Gottfried W. von Leibniz (1646-1716) – La causa perché la mente agisca, ovvero il fine delle cose, è l’armonia. Il fine della mente è l’armonia massima

Gottfried W. von Leibniz 02

«Operare la scelta migliore e conforme all’armonia universale […] Che ciò che esiste è il meglio e il più armonico lo si dimostra invincibilmente in quanto la prima e unica causa efficiente delle cose è la mente; la causa perché la mente agisca, ovvero il fine delle cose, è l’armonia; il fine della mente più perfetta è l’armonia massima».

G. W. von Leibniz, Confessio Philosophi e altri scritti, Napoli, Cronopio, 2003, pp. 64-65.


Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646-1716) – Quando si discute intorno alla libertà del volere o del libero arbitrio, non si domanda se l’uomo possa fare ciò che vuole, bensì se nella sua volontà vi sia sufficiente indipendenza.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Leggendo «Il Monaco nero» di A. P. Čechov. La vera gioia è nell’ascolto della creatività. La creatività massimamente espressa è l’atto di sentire e cogliere la profonda forza germinatrice della vita che lega l’essere umano all’unità dell’universo.

Čechov Anton Pavlovič , Il monaco nero
Salvatore Bravo

La vera gioia è nell’ascolto della creatività



Il capitalismo assoluto è sistema senza alterità, quest’ultima è possibile dove vige la creatività. La pluralità implica un lavoro di traduzione, ovvero di avvicinamento senza possibilità di sovrapposizione all’altro. L’attività creativa umana pone ponti, ma non sono mai percorribili in toto, le identità restano inafferabili, perché creatrici e germinatrici di vita. Senza tale processo la comunità è solo “luogo computazionale”, in cui regna l’intelletto unico, prospettiva eguale, che rende le attività automatiche e sincrone. Il grande sogno del capitalismo assoluto è la realizzazione di questo immenso intelletto comune mediante il quale ridurre l’alterità, il pericolo della creatività a semplice “attività organica al sistema”. Si tratta di realizzare compiutamente l’atomismo per impedire lo scambio creativo e politico.
La divisione facilita l’installarsi dell’intelletto computazionale comune, l’anomia diventa la legge del capitale. Se ognuno è come gli altri il sistema è protetto da critiche e prassi e può in tal modo eternizzarsi e diventare globale. Si tratta di utilizzare il senso comunitario nel suo negativo, ovvero da “essenza della relazione per creare” a sterile contatto trasmissivo di informazioni, a uso del capitale umano ai soli fini produttivi. Alla vita, che con i suoi processi semina altra vita, si sostituisce la violenza della sola produzione, dell’accumulo divenuto mezzo e fine del sistema. È il nuovo imperativo categorico che i popoli debbono prima omaggiare e poi trasformare nell’unico modello da realizzare. È il regno dell’ultimo uomo descritto da Nietzsche, la mediocrità sterile che diviene legge della vita.

Il regno dell’ultimo uomo è stato profetizzato anche nella letteratura russa. La mediocrità divenuta legge è descritta come parametro medico, a cui ci si deve conformare. La medicalizzazione dell’alterità, di coloro che vivono lo spirito dionisiaco e dunque creativo, è ben descritto da A. Čechov in un breve racconto Il monaco nero, con il quale descrive la medicalizzazione del diverso, dello spirito creativo. Nel racconto vi è il montare di una scienza minacciosa che tutto vuole assimilare a paradigmi ritenuti “oggettivi”. Scienza medica incapace di metalettura, e dunque al servizio dei poteri di normalizzazione. Nel racconto dello scrittore russo emerge dunque, il problema della creatività e specialmente la domanda su che cosa sia la creatività e quale sia la sua genealogia. Anton Pavlovič Čechov (Taganrog, 29 gennaio 1860 – Badenweiler, 15 luglio 1904) per poter denunciare la minaccia del potere di normalizzazione che avanza chiarisce che la creatività massimamente espressa nel genio è l’atto di sentire e cogliere la profonda forza germinatrice della vita che lega l’essere umano all’unità dell’universo. La creatività è un dentro ed è contemporaneamente un fuori, è dunque relazione nella profondità di sé che apre varchi verso il mondo, verso la comunità, è attività che forma ed informa le relazioni. Il monaco che il protagonista scambia per allucinazione, in realtà è l’io profondo nel quale ciascuno intuisce la presenza della vita non sclerotizzata in forme precostituite, ma che necessita di essere tradotta in forme sempre vive:

«”Devi essere un miraggio”, disse Kovrin.Perché poi te ne stai qui fermo seduto? La leggenda e diversa. E lo stesso rispose il monaco non subito, piano, girando la faccia verso di lui. La leggenda, il miraggio e io, tutto questo e un prodotto della tua immaginazione eccitata. Sono un fantasma.Quindi, non esisti? chiese Kovrin. Pensala come ti pare rispose il monaco e fece un lieve sorriso. Esisto nella tua immaginazione, e la tua immaginazione fa parte della natura, quindi esisto anche in natura. Hai una faccia molto vecchia, intelligente e moltissimo espressiva, proprio come se vivessi davvero da più di mille anni disse Kovrin. Non sapevo che la mia immaginazione fosse in grado di creare fenomeni del genere. Ma perchè mi guardi con tanto entusiasmo? Ti piaccio? Sì. Sei uno dei pochi che si possono giustamente chiamare eletti da Dio. Sei al servizio della verità eterna. I tuoi pensieri, le tue intenzioni, i tuoi studi sorprendenti e tutta la tua vita portano un’impronta divina, celeste, poiché sono dedicati al razionale e al bello, ossia a ciò che e eterno. Hai detto: verità eterna… Ma e accessibile e necessaria, agli uomini, la verità eterna, se la vita eterna non esiste? La vita eterna esiste disse il monaco. Tu credi nell’immortalità degli uomini? Sì, certo. Un grandioso, brillante futuro aspetta voi uomini. E più sulla terra ci sono uomini come te, prima si realizzerà questo futuro. Senza associazione culturale Larici di voi, al servizio del principio supremo, che vivete con coscienza e liberta, l’umanità sarebbe insignificante; sviluppandosi in modo naturale, aspetterebbe ancora a lungo la fine della propria storia terrestre. Voi invece la fate entrare con qualche migliaio d’anni di anticipo nel regno della verità eterna – e in questo sta il vostro grande merito. Voi incarnate la benedizione divina che riposa negli uomini. E qual e il fine della vita eterna? chiese Kovrin. Come di tutte le vite: il piacere. Il piacere autentico sta nella conoscenza, e la vita eterna offre innumerevoli e inesauribili fonti di conoscenza, in questo senso e scritto: nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se tu sapessi com’e piacevole starti a sentire! disse Kovrin sfregandosi le mani dalla soddisfazione. Sono molto contento. Ma lo so: quando te ne andrai, la questione della tua essenza non mi dara pace. Sei un fantasma, un’allucinazione. Quindi sono malato di mente, anormale?». [1]

 

Vera gioia è nell’ascolto della creatività
La vera gioia è nell’ascolto della creatività fine a se stessa che rompe i limiti dello spazio e del tempo per armonizzare il soggetto con il cosmo, il quale è un organismo sempre vivo, l’anima mundi è la legge che “passa” e “vive” nell’atto creativo donando gioie non estemporanee, ma che si radicano in emozioni e formano strutture caratteriali positive. Il creativo non è invidioso, perché ha in sé più vita. La creatività insegna che per “essere diversi” non c’è bisogno di essere fenomeni da baraccone da vendere nel mercato dell’immagine. La diversità è l’ascolto del proprio “demone” come Socrate ci ha già insegnato. Se non si ascolta la propria voce interiore, la creatività è solo un volgare succedaneo di se stessi, pertanto diviene esibizionismo egocentrico, visivo e logorroico. La creatività autentica è nell’atto di coltivare il proprio sé profondo nel quale reincontrare se stessi e l’umanità intera. La mediocrità da sistema vuole avvelenare la fonte della libertà per imporre la normalità statistica come legge scientifica, e dunque si arroga il diritto di normalizzare e sanare chiunque rompa il protocollo del sistema gregge:

«E se fosse. Non c’è da essere imbarazzati. Sei malato perché hai lavorato al di là delle tue forze e ti sei esaurito, e quindi hai sacrificato la tua salute all’idea ed e vicino il tempo in cui le darai la vita stessa. Cosa c’è di meglio? E l’aspirazione di tutte le nature nobili che hanno doti celesti. Se so di essere malato di mente, posso credere in me stesso? Ma come fai a sapere che le persone geniali a cui crede tutto il mondo non abbiano visto fantasmi anche loro? Ora gli scienziati dicono che il genio sia affine alla follia. Amico mio, sani e normali sono solo i mediocri, che stanno in mezzo al branco. Le riflessioni sull’epoca delle malattie nervose, del sovraffaticamento, della degenerazione e cosi via possono mettere in seria agitazione solo chi vede lo scopo della vita nel presente, cioè quelli che stanno nel branco. I romani dicevano: mens sana in corpore sano. Non tutto quello che dicevano i romani o i greci e vero. L’animazione, l’eccitazione, l’estasi: tutto quello che distingue i profeti, i poeti, chi soffre per un’idea, dagli uomini normali e l’opposto dell’aspetto animalesco dell’uomo, cioè della sua salute fisica. Ripeto: se vuoi essere sano e normale, entra nel branco. E strano, ripeti quello che spesso viene in mente a me disse Kovrin. Sembra che abbia spiato, origliato i miei pensieri reconditi. Ma non parliamo di me. Cosa intendi per verità eterna?”». [2]

 

Nel regno del dicitur
L’attività creatrice è oggi osannata solo se funzionale al sistema produttivo, ma la creazione per sua natura risponde solo a se stessa, la creatività è anarchica. Il creativo oggi è perennemente minacciato, la pletora di messaggi che gli giungono, le pressioni istituzionali e la logica dell’utile inquinano il contatto con “il monaco nero”. Ognuno gioca la sua partita esistenziale nel coraggio di dire “sì” a se stesso, in un mondo che osanna i “dicitur”. Solitudine del genio e solitudine dell’umanità intera suddita di valori che necrotizzano la gioia e la fiducia nel proprio io profondo. Il potere si installa fin nelle viscere della persona, svuotandola e riducendola a semplice copia perfettamente sostituibile. La violenza diventa, così, legge, perché colui che è stato defraudato di sé diventa portatore di rabbia ed aggressività. Dobbiamo imparare dagli uomini che vissero la gioia:

«Nell’antichità un uomo felice fini per aver paura della propria felicita tanto era grande! – e, per propiziarsi gli dei, porto loro in sacrificio il suo anello preferito. Lo sai, anche me, come Policrate, comincia un po’ a inquietare la mia felicita. Mi sembra strano di provare dal mattino alla notte solo gioia, mi riempie tutto e ottunde tutti gli altri sentimenti. Non so cosa sia la malinconia, la tristezza o l’angoscia. Come ora che non dormo, ho l’insonnia, ma non mi angoscio. Dico sul serio: comincio a non capacitarmene. Ma perché? si stupì il monaco. La gioia e forse un sentimento sovrannaturale? Non deve essere la condizione normale dell’uomo? Più è elevato lo sviluppo intellettuale e morale di un uomo, più è libero, più piacere gli dà la vita. Socrate, Diogene e Marco Aurelio provavano gioia, non tristezza. Anche l’apostolo dice: Rallegratevi sempre. Quindi rallegrati e sii felice”».[3]

Il protagonista muore, perché è stato oggetto di un’operazione di normalizzazione, la morte fisica è il completamento della sua morte psichica avvenuta con la sua normalizzazione, con la scissione da se stesso con la quale ritrovare la acclamata normalità che il sistema vuole:

«Un’ altra colonna nera simile a un vortice o a una tromba d’acqua apparve sull’ altra riva della baia. Attraversava la baia a velocita spaventosa in direzione dell’ albergo, diventando sempre più piccola e scura, e Kovrin fece appena in tempo a scansarsi per lasciarla passare… Un monaco con la testa canuta scoperta e le sopracciglia nere, a piedi nudi, le braccia incrociate sul petto, gli sfreccio accanto e si fermo in mezzo alla stanza. Perché non mi hai creduto?” domando con aria di rimprovero, guardando tenero Kovrin. Se allora avessi creduto che sei un genio, questi due anni non li avresti passati in modo cosi triste e misero.” Kovrin credeva già di essere un eletto da Dio e un genio, gli vennero in mente nitide tutte le conversazioni precedenti col monaco nero e voleva parlare, ma il sangue gli usci dalla gola dritto sul petto e lui, non sapendo che fare, si passava le mani sul petto e i polsini gli si intrisero di sangue. Voleva chiamare Varvara Nikolaevna che dormiva dietro il paravento, fece uno sforzo e disse: Tanja!” Cadde a terra e, sollevandosi sulle braccia, chiamo di nuovo: Tanja!”».[4]

La morte del genio è la morte dell’occidente culturale che in nome dell’utile e della sicurezza ha rinunciato all’essenziale per il superfluo, in questo scambio vi è la verità del capitalismo assoluto che abbaglia per favorire “la cecità di massa”.

Salvatore Bravo

 

[1] Anton Pavlovič Čechov, Il monaco nero, associazione culturale Larici http://www.larici.it pagg. 12-13.

[2] Ibidem, pag. 13.

[3] Ibidem, pag. 17.

[4] Ibidem, pag. 24.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Alessandro Dignös – Uno Spinoza diverso. L’«Ethica» di Spinoza e dei suoi amici, di Piero Di Vona.

Spinoza- Di Vona Pietro-Alessandro Dignös
Alessandro Dignös

Uno Spinoza diverso. L’Ethica di Spinoza e dei suoi amici

di Piero Di Vona

Un possibile nuovo punto di partenza
per una reinterpretazione della filosofia di Spinoza

***

Lo scopo principale del presente studio di Piero Di Vona (1928-2018), insigne conoscitore e interprete della filosofia di Spinoza, è quello di «sollevare qualche dubbio sul modo in cui l’Ethica», il capolavoro del pensatore olandese, «si è formata» (p. 5). Tali dubbi non comportano il rifiuto del testo dell’opera in nostro possesso, giacché, come osserva lo studioso, esso appartiene alla storia del pensiero e, come tale, deve essere accettato. L’obiettivo del saggio di Di Vona è invece quello di chiarire se, e in che misura, «l’Ethica che possediamo uscì per intero dalla penna di Spinoza» (p. 9).
Secondo lo studioso, l’opera a noi giunta non riflette interamente il pensiero dell’autore, poiché «fu corretta dagli amici cristiani di Spinoza» (p. 10), cioè da quegli amici che, alla morte del filosofo, lavorarono all’edizione degli Opera Posthuma, di cui l’Ethica è parte integrante. Essi, per Di Vona, non si limitarono a correggere il latino dell’autore, ma intervennero sull’Ethica e sull’Epistolario, «stabilendo quali lettere si potessero pubblicare e quali no» (Ibidem). Dati gli interventi degli editori sul testo dell’opera, più che di Ethica di Spinoza, sarebbe corretto parlare di Ethica “di Spinoza e dei suoi amici”. Il presente lavoro di Di Vona è volto a fare luce sulle ragioni a supporto di questa tesi.

Ora, per capire quale sia l’intento degli amici di Spinoza, è opportuno rivolgersi al sottotitolo che compare nella traduzione nederlandese (dal latino) del Breve trattato su Dio, l’uomo e la sua felicità. In tale sottotitolo, scritto non da Spinoza ma dal traduttore, un suo amico, si sostiene che il trattato è stato tradotto «a beneficio degli amanti della verità e della virtù, […] affinché i malati nell’intelletto siano guariti con lo spirito di mitezza e tolleranza, secondo l’esempio di Cristo, nostro miglior maestro» (Sottotitolo). In verità, nell’opera di Spinoza non si fa riferimento a Cristo; l’accostamento tra la dottrina del filosofo e la morale cristiana si deve unicamente al traduttore. Da qui, sottolinea Di Vona, risulta evidente «il tentativo di fare di Spinoza un cristiano, o di presentarlo come un cristiano» agli occhi della comunità intellettuale – un intento che «è dunque antico tra gli amici di Spinoza e risale alla sua giovinezza» (p. 10), vale a dire al tempo dei suoi esordi filosofici.

L’obiettivo degli amici-editori degli Opera Posthuma di Spinoza è anzitutto quello di «difendere la filosofia di Spinoza dalle principali obiezioni filosofiche che circolavano su di essa già a quei tempi» e «assolvono questo compito cercando di dimostrare che non c’è nessuna discrepanza tra le idee di Spinoza e la dottrina di Cristo e degli apostoli» (p. 11). Che l’intento degli amici di Spinoza fosse proprio questo, rileva lo studioso, emerge con chiarezza nella Prefazione a tali scritti. Costoro, tuttavia, non riconducono a sé l’idea che si dia una concordanza tra la filosofia spinoziana e gli insegnamenti di Cristo, ma asseriscono che tutto ciò appare evidente nella parte IV dell’Ethica.

Ed è qui che, per Di Vona, vi sarebbero alcune “anomalie” che portano a pensare ad un intervento sul testo spinoziano. In particolare, nello scolio della proposizione 68, si fa riferimento alla vicenda di Adamo ed Eva e si sostiene che l’uomo cessò di essere libero allorché cominciò ad agire come gli animali, ritenendo che fossero suoi simili; subito dopo, si afferma che la sua libertà fu recuperata dai Patriarchi «guidati dallo Spirito di Cristo, ossia dall’idea di Dio, dalla quale sola dipende che l’uomo sia libero e che desideri per gli altri uomini il bene che desidera per sé» (Prop. 68, Scolio).

Questo passo dell’Ethica di Spinoza risulta problematico per diverse ragioni. Innanzitutto, si deve osservare come esso sia il solo luogo del capolavoro spinoziano in cui si fa riferimento a Cristo – un fatto che «deve renderci molto vigili nel giudicarne il valore conoscitivo e l’attribuzione a Spinoza stesso» (p. 20). In secondo luogo, l’idea che lo Spirito di Cristo si sia, in un certo senso, manifestato ai Patriarchi contrasta con ciò che Spinoza afferma in altri luoghi della sua opera, nonché con ciò che scrive nel Tractatus Theologico-Politicus – un’opera pubblicata mentre costui era vivo, dunque impossibile da “correggere” per gli editori cristiani. Come mette in luce Di Vona, Spinoza, quando si riferisce a Cristo, allude sempre a «come visse e si manifestò in un dato tempo e in una certa regione della terra e non asserisce mai, né suppone mai, che prima che Abramo fosse Egli era (Giovanni, VIII, 58) […]. Cristo non parla, né si manifesta mai a uomini di un tempo passato, né Spinoza fa mai la supposizione ch’egli si fosse mai manifestato ad uomini del passato» (p. 36). Stando così le cose, «sembra evidente che», nella prospettiva spinoziana, «non si potesse avere lo Spirito di Cristo prima che Gesù Cristo fosse» (p. 37). L’identificazione dello «Spirito di Cristo» con l’«idea di Dio» presuppone la dottrina trinitaria cristiana, che fa coincidere Cristo col Verbo di Dio, e dunque con Dio stesso; in questa prospettiva, lo Spirito di Cristo è chiaramente precedente l’esistenza dell’uomo Gesù. Tuttavia, si tratta di un’idea inconciliabile con la concezione spinoziana del Dio-Natura, la quale, rigettando l’idea che Dio possa «diventare una res finita come Gesù» (p. 39), implica ovviamente la ferma negazione dei dogmi cristiani dell’incarnazione e dell’eucaristia.

La seconda ragione per cui il passo in questione appare estremamente dubbio emerge, secondo Di Vona, se lo si confronta con ciò che Spinoza scrive nel Tractatus Theologico-Politicus a proposito di Adamo e dei Patriarchi. Qui il filosofo «rigetta interamente la caduta di Lucifero, la caduta di Adamo e la sua conseguente riduzione allo stato di natura lapsa» (p. 43), ossia di natura decaduta; in generale, se è vero che il nome di Adamo compare in più luoghi dell’opera, è altresì vero che non si dice mai che in seguito alla sua caduta gli uomini si snaturarono e divennero animali. Per Spinoza «non c’è mai stata una natura lapsa, e tanto meno una riduzione di Adamo e dei suoi discendenti allo stato animale»: infatti, «l’intelletto di Adamo e dei suoi discendenti è rimasto integro e capace di condurre l’uomo alla libertà della mente ed a riconoscere l’eternità della mente, sebbene come noi fosse soggetto agli affetti e alle passioni» (p. 47). Per quanto concerne i Patriarchi, lo studioso osserva come dalla lettura del Tractatus risulti evidente che «per Spinoza […] ebbero, come tutti gli altri Ebrei, una conoscenza del Dio delle narrazioni sacre, non la conoscenza chiara e distinta dovuta al lume naturale» (p. 42). Essi non compresero dunque l’«idea di Dio» grazie allo Spiritus Christi, ma ebbero una concezione antropomorfica del divino identica a quella di ogni altro Ebreo.

Dato quanto emerge, secondo Di Vona è lecito concludere che la parte dell’Ethica in cui si allude alla caduta di Adamo e alla restituzione della libertà da parte dei Patriarchi «guidati dallo Spirito di Cristo, ossia dall’idea di Dio», sia «una aggiunta estranea di cristiani troppo zelanti nel vano intento di difendere Spinoza dall’accusa di empietà e di ateismo» (p. 47). Questo obiettivo è perseguito dai suoi amici per mostrare che le sue idee sono in linea con i racconti delle Sacre Scritture e per suggerire che la libertà umana, per costui, coincide con la libertà cristiana. Si spiega in questo modo la totale discordanza tra ciò che si afferma in quel luogo dell’Ethica e ciò che Spinoza sostiene nel Tractatus Theologico-Politicus. Poiché, come emerge in quest’opera, «non c’è mai stata una natura lapsa» a causa di Adamo, «non c’era nessun bisogno per il nostro filosofo che i Patriarchi, ignoranti e capaci solo di avere un’idea antropomorfica di Dio, grazie allo Spirito di Cristo identico alla “idea di Dio”, non si sa come ottenuti, venissero a restituire non si sa come la libertà della mente a uomini ridotti allo stato animale» (Ibidem). In conclusione, lungi dall’essere dovuta ad “errori” o “sviste” dello stesso Spinoza, questa discrepanza è dovuta ad un vero e proprio intervento esterno da parte degli editori.

A questo punto, è forse possibile chiedersi se vi fosse una “ragione profonda” dietro tale tentativo di “cristianizzazione” della filosofia di Spinoza compiuto dai suoi amici. Di Vona mette in luce come quest’implicita “apologia di Spinoza” non fosse soltanto volta a scagionarlo dalle accuse succitate, poiché mirava a dimostrare che «Spinoza aveva insegnato che gli ignoranti che avessero creduto e praticato l’insegnamento degli articoli della fede universale del capitolo XIV del Tractatus Theologico-Politicus, e li avessero seguiti nella loro vita, in morte per le promesse, il perdono e la grazia di Gesù Cristo avrebbero conseguito anch’essi l’eternità della mente» (Ibidem). Sembra dunque questa la “ragione profonda” alla base dell’interpretazione cristianeggiante degli amici: dimostrare che, secondo Spinoza, tutti gli uomini possono conseguire l’eternità della mente attraverso la fede.

L’idea che, per Spinoza, l’eternità della mente sia conseguibile da ogni uomo per mezzo della fede sembra, in effetti, sostenersi su ciò che si legge in alcuni luoghi della parte V dell’Ethica. Di Vona ricorda che al termine dello scolio della proposizione 20 il filosofo afferma di aver concluso la trattazione di ciò che ha a che fare con la vita presente, e che è giunto il momento di trattare ciò che riguarda la durata della mente, senza relazione con il corpo, mentre nello scolio alla proposizione 40 sostiene di aver esposto ciò che intendeva mostrare sulla mente «senza relazione all’esistenza del Corpo». Anche Spinoza, dunque, come i cristiani, pare ammettere l’idea di una durata della mente indipendente dal corpo. Non solo: nella proposizione 30 si afferma che la mente conosce «il Corpo sotto la specie dell’eternità», cioè il corpo come un elemento eterno. Si tratta di un’idea che sembra conciliarsi con quella della «resurrezione della carne» affermata dal Cristianesimo. Ma Spinoza – è giusto chiedersi – ha davvero sostenuto idee così affini a quelle su cui si fonda la religione cristiana?

Secondo Di Vona, anche in questo caso ci sono buoni motivi per pensare a delle aggiunte apocrife nel testo dell’opera. Se, ad esempio, si considera la proposizione 39, si può notare come Spinoza, in contrasto con quanto si legge negli scoli delle proposizioni 20 e 40, dichiari che il conseguimento dell’eternità della mente è possibile solo con un «Corpo atto a moltissime cose» (Prop. 39, Scolio). Non solo dunque non si parla di “durata della mente senza relazione con il corpo”, ma addirittura si sostiene che soltanto il possesso del corpo consente di conseguire l’eternità della mente. Inoltre, se è vero che nella proposizione 30 si parla di «Corpo sotto la specie dell’eternità», è altrettanto vero che in alcune proposizioni precedenti si parla invece di «idea che esprime l’essenza di questo e di quel Corpo umano sotto la specie dell’eternità» (Prop. 22), di «idea che esprime l’essenza del Corpo sotto la specie dell’eternità» (Prop. 23, Scolio) o di «essenza del corpo sotto la specie dell’eternità» (Prop. 29). Si passa così, in maniera graduale, dall’idea che la mente conosca “l’idea dell’essenza del corpo sotto la specie dell’eternità” a quella secondo cui la mente conosce l’“essenza del corpo sotto la specie dell’eternità” e, infine, all’idea che la mente conosca il “corpo” stesso come eterno.

Dinanzi a tali incongruenze, per lo studioso non è illecito supporre che gli editori fossero intervenuti su questi punti dell’Ethica proprio allo scopo di «difendere, per quanto era possibile e in accordo con la Prefazione delle Opere Postume, le idee cristiane dell’immortalità dell’anima e della resurrezione della carne» (p. 52). In questo modo, essi «misero il lettore di Spinoza nella necessità di ritenere che, se per avere l’idea di corpo nella durata occorre un corpo esistente in atto nella durata, come afferma Spinoza nel corollario della proposizione 8 della parte II dell’Ethica e nello scolio della proposizione 23 della parte V, allora per avere una idea di noi stessi nella eternità, occorre avere un corpo sub specie aeternitatis, e perciò lo premisero nella proposizione 30 alla proposizione 31 della parte V che afferma che la mente stessa è eterna» (Ibidem). Non fu dunque Spinoza a sostenere e insegnare tesi e idee che richiamano alcuni dogmi del Cristianesimo ma, al contrario, furono i suoi amici cristiani a “modificare” il suo capolavoro e ad “adattare”, per quanto possibile, il suo pensiero filosofico alla concezione cristiana del mondo. Intervenendo sull’Ethica e “avvicinando” Spinoza a tali dogmi, gli editori delle Opere Postume cercarono di attribuirgli l’idea che tutti gli uomini, compresi gli ignoranti, possono conseguire l’eternità della mente se aderiscono alla fede cristiana. Per effetto del loro intervento, Spinoza non appare solo come un autore cristiano, ma addirittura come un filosofo che chiarisce e insegna come il Cristianesimo rappresenti il “grande veicolo” in virtù del quale ciascun uomo viene condotto al conseguimento dell’eternità della mente.

Alla luce di quanto è emerso, è possibile comprendere che cosa abbia veramente detto Spinoza? Se l’idea che la religione cristiana costituisca il medium per conseguire l’eternità della mente non può essere ascritta a costui, com’è possibile che ciò avvenga? Chi, per Spinoza, può conoscere l’eternità della mente? Nel Tractatus Theologico-Politicus, com’è noto, egli sostiene che agli ignoranti che rispettano le regole e i dogmi della fede si aprono le porte della salvezza; tuttavia, ben altra cosa è il conseguimento dell’eternità della mente, come si evince da alcuni passi fondamentali dell’Ethica. Ciò è possibile soltanto a quei «pochissimi» che dispongono della «conoscenza intuitiva» (scientia intuitiva), cioè ai «sapienti», «cui Spinoza ha rivolto la dottrina della parte V dell’Ethica» (p. 105). Ad essi si contrappone la stragrande maggioranza del «volgo», cui appartiene chiunque sia schiavo dell’immaginazione, delle memoria e delle passioni. Stando così le cose, come potrebbero i cristiani conoscere l’eternità della mente? Essi compongono il «volgo» al pari di tutti coloro che ignorano la verità dell’essere – siano essi reggitori, nobili, dotti, filosofi o uomini comuni. Di Vona suggerisce, in conclusione, che la “difficilissima” conoscenza dell’eternità della mente abbia, nella prospettiva spinoziana, un carattere “esoterico”: essa, infatti, «intendere non la può chi non la trova. […] Spinoza ha potuto parlarne da filosofo, ma non può comunicarcela ed essa non è comunicabile. La consapevolezza dell’eternità non s’insegna e non si partecipa: “può tuttavia essere trovata”. Questo è tutto» (Ibidem).

L’analisi di Di Vona, condotta sulla base di una profonda conoscenza del pensiero di Spinoza, ha il merito di sollevare alcuni dubbi sulla formazione del suo capolavoro filosofico, arrivando a mettere in discussione l’autenticità di alcuni suoi punti e le interpretazioni della filosofia spinoziana che su di esso si reggono. In ogni caso, l’obiettivo del presente saggio non è quello di negare l’importanza storica della lettura data dagli amici del filosofo: «con la Prefazione» agli Opera Posthuma, infatti, «comincia lo Spinozismo e l’interpretazione cristiana di Spinoza, destinata a un lungo avvenire» (p. 14); né – è bene ripeterlo – è quello di «infirmare il testo che ci è pervenuto» (p. 5): come ammette lo stesso studioso, «bisogna saper distinguere il testo definitivo che ci è pervenuto, dalla sua formazione, perché esso appartiene ormai da secoli alla storia della cultura filosofica moderna» (p. 48). Nondimeno, l’immagine di Spinoza che emerge dalla sua analisi è diversa da quella tramandata da una lunga tradizione di studi, ed è per questa ragione che non sembra scorretto considerare il presente studio un possibile nuovo punto di partenza per una reinterpretazione della sua filosofia.

Alessandro Dignös
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M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Natoli – Il perseverare esige l’essere forte ma nel senso del mantenersi saldo, di durare nel tempo. La perseveranza coincide con la continuità nel bene soprattutto a fronte, contro e in mezzo alle difficoltà. È uno stabile e perpetuo permanere nel bene.

Salvatore Natoli, perseveranza

Il perseverare esige l’essere forte ma nel senso del mantenersi saldo, di durare nel tempo. La perseveranza coincide con la continuità nel bene soprattutto a fronte, contro e in mezzo alle difficoltà. È uno stabile e perpetuo permanere nel bene.

Quando Aristotele comincia a passare in rassegna in modo dettagliato le virtù, le prende in esame, come lui dice, a partire da un elenco […] (in proposito cfr. A. Fermani, Introduzione, in Aristotele, Le tre etiche, Milano, Bompiani, 2008, p. XCIV).
[…] In greco perseveranza si dice proskarteresis che è un rafforzativo, indicato dalla particella pros (oltre, ancora), del termine karteria (costanza), derivante dal verbo kartereo che vuol dire appunto perseverare. Il perseverare esige l’essere forte ma nel senso del mantenersi saldo, di durare nel tempo. In breve, la perseveranza coincide con la continuità nel bene soprattutto a fronte, contro e in mezzo alle difficoltà. Karteria, infatti, può essere tradotto, oltre che con «perseveranza», con «costanza» e perfino con «pazienza» […]. Il termine karteria impiegato dagli stoici da alcuni traduttori è reso con «costanza», ma può esserlo altrettanto con «perseveranza»: per Crisippo, infatti, la karteria (costanza) è «la scienza o la “giusta” disposizione d’animo verso ciò che richiede saldezza o non la richiede o è indifferente».[1] Lo stesso Crisippo aggiunge: […] «la costanza è la scienza di ciò che va sopportato, oppure non va sopportato, ovvero la virtù che ci rende superiori a quelle cose che paiono insopportabili».[2] Questa seconda definizione, che certo vale per la costanza, meglio si addice alla perseveranza come suo rafforzativo; per la medesima ragione la si può estendere perfino alla pazienza […]. Conclusivamente, la perseveranza, per dirla con Tommaso d’Aquino[3] […], è uno stabile e perpetuo permanere nel bene.

 

Salvatore Natoli, Perseveranza, il Mulino, Milano 2014, pp. 47-50.

[1] Crisippo, Stoici antichi. Tutti i frammenti, a cura di R. Radice, Milano, Rusconi, 1998, p. 1099.

[2] Ibidem, p. 1103.

[3] «In ratione bene considerata stabilis et perpetua permansio» (Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, 2-2, q. 128, a. 1).

Salvatore Natoli – Se il coraggio allude ad un’arditezza che oltrepassa ogni timore, senza perciò divenire temerarietà, il reggere nella sofferenza allude alla capacità di tenere oltre ogni dolore, senza decadere al livello della semplice sopravvivenza. Qui la dignità e la misura
Salvatore Natoli – Le parole, prima ancora di pronunciarle, bisognerebbe ascoltarle, ci sono state donate. La sapienza delle parole ha preceduto la filosofia.

Tra i libri i Salvatore Natoli



Soggetto e fondamento. Studi su Aristotele e Cartesio, Antenore, 1979


Teatro filosofico, Feltrinelli, 1991

L’ incessante meraviglia. Filosofia, espressione, verità, Lanfranchi, 1993

La filosofia è una battaglia intorno all’essere, perché essa cerca il significato di quel che esiste: così facendo porta all’esistenza i significati stessi, costruisce il senso del mondo. La battaglia intorno all’essere coincide dunque con una battaglia intorno alla verità. Ora questo è possibile solo se si è nelle condizioni di poter discernere il vero dal falso. Ragionare intorno alla verità significa quindi ragionare sul tempo e l’eternità. Se così è, la filosofia si configura come una battaglia di giganti intorno all’essere, poiché si caratterizza come una sfida che esige dagli uomini uno sforzo estremo qualunque sia il grado della loro forza. Tutto ciò lo aveva ben chiaro Nietzsche quando si domandava di quale e quanta forza necessitano gli uomini per reggere il peso della verità dai discorsi si generano dunque i discorsi. Sotto questo aspetto, la verità è davvero inesauribile: essa è qualcosa di non concluso e insieme non pare suscettibile di conclusione. Ora, se ciò a cui gli uomini pervengono non è mai definitivo, si capisce bene perché nel corso del tempo la verità sia venuta sempre più a coincidere con quel che si cerca piuttosto che con quel che si trova. Quel che qui soprattutto emerge è il modo in cui la verità è messa in gioco nei diversi linguaggi, con un focus sulla questione della verità così come essa è formulata nella epistemologia storica di Foucault.


Delle cose ultime e penultime, Mondadori, 1997

Un grande teologo del nostro tempo e un esponente di spicco del pensiero laico o meglio, secondo una sua definizione, del neopaganesimo si confrontano sui temi fondamentali dell’esistenza. Dal dibattito emergono punti di incontro e distanze non sempre prevedibili, ma il libro testimonia della possibilità di dialogo tra posizioni opposte in un’ottica di apertura e di arricchimento reciproco



Dialogo su Leopardi. Natura, poesia, filosofia, Bruno Mondadori, 1998

Questo libro si segnala per la sua originalità (la prima parte è costituita da un dialogo su Leopardi tra un filosofo e uno studioso di letteratura) e utilità (una serie di brevi saggi che mettono a fuoco la visione del mondo del poeta di Recanati e una ricca bibliografia per chi voglia approfondire il tema).
Due studiosi amici dialogano su Leopardi. Lo sguardo filosofico dell’uno e lo sguardo letterario dell’altro si incrociano, si sovrappongono. Nella conversazione trascorrono le figure più intense – per profondità teoretica e poetica – del pensiero leopardiano: la natura, il desiderio del piacere, la meditazione sulla felicità, gli antichi e il fanciullo, la sofferenza dei viventi, la lingua della poesia


Dio e il divino. Confronto con il cristianesimo, Morcelliana, 1999


La politica e la virtù, Edizioni Lavoro, 1999


Progresso e catastrofe. Dinamiche della modernità, Marinotti, 1999


 I nuovi pagani, Lampi di stampa, 2000

Salvatore Natoli propone al lettore una riflessione intorno alla possibilità, per l’uomo contemporaneo, di abitare in modo diverso il pianeta e un’etica del finito come capacità di comprendersi a partire dalla consapevolezza della propria finitudine. Un modello possibile è, secondo l’autore, il paganesimo dei Greci: un abitare il mondo che accetta il finito come sufficiente a se stesso e degno di esistere.


Il cristinesimo di un non credente, Qiqajon, 2002

Tra l’etica del finito e il cristianesimo non è difficile trovare sintonie. Ma il cristianesimo è tutto qui vi sono cose a cui l’uomo è elevato,che a lui sono donate, che non appartengono alle sue possibilità, ma riguardano gli impossibili Dei?


Libertà e destino nella tragedia greca, Morcelliana, 2002

Con l’accanimento di chi ha a cuore la verità, e con la pietas di chi ha trepidazione per il creaturale, Salvatore Natoli indaga la straordinaria vicenda della fioritura del tragico nell’Atene del V secolo. E ci invita a spingere a fondo lo sguardo fino a rinvenire – nelle esaltanti e terribili vicende di Edipo e di Oreste, di Antigone e Clitemnestra, di Prometeo e Filottete, di Medea e Agamennone – ciò che, in tutti i tempi, sta al fondo della storia dell’uomo: la sua domanda di sapere perché vive, il percepire che le cose dell’esistere “sono problema”. “Qualcosa c’è. E ci trascende” è detto in Euripide. È compito del filosofo e del teologo, ma anche di ogni lettore, ricomporre la struttura dei diversi contesti culturali e religiosi e mettere a confronto i modi in cui è vissuta e patita la lontananza di un “Dio che si nasconde”. Non basta però ricomporre i frammenti del Tragico della Grecia antica come se si trattasse di ricostruire una mappa in disuso. Quella mappa – tracciata con gesti, silenzi, grida – può fare da segnavia anche al nostro cammino che, talvolta, sembra guidato più dal vento dionisiaco della Tracia che da un geometrico disegno divino(dalla Prefazione di Gabriella Caramore).


Fine della storia e mondo come sistema. Tesi sulla post-modernità, E. De Cristofaro, 2003

Secondo un ricorrente adagio la storia è finita; chi propugna questa tesi vede nell’accelerarsi degli eventi, nel contrarsi delle epoche come spazi unitari di senso e nel prevalere della dimensione della simultaneità sulla sequenzialità, altrettanti argomenti a favore di essa. Alla fine del mondo storico si accompagna inesorabilmente la fine dell’uomo come centro di imputazione di scelte e come donatore di senso, le azioni dei singoli non veicolando più alcuna sintesi o incarnando alcun universale, ma riducendosi a puro medium di un operare sistematico anonimo e reticolare. Anche il fondamento della democrazia muta.


La verità in gioco. Scritti su Foucault, Feltrinelli, 2005

Salvatore Natoli rilegge Foucault, a vent’anni dalla morte, e nell’introduzione spiega i motivi della sua scelta: “Foucault ha pensato in modo originale e non tanto o non solo per gli argomenti di cui trattava – mai astratti, ma radicati sempre nelle istanze del presente – ma soprattutto perché ha cambiato le modalità consuete dell’interrogare, del rispondere: in breve, ha impresso una diversa curvatura ai modi abituali di fare teoria, ha prodotto, per dirla nel suo linguaggio, un vero e proprio effetto di campo. Per questo ritengo più che mai opportuno riprendere, oggi, le fila del suo pensiero, per segnalare l’ampiezza degli effetti e mostrare quanto sia ancora fecondo per noi”.


Guida alla formazione del carattere, Morcelliana, 2006

Una breve, chiara, ed essenziale introduzione all’esercizio della filosofia, partendo dalle esperienze prime della vita: il corpo, l’io, la storia. Un libro per studenti, docenti e appassionati di filosofia. L’Autore è ordinario di Filosofia teoretica all’Università di Milano-Bicocca.


I dilemmi della speranza. Un dialogo, la meridiana, 2006

In fondo al vaso di Pandora, dice il mito, c’è la speranza che, talvolta, illudendo, può deludere. Dai tornanti della riflessione filosofica e da quelli dell’impegno politico, questo dialogo conduce alla conclusione che solo un amore maturo e, dunque parziale e non paranoico, rispettoso della vita e non sprezzante, può fondare, in questo tempo, una speranza che non si rovesci nel suo contrario.


Sul male assoluto. Nichilismo e idoli nel Novecento, Morcelliana, 2006

Costante, nella tradizione filosofica, è stata l’argomentazione della teodicea: discolpare Dio dei mali del mondo, per giustificarne la bontà. Il Novecento – accanto a un ritorno di quell’argomento trasformato in domanda sull’assenza di Dio ad Auschwitz – sembra consegnare al pensiero un’altra sfida: demitizzare il concetto di male assoluto, per far fronte agli orrori che gli uomini procurano a se stessi e ai propri consimili. Quelle sofferenze causate dalle ideologie protese alla realizzazione nella storia di un valore assoluto. E la filosofia, distanziandosi criticamente dalle tentazioni idolatriche, è invitata a trasformarsi in “etica del finito”, “cura di sé”: un sapere dove gli uomini trovino, a partire dalle tradizioni anche religiose dalle quali provengono, le parole per gli enigmi del male – quelle parole che offrano loro disincanto, responsabilità e amore del prossimo. Amore che è insieme custodia e pietas degli altri e di sé.


L’ attimo fuggente e la stabilità del bene, EdUP, 2007

Salvatore Natoli è da sempre attento agli interrogativi più urgenti del presente. La felicità, per dirla con le sue stesse parole, è un “tema d’esistenza, anzi, per usare una formula cara agli antichi, è il fine stesso della vita”. “L’attimo fuggente e la stabilità del bene” è una riflessione sulla dinamica di fondo che caratterizza la felicità e i suoi molti modi di manifestarsi: la beatitudine, la serenità, la gioia. La felicità, dunque, non sta solo nell’attimo, nell’acme cui perveniamo, ma nell’appartenere a essa. La felicità è piacere d’esistere, fecondità. È espressione della vita che vuole se stessa e che trova compimento nella sua stessa realizzazione: nelle vite riuscite. Per questo la felicità, come dice Nietzsche, non risiede tanto nella sazietà, ma nella gloria della vittoria, per questo ha la forza di rinvenire perfino sopra e oltre il dolore. In questo senso essa è frutto di virtù. Non è perciò solo un mero transitare, un sentimento labile, ma è un bene stabile. Coincide, infatti, con la capacità di trasformare gli ostacoli in sfide.


La salvezza senza fede, Feltrinelli, 2007

“Il neopaganesimo può essere variamente definito e interpretato. In questo caso per neopaganesimo si deve, però, intendere quell’atteggiamento, o quel punto di vista, che coincide con l’etica del finito o che comunque l’assume come propria.” Inizia così la riflessione di Salvatore Natoli che ruota attorno al tema del neopaganesimo e della sua etica, nell’accezione di visione del mondo e senso, ethos, ossia costume e abitudine, più che regola e dovere. Etica del finito significa dunque comprendersi a partire dalla propria finitudine. Il neopaganesimo è quindi costitutivamente non cristiano, anche se non necessariamente anticristiano; il cristianesimo postula infatti una finitudine, ma è quella propria della creatura di Dio, non quella naturale del mortale. Il paganesimo cui Natoli fa riferimento è quello della visione greca del mondo, per cui la misura della finitudine è invece solo la morte; quindi il finito finché esiste è degno di esistere e l’uomo deve valorizzarsi nel tempo, mantenersi fedele al presente, essere all’altezza della propria morte. Per vivere il finito senza pretendere l’infinito, il pagano deve sapere quel che può, in assenza di speranza di salvezza e nella consapevolezza della comune fragilità umana. I nuovi pagani, qui presentato in edizione ampliata e con un nuovo titolo, è stato pubblicato per la prima volta da il Saggiatore nel 1995.


Utopia della libertà. DVD, Casini, 2007


Edipo e Giobbe. Contraddizione e paradosso, Morcelliana, 2008

Due esperienze della relazione tra l’uomo e il divino. Questi sono Edipo e Giobbe, assunti qui come modelli dell’esistenza. Da un lato il mito greco, nel quale si racconta l’enigma del rapporto tra l’uomo e il suo destino. Il male è causato involontariamente, questa è la colpa di Edipo: è una contraddizione, che contrassegna per i Greci il finito. Dall’altro lato, la disputa tra il giusto, Giobbe, e il suo Dio: “Perché proprio a me, innocente, capitano queste disgrazie?”. Una domanda che diventa tensione della fede e ne mostra la natura paradossale: Giobbe “ama Dio, senza nulla in cambio”.Una colpa involontaria, una sofferenza incolpevole: due modelli distanti non solo culturalmente, ma ancora prima logicamente. È la differenza tra tragedia e mistero, tra un mondo in cui il destino decide e una storia in cui un Dio salva. La cultura dell’Occidente può essere vista come un instabile convivere di questi due modelli di elaborazione del dolore. Sono orizzonti di senso che, nonostante il venire meno delle memorie di cui è intessuta una tradizione culturale, persistono anche nell’oggi quando l’uomo si trova di fronte alle situazioni limite.


Stare al mondo. Escursioni nel tempo presente, Feltrinelli, 2008

Stare al mondo. In altre parole, definire e possedere una condotta umana. O ancora: rinunciare a sopravvivere per riguadagnare un senso di marcia, una direzione. C’è una sorta di emergenza morale in questo “stare al mondo”. C’è un’opposizione ferma allo spaesamento e a tutto ciò che di analgesico questo comporta. Con lo “stare al mondo” si evocano insieme un’identità geografica (il posto che occupiamo nell’esistenza) e un’identità etica (qual è il nostro orizzonte di valori? Esiste? Come lo possiamo conoscere?). Un nuovo “governo di sé” emerge necessario e possibile, compreso fra il vissuto individuale e il panorama dinamico della collettività.


La mia filosofia. Forme del mondo e saggezza del vivere, ETS, 2008

Come si è venuta costruendo una filosofia? Quali sono state le tappe della sua gestazione? Sono queste le domande che trovano risposta in questo libro-intervista di Salvatore Natoli. Dagli anni giovanili in Sicilia alla frequentazione dell’Università Cattolica, dallo studio dei classici ai primi lineamenti di un’ermeneutica genealogica, dall’elaborazione di una teoria del soggetto a un’immedesimazione sempre più intensa con il dolore e la felicità degli uomini, dalla ripresa del tema delle virtù allo sviluppo di un’etica del finito: nel percorso filosofico di Natoli l’ascolto e l’interpretazione del reale vanno di pari passo, in un incedere che elabora categorie, offre modelli e fornisce un orizzonte per orientarsi nell’enigmaticità del mondo.


Il crollo del mondo. Apocalisse ed escatologia. Morcelliana, 2009

La storia dell’Occidente, per la sua matrice ebraico-cristiana, può esser vista come una variazione dei significati assunti da due categorie, apocalisse ed escatologia. Partendo dalla loro rigorosa definizione escatologia come attesa della fine del mondo e apocalisse come rivelazione del Regno – l’autore si sofferma su due autori emblematici delle origini del cristianesimo, Paolo, e della fine della cristianità, Sergio Quinzio. Se nelle Lettere di Paolo possiamo sorprendere i vari significati assunti nel cristianesimo antico dal termine escatologia – attesa di un ritorno imminente del Signore, spiritualizzazione di quest’attesa, fino all'”escatologia aoristica” della Lettera ai Colossesi, dove si parla di una salvezza compiuta -, in Quinzio abbiamo il consumarsi, nella sua paradossalità, della tensione apocalittica: il ritardo del ritorno del Signore diviene in lui appello alla promessa di redenzione, non rassegnandosi alla sua smentita storica. Attraverso Paolo e Quinzio, si può leggere in filigrana la storia di un’eredità religiosa che, nata per giudicare il mondo, ne è divenuta parte tra fedeltà, inevitabili tradimenti, e nostalgia delle origini. Un’eredità che ha nella carità (nell’agápe) un modello quanto mai prezioso per vivere con e per gli altri in un mondo dove le catastrofi non annunciano una rivelazione prossima, ma il persistere di una sofferenza ingiustificata.


Figure d’Occidente. Platone, Nietzsche e Heidegger, Alboversorio, 2010

Le lezioni presentate in questo volume hanno l’obiettivo […] di riuscire a offrire, conservando una sorta di carattere introduttivo e divulgativo, uno sguardo d’insieme su alcuni caratteri della cultura occidentale attraverso la lettura di tre importanti filosofi.


Soggetto e fondamento.
Il sapere dell’origine e la scientificità della filosofia, Feltrinelli, 2010

La filosofia e in genere la cultura contemporanea hanno posto come uno tra gli oggetti privilegiati di analisi la questione del soggetto. Il soggetto ha dato luogo così a un decisivo dibattito, che si enuncia nella filosofia idealista, si mantiene in forme diverse nella sua crisi e oltre, sussiste oggi come problema aperto. L’intenzione di Salvatore Natoli, in questo libro, è quella di chiarire il significato e il valore della nozione di soggetto nei suoi tratti costitutivi e dominanti. E la conclusione cui si arriva è che il concetto di soggetto coincide con quello di fondamento: il soggetto fonda in quanto con esso si pone il principio dell’identità e della differenza. In questa ricerca si concentra sull’analisi di due “luoghi” della storiografia filosofica che si possono ritenere classici al fine d’enucleare l’idea di soggetto: Aristotele e Cartesio; tracciando, a partire da questi due modelli, in primo luogo un'”ideografia” del soggetto, seguendone in secondo luogo il movimento e delineando così una “dinastia”. Con la riedizione di “Soggetto e fondamento” torna uno dei testi di filosofia più importanti degli ultimi trent’anni, uno studio da cui si sono sviluppate le riflessioni etiche delle opere successive di Natoli.


L’ edificazione di sé. Istruzioni sulla vita interiore, Laterza, 2010

È possibile abitare il mondo senza fughe in un’improbabile trascendenza, e senza deliri d’onnipotenza? La forza, la temperanza, il coraggio, in breve tutte quelle che un tempo si chiamavano virtù, esistono ancora? Sembra siano state dimenticate. Tuttavia in una società mobile, complessa, frammentata si sente la necessità di darsi un’identità, di trovare corrispondenza negli altri. E se non si riesce a concedere fiducia, si cerca almeno di evitare la delusione. Per questo le virtù riaffiorano o quanto meno comincia a sentirsene il bisogno. Ma cos’è propriamente virtù? È l’unico modo che abbiamo d’inventarci la vita, di darle ‘forma’ e divenire, così, padroni di noi stessi e, a pieno titolo, soggetti. Ma virtù è anche saper prendere distanza da sé: come un guardarsi da fuori per poterci giudicare – per quanto possibile spassionatamente e poter guadagnare così uno sguardo privo di pregiudizi e perciò più trasparente sul mondo. Praticare le virtù vuol dire prendersi a cuore, avere cura di sé. Ma ogni nostra azione è sempre relazione, anzi noi stessi lo siamo. Infatti, non si può essere felici da soli. Per questo le condotte personali entrano inevitabilmente in circolo con le pratiche sociali e sono proprio le virtù che allentano le resistenze e permettono l’instaurarsi di rapporti giusti con gli altri. Come diceva Spinoza: nulla è più utile all’uomo che l’uomo stesso. Per questo l’estetica dell’esistenza si coniuga con la realizzazione del bene.


Eros e Philia, Alboversorio, 2011

“Poniamoci una domanda: i grandi amori quanto durano? quando si stabilizzano nel tempo? quando l’altro non è più solo il termine del desiderio, ma è qualcosa che io prendo in custodia perché mi sta a cuore. Perché se Eros non diventa philia degenera in vizio. Affinché una relazione si stabilizzi, le anime stesse devono essere stabili, ci deve essere rispecchiamento e specularità tra di esse.”


I comandamenti. Non ti farai idolo né immagine, il Mulino, 2011

L’interdetto di questo comandamento nella cultura biblica non vieta la produzione d’immagini, ma il loro uso improprio, la loro elevazione a divinità. Non si possono adorare altri dei e non si può adorare Dio al modo degli altri, ossia rendendolo immagine-feticcio. Non solo: le storiche dispute religiose in ambito cristiano su questo divieto hanno investito anche il tema della differenza fra l’autentico sacramento della presenza divina e il segno magico o superstizioso, come l’amuleto e il feticcio. Oggi il problema dell’idolatria non si è esaurito, ha solo trovato la sua metamorfosi banale nella proliferazione di nuove icone e idoli di massa prodotti dai media. Come distinguere ancora l’incanto dell’immagine sacra e artistica dalla perversione del feticcio?


 La fecondità delle virtù, F. Nodari, 2011


La felicità di questa vita.
Esperienza del mondo e stagioni dell’esistenza
, Mondadori, 2011

Felicità di questa vita. Perché? Perché è qui, in questo mondo, che l’uomo ne fa esperienza, ma ancor più perché è la vita a essere felice. Più che fugace evento occasionale, la felicità è frutto della virtù, ma della virtù intesa nel significato originario di “abilità”, di “perizia” nel fronteggiare e aggirare le difficoltà. Per essere felici, gli uomini devono diventare in qualche modo “virtuosi” dell’esistenza, così come si definisce virtuoso un grande pianista, un acrobata, e in genere tutti coloro che sanno rendere facile il difficile, sanno trasformare le difficoltà in stimolo, la fatica in bellezza, in opera d’arte. In questo libro si parla di felicità percorrendo le tappe della vita e indagandone il senso.


Nietzsche e il teatro della filosofia, Feltrinelli, 2011

“La formula ‘fine del moderno’ – entrata da tempo in uso e oggi forse anche uscitane – suggerisce l’idea, in qualunque modo la si voglia intendere, che del moderno qualcosa è tramontato. Che, poi, si sia definitivamente concluso si può anche discutere, ma non v’è dubbio che Nietzsche si colloca al centro di questo snodo e ne rappresenta il radicale crocevia. Motus in fine velocior, e di questo Nietzsche è conseguenza e insieme manifestazione: non per caso formula la sua filosofia come un annuncio. Per la stessa ragione, costituisce un punto di non ritorno, un inevitabile transito. Ciò dà conto della ragione per cui proprio con Nietzsche venga quasi spontaneo passare al ‘dopo Nietzsche’. E lui che suggerisce d’oltrepassarlo. Questo libro non è perciò, né vuole esserlo, una ricostruzione storico-critica del pensiero di Nietzsche, ma piuttosto insiste e si muove lungo quella traiettoria di pensiero, quella curvatura che Nietzsche ha impresso alla filosofia come luogo proprio per sollevare questioni di verità.”


Le verità del corpo, AlboVersorio, 2012

“Le verità del corpo” costituisce una analisi profonda ma divulgativa in cui Natoli, attraverso vari richiami alla storia della filosofia, da Platone e Cartesio, da Spinoza a Nietzsche, si confronta con il tema della corporeità.


Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati, Lindau 2013,

La parola “giustizia” ricorre sia nella quarta sia nell’ottava Beatitudine. Alla prima delle due, che si rivolge a “quelli che hanno fame e sete della giustizia”, è dedicato questo libro. Su di essa riflettono e si confrontano Luigi Ciotti, da sempre impegnato nella lotta contro tutte le ingiustizie e per la difesa della legalità, e Salvatore Natoli, un filosofo laico sensibile ai temi religiosi e all’universalità del messaggio cristiano. Nei due saggi che compongono il volume gli autori sottolineano il valore non solo teologico e religioso, ma anche etico, civile e politico della giustizia annunciata e promessa nel Discorso della Montagna. Dimostrano come nella società secolarizzata contemporanea – attraversata da una fenomenologia dell’ingiustizia che assume di volta in volta nomi e forme diverse (disuguaglianze sociali, povertà, schiavitù, violenza e guerra) – la parola evangelica conservi la sua concretezza umana e, anzi, la sua attualità e radicalità rivoluzionaria. Ci ricordano come il Vangelo esprima un’universale aspirazione degli uomini e li motivi a un’azione comune per la costruzione di un mondo più giusto, tenendo viva la speranza anche per i non credenti.


Il cibo dell’anima, AlboVersorio, 2013

“Nel mangiare da soli si nasce, nel mangiare insieme si conversa e il cibo materiale diventa l’occasione per nutrirsi delle parole degli altri”.


In fiducia. Sul credere dei cristiani, EMP, 2013


Antropologia politica degli italiani, La Scuola, 2014

Gli aspetti storici e culturali dell’identità degli italiani, il familismo e la privazione di Stato, la democrazia bloccata e i deficit del sistema politico, il nostro trasformismo alle prese con la globalizzazione, nello sguardo appassionato e lucido di un filosofo. «Nel tanto evocato crepuscolo della Seconda Repubblica siamo già pronti a cambiare d’abito per una terza? Non lo so, ma so di certo che diversi lo diverremo, come altre volte nella storia. Cambiamo, ma senza averlo davvero voluto e senza sapere perché, cambiamo perché la storia ci cambia».


Il linguaggio della verità. Logica ermeneutica, Morcelliana, 2014


Perseveranza, il Munino, 2014

Incostanza e mutamenti repentini di vita privata e pubblica non lasciano molto spazio alla perseveranza. Che pure orienta i nostri destini a vari livelli: quando ci si applica per portare a termine gli studi o un progetto in cui si crede, o, su un piano più alto, quando si lotta per una società più giusta nonostante le smentite della storia ci spingano ad abbandonare l’idea. Ma che cosa motiva questa virtù, a volte fino al sacrificio personale? Forse la risposta va cercata, appunto, in quella scia di sacro che sembra indissociabile dalla parola. Perseveranza, ovvero come saldare la realizzazione di sé e il bene di tutti.


I nodi della vita, La scuola,2015

La metafora del “nodo” – ciò che intreccia, s’intreccia, lega ma anche può soffocare – può render conto di ciò che la vita è innanzitutto per ciascuno di noi. E l’uso della metafora al plurale cerca di dare un nome a queste possibilità – e scacchi – in cui si declina l’esistenza. I capitoli, nel loro articolarsi, disegnano una fenomenologia della vita tra il vissuto quotidiano e le parole della filosofia: corpo, amore, eros, dolore, virtù, felicità, dignità e rispetto, speranza, destino, Dio. Parole che gli uomini nella storia hanno sempre cercato – e anche trovato – per orientarsi nel mondo.


Il buon uso del mondo. Agire nell’età del rischio, Mondadori, 2015

Per l’uomo di oggi, che non spera più nella salvezza alla fine dei tempi ma ha davanti a sé un tempo senza fine, navigare in mare aperto sembra ormai diventato l’unico modo di vivere. Ma quale rotta seguire, dopo il tramonto di ogni certezza e il declino della tradizione giudaico-cristiana in Occidente, due segni distintivi della nostra epoca? Al termine di un lungo e originale itinerario di riflessione sulla modernità, Salvatore Natoli analizza le varie forme del fare (il lavoro, innanzitutto, ma anche il consumo, il progresso, il rischio) e il loro rapporto con quello che dovrebbe essere il vero obiettivo di ogni essere umano: un buon uso del mondo. Partendo dalla distinzione aristotelica tra “agire” (dare un senso alle proprie azioni) e “fare” (eseguire un compito), l’autore si chiede quanto, nella nostra frenetica attività quotidiana, siamo “agenti”, soggetti capaci di realizzarsi in ciò che fanno, e quanto invece siamo “agiti”, elementi impersonali di una serie causale e anonima di cui non si vede né l’inizio né la fine. Per essere titolari della propria vita, e quindi davvero liberi, non basta infatti conformarsi a ciò che l’organizzazione sociale richiede, ma occorre istituire un rapporto autentico con il proprio desiderio, con la propria corporeità e con gli altri. Così, nella società delle abilità, della tecnica e del saper fare, si ripropone in tutta la sua urgenza la questione delle virtù, intese come “abilità a esistere”, in grado di darci stabilità e consistenza.


Kratos. Potere e società, AlboVersorio, 2015

“Bisogna differenziare e distinguere il potere (kratos) dalla violenza (bia). Pensare che laddove ci sia potere ci sia sempre violenza è un grave errore. I due termini non sono sinonimi; al contrario, sono due figure che pur con tratti inizialmente comuni diventano indipendenti”.


L’ edificazione di sé. Istruzioni sulla vita interiore, Laterza 2015

È possibile abitare il mondo senza fughe in un’improbabile trascendenza, e senza deliri d’onnipotenza? La forza, la temperanza, il coraggio, in breve tutte quelle che un tempo si chiamavano virtù, esistono ancora? Sembra siano state dimenticate. Tuttavia in una società mobile, complessa, frammentata si sente la necessità di darsi un’identità, di trovare corrispondenza negli altri. E se non si riesce a concedere fiducia, si cerca almeno di evitare la delusione. Per questo le virtù riaffiorano o quanto meno comincia a sentirsene il bisogno. Ma cos’è propriamente virtù? È l’unico modo che abbiamo d’inventarci la vita, di darle ‘forma’ e divenire, così, padroni di noi stessi e, a pieno titolo, soggetti. Ma virtù è anche saper prendere distanza da sé: come un guardarsi da fuori per poterci giudicare – per quanto possibile spassionatamente e poter guadagnare così uno sguardo privo di pregiudizi e perciò più trasparente sul mondo. Praticare le virtù vuol dire prendersi a cuore, avere cura di sé. Ma ogni nostra azione è sempre relazione, anzi noi stessi lo siamo. Infatti, non si può essere felici da soli. Per questo le condotte personali entrano inevitabilmente in circolo con le pratiche sociali e sono proprio le virtù che allentano le resistenze e permettono l’instaurarsi di rapporti giusti con gli altri. Come diceva Spinoza: nulla è più utile all’uomo che l’uomo stesso. Per questo l’estetica dell’esistenza si coniuga con la realizzazione del bene.


Il rischio di fidarsi, il Mulino, 2016

La fiducia è in primo luogo un legame originario: solo perché abbiamo ricevuto amore e sicurezza ne diveniamo capaci. La sperimentiamo quotidianamente nei legami parentali, amicali, sociali, come pure nelle istituzioni, che rendono possibili patti di lealtà anche fra persone estranee. E infine si ha fiducia quando la si ha – in una potenza altra, Dio, a cui ci si affida in ragione d’una promessa di salvezza. Di fronte a un’impossibile autosufficienza, fidarsi, anzitutto come atto di generosità, è un rischio che dobbiamo correre.


L‘ arte di meditare. Parole della filosofia, Feltrinelli, 2016

Questo libro è un testo di pratica filosofica. È, più esattamente, un esercizio della filosofia attraverso la meditazione di alcune sue grandi parole. Il ripensarle oggi mostra come la loro vita e la loro fecondità sopravvivano all’esaurimento e alla dissoluzione dei sistemi. Queste parole indicano l’inesauribilità del pensare come corrente viva, capace di riprendere il passato per il presente e di consegnarlo al futuro. Questo, in effetti, significa tradizione e, in particolare, tradizione filosofica. Nel riproporre alcune grandi parole della filosofia, il libro intende offrire materiali per pensare e soprattutto l’occasione per rielaborare in modo libero, originale e autonomo la ricchezza semantica e simbolica della tradizione. Il testo, costruito grosso modo nella forma di un lessico filosofico – per coppie oppositive o complementari (filosofia/meraviglia, apparenza/realtà, intelligenza/pensiero, misura/dismisura) – lavora sulle parole: è esercizio teorico e insieme recupero e meditazione di parole antiche di cui vale la pena accertare se è possibile usarle ancora, reimpiantandole nel presente e dando luogo a nuove germinazioni di pensiero.


L’ esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale, Feltrinelli, 2016

Una riflessione sull’esperienza del dolore in cerca dei luoghi comuni e topoi della tradizione greca e ebraico-cristiana dell’Occidente. Una ricerca sulle tensioni presenti nell’universo del dolore e sulle aporie del futuro. Un’occasione terapeutica di individuazione della giusta distanza per tener testa al proprio patire individuale.


Dizionario dei vizi e delle virtù, Feltrinelli, 2017

La parola chiave di questo dizionario dei vizi e delle virtù è “saggezza”. Si può non possedere una dottrina, si può non avere il conforto di un’ideologia, ma è possibile comunque dissipare il velo di nebbia che si leva ogni volta che siamo chiamati a giudicare o a giudicarci.


La felicità. Saggio di teoria degli affetti, Feltrinelli, 2017

La felicità – si dice comunemente – è fatta di attimi. Essa transita, non la si possiede. Ammesso che questo sia vero, la felicità si possiede però quanto basta per poter affermare che esiste. E poi, è proprio vero che gli uomini sono felici nell’attimo, o la felicità, in senso stretto, si può predicare solo di un’intera vita? La felicità non è mai un problema per chi si sente felice, nel momento in cui si sente felice, ma di certo essa si muta in problema quando la si perde: da esperienza si trasforma in meta, da stato della mente volge in questione morale. D’altra parte, la felicità è il vero tema della filosofia, almeno secondo le parole di Agostino: “Non vi è per l’uomo altra ragione del filosofare che quella di essere felice”.


L’ animo degli offesi e il contagio del male, il Saggiatore, 2018

Il dolore, la pietà, l’eterno dilemma del male. Nobiltà e popolo, vincitori e vinti. Alessandro Manzoni ha scavato nelle miserie umane come pochi altri nella storia della letteratura, tanto nell’enormità del peccato quanto nelle piccinerie dei mediocri, nelle prevaricazioni dei potenti come nella ribellione degli ultimi. In L’animo degli offesi e il contagio del male Salvatore Natoli guida i lettori manzoniani al cuore delle sofferenze narrate nei Promessi sposi, dei dilemmi dei personaggi e delle loro reazioni alle avversità dell’esistenza. Natoli riflette sui concetti di male e bene, fede e peccato, perdizione e redenzione; affronta le grandi domande poste dalla psicologia di Renzo, Lucia e Gertrude; confronta questi «esseri di carta» con loro illustri predecessori come il Don Giovanni mozartiano o la Justine sadiana; ne dimostra l’infinita, sorprendente capacità di parlare sia del nostro passato di campi di prigionia sia del nostro presente di cadaveri in mare: la banalità del male è senza tempo. Con la consapevolezza che tutti, anche i più puri tra gli innocenti, quando subiscono ingiustizia sono inevitabilmente portati a vendicarsi, a macchiarsi di colpa, dunque a perpetuare il circolo del vizio. “L’animo degli offesi e il contagio del male” è l’aureo libello con cui uno dei massimi pensatori italiani viventi sottrae il padre nobile della nostra letteratura recente agli schematismi da antologia scolastica e gli restituisce tutta l’attualità e la ricchezza di sfaccettature che gli sono proprie. Come scrive Assmann, l’interpretazione di un classico «diventa un atto del ricordo e l’interprete un ricordatore, che sollecita il recupero di una verità dimenticata». Scrivere di Manzoni significa tendere perennemente al recupero di questa verità.


Scene della verità, Morcelliana, 2018

Che cos’è verità? Come il linguaggio ne può parlare? Ciò che definiamo “verità” corrisponde a come stanno realmente le cose? 0, piuttosto, indica l’impossibilità di ridurre lo scarto che sussiste fra le cose e la rappresentazione che ne abbiamo, e quello fra la rappresentazione che ne ha un individuo rispetto a un altro? Come ci insegnano la filosofia e la scienza contemporanea, ogni percezione del mondo è anche una sua diversa interpretazione. Così Natoli conduce a sondare le “scene della verità”: punti di vista dai quali la si può osservare. Verità come disvelamento, corrispondenza, interpretazione, esperienza e dimostrazione, pragmatica dello stare al mondo, etica della sincerità opposta alla menzogna. Ermeneutiche della verità come pratiche di vita, che orientano nella complessità del mondo.


Il fine della politica.
Dalla «teologia del regno» al «governo della contingenza»
, Bollati Boringhieri 2019

Il fine della politica è quello di governare gli affari umani o è un compito a termine, da svolgere in un tempo intermedio, nell’attesa del mondo a venire, quando giustizia e pace regneranno per sempre?

Questa domanda – la matrice stessa della «teologia politica» – è divenuta possibile quando, nella storia è apparsa la categoria giudaica di «éschaton»: l’attesa di un «mondo a venire», il pieno realizzarsi di quanto, fin dall’inizio, era stato promesso. A partire da qui, l’idea di éschaton ha segnato l’intera storia dell’Occidente e la sua filosofia politica: dal giudaismo, tramite il cristianesimo, è giunta al moderno e qui si è secolarizzata nella forma delle filosofie del progresso e delle apocalittiche rivoluzionare. Oggi l’éschaton pare giunto al tramonto: nell’odierno tempo senza fine, la storia non deve raggiungere più alcun culmine e non ci resta che governare la contingenza del mondo, portarsi all’altezza della sua improbabilità. Natoli, in questo breve e denso libro, insegue nei segni della storia i mutamenti che questo concetto centrale ha avuto nei secoli. In origine un termine spaziale, denotante i limiti remoti, i luoghi lontani che si trovano oltre il confine identitario di un territorio, l’éschaton ha assunto nel cristianesimo il suo marcato significato temporale, divenendo il punto cui tendere, il ritorno messianico, il momento nel quale il Giudizio riunirà in una sola cosa giustizia e governo. Intanto, però, nella loro attesa sulla terra, gli uomini vivono una dilatata «epoca del frattanto». È in questo limbo temporale che il governo delle cose umane deve destreggiarsi, darsi un ordinamento, prepararsi al compimento della storia. Fino a quando, nella contemporaneità, l’éschaton perde progressivamente di significato, il tempo si dilata, infinito, e il fine della politica resta la politica stessa.


Uomo tragico, uomo biblico. Alle origini dell’antropologia occidentale, Morcelliana, 2019

Se «la costellazione Occidente» nasce dal contaminarsi, scontrarsi e comporsi di varie culture, hanno un particolare rilievo in questo processo la civiltà greca e quella giudaica. La visione che i Greci ebbero del mondo – di cui è emblema la vicenda di Edipo – viene qui designata «metafisica del tragico»: di fronte a una natura violenta e crudele, l’uomo è posto nel gioco spietato della vita e della morte e non può che far fronte al suo destino. Cifra del pensiero giudaico – esemplificato nelle figure di Giobbe e Qoèlet – è invece la «teologia del patto», la cui specificità è l’unico Dio con il quale Israele ha stipulato un’alleanza per sempre che richiede l’osservanza della Legge. Natoli confronta uomo tragico e uomo biblico facendone emergere il tratto comune: la consapevolezza della finitudine umana a fronte dell’indomabile.


L’uomo dei dolori, EDB, 2020

Il dolore che viene rappresentato nella Via Crucis è fortemente implicato con l’iniquità poiché è il giusto che muore a causa del male inflittogli da altri uomini. La Via dolorosa è dunque un’allegoria della nostra condizione e la potenza del messaggio cristiano non si limita a premiare il giusto, ma a perdonare e trasformare il cattivo. Gesù non ha tolto il dolore dal mondo uccidendo il colpevole, ma ha mostrato agli uomini l’iniquità mostrandosi come vittima innocente. Così Gesù manifesta il divino che c’è nell’uomo. In questo senso, anche senza risurrezione, il cristianesimo resta paradossale e anche un non credente si può sentire cristiano.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Alberto Magno di Bollstädt (1206-1280) – La perseveranza è un atto compreso nella fortezza e consiste nell’essere saldi nel proposito di rimanere nella difficoltà fino a vincerla e nel non voler cedere per il permanere e il prolungarsi delle difficoltà.

Alberto Magno di Bollstädt

«La perseveranza è parte potenziale e speciale della fortezza e possiede un atto che è compreso nell’atto della fortezza, come parte di un tutto potenziale. Questo atto poi consiste nell’essere saldi nel proposito di rimanere nella difficoltà fino a vincerla e nel non voler cedere per il permanere e il prolungarsi delle difficoltà».

Alberto Magno di BollstädtIl bene, a cura di A. Tarabochia Canavero,  Rusconi, Milano 1987 (traduzione del Tractatus de natura boni ed estratti dal De bono: i trattati II, IV e V), p. 466

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Platone (428/427 – 348/347 a.C.) – Non ti vergogni a darti pensiero delle ricchezze e invece della intelligenza e della verità e della tua anima non ti dai affatto né pensiero né cura? Non dalle ricchezze nasce virtù, ma dalla virtù nascono ricchezze e tutte le altre cose che sono beni per gli uomini.

Platone - Aplogia di Socrate

 

Ὦ ἄριστε ἀνδρῶν, Ἀθηναῖος ὤν, πόλεως τῆς μεγίστης καὶ εὐδοκιμωτάτης εἰς σοφίαν καὶ ἰσχύν, χρημάτων μὲν οὐκ αἰσχύνῃ ἐπιμελούμενος ὅπως σοι ἔσται ὡς πλεῖστα, [e] καὶ δόξης καὶ τιμῆς, φρονήσεως δὲ καὶ ἀληθείας καὶ τῆς ψυχῆς ὅπως ὡς βελτίστη ἔσται οὐκ ἐπιμελῇ οὐδὲ φροντίζεις;’ καὶ ἐάν τις ὑμῶν ἀμφισβητήσῃ καὶ φῇ ἐπιμελεῖσθαι, οὐκ εὐθὺς ἀφήσω αὐτὸν οὐδ’ ἄπειμι, ἀλλ’ ἐρήσομαι αὐτὸν καὶ ἐξετάσω καὶ ἐλέγξω, καὶ ἐάν μοι μὴ δοκῇ κεκτῆσθαι ἀρετήν, [30] [a] φάναι δέ, ὀνειδιῶ ὅτι τὰ πλείστου ἄξια περὶ ἐλαχίστου ποιεῖται, τὰ δὲ φαυλότερα περὶ πλείονος. ταῦτα καὶ νεωτέρῳ καὶ πρεσβυτέρῳ ὅτῳ ἂν ἐντυγχάνω ποιήσω, καὶ ξένῳ καὶ ἀστῷ, μᾶλλον δὲ τοῖς ἀστοῖς, ὅσῳ μου ἐγγυτέρω ἐστὲ γένει. ταῦτα γὰρ κελεύει ὁ θεός, εὖ ἴστε, καὶ ἐγὼ οἴομαι οὐδέν πω ὑμῖν μεῖζον ἀγαθὸν γενέσθαι ἐν τῇ πόλει ἢ τὴν ἐμὴν τῷ θεῷ ὑπηρεσίαν. οὐδὲν γὰρ ἄλλο πράττων ἐγὼ περιέρχομαι ἢ πείθων ὑμῶν καὶ νεωτέρους καὶ πρεσβυτέρους μήτε σωμάτων [b] ἐπιμελεῖσθαι μήτε χρημάτων πρότερον μηδὲ οὕτω σφόδρα ὡς τῆς ψυχῆς ὅπως ὡς ἀρίστη ἔσται, λέγων ὅτι ‘Οὐκ ἐκ χρημάτων ἀρετὴ γίγνεται, ἀλλ’ ἐξ ἀρετῆς χρήματα καὶ τὰ ἄλλα ἀγαθὰ τοῖς ἀνθρώποις ἅπαντα καὶ ἰδίᾳ καὶ δημοσίᾳ.’ εἰ μὲν οὖν ταῦτα λέγων διαφθείρω τοὺς νέους, ταῦτ’ ἂν εἴη βλαβερά· εἰ δέ τίς μέ φησιν ἄλλα λέγειν ἢ ταῦτα, οὐδὲν λέγει. πρὸς ταῦτα,” φαίην ἄν, “ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, ἢ πείθεσθε Ἀνύτῳ ἢ μή, καὶ ἢ ἀφίετέ με ἢ μή, ὡς ἐμοῦ οὐκ [c] ἂν ποιήσαντος ἄλλα, οὐδ’ εἰ μέλλω πολλάκις τεθνάναι.”

«“O tu che sei il migliore degli uomini, tu che sei Ateniese, cittadino della più grande città e più rinomata per sapienza e potenza, non ti vergogni tu a darti pensiero delle ricchezze per ammassarne quante più puoi, e della fama e degli onori; e invece della intelligenza e della verità e della tua anima, perché ella diventi quanto è possibile ottima, non ti dai affatto né pensiero né cura?“. E se taluno di voi dirà che non è vero, e sosterrà che se ne prende cura, io non lo lascerò andare senz’altro, né me ne andrò io, ma sì, lo interrogherò, lo studierò, lo confuterò; e se mi paia ch’egli non possegga virtù ma solo dica di possederla, io lo svergognerò dimostrandogli che le cose di maggior pregio egli tiene a vile e tiene in pregio le cose vili. E questo io lo farò a chiunque mi càpiti, a giovani e a vecchi, a forestieri e a cittadini; e più ai cittadini, a voi, dico, che mi siete più strettamente congiunti. Ché questo, voi lo sapete bene, è l’ordine del dio; e io sono persuaso non ci sia per voi maggior bene nella città di questa mia obbedienza al dio. Né altro in verità io faccio con questo mio andare attorno se non persuadere voi, e giovani e vecchi, che non del corpo dovete aver cura né delle ricchezze né di alcun’altra cosa prima e più che dell’anima, sì che ella diventi ottima e virtuosissima; e che non dalle ricchezze nasce virtù, ma dalla virtù nascono ricchezze e tutte le altre cose che sono beni per gli uomini, così ai cittadini singolarmente come allo Stato. Se dunque parlando io in questo modo corrompo i giovani, sta bene, vorrà dire che queste mie parole sono rovinose; ma se taluno afferma che io parlo diversamente e non così, costui dice cosa insensata. Per tutto ciò, lasciate che io ve lo dica, o Ateniesi, o diate retta ad Anito o non gli diate retta, o mi assolviate o non mi assolviate, siate in ogni modo persuasi che io non farò mai altrimenti che così, neanche se non una soltanto ma più volte dovessi morire».

Platone, Apologia di Socrate, 29 e ss., in Platone, Opere complete, 9 voll., vol. I,, trad.  di M. Valgimiglia, Laterza, Bari, 1984, pp. 50-51.

Platone, «Filebo» – Senza possedere né intelletto né memoria né scienza né opinione vera, tu saresti vuoto di ogni elemento di coscienza
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Coloro che sono privi della conoscenza di ogni cosa che è, e che non hanno nell’anima alcun chiaro modello, non possono rivolgere lo sguardo verso ciò che è più vero e non possono istituire norme relative alle cose belle e giuste e buone.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Le relazioni con gli stranieri sono atti di particolare sacralità. Lo straniero si trova ad essere privo di amici e parenti, e quindi è affidato in modo particolare alla solidarietà degli dei e degli uomini. Non c’è colpa peggiore per un uomo che un torto fatto ai supplici
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Non esiste male maggiore che un uomo possa patire che prendere in odio i ragionamenti. L’odio contro i ragionamenti, e quello contro gli uomini, nascono nella stessa maniera.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – È questo il momento nella vita che più di ogni altro è degno di essere vissuto da un essere umano: quando contempla il bello in sé. La misura e la proporzione risultano essere dappertutto bellezza e virtù.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – L’educazione è l’orientamento dell’anima alla virtù. La virtù è il piacere verso ciò che bisogna amare e l’avversione verso ciò che bisogna odiare
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Non il vivere è da tenere in massimo conto, ma il vivere bene. E il vivere bene è lo stesso che vivere con virtù e con giustizia. Per nessuna ragione si deve commettere ingiustizia.
Platone & Aristotele – Il principio della filosofia non è altro che esser pieni di meraviglia, perché si comincia a filosofare a causa della meraviglia.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – È infatti la costituzione dello Stato che forma gli uomini, buoni, se essa è buona, malvagi in caso contrario.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Cosa di più bello avrei potuto fare nella mia vita se non affidare alla scrittura ciò che è di grande utilità per gli uomini e portare alla luce per tutti la vera natura delle cose?
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – La musica dà anima all’universo, ali al pensiero, slancio all’immaginazione, fascino alla tristezza, impulso alla gioia e vita a tutte le cose.  Essa è l’essenza dell’ordine, ed eleva ciò che è buono, giusto e bello, di cui è la forma invisibile ma tuttavia splendente, appassionata ed eterna.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Le forme di educazione al retto orientamento del piacere e del dolore vengono meno in gran parte agli uomini e si corrompono troppe volte nella vita. le opinioni vere e stabili è fortunato chi le possiede sulla soglia della vecchiaia.
Platone (428/427 – 348/347 a.C.) – il sogno raccomandava di creare musica, e siccome la filosofia è la musica massima, dunque io la facevo.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Teognide (570 – 485 a. C.) – Molte sono le cose mirabili, ma nessuna è più mirabile dell’uomo. L’eccessiva ricchezza è stata causa di rovina per molti. Non cercare onori, favori o ricchezze attraverso azioni ingiuste e vergognose.

Teognode di Megara
Molte sono le cose mirabili, ma nessuna è più mirabile dell’uomo.
 
L’eccessiva ricchezza è stata causa di rovina per molti sprovveduti:
è difficile infatti, nell’abbondanza, rispettare la misura.
 
Una follia
divengono per gli uomini, i quattrini.
 
Le ricchezze qualche nume può concederle anche a un malvagio, o Cirno,
ma a pochi uomini tocca in sorte la virtù.
 
Non cercare onori, favori o ricchezze attraverso azioni ingiuste e vergognose.

Molti hanno indole subdola e traditrice
ma la nascondono mostrando un animo cangiante.
Eppure, prima o poi, il tempo svela l’indole di ciascuno.

Non si può piacere a tutti.
Ma in ciò non c’è niente di strano.
Anche Zeus, che mandi la pioggia o la neghi, non a tutti piace.

 

Teognide di Megara, Elegie.

RICCHEZZE E  GUADAGNI

La ricchezza che vien da Zeus, pulita e giusta,
per gli uomini è una cosa che resiste.
Ma se, rapace, l’uomo intempestivamente
l’acquista, o spergiurando la carpisce,
il guadagno l’illude un attimo: ché tutto
torna in pianto, alla fine; il dio prevale.

Chi ritiene il suo prossimo privo di comprendonio
e si crede furbissimo lui solo,
è uno sciocco che ha perso il ben dell’intelletto.
Oh, le furbizie le conosciamo tutti!
Ma, mentre c’è chi gode degl’intrighi fraudolenti,
c’è chi non cerca sordidi profitti.

Per l’uomo non c’è limite preciso alla ricchezza:
quelli di noi ch’hanno sostanze immense
smaniano il doppio. E chi li sazia tutti? Una follia
divengono per gli uomini, i quattrini.
Spunta rovina: Zeus la manda a loro che si struggono:
ora l’uno ora l’altro se la tiene.

I lirici greci, trad. F.M. Pontani, Einaudi, Torino, 1969.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Maurizio Migliori – La bellezza della complessità. il fatto che la verità si dà sempre con dei limiti e sempre in un gioco di relazioni, non implica la rinuncia alla verità, ma al suo carattere assoluto.

Migliori Maurizio - Giovanni Reale

Al centro di questa foto sta H.G. Gadamer; a sinistra H. Kramer e G. Reale; a destra Th. Szlezak e M. Migliori. La foto è stata fatta il 3 settembre 1996 a Tubinga, nell’intervallo di un incontro con Gadamer degli studiosi di Platone della Scuola di Tubinga e di quella di Milano. Immagine tratta dal volume: G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, Rilettura della metafisica dei grandi dialoghi alla luce delle “Dottrine non scitte”, Vita e Pensiero, 1977.

Al centro (fra G. Reale e H. Kramer) sta Th. A. Szlezak (i cui libri su Platone sono, come quelli di Kramer e di Gaiser, in Italia ben noti e molto diffusi). È il successore di K. Gaiser alla direzione del Piaton-Archiv. In piedi, alle spalle di Szlezak, sta M. Migliori (allievo di Reale e professore all’Università di Macerata, autore di alcuni dei più recenti e impegnativi lavori sui dialoghi dialettici di Platone). Questo gruppo rappresenta quella che Kramer chiama Scuola di Tubinga e Scuola di Milano. Questa fotografia è stata scattata a Tubinga, nel Platon-Archiv, il 30 aprile del 1994, a conclusione del convegno platonico in onore di H. Kramer, per festeggiare il suo sessantacinquesimo compleanno. Sul tavolo sta il dattiloscritto della traduzione di V. Cicero del volume di K. Gaiser, La dottrina non scritta di Plalone, con Presentazione di G. Reale e Introduzione di H. Kramer. Immagine tratta dal volume: G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, Rilettura della metafisica dei grandi dialoghi alla luce delle “Dottrine non scitte”, Vita e Pensiero, 1977.

Invito alla lettura

 

Pubblichiamo qui di seguito come invito alla lettura  l’ultimo capitolo del libro «La bellezza della complessità», dal titolo: “Maurizio Migliori, Un paradigma ermeneutico per la storia della filosofia antica. L’approccio multifocale“. Si tratta di un PDF, e può essere letto a video, e/o scaricato e stampato (pp. 29).
Per l’indice del volume cliccare qui: indice


 

Dedico questa raccolta alle allieve e agli allievi
che ho incontrato nell’arco di cinquant’anni,
nella scuola e nell’Università,
e a tutti coloro che hanno avuto la pazienza
di leggermi e di ascoltarmi,
dando un ulteriore senso
al mio lavoro di ricerca con l’amato Platone.

M. M.

coperta 315Questa è l’affermazione che considero come la formula sintetica
di quello che Platone pensa
della realtà cosmica e del suo “disordinato ordine”
(Maurizio Migliori, Uni-molteplicità del reale e dottrina dei Principi):

Οὐκοῦν εἰ μὴ τοῦτο, μετ’ ἐκείνου τοῦ λόγου ἂν ἑπόμενοι βέλτιον λέγοιμεν ὡς ἔστιν, ἃ πολλάκις εἰρήκαμεν, ἄπειρόν τε ἐν τῷ παντὶ πολύ, καὶ πέρας ἱκανόν, καί τις ἐπ’ αὐτοῖς αἰτία οὐ φαύλη, κοσμοῦσά τε καὶ συντάττουσα ἐνιαυτούς τε καὶ ὥρας καὶ μῆνας, σοφία καὶ νοῦς λεγομένη δικαιότατ’ ἄν.

«Sarà quindi meglio affermare, come più volte abbiamo detto, che nell’universo c’è molto illimitato (ἄπειρόν) e sufficiente (ἱκανόν) limite, e, al di sopra di essi, una causa non da poco, la quale, ordinando e regolando gli anni, le stagioni e i mesi, può, a buon diritto, essere chiamata sapienza e intelligenza» (Platone, Filebo, 30 C 3-7).

***

Maurizio Migliori

La bellezza della complessità. Studi su Platone e dintorni

ISBN 978-88-7588-247-1, 2019, pp. 592, Euro 38

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Locandina M. Migliori – La bellezza della complessità. Studi su Platone e dintorni

Questo testo mette a disposizione del lettore importanti studi, alcuni proposti qui per la prima volta in italiano, altri ormai quasi introvabili. Migliori, studioso di Platone internazionalmente riconosciuto, svolge una trattazione che parte da Eraclito e, attraverso la sofistica, raggiunge il filosofo ateniese, che è oggetto di una serie di contributi di assoluto interesse. Molti dialoghi risultano scandagliati in modo approfondito, soprattutto il Fedro e tutti i dialoghi dialettici (Parmenide, Sofista, Politico e Filebo). In effetti, Migliori ha un particolare interesse per la dialettica, il che spiega gli studi su Eraclito e Gorgia. La dialettica è alla base della filosofia platonica, qui ricostruita in modo chiaro e profondo. Le tesi proposte, originali, ma mai svolte per il gusto della novità, manifestano una testarda fedeltà al testo. Lo prova la abbondanza di citazioni presenti in questi articoli, che costituiscono una delle ricchezze offerte al lettore interessato. Anche quando affronta un tema particolarmente dibattuto, come la scrittura filosofica di Platone, Migliori non si limita ad evidenziare l’importanza decisiva del “gioco protrettico” proposto nel Fedro, ma offre una serie di esempi testuali che mostrano nel concreto le tecniche utilizzate dal filosofo.
Tra questi saggi non mancano trattazioni etiche e politiche, al cui interno l’Autore affronta anche tematiche rischiose, come l’analisi del libro X della Repubblica. Mentre vari studiosi vorrebbero quasi espungerlo, Migliori si impegna a mostrare le ragioni che lo rendono utile e necessario per completare questo grande dialogo. Ciò gli dà anche la possibilità di demolire una serie di diffusi luoghi comuni, ad esempio sulla condanna dell’arte, sulle Idee e sull’anima. Quest’ultimo tema è poi affrontato in un saggio, che evidenzia la differenza tra la concezione dell’anima, una delle più grandi “invenzioni” greche, e la visione biblica, centrata sulla resurrezione.
Infine, Migliori fa una proposta ermeneutica e filosofica di fondo, che definisce “approccio multifocale”. Questo paradigma consente, da una parte di capire il pensiero classico che pratica normalmente questo tipo di lettura della realtà, dall’altra di avere una visione che rispetta le relazioni e la complessità del nostro mondo, senza cadere nelle trappole logiche e pratiche del relativismo.


Indice

Introduzione di Luca Grecchi

***

Note sulla dialettica in Eraclito
Premessa
La presenza assente del logos
Il contenuto del logos
L’esito finale dell’eraclitismo

***

Gorgia quale sofista di riferimento di Platone
Il problema del rapporto tra Gorgia e Platone
Un primo nesso tra Gorgia e Protagora
Gorgia retore e sofista
Il Gorgia
Il Parmenide
Il Teeteto e il Sofista
Conclusioni

***

La filosofia dei sofisti: un pensiero posteleatico
Diversi possibili itinerari di ricerca
Il quadro descrittivo del Sofista
Il problema del non essere
Il riferimento a Gorgia
Il rapporto filosofico con Protagora
Intreccio e differenze nell’uso dei due sofisti

***

Come scrive Platone.
Esempi di una scrittura a carattere “protrettico”
Alcune premesse di metodo
Un errore volontario
Una maturità precoce?
Il rinvio della trattazione del Bene
Un esercizio infinito
Una necessaria diffidenza
L’architettonica di un dialogo
Allusioni e inserimenti “estemporanei”
Il (cauto) utilizzo di altri dialoghi
L’utilità del metodo proposto

***

La struttura polifonica del Fedro
Una situazione paradossale
Elementi introduttivi alla lettura del dialogo
Un incontro particolare
La struttura del dialogo
Il motivo dominante: la tecnica di comunicazione orale e scritta
e la responsabilità di colui che comunica
Il centro tematico dell’opera: il vero tra filosofia e mania
Il tema più importante: l’anima e il rapporto uomo-Dio
Conclusioni

***

L’unità della Repubblica
come esempio di scrittura platonica: il libro X
Prologo
Alcune riflessioni di valore generale
La fine del libro IX e il collegamento con il libro X
La condanna dell’arte mimetica
Primo punto
Secondo punto
Terzo punto
Il problema delle Idee
Le Idee dei manufatti
Primo problema
Secondo problema
La divinità e la produzione delle Idee
Il problema dell’anima
La partizione dell’anima
Immortalità dell’anima e sopravvivenza
Il mito di Er
Conclusione

***

Dialettica e Teoria dei principi
Nel Parmenide e nel Filebo di Platone
Prologo
Alle fonti della dialettica
Dialettica e filosofia
L’identità unomolti
Un sistema di postulati risolutivi
Originarietà della dialettica
La dialettica come metodo
Natura del metodo dialettico
L’indicazione metodica
I passaggi metodici
Una metodologia complessa
La dialettica come filosofia
Necessità della struttura polare. La negazione dell’UnoUno
Due processi per una sola realtà
La Polarità originaria
Uno e Non Uno
Limite e Illimitato
Polivalenza funzionale dei Principi
Limite, Uno e Bene
La Misura
La visione dialettica del reale
Tutto è Misto
Misto e Idee
Essere e tempo, divenire e atemporalità.
L’inutilità della dialettica dell’Essere senza Uno
Il Divenire e l’Istante
L’articolazione della dialettica platonica: Tutto e parte
Un rapporto dialettico, ma non paritetico
Conseguenze della dialettica interoparte
Dialettica e aporie delle Idee
La dialettica platonica
Una dialettica né binaria né trinaria
Metodo dialettico e Principi primi

 ***

 Alcune riflessioni su misura e metretica
(il Filebo tra Protagora e Leggi, passando per il Politico e il Parmenide)
Prologo
Una premessa di metodo. lo scritto platonico come “gioco”
La trattazione metafisica del Filebo
Prima parte del dialogo: Processo ontogonico e Causa
Premessa: la realtà è uni-molteplice
Le radici metafisiche di questa realtà uni-molteplice
LApeiron
Il Peras
Il misto
La causa
Conseguenze e conferme sul piano cosmo-ontologico
Ordine e disordine del Cosmo alla luce del Politico
La causalità ideale alla luce del Parmenide
Prime conclusioni
Seconda parte del dialogo: il Bene e la Misura
Premessa: la trattazione del Bene è necessaria

  1. Alcune “anticipazioni” sul Bene
  2. Le “allusioni” alla natura del Bene
  3. Il segno del Bene-Misura
  4. Le due trattazioni a confronto
  5. La metretica
  6. La metretica nelle prime opere
  7. Le due metretiche del Politico
  8. L’applicazione della “misura” nell’azione del politico
  9. Un breve riferimento alle Leggi

La vita buona e misurata

Due tipi di uguaglianza
L’importanza del modello trinario

Appendice I
Le Idee sono composte da altre Idee
Appendice II
La trattazione di cause e concause
Fedone
Politico
Timeo

Due brevi osservazioni finali

 ***

 Cura dell’anima.
L’intreccio tra etica e politica in Platone
La natura bivalente della politica
L’intreccio tra etica e politica
Il parallelo tra anima e polis
Potere politico e dominio di sé
Elementi di antropologia platonica
L’anima
Beni e virtù
Due “Idee” di piacere
Il Bene
L’azione del politico
Il ruolo ordinatore delle leggi
Le responsabilità dei soggetti politici
Centralità dell’impianto educativo
Politica e retorica
Il fine della politica: ordine e felicità
Il Bene come fine
Due modelli di vita a confronto
Il piacere e i beni umani
Virtù e felicità
Un necessario approdo escatologico

***

Polivalenza strutturale della filia in Platone
La semanticità di filia nei dialoghi
La funzione sociopolitica dell’amicizia
L’esempio dei conviti
Due specifiche applicazioni
Critone o dell’amicizia
Il rinvio al Primo amico
Una riflessione finale

***

La domanda sull’immortalità e la resurrezione.
Paradigma greco e paradigma biblico
Prologo
L’evoluzione del paradigma greco
La tradizione orfica e il suo sviluppo filosofico
Platone
Una duplice valutazione
Una riflessione razionale sull’anima
Le prove dell’immortalità dell’anima
Tripartizione dell’anima e sua sopravvivenza
Anima e corpo in Aristotele
Immortalità dell’anima ed etica
Immortalità dell’anima ed opere essoteriche
La concezione ebraica
Una visione mitica
Una visione unitaria dell’essere umano
La condizione dopo la morte
Lo stacco tra immortalità dell’anima e resurrezione
Socrate e Cristo
L’incontro nell’ellenismo e nel cristianesimo
Filone di Alessandria
Il primo cristianesimo
Conclusioni

***

Un paradigma ermeneutico
per la storia della filosofia antica: l’approccio multifocale
Una situazione straordinaria
Il senso e le ragioni di una scelta diversa
L’emergere del multifocal approach
Il contributo della sofistica
L’esperienza platonica
L’elaborazione aristotelica
Il valore attuale di questa visione dell’antico


In copertina: Vasilij Kandinskij, Verso l’alto (Empor), 1929, olio su cartone. Collezione Peggy Guggenheim, Venezia. L’energia del pensiero nella ricerca della bellezza si protende verso l’alto (empor). Le forme geometriche astratte disegnano il volto di profilo di una persona: il personaggio è sorretto – in un punto di equilibrio ideale – da un trapezio e da una lettera E (empor). L’occhio, lo sguardo, è rivolto verso un’altra grande E a destra, in alto.


Alcuni dei suoi lavori

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Maurizio Migliori – Non c’è opera e non c’è argomento trattato in cui Aristotele non si misuri con i suoi predecessori.

Maurizio Migliori, Uni-molteplicità del reale e dottrina dei Principi


Maurizio Migliori su Youtube

Maurizio Migliori: La felicità (Platone) – Università di Macerata

Maurizio Migliori: Introduzione a Platone – Università di Macerata

Maurizio Migliori: La virtu dei greci, realizzazione di se stessi

Maurizio Migliori: Platone, dialettica e complessità del piacere

Maurizio Migliori: Fare un mestiere bellissimo e impossibile, lo storico della filosofia antica

Maurizio Migliori – Platone: Un pensiero della dialettica

Maurizio Migliori: La libertà non è star sopra un albero

Maurizio Migliori – La crisi e la speranza

Maurizio Migliori: Il contributo degli antichi

Maurizio Migliori: La felicità

Maurizio Migliori: Platone, il disordine ordinato

Maurizio Migliori: Il De generatione et corruptione di Aristotele: una base per l’ontologia del sensibile. Parte Prima

Maurizio Migliori: Il De generatione et corruptione di Aristotele: una base per l’ontologia del sensibile. Parte Seconda


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Euripide (480 a.C.-406 a.C.) – Felice l’uomo che possiede la conoscenza che deriva dalla historía, e non si propone di danneggiare i concittadini né di compiere azioni ingiuste, ma contempla l’ordine che non invecchia della natura immortale, come e perché si sia costituito. A uomini del genere non si accosta mai il pensiero di azioni vergognose.

Euripide 03

«Oὕτως ἀταλαίπωρος τοῖς πολλοῖς ἡ ζήτησις τῆς ἀληθείας,
καὶ ἐπὶ τὰ ἑτοῖμα μᾶλλον τρέπονται».
«Così presso molti la ricerca della verità viene trascurata, e a tal punto i più si volgono di preferenza verso ciò che è più a portata di mano»».

Tucidide, Storie, I 20, 3

ὄλβιος ὅστις τῆς ἱστορίας
ἔσχε μάθησιν
μήτε πολιτῶν ἐπὶ πημοσύνη
μήτ’εἰς ἀδίκους πράξεις ὁρμῶν,
ἀλλ’ἀθανάτου καθορῶν φύσεως
κόσμον ἀγήρων, πῇ τε συνέστη
καὶ ὅπῃ καὶ ὅπως,
τοῖς δὲ τοιούτοις οὐδέποτ’αἰσχρῶν
ἔργων μελέδημα προσίζει.

 

Felice l’uomo che possiede la conoscenza che
deriva dalla historía, e non si propone di
danneggiare i concittadini né di compiere
azioni ingiuste,
ma contempla l’ordine che
non invecchia della natura immortale,
come e perché si sia costituito.
A uomini del genere non si accosta mai
il pensiero di azioni vergognose.

 

Euripide, Fr. 910 Nauck

Euripide (480 a.C.-406 a.C.) – Gli dei non odiano chi è nobile d’animo, soltanto lo fanno soffrire di più di chi non vale niente.
Euripide (480 a.C.-406 a.C.) – Che i miei figli possano vivere liberi, ricchi della loro libertà di parola. I malvagi presto o tardi sono fatalmente smascherati come fanciulle che amano vedersi allo specchio.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Karl Marx (1818-1883) – Non è per vergogna che si fanno le rivoluzioni. La vergogna è già una rivoluzione, è una sorta di ira che si rivolge contro se stessa. E se un’intera nazione si vergognasse realmente, diventerebbe simile a un leone, che prima di spiccare il salto si ritrae su se stesso.

Karl Marx- A. Ruge

Non è per vergogna che si fanno le rivoluzioni.
La vergogna è già una rivoluzione, è una sorta di ira che si rivolge contro se stessa.
E se un’intera nazione si vergognasse realmente,
diventerebbe simile a un leone,
che prima di spiccare il salto si ritrae su se stesso.

Il nostro motto sarà quindi: riforma della coscienza, non mediante dommi,
bensì mediante l’analisi della coscienza mistica oscura a se stessa,
sia che si presenti in modo religioso, sia in modo politico.

Auto-chiarificazione (filosofia critica) del nostro tempo
in relazione alle sue lotte e ai suoi desideri.
Questo è un lavoro per il mondo e  per noi.

K. Marx

 

 

Karl Marx ad Arnold Ruge. Sul battello per D., marzo 1843

Io viaggio in Olanda. In base ai giornali locali e francesi, la Germania è caduta nel fango e vi sprofonda sempre di più. Le assicuro che, benché privi di orgoglio nazionale, si sente lo stesso la vergogna nazionale, specie in Olanda. L’ultimo degli olandesi è ancora il cittadino di uno Stato, rispetto al primo dei tedeschi. E i giudizi degli stranieri sul governo prussiano! Prevale un accordo spaventoso: nimo si illude più su tale sistema e sulla sua reale natura. La nuova scuola è pur servita a qualcosa: l’abito di gala del liberalismo è caduto, e il più ripugnante dispotismo è esibito agli occhi di tutto il mondo in tutta la sua nudità.
 Pure questa è una rivelazione, benché a rovescio. È una verità che almeno c’insegna la vacuità del nostro patriottismo, la mostruosità del nostro Stato, e a coprirci il viso. Lei mi scruterà sorridendo e mi chiederà: «cosa si è guadagnato con ciò? Mica per vergogna si fa rivoluzione». Rispondo: «la vergogna è già una rivoluzione; è la vittoria della Rivoluzione francese sul patriottismo tedesco, dal quale essa fu vinta nel 1813». La vergogna è una sorta di ira contro di sé. E se davvero un’intera nazione si vergognasse, sarebbe come un leone che si china per spiccar il balzo. Invero, in Germania ancora non esiste la vergogna: i tedeschi sono miserabili patrioti tuttora. Ma quale altro sistema potrebbe purgare il loro patriottismo, se non questa buffonata del nuovo cavaliere Federico Guglielmo IV di Prussia? La commedia del dispotismo che ci è recitata è per lui altrettanto pericolosa quanto lo fu a suo tempo la tragedia per gli Stuart e i Borboni. E benché per un lungo periodo tale commedia non fosse considerata per quello che è, pure sarebbe già una rivoluzione. Lo Stato è una cosa troppo seria per farne un’arlecchinata. Una nave carica di matti spinta dal vento potrebbe forse veleggiar a lungo; ma essa andrebbe comunque verso il suo destino, proprio perché i pazzi non ci crederebbero. Questo destino è la rivoluzione che ci sovrasta.

Le tre lettere di Marx a Ruge comparse negli Annali facevano parte di un corpus, presentato sotto il titolo Un carteggio del 1843, nel quale si trovava anche una lettera di Feuerbach a Ruge, datata giugno 1843. Marx e Ruge, in effetti, avevano contattato Feuerbach – che, all’epoca, rappresentava per eccellenza la filosofia dell’avvenire – auspicando una comunione di intenti. La lettere di Feuerbach a Ruge, dove il filosofo esprimeva la sua adesione allo spirito che dirigeva il progetto della rivista, conteneva questa riflessione.

Che cos’è teoria, che cos’è pratica? Dov’è la differenza? Teorico è ciò che ancora si limita soltanto alla mia testa, pratico ciò che appare nelle teste di molti. Ciò che unisce molte teste fa massa, si dilata e si fa posto nel mondo. La possibilità di creare un organo nuovo per il nuovo principio è un tentativo che non va tralasciato.

 

Arnolde Ruge e Karl Marx, Annali franco-tedeschi, a cura di Gian Mario Bravo e con traduzione ad opera di Anna Pegoraro Chiarloni e Raniero Panzieri, Milano Edizioni del Gallo, 1965. Il passo in questione è contenuto a p. 78



«Non vorrei che noi innalzassimo una bandiera dogmatica; al contrario. Noi dobbiamo cercare di venire in aiuto ai dogmatici, affinché chiariscano a se stessi i loro principi. Così soprattutto il comunismo è un’astrazione dogmatica, e con ciò mi riferisco non a un qualsiasi, presunto ed eventuale comunismo, bensì al comunismo realmente esistente, quale lo professano Cabet, Dézamym Weitling ecc. Questo comunismo è proprio solo una manifestazione particolare del principio umanistico, contaminato dal suo opposto, l’elemento privato. Abolizione della proprietà privata e comunismo, quindi, non sono affatto identici e non a caso, bensì necessariamente, il comunismo si è trovato di fronte ad altre dottrine socialiste, come quelle di Fourier, Proudhon ecc., proprio perché esso spesso non è che un’attuazione particolare, unilaterale, del principio socialista». (ibidem, p. 81)



«Nulla ci impedisce quindi di collegare la nostra critica alla critica politica, alla partecipazione politica, perciò alle lotte reali, e di identificarle con esse. Allora non affronteremo il mondo in modo dottrinario, con un nuovo principio: qui è la verità, inginocchiatevi! Attraverso gli stessi principi del mondo noi illustreremo al mondo nuovi principi. Non gli diremo: «Abbandona la tua lotta, è una sciocchezza; noi ti grideremo la vera parola d’ordine della lotta». Gli mostreremo soltanto perché effettivamente combatte, poiché la coscienza è una cosa de deve far propria.

La riforma della coscienza consiste solo nel rendere il mondo consapevole di se stesso, nel ridestarlo da suo ripiegamento trasognato, nello spiegargli le sue proprie azioni. Come per la critica della religione di Feuerbach, il nostro scopo non è altro che condurre alla forma umana autocosciente tutte le questioni religiose e politiche». (ibidem, pp. 82-83)



«Il nostro motto sarà quindi: riforma della coscienza, non mediante dommi, bensì mediante l’analisi della coscienza mistica oscura a se stessa, sia che si presenti in modo religioso, sia in modo politico. Si vedrà allora come da tempo il mondo possiede il sogno di una cosa, di cui non ha che da possedere la coscienza per possederla realmente. Sarà chiaro come non si tratti di tirare una linea retta tra passato e futuro, ma di realizzare le idee del passato. Si vedrà infine come l’umanità non incominci un lavoro nuovo, ma venga consapevolmente a capo del suo antico lavoro.

Possiamo dunque sintetizzare in una parola la tendenza della nostra rivista: auto-chiarificazione (filosofia critica) del nostro tempo in relazione alle sue lotte e ai suoi desideri. Questo è un lavoro per il mondo e  per noi. Esso può derivare solo da un’unione di forze. Si tratta di una confessione, non d’altro».

Per farsi perdonare le sue colpe, l’umanità non ha che da dichiararle per ciò che esse sono. (ibidem, p. 83).



***

Karl Marx – Cristalli di denaro: “auri sacra fames”
Karl Marx – Il denaro è stato fatto signore del mondo
Karl Marx – Il denaro uccide l’uomo. Se presupponi l’uomo come uomo e il suo rapporto col mondo come un rapporto umano, potrai scambiare amore soltanto con amore
Karl Marx – La natura non produce denaro
Karl Marx (1818-1883) – A 17 anni, nel 1835, già ben sapeva quale sarebbe stata la carriera prescelta: agire a favore dell’umanità.
Karl Marx (1818-1883) – Il capitale, per sua natura, nega il tempo per una educazione da uomini, per lo sviluppo intellettuale, per adempiere a funzioni sociali, per le relazioni con gli altri, per il libero gioco delle forze del corpo e della mente.
Karl Marx (1818-1883) – La patologia industriale. La suddivisione del lavoro è l’assassinio di un popolo
Karl Marx (1818-1883) – Sviluppo storico del senso artistico e umanesimo comunista. La soppressione della proprietà privata è la completa emancipazione di tutti i sensi umani e di tutte le qualità umane. Il comunismo è effettiva soppressione della proprietà privata quale autoalienazione dell’uomo, è reale appropriazione dell’umana essenza da parte dell’uomo e per l’uomo
Karl Marx (1818-1883) – Il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità.
Karl Marx (1818-1883) – Gli economisti assomigliano ai teologi, vogliono spacciare per naturali e quindi eterni gli attuali rapporti di produzione.
 
Karl Marx (1818-1883) – Per sopprimere il pensiero della proprietà privata basta e avanza il comunismo pensato. Per sopprimere la reale proprietà privata ci vuole una reale azione comunista.
Karl Marx (1818-1883) – Noi non siamo dei comunisti che vogliono abolire la libertà personale. In nessuna società la libertà personale può essere più grande che in quella fondata sulla comunità.
Karl Marx (1818-1883) – La sensibilità soggettiva si realizza solo attraverso la ricchezza oggettivamente dispiegata dell’essenza umana.
Karl Marx (1818-1883) – Vi sono momenti della vita, che si pongono come regioni di confine rispetto ad un tempo andato, ma nel contempo indicano con chiarezza una nuova direzione.
Karl Marx (1818-1883) – Quando il ragionamento si discosta dai binari consueti, si va sempre incontro a un iniziale “boicottaggio”
Karl Marx (1818-1883) – L’arcano della forma di merce. A prima vista, una merce sembra una cosa ovvia. Dalla sua analisi, risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Ecco il feticismo che s’appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci.
Karl Marx (1818-1883) – Ogni progresso compiuto dall’agricoltura capitalista equivale a un progresso non solo nell’arte di DERUBARE L’OPERAIO, ma anche in quella di SPOGLIARE LA TERRA, ogni progresso che aumenta la sua fertilità in un certo lasso di tempo equivale a un progresso nella distruzione delle fonti durevoli di tale fertilità
Karl Marx (1818-1883) – Il sistema monetario è essenzialmente cattolico, il sistema creditizio è essenzialmente protestante. La fede nel valore monetario come spirito immanente delle merci, la fede nel modo di produzione e nel suo ordine prestabilito, la fede nei singoli agenti della produzione come semplici personificazioni del capitale autovalorizzantesi.
Karl Marx (1818-1883) – L’uomo «totale», è l’uomo che si appropria del suo essere onnilaterale. L’uomo ricco è l’uomo che ha bisogno di una totalità di manifestazioni di vita umane, l’uomo in cui la propria realizzazione esiste come necessità interna, in una società in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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