuno.

Salvatore Bravo – Il disprezzo come modalità di governo. Il disprezzo è la vera cifra dell’esperienza «covid 19». il sintomo di una malattia carsica e profonda che attende la cura del pensiero e della prassi.

Salvatore Bravo – Tutti promossi, perché la cultura e l’impegno non sono un valore, ma un limite al mercato. La didattica smart non insegna a pensare, ma solo a dare il minimo della preparazione che serve al mercato.

Salvatore Bravo – Il trionfo della malinconia nella società dello spettacolo nega la parola che è festa della vita. La festa è l’immanenza che dà un nuovo senso al tempo vissuto.

Salvatore Bravo – Tra guerra e paura. La lotta all’epidemia è descritta nella forma di una guerra capillare e pervasiva che irrora la comunità, fino a trasformarla in un luogo chiuso in cui regna la paura dell’altro. Nella guerra la prima vittima è la verità, scriveva Eschilo.

Salvatore Bravo – L’umanesimo integrale di Massimo Bontempelli. Filosofia Storia Pedagogia


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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