Ngugi Wa Thiong’o’ – Bisogna Decolonizzare la mente. Il mezzo più potente di cui si serve l’imperialismo post-coloniale è il linguaggio.

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Se vuoi assoggettare i corpi, usa catene e cannoni. Ma i cannoni e le catene non bastano, ti serve qualcosa come una calamita, che da un lato respinge, dall’altro subdolamente attrae, a seconda di come la volti. Qualcosa che se allontanata retoricamente da te, rimane concretamente dentro di te. La conquista dell’Africa è stata fatta con i cannoni, ma per rendere eterna tale conquista dovevano intervenire sulle scuole, sulla formazione delle élites, trasformare la pluralità in una sorta di monoglottismo del capitale.
Dovevano incantare l’anima e la mente, asservendole silenziosamente. Per questa ragione, si presenta con urgenza la necessità di decolonizzarle, partendo dal mezzo più potente di cui si è servito l’imperialismo coloniale e ancora si serve l’imperialismo post-coloniale: il linguaggio.
In Africa, il portoghese, il francese e l’inglese sono state le lingue del potere, le lingue del governo e di tutta l’amministrazione. Sono state le lingue della classe media e della borghesia e di chi poteva permettersi di «studiare». La borghesia acculturata è così entrata di fatto a far parte di una comunità basata su uno standard europeo di cultura. […] In questa prospettiva imperialista, studiare significava allora, entrare in quel sistema linguistico e di valori, un sistema molto selettivo e riduttivo, che riproduce perpetuamente le stesse logiche di dominio da cui è partito.
Premesse e conclusioni non differiscono e nel mezzo c’è sfruttamento dell’altro, non meno che autosfruttamento di sé. La povertà culturale non è meno devastante di quella linguistica. Proprio perché la lingua è invece strumento per mediare fra me e gli altri, fra la mia e le altre identità, e crea diversità come ricchezza.
[…] Mai come oggi la borghesia africana subisce l’influenza della lingua inglese, vietando ai propri figli di apprendere, parlare, scrivere in una delle lingue africane. La classe media pensa che i propri figli, i figli dei borghesi di oggi, saranno i borghesi di domani. La futura classe dirigente deve così perpetuare il monolinguismo, la sudditanza, lo svuotamento.
La loro mente è colonizzata, una mente colonizzata dalla lingua dominante. Per questa ragione, il futuro dell’Africa mi preoccupa molto. Mi preoccupa l’abbandono, non più imposto con la sola coercizione fisica, ma da una sorta di disciplinamento delle anime. Sono strategie sottili, che l’imperialismo conosce molto bene, perché l’imperialismo è un serpente, striscia e si insinua dove meno te ne accorgi.
Oggi questo l’imperialismo si è incanalato per vie che non sono solo quelle delle braccia o delle schiene ricurve dalla fatica. È un imperialismo che è arrivato a lambire la coscienza, trasformando in falsa coscienza quello che viene però proclamato come autocoscienza.

 

 

Ngugi Wa Thiong’o’, Decolonizzare la mente. La politica della lingua nella letteratura africana, trad. di Maria Teresa Carbone, Jaca Book, Roma 2015.

I quattro testi di Ngugi Wa Thiong’o che compongono “Decolonizzare la mente”, sono la summa di un pensiero che si è andato formando con anni di studio e con dolorose esperienze vissute in prima persona; in particolare la scelta di scrivere una pièce di critica al potere nella sua lingua madre, il gikuyu, in modo da poter essere compreso da ogni strato di pubblico, gli costò nel 1978 un anno di detenzione. Fu in quei mesi che l’autore maturò la convinzione che “l’arma più grande scatenata ogni giorno dall’imperialismo contro la sfida collettiva degli oppressi è la bomba culturale, una bomba che annulla la fiducia di un popolo nel proprio nome, nella propria lingua, nelle proprie capacità e in definitiva in se stesso”. In tal senso, questo volume anche oggi può dire molto ai lettori occidentali che vogliano osservare criticamente i fenomeni connessi alla globalizzazione e gli effetti di una politica culturale omologante.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Aleksandr Ivanovič Gercen [Herzen] (1812-1870) – Stare ovunque e sempre in ogni cosa dalla parte della libertà, contro l’ingiustizia, dalla parte della conoscenza.

Aleksandr Ivanovič Gercen [Herzen]

«Un uomo con così rara combinazione di scintillante brillantezza e profondità».
                                                                        L. Tolstoj

«L’autobiografia di Herzen (Il passato e i pensieri) è uno dei grandi monumenti della letteratura russa, […] un capolavoro letterario da mettere sullo stesso piano delle opere dei suoi contemporanei e connazionali, Tolstoj, Turgenev, Dostoevskij […]».
                                                                           I. Berlin

 

 

«Stare ovunque e sempre in ogni cosa dalla parte della libertà, contro l’ingiustizia, dalla parte della conoscenza, contro la superstizione e il fanatismo religioso, dalla parte del popolo che matura, contro i governi reazionari – questa è la nostra linea».

Aleksandr Ivanovič Gercen [Herzen], Il passato e i pensieri [1861], Einaudi-Gallimard, Torino 1966.

La tomba di Aleksandr Ivanovič Herzen, a Nizza.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Giorgio Bassani (1916-2000) – Nella vita se uno vuol capire, capire sul serio, come stanno le cose di questo mondo, deve morire almeno una volta, meglio da giovani, quando uno ha ancora tanto tempo davanti a sé per tirarsi su e risuscitare.

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«Nella vita se uno vuol capire, capire sul serio, come stanno le cose di questo mondo, deve morire almeno una volta. E allora, dato che la legge è questa, meglio morire da giovani, quando uno ha ancora tanto tempo davanti a sé per tirarsi su e risuscitare».

Giorgio Bassani, Il giardino dei Fizzi-Contini, Einaudi, Torino 1962.

“Nu couché bleu” è un olio su tela realizzato da Nicolas de Stael nel 1955.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Sergio Finardi (1950-2015) – Il j’accuse di Franz Kafka contro il lavoro capitalista nel libro di Luigi Ferrari, «Alle fonti del kafkiano».

Sergio Finardi - Franz Kafka
Sergio Finardi

«Da tempo ormai il nuovo modo di lavorare, di organizzare il lavoro, la produzione e l’economia stavano cambiando l’uomo, il suo ambiente e le sue relazioni, ma mancavano alcuni indispensabili modi di discuterne. Certo, gran parte delle parole e dei concetti che noi oggi usiamo per parlare della grande fabbrica, dell’impresa, del primato dell’economia nella vita associata e di argomenti connessi erano disponibili da tempo – da Taylor a Marx –, ma chi aveva parlato dell’inconsistenza del soggetto, del vuoto mentale, chi aveva mostrato, o solo nominato, il legame psicologico del soggetto all’evanescenza persecutoria delle grandi costruzioni organizzative? Chi, pur parteggiando per i lavoratori, ne aveva narrato così bene la cecità, il vuoto interiore e le vuote illusioni e chi aveva altrettanto bene intravisto i contenuti profondi della progressiva e radicale atomizzazione degli individui?».

Disegno di Franz Kafka

Così Luigi Ferrari, nel suo recente Alle fonti del kafkiano. Lavoro e individualismo in Franz Kafka (prefazione di Giorgio Galli, postfazione di Renato Rozzi, editrice Vicolo del Pavone, pp. 312, euro 21) ci introduce ad analizzare con una lente non letteraria e non tradizionale l’opera di Kafka (1883-1924). Ideale continuazione del suo monumentale L’ascesa dell’individualismo economico, pubblicato dalla stessa casa editrice nel 2010, il lavoro di Ferrari è uno straordinario viaggio dentro il pensiero di Kafka «scrittore del lavoro, dell’economia e della realtà» e apre una prospettiva inedita nella comprensione della sua opera – restituita nella sua estrema varietà e complessità – e dei meandri di senso che sono all’origine dell’uso quasi universale del termine «kafkiano».
Il libro si compone di una introduzione generale e di cinque capitoli che fanno perno su altrettanti nodi dell’interpretazione delle opere e delle lettere private dello scrittore praghese. Ne accenneremo qui per tratti fondamentali nella descrizione dei vari capitoli, certo non esaustiva del quadro ben più articolato che il lettore troverà nel volume.

Disegno di Franz Kafka

L’analisi del primo capitolo (il Lavoro) è innovativamente centrata sulla relazione tra i temi di alcune opere fondamentali di Kafka (Le Metamorfosi, Il Digiunatore e Il Castello) e le approfondite conoscenze sull’organizzazione del lavoro – riflesse in varie «relazioni tecniche» riportate alla luce da Ferrari – che lo scrittore aveva acquisito come analista dell’Istituto di assicurazione contro gli infortuni dei lavoratori del Regno di Boemia, a Praga, dove lavorerà tra il 1908 e il 1918.
Lontano dall’immagine di «povero travet ‘scadente’ e svogliato, con il solo esclusivo interesse perla letteratura» che l’autore praghese, ancora prima dei suoi esegeti, ha voluto trasmetterci, Kafka aveva, in realtà, sempre rivestito un ruolo formale e soprattutto informale di primissimo piano nello studio tecnico, psicologico, legale e gestionale della prevenzione degli infortuni e, in senso lato, dell’organizzazione del lavoro.
Così – sostiene Ferrari – i protagonisti delle opere di Kafka sono investiti – pur nei termini onirici che ne caratterizzano l’esperienza – dai processi e dalle condizioni che Kafka conosceva bene: l’interscambiabilità e fungibilità dei lavoratori nella produzione capitalistica; la perdita di senso dell’attività lavorativa del singolo; la sempre possibile e incombente sua «superfluità» e irrilevanza; l’immiserimento della vita interiore del lavoratore, il «vuoto mentale» che si produce in chi subisce.
Nel secondo capitolo (Intermezzo metodologico) troviamo il tema degli strumenti metodologici – in particolare in attinenza alla scuola delle Annales – che permettono di comprendere il nesso tra storia oggettiva e soggettiva nell’opera kafkiana, con ampio riferimento ai processi descritti da Ferrarine L’ascesa dell’individualismo economico e la discussione di merito riguardo il senso della scelta della forma nell’apologo onirico, «ovvero di una narrazione al contempo sfrenata e imperturbabile e perciò adatta a riflettere il caos del nuovo nelle società» in comparazione con Freud dell’Interpretazione dei sogni.
Di notevole importanza appare, poi, l’insieme delle considerazioni condotte nel terzo capitolo (Le Organizzazioni), che verte sull’analisi kafkiana delle forme del potere organizzativo, così come si mostra in opere quali Il Processo, Il Castello, La Colonia Penale. In questo capitolo, Ferrari capovolge l’interpretazione di Kafka come esegeta delle strutture organizzative totalitarie, monolitiche e impenetrabili nelle loro logiche occulte, mostrando come in realtà egli parli delle grandi organizzazioni come strutture deboli o meglio, indebolite, dal «brulicare», al loro interno, di interessi individuali e privati, da procedure vaghe e imprecise, da disordine organizzativo e resistenza al cambiamento – anticipando riflessioni che solo oggi l’evoluzione del lavoro e delle organizzazioni ha reso del tutto attuali.
Il nodo della visione che Kafka mostra di avere dell’economia che si andava affermando e del lavoro dipendente in cui si identifica contrariamente al «destino» che la famiglia vorrebbe per lui, viene affrontato nel quarto capitolo (Affetti e denaro), con una disamina del groviglio intricatissimo di affetti e interessi economici che hanno riguardato la relazione tra KaIka e la sua famiglia, in particolare con la figura patema (Lettera al padre), nel contesto generale del precipitare, nel periodo, di quella «ribellione al padre» che andava maturando da molto tempo con il disgregarsi progressivo della società agrario-feudale.

Disegno di Franz Kafka

Oltre l’individualismo, verso l’individualismo economico, tema del capitolo finale, si svolge sullo sfondo dei processi storici che sono alla base della riflessione di Ferrari. Vediamo così, attraverso le parole delle lettere, dipanarsi il pensiero di Kafka su se stesso, sul proprio individualismo e tendenza all’isolamento, sul suo rifiuto della famiglia e del matrimonio, sul «nucleo più interno dell’incipiente atomizzazione degli individui e dell’eclisse generalizzata della socialità», arrivando infine – tra altre opere – alla cupa visione che si esprime nella Tana (1923-24), scritto sei mesi prima della morte e rimasto incompiuto.
In quel racconto, come vorrebbe oggi il liberismo economico, «il mondo è popolato solo da predatori e ogni forma di relazione con l’altro è un duello: non ci può essere cooperazione e dunque totalmente assente è la fiducia».
Quindi, «il mondo è atomizzato: quella che inizialmente era la difesa dell’individuo dal collettivo si è poi trasformata nel primato dell’individuo e, infine, nel culto totalitario del singolo».

Sergio Finardi, Il j’accuse di Franz Kafka contro il lavoro capitalista nel libro di Luigi Ferrari «Alle fonti del kafkiano». Luigi Ferrari, Alle fonti  del kafkiano. Lavoro e individualismo in Franz Kafka, prefazione di Giorgio Galli, postfazione di Renato Rozzi, a cura di V. Guerrini, D. Dondi, Editrice  Vicolo del Pavone, Castelnuovo Scrivia AL 2014. La recensione di Sergio Finardi è stata pubblicata su il manifesto del 29-04-2014, p. 11.

Marco Cinque, Addio caro Sergio Finardi
In ricordo di Sergio Finardi
Carlo Tombola, Per Sergio Finardi
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Aleksandr Nikolaevič Radiščev (1749-1802) – Vuoi sapere chi sono? cosa faccio? dove vado?Sono colui che ero e sarò sempre nella vita: uomo! Lo scrittore può essere profeta di verità o essere al servizio della menzogna.

Aleksandr Nikolaevič Radiščev - Jurij Michajlovič Lotman

Vuoi sapere chi sono? cosa faccio? dove vado?
Sono colui che ero e sarò sempre nella vita:
non bestia, né albero, né schiavo, ma uomo!
Ad aprire una strada non calcata da piedi,
per focosi temerari sia in prosa sia in versi,
ai cuori sensibili ed alla verità, io verso la paura
e verso il carcere di IIimsk mi dirigo.

Aleksandr Nikolaevič RadiščevStichotvorenija [Poesie], Leningrad, Sovetskij pisatel’, 1953.



Il testo su Aleksandr Nikolaevič Radiščev,  tradotto dal russo per la prima volta da Alessandro Niero (su «il manifesto» del 21-02-2006, p. 12), venne scritto dal grande critico letterario Jurij Michajlovič Lotman per la Ucebnik po russkoj literature (Manuale di letteratura russa).

Jurij Michajlovič Lotman

Il primo scrittore rivoluzionario in Russia

Logica conseguenza delle idee propagandate dall’illuminismo fu l’esigenza di libertà per tutti gli uomini, esigenza portata fino a riconoscere al popolo il diritto di conquistarsi questa libertà con la forza. Colui che, nella letteratura russa del XVIII secolo, formulò nel modo più completo e coerente questo pensiero fu Aleksandr Nikolaevič Radiščev. Di antica estrazione nobiliare, ancorché di una nobiltà non ricca, Radiščev studiò all’università di Upsia e nel 1790 pubblicò il libro Viaggio da Pietroburgo a Mosca, che gli costò la condanna alla decapitazione. La pena fu poi commutata nell’esilio in Siberia, dove visse fino al 1796, data della morte di Caterina II. Nel periodo in cui regnò Paolo, dal 1796 al 1801, Radiščev visse esiliato in un villaggio. Alessandro I nel 1801 lo restituì all’attività di Stato, affidandogli un alto incarico nella «Commissione per la stesura delle leggi». Tuttavia Radiščev nel 1802 si suicidò. Le cause del suo gesto non sono chiare: i contemporanei vi lessero una sfida al governo. Viaggio da Pietroburgo a Mosca è l’opera più importante di Radiščev: il libro è redatto in forma di note di viaggio dal punto di vista di un viaggiatore che percorre in carrozza postale il tragitto che separa le due capitali dell’impero russo. Gli amici chiamavano Radiščev «colui che non vedeva tutto rosa». Guardava in faccia alla realtà russa del suo tempo e con eccezionale coraggio sottopose a giudizio sia il dispotismo politico dominante in Russia – l’arbitrio delle autorità, la mancanza di diritti dei sudditi – sia la terribile condizione dei contadini. Radiščev riconosce il diritto del popolo alla rivolta, sebbene non rigetti anche la possibilità che un governo illuminato possa compiere trasformazioni pacifiche. La serie di questioni contemplate nel suo libro è straordinariamente ampia: oltre ad essere in possesso di una formazione specifica in campo giuridico, egli era anche un insigne economista, un filosofo e uno storico. Il suo libro è una vera e propria enciclopedia dell’illuminismo del XVIII secolo.
Proprio con Radiščev ha inizio l’intreccio fra la letteratura russa e la lotta per la libertà e la felicità del popolo, che di quella letteratura divenne il tratto caratteristico. Riservando nella lotta di liberazione un posto speciale alla parola dello scrittore, Radiščev era persuaso che è efficace soltanto quella parola per cui lo scrittore è disposto a pagare con la propria vita. Lo scrittore può essere profeta di verità o essere al servizio della menzogna. Pagando con il sangue le proprie parole, egli si guadagna la fiducia dei lettori e la gratitudine dei posteri. Gli scrittori che aspiravano alla ricchezza e ai riconoscimenti, invece, erano chiamai da Radiščev «leccapiedi».
Con Radiščev ha inizio nella letteratura russa la tradizione rivoluzionaria. Egli stesso in un breve componimento [riprodotto qui sopra] disse di avere «aperto la strada» per la Siberia. Quella strada fu percorsa in seguito dai decabristi, da Fëdor Dostoevskij, da Nikolaj Gavrilovič Černyševskij e da molti altri scrittori russi.

 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Milan Kundera – L’esistenza non è ciò che è avvenuto, l’esistenza è il campo delle possibilità umane, di tutto quello che l’uomo può divenire, di tutto quello di cui è capace.

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«Il romanzo non indaga la realtà, ma l’esistenza.
E l’esistenza non è ciò che è avvenuto,
l’esistenza è il campo delle possibilità umane,
di tutto quello che l’uomo può
divenire, di tutto quello di cui è capace».

Milan  Kundera, L’arte del romanzo [1986], Adelphi, Milano 1988, pp. 68, 70.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Francesco Petrarca – Nei libri c’è un fascino particolare. L’oro, l’argento, le pietre preziose, le vesti di porpora, i palazzi di marmo … danno un piacere muto e superficiale, mentre i libri ci offrono un godimento molto profondo: ci parlano.

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Francesco Petrarca scriveva a Giovanni Anchiseo (Familiari, III, 18) della sua insaziabile brama di libri:
«Vuoi dunque sapere la mia malattia? Non so saziarmi di libri. Probabilmente ne posseggo piu del necessario ma con i libri succede come con le altre cose: il riuscire ad avere ciò che si cerca stimola ulteriormente il desiderio. Nei libri c’è anzi un fascino particolare. L’oro, l’argento, le pietre preziose, le vesti di porpora, i palazzi di marmo, i campi ben coltivati, i dipinti, i palafreni con splendidi finimenti e tutte le altre cose di questo genere danno un piacere muto e superficiale, mentre i libri ci offrono un godimento molto profondo: ci parlano, ci danno consigli e, vorrei dire, vivono insieme a noi con una loro viva e penetrante familiarità. A chi legge non offrono soltanto se stessi ma suggeriscono anche il nome di altri e ne stimolano il desiderio».

Francesco Petrarca, Le familiari. Ed. critica, 4 voll., Le Lettere, Firenze 19997, a cura di V. Rossi, U. Bosco.

Francesco Petrarca (1304-1374) – Gloria effimera è cercar fama solo nel barbaglio delle parole: il mio lettore, almeno finché legge, voglio che sia con me. Non voglio che apprenda senza fatica ciò che senza fatica non ho scritto.
Francesco Petrarca (1304-1374) – Frugati dentro severamente. Anche il conoscere molte cose, che mai rileva se siete ignoti a voi stessi?

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Brice Bonfanti – Lo scrittore Arno Bertina in dialogo con il poeta Brice Bonfanti. una triade di epopee popolari, una triade di civiltà, una triade di popoli […] una triade d’amore.

Brice Bonfanti 03

[…] una triade di epopee popolari (Palestina, Messico zapatista, Argentina nel 2001), una triade di conoscenze […], una triade di civiltà […], una triade di popoli […] una triade d’amore […].

B.  Bonfanti

 

Entretien avec Brice Bonfanti

Dans ses Chants d’utopie, dits en public, Brice Bonfanti invente une multiplicité d’épopées à travers les époques et les lieux, avec pour matière les catastrophes et les espérances de notre temps, et où interviennent les poètes et les mythes. Pour En attendant Nadeau, l’écrivain Arno Bertina (Des châteaux qui brûlent, Verticales, 2018) s’entretient avec le poète né en 1978.

Nel suo Chants d’utopie, letto in pubblico, Brice Bonfanti crea una molteplicità di epopee attraverso epoche e luoghi, che hanno come soggetto le catastrofi e le speranze del nostro tempo e in cui intervengono poeti e miti. Per En attendant Nadeau, lo scrittore Arno Bertina (Des châteaux qui brûlent, Verticales, 2018) parla con il poeta nato nel 1978.



Brice Bonfanti, Chants d’utopie, premier cycle. Sens & Tonka, 172 p., 16,50 €

Brice Bonfanti, Chants d’utopie, deuxième cycle. Sens & Tonka, 320 p., 19,50 €


Vos deux premiers volumes de poésie sont divisés en livres comportant trois chants. La chose est donc structurée. Mais ces chants semblent provenir d’un ensemble bien plus vaste puisque le livre 1, par exemple, est constitué des chants XI, XVIII et V. Est-ce le signe d’une fragmentation chaotique que le sommaire ne parvient pas, en fait, à empêcher ? Est-ce le signe d’un réagencement souverain, qui se moque de la chronologie officielle (Dante devrait venir avant Essenine) ?

Il s’agit, oui, d’un réagencement souverain, mais d’une souveraineté d’enfant, qui se moque de la chronologie officielle autant que personnelle, mais qui se moque avec tendresse, et sans mauvais esprit, plutôt avec un bon esprit, un esprit bon enfant, qui même ne se moque pas, mais joue, comme au lego. C’est un agencement bonenfantin.

Comme si l’ordre du temps était désordonné, ou insatisfaisant, et comme s’il fallait après coup l’ordonner autrement. Tous les chants jusqu’au XXVII, terminé récemment, existent déjà. Certains ont pris leur place, d’autres l’attendent. Le sommaire reflète la fidélité à l’ordre du temps où s’écrivent les chants, depuis 2008, puisqu’il maintient la numérotation chronologique – et il reflète en même temps le jeu sérieux qui réordonne cet ordre du temps, pour un nouvel ordre cordial : a posteriori, se forment des triades par affinité, par amitié entre les chants écrits.

Par exemple, le livre 3 est une triade de la religion, de l’espérance religieuse comme ferment révolutionnaire (Israël messianique, Égypte hésychaste, Turquie soufie). Mais je ne les ai pas écrits à la suite, puisqu’il s’agit respectivement des chants XIII, XV et X.

De la même manière, sont apparues : une triade d’épopées populaires (Palestine, Mexique zapatiste, Argentine en 2001), une triade de la connaissance (du cerveau divisé à la mystique unifiée, jusqu’au théâtre utopien), une triade de la civilisation (de Sumer à l’après transhominidisme), une triade des peuples ayant fait l’objet d’un palimpseste, devenus utopiques, sans lieu (Occitans, Imazighen…), une triade des aborigènes, à l’origine d’un peuplement (depuis les bactéries jusqu’aux aborigènes d’Inde et du Japon), une triade de l’amour (de l’amour minuscule à l’Amour majuscule).

L’ensemble est plus vaste d’emblée : mes éditeurs Sens & Tonka ont vite vu mon obsession pour le Neuf (dans les deux sens du terme), mon rituel de l’écriture avec un œuf et trois cafés, Un Neuf et Trois, et ils ont annoncé neuf cycles de neuf chants, autrement dit quatre-vingt-un chants. Un seul ensemble formé de Neuf cycles chacun découpé en Trois livres chacun contenant ses Trois chants soit Neuf chants.

L’ensemble est vaste, parce que je veux n’écrire qu’une chose, sauf accident. Jusqu’ici, les accidents ont toujours fini par intégrer la chose une. Moi qui m’ennuie très vite, je sais que je ne m’ennuierai pas. Comme l’Un du néoplatonisme qui seul garantit la liberté des êtres, sans engendrement, sans intervention, sans domination, l’Un des Chants d’utopie garantit la naissance de multiples passés et à venir, et les protège comme une Arche.

Il est des chants que je rêve de faire, et que je fais des années après. J’ai rêvé ma Voltairine en 2004, alors que je n’avais écrit que le chant I, et je ne l’ai écrite qu’en 2015 avec le chant XIV. Depuis 2008, je sais que mon chant de Suisse sera le chant de la prostitution, avec pour figure Grisélidis Réal – mais je ne l’ai toujours pas écrit. Pareillement, le chant de Rojava, du Kurdistan syrien, couve depuis plusieurs années.

À l’inverse, il est des chants que je n’avais pas prévus, qui surgissent soudain. Par exemple, le chant XXIII de Stig Dagerman. Je n’avais jamais songé à écrire un chant de Suède. C’est le thème du suicide qui est venu en premier : je voulais explorer le suicide en tant qu’utopie, en tant que recherche d’un sans-lieu. J’ai choisi la figure de Stig parce qu’avant d’être un suicidé il était anarchiste, et que cela redoublait l’utopie, avec une dimension politique. La mystique est venue comme un troisième terme. Et comme en utopie tous les temps sont présents, c’est Emanuel Swedenborg, venu du XVIIIe siècle, qui vient initier Stig dans son XXe siècle à la mystique. Ce chant XXIII est le dernier que j’ai écrit – après coup – pour le deuxième cycle, alors que j’en avais déjà transmis le manuscrit à mes éditeurs. Il a fallu, pour l’intégrer, tout réorganiser. Mais il était trop important car il donnait à l’Utopie majuscule sa dimension métaphysique, quasiment synonyme de Dieu, ou plutôt : de l’Un, et je l’ai mis au centre du deuxième cycle, comme un point de bascule, entre un avant et un après.

Brice Bonfanti, Chants d’utopie

Pour chaque « chant », une figure tutélaire et une région du monde (le chant VII du livre 4 est ainsi placé sous le signe de Roberto Juarroz et Laura Cerrato, Argentine, etc.). Comment définir ce dialogue avec les œuvres citées ? À lire vos chants, on écarte l’hypothèse d’une variation comme il en existe beaucoup en musique, et peu en littérature (Jean-Louis Giovannoni a écrit « Variations Hölderlin », et « Variations Juarroz », mais je ne connais pas d’autre exemple).

Ces figures sont des types, des emblèmes, des symboles. Certains types m’attirent, comme autant de facettes d’un hypertype, utopien : paysans, poètes, mystiques, anarchistes, autodidactes, inventeurs, alchimistes, Amérindiens, aborigènes, pirates…

Ces figures m’inspirent comme des tremplins. Je ne fais pas de petits romans historiques : le point de départ, c’est l’histoire, ou plutôt la préhistoire, où nous les animaux hominidés nous souvivons, sauf par éclair ; mais le point infini d’arrivée est utopique, une autre histoire, la vraie histoire, où les humains vivent enfin, tendus vers l’outrevie. Chaque figure, issue de notre préhistoire, se trouve donc utopisée.

Comme dans le sommaire où l’ordre (le désordre) temporel de l’écriture est réordonné (ordonné) en un autre ordre, chaque chant réordonne notre préhistoire, pour déployer les germes du meilleur qui n’ont pas pu aller au bout, empêchés par une préhistoire arriérée et subie.

L’anarchiste américaine Voltairine de Cleyre n’a pas connu autrement qu’en l’espérant l’utopie – le rêve réel –, mais seulement la préhistoire – le cauchemar illusoire. Je rêvais qu’elle vive un autre monde, monde enfin nôtre. Et je n’ai pourtant pas suivi ses doctrines à elle pour l’esquisse utopique.

L’écart est plus ou moins grand entre les faits préhistoriques et le récit utopique : les adorateurs de Roberto Juarroz, dont je suis, ne retrouveront pas grand-chose, voire rien, dans le chant VII qui est placé sous sa figure et celle de son épouse. Ce qui me nourrissait alors était l’Argentine en 2001 et l’expérience psychédélique, qui ont ici été mariées.

À l’inverse, il y a quelquefois peu d’écart : le chant XIII de Debôrâh s’est appuyé sur le livre V des Juges de la Torah. Je l’ai seulement complété par, entre autres, ce que m’inspirait le nombre de Debôrâh, défini par le rhéologue israëlien Markus Reiner pour désigner la fluidité d’un matériau, et qui dépend de la chaleur – en référence à ces mots du Cantique de Debôrâh : « Devant Yahvé, les montagnes coulèrent ». Dans le chant, la chaleur est devenue celle de l’espérance (informée, agissante, informante) qui modifie la matière du monde.

En règle générale, moins j’en sais, plus je suis libre. Quand je me documente trop, comme par exemple pour le chant du Mexique zapatiste, je suis accablé et je dois lutter pour me délivrer du savoir. L’écriture du chant XI de Sergueï ou, récemment, du chant XXVII de Dihya (nommée la Kahina par ses envahisseurs) a été fluide, jubilatoire et libre, car j’ai volontairement réduit la documentation.

Préciser l’aire géographique est une façon aussi discrète de dire beaucoup, me semble-t-il. Tout d’abord ceci : le poète n’est pas hors sol ; il est d’une culture qu’il féconde à son tour. Mais ces noms disent également l’ampleur de l’entreprise poétique inaugurée par ces deux volumes : vous brassez les époques, les cultures et les œuvres. Ce serait donc le signe d’une ambition superbe, d’un souffle ou d’un appétit.

Nommer et situer un lieu comme support, parfois source, du chant, me pousse à explorer chant après chant un nouveau monde, à me dépayser comme est censé dépayser l’œil utopique, changer de culture, de langage pour dire le monde, chercher à traduire en respectant l’intraduisible, et chercher le commun, le comme un, dans l’autre, et l’autre dans le commun.

D’autre part, c’est une dialectique, parfois successive, parfois simultanée, entre l’utopie (le sans-lieu) et la topie (le lieu), comme si chaque topie portait en soi son utopie, sa source de possibles ; et comme si, réciproquement, une utopie cherchait à devenir une topie, à se faire topie, comme si un sans-lieu cherchait à s’incarner, à entrer dans un lieu, à se faire enfin lieu.

Nommer un lieu est parfois, aussi, un exercice de potacherie géopolitique, pour créer, d’abord en moi-même, un inattendu. Pour l’Égypte, plutôt que les pyramides et les pharaons, j’ai chanté une sainte chrétienne du IVe siècle, Synclétique, et plutôt une « Mère du désert » parmi les Pères du désert. Pour l’Inde, j’ai chanté des aborigènes, les Warlis, autrement dit un peuple d’avant le nom de l’Inde. Potacherie agressive, aussi, quand je nomme l’Occitanie, qui a fait l’objet d’un palimpseste par Rome et la France ; ou Tamazgha pour chanter le peuple Amazigh (dit « berbère » par ses envahisseurs).

Brice Bonfanti, Chants d’utopie

À lire ces deux premiers volumes et vos réponses ci-dessus, il semble impossible d’écarter la question de l’érudition. Dans le paysage littéraire, cette érudition distingue votre poésie car, s’il a presque toujours existé des poètes érudits ou proches des philosophes (en vrac, et en m’en tenant au XXe siècle : René Char, Yves Bonnefoy, Jean-Patrice Courtois, Philippe Beck, Dominique Meens…), il est fréquent de voir cette érudition absorbée par le poème jusqu’à faire énigme. C’est l’inverse dans vos chants, tout comme dans le « Cycle des exils » de Patrick Beurard-Valdoye, mais je ne connais pas beaucoup d’autres exemples. Cette singularité fait de vous un contemporain étrange. Quel rapport entretenez-vous à la poésie qui s’écrit aujourd’hui, à celle des quarante dernières années ?

C’est depuis que la vie me bouscule – l’adolescence – que je lis pour tenter de comprendre. L’érudition est un effet collatéral de mon désir. C’est le désir qui est premier et me conduit vers des lectures. Et je ne fais aucun effort pour retenir quoi que ce soit : je laisse Kalliópê, ma seule Muse, retenir ce qui lui chante, la fait chanter, et que sa volonté soit faite. C’est une érudition d’autodidacte, avec des îles, peuplées ou non, de grands déserts, des jungles riches, des jardins – à l’anglaise, jamais à la française. Je ne suis spécialiste de rien en particulier, pour ne pas m’ennuyer. Toute lecture contrainte – même par moi –, pas soutenue par le désir, la libido sciendi, m’est impossible.

J’ai des périodes d’enthousiasme obsessionnel pour un thème, un domaine, un maître, pendant des semaines, des mois. Puis l’obsession me lasse, j’en change. Je suis fidèle à tous mes maîtres, mais je les multiplie. Mes maîtres me servent, mes maîtres me servent à déployer ce que je porte en moi : mes maîtres me libèrent. Pour être libre, asymptotiquement, je veux, non pas ne pas avoir de maître, mais les multiplier, tout en gardant mon propre cap qui, lui, provient d’on ne sait où.

Mes lectures sont des nourritures secondaires qui à leur tour deviennent les enzymes digestives pour assimiler la nourriture première qu’est le vivre. Elles sont des morceaux de vie et de savoir humains à rassembler comme les membres d’Osiris éparpillés. Je veux tout mettre dans mes chants qui sont une Arche, ou un ogre affamé.

Je lis pour rechercher mon utopie, ce qui n’est pas dans mon lieu, pour changer mon regard, le bonifier ou l’agrandir. Je crois que l’essentiel se joue dans le regard. Si je  change mon regard, je change alors mes actes, et puis mon monde proche, événements comme rencontres. Mais c’est d’abord sur mon regard que je peux agir.

J’ai trouvé pour l’instant plusieurs sources livresques de transformation du regard : l’histoire la plus ancienne possible, l’anthropologie anarchiste, la biologie, la métaphysique, l’alchimie, entre autres. Et je ne parle pas du livre du monde, qui est hors des livres : la nature, l’amour, la souffrance, la joie, l’angoisse, la méditation, la prière, la psychédélie, et j’en passe. Tout cela me déroute, et met à mal les habitudes des sillons toujours creusés, les circuits neuronaux toujours empruntés.

Par exemple, je suis très ignorant de l’histoire, et souvent même je la calomnie, lui opposant le mythe, véridique, quand l’histoire des faits ne prouve rien. Mais c’est justement parce que je suis ignorant de l’histoire que j’en lis. Mon ignorance est mon moteur. Et c’est justement à l’inverse de ma calomnie qu’en vérité la lecture de l’histoire a sur moi l’effet d’un mythe. Quand j’ai écrit le chant XXI de Sumer, j’ai vécu des vertiges grâce à des livres sur les civilisations sumérienne, akkadienne, babylonienne, assyrienne : je voyais des civilisations immenses, des puissances, des religions, des pensées, naître, grandir, disparaître pour reparaître autrement, changer de forme, passer de main en main, et tout ceci, en l’espace de 1 000 ans, 2 000 ans.

Tout cela m’aide à me décoller de notre temps, à ne plus m’intéresser du tout aux actualités, même intellectuelles, aux faux débats qui tournent en boucle, qui m’ennuient, où je ressens le retour du même lassant masqué derrière des milliards de détails recombinés. Je ne me réveille de mon sommeil médiatique qu’à l’occasion de certains événements : printemps arabe, commune de Rojava, découverte d’une exoplanète, Gilets jaunes, etc. À l’inverse, j’adore voir le tour du même pluriel dans l’histoire, les ponts entre les textes sumériens depuis la fin du IVe millénaire av. J.-C. et les textes judéo-chrétiens jusqu’à nos jours ; ou le même autre entre l’Un néoplatonicien et le Tao chinois ; ou une idée sur l’origine du langage que Dante formule dans son De vulgari eloquentia, que je retrouve dans le Pop Wuh, la bible (le Livre) des Mayas.

Quant à la poésie, après en avoir beaucoup lu, j’ai cessé peu à peu, et même si je suis ouvert aux découvertes, je cultive les maîtres, dont le premier divin : Dante Alighieri. J’ai parfois des périodes de 100 jours où je lis un chant de la Divina Commedia chaque matin, comme une méditation, avant d’écrire. Je préfère avoir dans mon corps animé le rythme de ma deuxième langue maternelle – l’italien – avant d’écrire dans ma première langue maternelle – le français.

Et en effet, je lis peu de poésie contemporaine, mais j’en lis. Comme je lis un peu de tout, je lis peu de tout – le tout est infini. Univerciel de Christophe Manon est un livre chéri, qui m’a enthousiasmé à la première lecture, où j’ai senti l’auteur comme un frère, que je relis encore, avec son pendant mélancolique, Au Nord du Futur. Hölderlin au mirador d’Ivar Ch’Vavar a été un puissant choc joyeux, libérateur, qui a eu sur moi un effet qu’un seul avant lui avait eu : François Rabelais, mon Dante français. Sa liberté est contaminatrice. Lire ou entendre Anne-Claire Hello me fait frémir, dans un état d’hypnose hallucinée. La lecture d’Explication de la lumière par Laurent Albarracin m’a délecté par sa rumination combinatoire délicate et lumineuse. Denis Ferdinande m’étourdit, me rend à peu près fou, me fait écarquiller les yeux, avec des vagues de sourire éberlué. Ou encore Nicolas Rozier, comme un volcan à la limite extrême de l’éruption, juste avant l’éruption, à la plus haute pression. Je pourrais en nommer d’autres, en vérité. Et parmi ceux que vous citez, je sais que je serai amené à découvrir Philippe Beck et Patrick Beurard-Valdoye.

Ça n’est pas que je néglige la poésie contemporaine, que je m’en désintéresse. C’est que j’ai le désir de me nourrir le plus possible de temps et de lieux. Et comme en utopie tous les temps sont contemporains, je n’ai pas l’impression de lire moins de poésie contemporaine que de poésie sumérienne. Pour amplifier mon moi restreint comme un moi – jusqu’à le faire éclater comme une bulle de savon –, je cherche la vision la plus ample et la plus exaltée possible. La littérature mésopotamienne date de la fin du IVe millénaire av. J.-C. J’ai donc 6 000 ans de textes à explorer, ou 300 000 de traces, que je ne peux pas sacrifier pour le seul demi-siècle dernier.

En tout cas, ce n’est pas pour cela que je n’ai consacré aucun chant à un poète contemporain. C’est que j’évite définitivement les figures contemporaines, depuis une expérience désagréable et amusante : pour le chant X de Turquie, j’avais pris la figure contemporaine de la romancière Elif Shafak, pour marier féminisme, anarchisme et soufisme. Mais, quelques mois après avoir fini mon chant, je l’ai trouvée, elle, dans une publicité pour une carte de crédit. J’étais bien embêté. Depuis, j’attends que les personnes meurent, pour être certain qu’elles ne vont pas faire de bêtises – même si tout le monde en fait, je préfère savoir lesquelles ont été faites. Enfin, il y aura peut-être des exceptions : pour le chant d’Uruguay, je n’ai pas renoncé encore à prendre pour figure José Mujica. Mais d’ici-là, même si je lui souhaite longue vie, il sera mort peut-être.

Enfin, les figures qui deviennent personnages et les figures qui me nourrissent sont deux choses distinctes. Les figures qui me nourrissent ont tendance à ne pas apparaître dans mes chants. Elles ont tendance à devenir des petits dieux absents, mais infusant, laissant des traces ici ou là. Par exemple, mon chéri William Morris a laissé des traces dans mon chant de Voltairine, mais je n’imagine pas un jour lui consacrer un chant. Idem pour Ernst Bloch, René Daumal, tant d’autres. Il m’a été très difficile de faire un chant avec Dante – cela m’a pris trois ans, non seulement parce qu’il a été entrecoupé par d’autres chants qui surgissaient sans crier gare, mais surtout parce que j’étais intimidé à l’idée de prendre mon maître divin pour personnage. Je ne me vois pas non plus consacrer un chant au facteur Cheval, qui pourtant forme en moi un binôme avec Dante.

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CHANT XVIII. SYRIE / FRANCE. Laylâ (Nuit Debout)

La nuit migrante, de Syrie réfugiée à Paris, souvit pour travailler, travaille pour souvivre. Comme tous ses semblables – hominidés invertébrés – elle rampe. Dans sa cave, athanor, où elle dort, elle traverse un œuvre au noir qui la conduit à voir : la substance automatique régnant sur le monde. La nuit accouche, par son travail, de sa colonne vertébrale – et debout, devient Laylâ, sort de sa cave, et retrouve au dehors une foule hors des caves.

chant 18

“L’ominide reale non è vero, e l’umano vero, astratto. Ma che l’astratto penetri il reale, la forma la materia, il generico l’empirico! E si compiano il reale e la materia e l’empirico, asintoticamente. Eccolo lì l’ominide, eccolo qui l’umano. Finito l’ominide, l’umano è infinito”.

IV

Il giorno dopo, la mattina, fece notte. La minuscola finestra a feritoia era otturata da calcinacci. La notte percepì, per strada, dei fracassi – di distruzione? di costruzione? di barricata? Si sarebbe detto: alla peggio degli scontri, alla meglio l’insurrezione, oppure una rivoluzione.

Un incendio si dichiarò nel suo edificio, scivolò nel suo scantinato, sprofondò l’edificio, la notte divenne totale, più nera del nero. E il suo luogo di sottovita si fece luogo della sua morte, la sua tomba, athanor, ermeticamente chiuso, illuminato soltanto, totalmente, dall’incendio. Potendo muoversi appena, la notte si carbonizzò, e divenne massa nera.

Ed è come morta la notte, e si sente come morta la notte, ma il suo fisico e il suo psichico sono vivi, persino in suspense. Si annienta l’attività della coscienza del fuori, alla coscienza non giunge nessuna immagine del fuori.

Dopo un po’, dalla minuscola feritoia, attraverso i calcinacci, colarono all’improvviso due acidi, nitrico e cloridrico, che inondarono l’athanor: quella massa nera che era fu tormentata e umiliata, si dissolse, divenne liquido nero.

La notte trova e secerne il segreto di tenere la sua coscienza sveglia nel processo dissolutivo: vive una morte ermetica – morte volontaria e morte vissuta, salvezza gratuita.

Dopo un po’, una volta espulso il doppio acido, quella pozza nera che era coagulò, ridivenne massa nera. Ma l’acido rivenne, s’espulse, e rivenne s’espulse, e rivenne, s’espulse, e rivenne s’espulse, e rivenne, s’espulse, e rivenne s’espulse, e rivenne, s’espulse; e lei, si dissolse, coagulò, si dissolse coagulò, si dissolse, coagulò, si dissolse coagulò, si dissolse, coagulò, si dissolse coagulò, si dissolse coagulò. E gli acidi non rivennero più.

Ora, la morte volitiva e attiva è l’unico mezzo, per un’anima, di trasformarsi, cambiare forma. Questi stati dello spirito modificano le relazioni tra le parti dell’anima unita.

Dopo un po’, si intenebrò, si imputridì e si addensò, attraversò gli inferi, vi appagò i suoi appetiti, avidità di vanità, soddisfò i vizi suoi tutti, e fu punita per i vizi suoi tutti, in se stessa, per se stessa, per processo naturale, castigo e giustizia immanenti, annientò i suoi appetiti, avidità di vanità, vomitò i suoi vizi, il suo esser nero, ritrovò dei colori, colore dopo colore: e con il viola, divenne unicolore, con il blu, bicolore, con il verde, tricolore, il giallo, quadricolore, l’arancione, quinticolore, il rosso, esacolore.

Dopo un po’, si congelò, si essiccò e sbiancò. E allora, alla fine, avendo raggiunto l’oro della fine, avendo raggiunto la fine dell’oro… gli occhi della notte si aprono. Gli occhi della notte si aprono, un istante, e per l’eterno. E la notte, immobile, non fu mai così mobile.

Gli occhi della notte si aprono, per la prima volta nella sua sottovita che abbandona in questo istante, la notte adocchia là, là nello scantinato e nel mondo, ovunque in alto ovunque in basso, a sinistra a destra, la notte adocchia là, decidendo tutto e contro tutto, disorientando ogni minimo gesto e opinione ominidi, disaccordando tutte le città, le società, le produzioni, degenerando i terrorismi e le guerre, la notte adocchia tutto quello che i filopseudosofi ignavi non vogliono vedere, ma che i filosofi sanno vedere, la notte adocchia là, in questo mondo dove la legge vertebrale vale poco, il falso idolo invertebrato vale su tutto, la notte adocchia là, avvolgendo il mondo, invadendo il mondo, dominandolo, avvilendolo, e dominando tutti quei – molto pochi – dominanti, non sapendosi dominare, e distruggendo tutti quei – ben troppi – dominati, non sapendosi dominare, la notte adocchia là, non qui, perché il qui è così raro, ed eccola la notte adocchia là:

la sostanza automatica.

Sostanza automatica, cieca e meccanica, diventata pulsionale, che libera senza misura il peggio, pulsionale, negli ominidi invertebrati, divenuti pulsionali. Sostanza automatica, lasciar-stare autoritario di un ciclone d’arbitrari e d’astratti flussi monetari, che sacrifica l’ominide nella sua tendenza verso l’umano. Sostanza automatica, processo senza alcun soggetto che sottomette il mondo intero, oggetto inetto in un processo che riduce ogni soggetto in oggetto, falso destino che, spiritualmente e materialmente, sopprime – in massa –, sostiene – a pezzi – l’ominide secondo il suo posto.

La notte adocchia e vede la sostanza del mondo, sa di non potervi scappare, perché lei è il suo ambiente in cui si vive e non la si vede, ma sa, anche, di poter agire su di lei. La notte agisce e modifica quello che vede: e con un colpetto, fa crollare una banca, con un altro un basso stato, con un altro un’industria, e due piccioni con un colpetto, due media finanziati da una banca, un basso stato, un’industria: un giornale, che riporta il solo male del giorno; e un canale – sia incanalante sia incanalato – di telececità, telefissione. Tra l’altro, altrove, altri uguali a lei stessa agiscono, da sé, allo stesso modo.

E la notte si vede doppia, si vive doppia, e la notte vede un doppio, vive un doppio che dice: “Mi si concedeva: una realtà, realtà senza verità, come quella del mondo, reale senza verità; e una verità, una verità irreale, come quella del mondo, vero senza realtà.”

“L’ominide reale non è vero, e l’umano vero, astratto. Ma che l’astratto penetri il reale, la forma la materia, il generico l’empirico! E si compiano il reale e la materia e l’empirico, asintoticamente. Eccolo lì l’ominide, eccolo qui l’umano. Finito l’ominide, l’umano è infinito”.

La notte si vede, si riconosce, in colui che dice tutto ciò; dice tutto ciò che dice lui; allora il doppio si fa notte, e la notte, da ominidea, diventa generica umana. Ha appena partorito, con il suo lavoro, con la sua colonna vertebrale. Laylâ è in piedi.

E lo scantinato in carbone nero e pesante, tutto in carbonio caotico, diventa diamante, il più puro e il più trasparente, tutto in carbonio rettificato.

Nella notte fuori tutto è notte luminosa: la luna piena si è alzata, e illumina la terra, ricoperta dei cactus i cui fiori, Regine di Notte, si schiudono, tutto è bianco sulla terra.

Brice Bonfanti

http://www.bricebonfanti.com/


CANTO DI LAYLÂ

siamo quello che ancora non siamo

SIRIA – FRANCIA

(Canti d’utopia, XVIII)

Traduzione italiana di Paolo Taccardo.


Premier cycle

Réunis en neuf chants, les Chants d’utopie réfèrent à de courtes épopées reliant étroitement l’historique au mythique. Ils y évoquent l’émancipation universelle au travers de nombre de pensées qui ont traversé les âges. Les champs de l’espérance, du paradis, et du meilleur, s’y associent à celui de la catastrophe, du cataclysme, et du pire, enrobant le tout et son contraire.

Des lieux pour chacun d’eux : France, Grèce, Allemagne, Italie, Argentine, Turquie, Russie, Espagne, Israël, États-Unis d’Amérique, Égypte, Brésil, Hollande, Pologne…

Des personnages tirés de notre histoire : Dante Alighieri, Johann Gutenberg, Antônio Conselheiro, Sergueï Essenine, Voltairine de Cleyre, Elif Shafak…

 

Collection:
Date de parution:
19/04/2017

ISBN : 978-2-35729-103-4 * PVP 16.50 euros * 176 p. * 15x20cm

Brice Bonfanti-Ludovic Burel – «Avatars de Rousseau»
Brice Bonfanti – «Canti d’utopia». L’ominide reale non è vero, e l’umano vero, astratto. Ma che l’astratto penetri il reale, la forma la materia, il generico l’empirico! Finito l’ominide, l’umano è infinito.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

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John Maxwell Coetzee – Che tipo di filosofia ti piacerebbe? Il genere che ti scuote. Che ti cambia la vita.

John Maxwell Coetzee 01

«Eugenio: – Che tipo di filosofia di piacerebbe?.

Simon: – Il genere che ti scuote. Che ti cambia la vita».

John Maxwell Coetzee, L’infanzia di Gesù, Einaudi, Torino 2013.


L’infanzia di Gesù è il libro piú misterioso e affascinante del premio Nobel J. M. Coetzee. Eppure è anche il racconto piú semplice di tutti: quello dell’amore di un «padre» per un «figlio» che ha la grandezza e la forza di ridefinire il mondo.

Un uomo adulto, quasi anziano, e un bambino sbarcano a Novilla. Novilla non è la loro città, lo spagnolo non è la loro lingua: ma come tutti gli abitanti della città, con cui condividono il misterioso destino, vi sono giunti dopo un viaggio in mare e non conservano nessun ricordo delle loro vite precedenti. Non sanno da dove vengono, a chi erano legati, quale evento catastrofico li ha condotti fin lí come profughi; non lo sanno e sembra che nemmeno abbia piú importanza. C’è solo una cosa che Simón, l’uomo, sa: deve prendersi cura di questo bambino che ha conosciuto sulla nave, deve accudirlo anche se non è suo figlio, anche se nulla lo lega a lui. Anche se Davíd si dimostra presto un bambino molto particolare. E sa che deve aiutarlo a ricongiungersi con la «madre». Quando il romanzo sembra essere giunto ai limiti estremi del suo esaurimento, arrivano scrittori come J. M. Coetzee a mostrare che tutto è ancora possibile: è come se il Nobel sudafricano prolungasse la linea che da Kafka passa per Beckett e ne facesse gemmare le possibilità per il mondo del nuovo millennio e le sue inquietudini. L’infanzia di Gesú è allo stesso tempo una riflessione radicale e profondissima sul mistero dell’umano, sul conflitto tra desiderio e felicità, tra Storia e Salvezza, una perturbante interrogazione su come dobbiamo vivere e se mai saremmo in grado di riconoscere il Messia se arrivasse oggi. Ma è anche la storia struggente dell’amore di un «padre» per un bambino, quell’insieme di tenerezza e responsabilità che spinge un uomo a prendersi cura del futuro anche in un mondo che di futuro sembra privo. L’infanzia di Gesú è stato accolto in tutto il mondo come un capolavoro: eppure, o forse proprio per questo, non c’è praticamente critico o lettore che ne dia la stessa interpretazione, nessuna lettura che ne intacchi l’enigma. È come se ognuno di noi si trovasse di fronte a un libro diverso, a una domanda a cui dovrà dare una risposta assolutamente individuale. A un libro che parla solo a lui.

Giovanna Marini – Lamento per la morte di Pasolini … solo a morire lì vicino al mare

Giovanna Marini 01

La scrittura di un testo teatrale e musicale, con le parole di Pier Paolo Pasolini, ha dato vita, a quarant’anni della sua morte, a uno spettacolo singolare, per certi versi imprevedibile (Sono Pasolini) che mette a confronto il Pasolini maturo che si rivolge ai giovani e il giovane Pasolini, quello della sua formazione friulana politica-poetica. Questo confronto/contrasto è sostenuto da una colonna sonora incessante che, grazie alla scrittura di Giovanna Marini e all’esecuzione del “Coro Favorito”, riscopre e ridona nuova luce al “liquido” suono della lingua friulana del giovane Pasolini, quello de La meglio gioventù e del La nuova gioventù. Il compact disc contiene l’integrale registrazione sonora delle musiche espressamente composte da Giovanna Marini che da tempo si cimenta con successo su testi pasoliniani. La Marini qui riscopre e ripropone anche brani tradizionale (villotte) ben presenti nell’immaginario culturale di Pasolini, preciso riferimento di quel mondo popolare da lui tanto evocato, rimpianto, ripensato e cantato.

Lamento per la morte di Pasolini

 

Persi le forze mie persi l’ingegno
la morte mi è venuta a visitare
e leva le gambe tue da questo regno
persi le forze mie persi l’ingegno.

Le undici le volte che l’ho visto
gli vidi in faccia la mia gioventù
o Cristo me l’hai fatto un bel disgusto
le undici volte che l’ho visto.

Le undici e un quarto mi sento ferito
davanti agli occhi ho le mani spezzate
la lingua mi diceva è andata è andata
le undici e un quarto mi sento ferito.

Le undici e mezza mi sento morire
la lingua mi cercava le parole
e tutto mi diceva che non giova
le undici e mezza mi sento morire.

Mezzanotte m’ho da confessare
cerco perdono dalla madre mia
e questo è un dovere che ho da fare
mezzanotte m’ho da confessare.

Ma quella notte volevo parlare
la pioggia il fango e l’auto per scappare
solo a morire lì vicino al mare
ma quella notte volevo parlare
non può non può, può più parlare.

Giovanna Marini – Lamento per la morte di Pierpaolo

 

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