Luigi Pirandello (1867-1936) – “Guarda le cose anche con gli occhi di quelli che non le vedono più! Ne avrai un rammarico, figlio, che te le renderà più sane e più belle”

Colloqui coi personaggi

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«Nell’ombra che veniva lenta e stanca dopo quei lunghissimi afosi pomeriggi estivi e mi invadeva a poco a poco la stanza, recando come una mestizia di frescura, un rammarico di lontane dolcezze perdute, io però da alcuni giorni non mi sentivo più solo. Qualcosa brulicava in quell’ombra, in un angolo della mia stanza. Ombre nell’ombra, che seguivano commiseranti la mia ansia, le mie smanie, i miei abbattimenti, i miei scatti, tutta la mia passione, da cui forse eran nate o cominciavano ora a nascere. Mi guardavano, mi spiavano. Mi avrebbero guardato tanto, che alla fine, per forza, mi sarei voltato verso di loro. [Pirandello continua con riflessioni sulla morte, sulla morte della madre, e sul senso lancinante di questa separazione] […] Potrei seguitare a immaginarti così con una realtà di vita che non potrebbe essere maggiore: quella stessa realtà di vita che per tanti anni, così da lontano, t’ho data sapendoti realmente seduta là in quel cantuccio. Ma io piango per altro, Mamma! Io piango perché tu, Mamma, tu non puoi più dare a me una realtà. È caduto a me, alla mia realtà, un sostegno, un conforto. Quando tu stavi seduta laggiù in quel cantuccio, io dicevo: “Se Ella da lontano mi pensa, io sono vivo per lei” – E questo mi sosteneva, mi confortava. […]».

["La morte della madre non si accompagna alla dimenticanza, all'oblio, della sua figura (della sua realtà umana) e della sua presenza che non diviene mai un'assenza; ma toglie realtà a chi continua a vivere. In queste parole bellissime e accorate che ci dicono, in particolare, come l'essere pensati da un'altra persona, anche se lontana, ci dona vita (ci fa vivere), si nasconde davvero il mistero della alterità e del dialogo (nel silenzio); ed è in questa lacerazione, in questa impossibilità esistenziale, a cui porta la morte di una persona cara, che si esprimono il dolore e la solitudine di chi resta: di chi continua a vivere ma nella separatezza e nell'abbandono. La vita non sarà mai più quella di prima dopo la morte di una madre: non sarà più animata dal suo sguardo e dalla sua presenza anche nell'assenza. Non ci sarà più reciprocità nel pensare e nell'immaginare le cose" (Eugenio Borgna, L'arcipelago delle emozioni, Feltrinelli,2001, p. 161)].

«Ora che tu sei morta, io non dico che non sei più viva per me; tu sei viva, viva com’eri, con la stessa realtà che per tanti anni t’ho data da lontano, pensandoti, senza vedere il tuo corpo, e viva sempre sarai finché io sarò vivo; ma vedi? è questo, è questo, che io, ora, non sono più vivo, e non sarò più vivo per te mai più! Perché tu non puoi pensarmi com’io ti sento. È ben per questo, Mamma, ben per questo quelli che si credono vivi credono anche di piangere i loro morti e piangono invece una loro morte, una loro realtà che non è più nel sentimento di quelli che se ne sono andati. […] Tu l’avrai sempre, sempre, nel sentimento mio: io, Mamma, invece, non l’avrò più in te. Tu sei qui; tu m’hai parlato: sei proprio viva qui, ti vedo, vedo la tua fronte, i tuoi occhi, la tua bocca, le tue mani; vedo il corrugarsi della tua fronte, il battere dei tuoi occhi, il sorriso della tua bocca, il gesto delle tue povere piccole mani offese, e ti sento parlare, parlare veramente le parole tue, perché sei qui davanti a me una realtà vera, viva, e spirante, ma che sono più io, per te? Nulla. Tu sei e sarai per sempre la mamma mia; ma io? io, figlio, fui e non sono più, non sarò più […]. L’ombra s’è fatta tenebra nella stanza. Non mi vedo e non mi sento più. Ma sento come da lontano lontano un fruscio lungo, continuo, di fronde, che per poco m’illude e mi fa pensare al sordo fragorio del mare, di quel mare presso al quale vedo ancora mia madre […]. Sento dentro, ma come da lontano, la sua voce che mi sospira: “Guarda le cose anche con gli occhi di quelli che non le vedono più! Ne avrai un rammarico, figlio, che te le renderà più sane e più belle“».

Luigi Pirandello, Colloqui coi personaggi, in Novelle per un anno, vol. III, tomo II, Mondadori, Milano, 1990, pp. 1138-1153.

 ["Hegel ci ha insegnato che nessuno possiede per se stesso la propria verità, perché nessuno può mai comprendersi totalmente: comprendersi significherebbe raggiungere la nostra origine, ma questa sempre si trascende e resta pur sempre un irraggiungibile passato. E, posto pure che si fosse all'origine, la verità della comprensione potrebbe dispiegarsi solo quando, in uno stesso sguardo, ci fosse concesso di considerare noi stessi e l'origine, noi stessi e gli spazi, le tradizioni, le storie che ci costituiscono... Ma la finitudine del nostro sguardo è anche l'insuperabile limite d'una prospettiva: ci pennette di guardare, ma non di guardarsi insieme a ciò che guardiamo. Solo uno sguardo d'altri potrebbe infine colmare questa distanza e disporre alla pari, sullo stesso piano, il nostro esserci e quello del mondo: potrebbe così riconoscere la verità o l'errore del nostro sguardo, potrebbe infine restituirci a noi stessi e persino disvelarci nell'impensato del nostro destino e della nostra possibilità" (Virgilio Melchiorre, Al di là dell'ultimo. Filosofie della morte e filosofie della vita, Vita e Pensiero, Milano, 1998)].

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Virgilio Melchiorre – La finitudine del nostro sguardo è anche l’insuperabile limite d’una prospettiva: ci permette di guardare, ma non di guardarsi insieme a ciò che guardiamo

Melchiorre

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«Hegel ci ha insegnato che nessuno possiede per se stesso la propria verità, perché nessuno può mai comprendersi totalmente: comprendersi significherebbe raggiungere la nostra origine, ma questa sempre si trascende e resta pur sempre un irraggiungibile passato. E, posto pure che si fosse all’origine, la verità della comprensione potrebbe dispiegarsi solo quando, in uno stesso sguardo, ci fosse concesso di considerare noi stessi e l’origine, noi stessi e gli spazi, le tradizioni, le storie che ci costituiscono… Ma la finitudine del nostro sguardo è anche l’insuperabile limite d’una prospettiva: ci permette di guardare, ma non di guardarsi insieme a ciò che guardiamo. Solo uno sguardo d’altri potrebbe infine colmare questa distanza e disporre alla pari, sullo stesso piano, il nostro esserci e quello del mondo: potrebbe così riconoscere la verità o l’errore del nostro sguardo, potrebbe infine restituirci a noi stessi e persino disvelarci nell’impensato del nostro destino e della nostra possibilità».

Virgilio Melchiorre, Al di là dell’ultimo. Filosofie della morte e filosofie della vita, Vita e Pensiero, Milano, 1998.

Risvolto di copertina

L’uomo contemporaneo ha imparato a vivere come se Dio non esistesse e mai come oggi sembra sperimentare l’ampiezza senza misura del proprio potere. Divenuto ‘signore del mondo’ grazie agli strumenti della tecnica, deve tuttavia constatare l’illusorietà della pretesa di farsi ‘signore dell’essere’, padrone della propria origine e del proprio destino. Sintomo evidente di questa dolorosa quanto ineliminabile contraddizione è la rimozione operata nei confronti della morte, il silenzio rivolto alla frontiera ultima, dove angosciosa compare l’ombra del nulla. Eppure la domanda che nasce dalla prospettiva della fine resta ineludibile. Essa sta all’inizio non solo del pensiero filosofico, ma di ogni riflessione che rifugga la casualità di un’esistenza ripiegata su se stessa per tentare la serietà della vita. Da qui lo svolgersi dell’intensa meditazione di questo saggio che procede su più livelli: dalla chiacchiera quotidiana ai diversi filoni del pensiero contemporaneo, passando per l’esperienza cruciale e fondante della morte dell’altro che ci è caro, la quale, spezzando la possibilità di relazione, nega un aspetto della nostra identità e si fa anticipazione della nostra stessa morte. Così, anziché minaccioso e inesplorabile non-senso, che induce al silenzio e alla sospensione del giudizio, il mistero della fine si configura come momento di verità, spazio di significato, direzione e compimento. Queste le tappe di un itinerario che volutamente si attiene alla scuola del rigore filosofico, senza travalicare i limiti consentiti dalla ragione: e tuttavia esso può aprirsi ai sentieri della fede, come nello stupore ammutolito di Giobbe che, proprio alle soglie dell’abisso, riconosce il volto dell’Altro, l’Eterno «che fa morire e fa vivere», o come suggerisce l’immagine della copertina, con le mani sollevate nella meraviglia dell’attesa, lo sguardo discreto di là dall’ultimo respiro.

 

Virgilio Melchiorre è nato a Chieti nel 1931.
Attualmente insegna Filosofia morale presso la Facoltà di lettere e filosofia
dell’Università Cattolica di Milano,
ove in precedenza ha insegnato Filosofia della storia.
Fra i suoi ultimi si possono ricordare i volumi: Metacritica dell’eros, 1987;
 Ideologia, utopia, religione, Milano 1980; Essere e parola, Milano 1993;
Corpo e persona, Genova 1987; Studi su Kierkegaard, Genova 1998;
Analogia e analisi trascendentale. Linee per una nuova lettura di Kant, Milano 1991;
Figure del sapere, Milano 1994; La via analogica, Milano 1996;
Creazione, creatività, ermeneutica, Brescia 1997.

 

 

 


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Cristina Campo (1923-1977) – Qui l’attenzione raggiunge forse la sua più pura forma, il suo nome più esatto: è la responsabilità, la capacità di rispondere per qualcosa o qualcuno, che nutre in misura uguale la poesia, l’intesa fra gli esseri, l’opposizione al male.

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Gli imperdonabili

Cristina Campo, Gli imperdonabili

«”Souffrir pour quelque chose c’est lui avoir accordé une attention extrème.” (Così Omero soffre per i Troiani, contemplando la morte di Ettore; così il maestro di spada giapponese non distingue tra la sua morte e quella dell’avversario.) E avere accordato a qualcosa un’attenzione estrema è avere accettato di soffrirla fino alla fine, e non soltanto di soffrirla ma di soffrire per essa, di porsi come uno schenno tra essa e tutto quanto può minacciarla,
in noi e al di fuori di noi. E avere assunto sopra se stessi il peso di quelle oscure, incessanti
minacce, che sono la condizione stessa della gioia.
Qui l’attenzione raggiunge forse la sua più pura forma, il suo nome più esatto: è la responsabilità, la capacità di rispondere per qualcosa o qualcuno, che nutre in misura uguale la poesia, l’intesa fra gli esseri, l’opposizione al male.
Perché veramente ogni errore umano, poetico, spirituale, non è, in essenza, se non disattenzione».

«Spezzati quegli specchi, poteva l’uomo non rimanere privo di volto? Non serve ricordare fino a che punto una folla moderna atterrisca per la totale cancellazione, nel numero, del volto umano e di quelle pure, laceranti figure che i volti umani sanno talvolta comporre. Il volto collettivo è un impossibile e i destini si annullano nelle agghiaccianti tipologie immaginarie che solo ricordare contamina: l’uomo a cui tutte le mura della metropoli gridano quale musica dovrà amare, casa desiderare, donna sognare, propongono senza tregua la folla babelica dei destini vicari, l’attrice che ha bevuto il veleno, il campione morto in un incidente. Nessun rapporto, non occorre dirlo, tra il destino e la disavventura di simili personaggi, frutto a sua volta di un vortice collettivo che li ha strappati per primi a qualunque rischio di vocazione.
E la catena è insolubile, tutte queste sorti girano a vuoto, una attratta dall’altra, gli empi camminano in tondo, come appunto avverte il Salmista».

Cristina Campo, Gli imperdonabili, Adelphi, Milano, 1987.

 

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Cristina Campo.

 

 


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Rodolfo Mondolfo (1877-1976) – Una rivoluzione non è un atto momentaneo di violenza. È la sostituzione di nuove forme di vita e d’azione alle precedenti: di forme che debbono costantemente mantenersi ed attuarsi, e richiedono per ciò un orientamento nuovo e deciso degli spiriti

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 Sulle orme di Marx

La conoscenza critica della realtà è la premessa necessaria ad ogni azione storica.
Significa che il materialismo storico è
- come io credo di averlo definito con una certa esattezza -
una concezione critico-pratica.
Dalla critica della realtà sociale alla praxis storica:
questo cammino segna il superamento dell'antitesi di volontarismo e fatalismo
in un concetto realistico e vivo della necessità storica.
Tanto più realistico e tanto più vivo,
in quanto la formula sopra enunciata si rovescia nella sua reciproca;
perché se non è possibile cangiare senza interpretare,
d'altra parte solo chi vuol cangiare ed agire sa interpretare.
Lo sforzo teorico del filosofo è vano
se non è accompagnato e sorretto dalla volontà d'azione:
soltanto nella praxis storica quindi
si compie e si saggia nella sua verità la critica della realtà sociale.
R. Mondolfo

«[…] la conquista della libertà non sta tanto nel momentaneo abbattimento dell’oppressore, quanto nel costante dominio di sé e delle condizioni del proprio operare» (settembre 1919).

«La lotta contro il passato può trionfare solo quando, da una parte le ragioni della sua persistenza e del suo risorgere sian venute meno, dall’altra l’avvenire si stia creando e sviluppando attivamente, e nel rigoglio della sua vita attinga la forza per debellare ogni contrasto, per districarsi da ogni impedimento al suo vigoroso cammino. Gli sterpi e i rovi non si estirpano, e al loro posto non si fanno fiorire le messi, le vigne e gli alberi da frutto, da chi alle male piante tagli pure tutti i rami, quando non possa distruggerne le radici e non disponga dei semi né delle pianticelle né delle condizioni di terreno adatte alle nuove piantagioni feconde, che gli affascinano l’immaginazione e il desiderio. Recisi pure i vecchi rami esistenti, nuovi germogli spunteranno sempre dalle stesse radici: e il tempo e l’energia dell’ingenuo coltivatore si esauriranno nel correre sempre a tagliare nuovi sterpi, senza che le feconde colture, che gli fioriscono nel sogno, possano tradursi nella realtà» (aprile 1919).

«Una rivoluzione non è, come un’insurrezione, un atto momentaneo di violenza, cui basti l’esaltazione temporanea della volontà e dell’eroismo. È la sostituzione di nuove forme di vita e d’azione alle precedenti: di forme che debbono costantemente mantenersi ed attuarsi, e richiedono per ciò un orientamento nuovo e deciso degli spiriti. Bisogna per tanto che la condizione di fatto, che essa viene a creare, sia tale da stimolare la volontà dei singoli e delle masse nella direzione alla quale essa tende; ché se gli impulsi, sorgenti continuamente dal contatto con la realtà, sospingessero la coscienza e l’azione dei più in senso contrario alle finalità che la rivoluzione si sia prefissa, questa a più o meno lungo andare sarebbe costretta al fallimento o a gravi rinunce e a mutamenti di strada» (agosto 1920).

Rodolfo Mondolfo, Sulle orme di Marx, Editrice Cappelli, 1923.

 

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L'umanismo di Marx

L’umanismo di Marx


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Tonino Perna – Schiavi della visibilità. Pensiamo di esistere, di valere, di avere un ruolo nel mondo o nella storia, solo quando siamo “visibili”

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Schiavi della visibilità

rubbettino

 

Basta osservare un bambino per accorgersi che il bisogno di “visibilità” è innato quanto il bisogno di affetto. Ma, nel nostro tempo, questo bisogno è diventato una ossessione fino a trasformarsi in una vera e propria patologia: siamo diventati “schiavi della visibilità” fino a perdere ogni valore, pudore, vincolo. Le nuove tecnologie della comunicazione hanno esaltato questo bisogno, hanno creato un nuovo modello di vita che sta generando una mutazione antropologica. Tra iperconnessione e lotta per la visibilità c’è un nesso forte, un intreccio perverso che ci porta a vivere in altre coordinate spazio-temporali. Possiamo arrenderci al fatto che pensiamo di esistere, di valere, di avere un ruolo nel mondo o nella storia, solo quando siamo “visibili”? E’ rivolgendo lo sguardo al mondo degli “invisibili”, ai soggetti sociali che lottano per uscire dai sotterranei della storia, che possiamo ritrovare l’essenza della nostra umanità. E’ questa la sfida che gli intellettuali, gli artisti, i giornalisti, non possono non assumersi nella nuova era in cui siamo entrati.

Tonino Perna, Schiavi della visibilità, Rubettino, 2014.

 

Tonino Perna, economista e sociologo, è docente di Sociologia Economica presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli studi di Messina.Il suo impegno sociale e politico si è diviso tra il Sud d’Italia e il Sud del mondo. Fondatore della Ong Cric, si è occupato a lungo di commercio equo e solidale, è stato presidente del “comitato etico” di Banca Etica e -per cinque anni- presidente del Parco Nazionale dell’Aspromonte.

 


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Jean-Claude Michéa – Una «comunità» composta esclusivamente da uomini d’affari mossi dalla cupidigia e da uomini di legge osservanti delle procedure è semplicemente invivibile

Michéa

La cultura dell'egoismo

Ricordiamo che i termini «comune», «comunità» o «comunismo» si formano a parrire dalla radice latina munus, che fra l’altro indicava gli obblighi (o gli «oneri») che derivavano tradizionalmeme dalla logica del dono e dell’onore e che da questo punto di vista costituiscono il vero zoccolo culturale e antropologico di tutte le relazioni personali o «faccia a faccia». Se, come è evidente, nulla vieta che una comunità allargata possa sviluppare, all’interno di certi limiti morali e culturali, un settore di mercato e delle istituzioni giuridiche (detto in altri termini, quei sistemi impersonali e anonimi di messa in relazione delle persone che danno forma a ciò che Alain Caillé chiama «socialità secondaria»), per contro è chiaro che tali strutture, fondate sulla mera logica del «do-ut-des» e dell’«interesse correttamente inteso», non possono in alcun modo definire (come vuole invece il dogma liberale) il fondamento primario del legame sociale quale si manifesta in maniera privilegiata nella vita quotidiana. E quindi ancor meno il principio filosofico fondante di una società decente. Una «comunità» composta esclusivamente da uomini d’affari mossi dalla cupidigia e da uomini di legge osservanti delle procedure (ovvero una comunità nella quale l’insieme dei membri applica, in rutte le sue relazioni quotidiane, la «morale» concreta di questi due tipi umani) sarebbe semplicemente invivibile. Eppure è proprio a quesro risultato che il sistema liberale tende logicamente.

Jean-Claude Michéa, L’anima umana sotto il capitalismo, in Cornelius Castoriadis e Christopher Lasch, La cultura dell’egoismo, elèutera, 2014, pp. 65-66.

Dissentiamo dalla possibilità proposta da Michéa («nulla vieta che una comunità allargata possa sviluppare, all’interno di certi limiti morali e culturali, un settore di mercato») proprio in quanto è illusorio porre soltanto  «limiti morali e culturali» al mercato, seppure costretto ad ambiti marginali; vanno bensì posti ben presisi «limiti costituzionali», e di legge ordinaria, in termini di impedimento al sua stessa sussitenza. La logica intrenseca al mercato e alla merce porterebbe al suo allargamento continuo, cercando di conquisrare di nuovo ogni spazio sociale.

 


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Ray Bradbury (1920-2012) – Sostanza (identificazione della vita), tempo per pensare (tempo di pensare a questa identificazione, di assimilare la vita), diritto di agire in base a ciò che apprendiamo. Rileggiamo “Fahrenheit 451”.

Bradbury

 

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«[…] Sapete cosa fanno? Riempiono i crani della gente di dati non combustibili, li imbottiscono di “fatti” al punto che non possano più muoversi tanto sono pieni, ma sicuri di essere “veramente bene informati”. Dopo di che avranno la certezza di “pensare”, la sensazione del movimento, quando in realtà sono fermi come un macigno. […] Non daranno loro niente di scivoloso e ambiguo come la filosofia o la sociologia affinché possano pescare con questi ami fatti e idee che è meglio restino dove si trovano. Con ami simili, dicono, pescherebbero la malinconia e la tristezza. Chiunque possa far scomparire una parete TV e farla riapparire a volontà, e la maggioranza dei cittadini oggi può farlo, [riterrà di essere felice proprio perché deprivato del pensiero critico]. […] Sapete perché libri come questo siano tanto importanti? Perché hanno sostanza. Che cosa significa in questo caso “sostanza”? Per me significa struttura, tessuto connettivo. Questo libro ha pori, ha caratteristiche sue proprie, è un libro che si potrebbe osservare al microscopio. Trovereste che c’è della vita sotto il vetrino, una vita che scorre come una fiumana in infinita profusione. […] Capite ora perché i libri sono odiati e temuti? Perché rivelano i pori sulla faccia della vita. Viviamo in un tempo in cui i fiori tentano di vivere sui fiori, invece di nutrirsi di buona pioggia e di fertile limo nero. […] Questa è la prima cosa delle tre che ci mancano: sostanza, tessuto di elementi vitali.
La seconda è avere tempo per pensare. […] Il televisore vi dice lui quello che dovete pensare. Vi spinge con tanta rapidità e irruenza alle sue conclusioni che la vostra mente non ha tempo di protestare, di dirsi: “Quante sciocchezze!”.
Qualcuno dice che i libri non sono “reali”. Li si può almeno chiudere, dire: “Aspetta un momento”. Ma chi mai è riuscito a strapparsi dall’artiglio che v’imprigiona quando mettete piede nel salotto TV? Vi foggia secondo l’aspetto che esso più desidera! L’ambiente in cui vi chiude è reale come il mondo. Diviene e pertanto è la verità.
I libri invece possono essere battuti con la ragione. […] I libri potranno esserci di aiuto? Soltanto se potremo avere la terza cosa che ci manca.
La prima, come ho detto, è sostanza, identificazione della vita. La seconda, agio, tempo di pensare a questa identificazione, di assimilare la vita. La terza: diritto di agire in base a ciò che apprendiamo dall’influenza che le prime due possono esercitare su di noi. […]

[…] E quando ci domanderanno che cosa stiamo facendo, tu potrai rispondere loro: Ricordiamo. […] Per ogni cosa c’è una stagione. Sì. Il tempo della demolizione, il tempo della costruzione. Sì. Il tempo del silenzio e il tempo della parola […] E sull’una e sull’altra riva del fiume v’era l’albero della vita che dava dodici specie di frutti, rendendo il suo frutto per ciascun mese; e le fronde dell’albero erano per la guarigione delle genti».

Ray Bradbury, Fahrenheit 451, pubblicato nel 1951

 

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Alain Badiou – L’amore è sempre la possibilità di assistere alla nascita del mondo. Non può ridursi all’incontro perché si tratta di una costruzione, la durata che lo porta a compimento. È prima di tutto una costruzione durevole, un’avventura ostinata. L’amore vero è quello che trionfa durevolmente: chiede cura, ripetizioni, vive sotto il segno della replica. L’amore è comunista in questo senso: il vero soggetto dell’amore è il divenire della coppia e non la soddisfazione degli individui che la costituiscono.

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«Platone dice una cosa molto precisa sull’amore: afferma che nello slancio amoroso vi è la scintilla dell’universale. L’esperienza amorosa è uno slancio verso qualcosa che egli definisce l’Idea. […] l’amore può essere davvero un gesto di fiducia nei confronti del caso. Ci consente di avvicinarci all’esperienza fondamentale della differenza e, in ultima analisi, all’idea che sia possibile sperimentare il mondo dal pundo di vista della differenza. È per questo che ha una portata universale, che implica un’esperienza personale dell’universalità possibile e che è essenziale sul piano filosofico, come intuì Platone per primo. […] L’amore è sempre la possibilità di assistere alla nascita del mondo. La nascita di un bambino, se avviene nell’amore, è uno degli esempi di questa possibilità. […] L’amore, dopo tutto, ha luogo nel mondo. È un evento che non era prevedibile né calcolabile secondo le leggi che governano il mondo. Nulla consentiva di programmare l’incontro […]. Ma l’amore non può ridursi all’incontro perché si tratta di una costruzione. L’enigma affrontato dal pesniero dell’amopre è proprio questa durata che lo porta a compimento. L’elemento più interessante, in fin dei conti, non è l’estasi dell’inizio; certo, c’è un’estasi dell’inizio, ma un amore è prima di tutto una costruzione durevole. Diciamo che l’amore è un’avventura ostinata. Il lato avventuroso è necessario, ma non lo è meno l’ostinazione. Arrendersi davanti al primo ostacolo, alla prima divergenza seria, alle prime difficoltà non è altro che un tradimento dell’amore. Un amore vero è quello che trionfa durevolmente, talvolta duramente, sugli ostacoli posti dallo spazio, dal mondo e dal tempo. […]

L’amore che nutro per il teatro è un sentimento complesso e assolutamente originario […]. Credo che ad affascinarmi nel teatro  sia stato il sentimento immediato che la lingua e la poesia abbiano un legame quasi inesplicabile con il corpo. In ultima analisi, forse il teatro era già allora una prefigurazione di quello che sarebbe stato in seguito l’amore, perché la scena condensava l’istante in cui mente e corpo diventano indistinguibili, al punto che è impossibile dire: “Questo è un corpo” oppure “Questa è un’idea”. Il linguaggio si fa corpo proprio come quando si dice “ti amo” a qualcuno: lo si dice ad una persona viva, che ci sta davanti, ma ci si rivolge anche a qualcosa che non è riducibile a questa semplice presenza materiale, qualcosa che è al di là dell’essere amato e al contempo è in lui.
Ora, il teatro è proprio questo, in modo originario, è l’idea incarnata, l’idea-che-prende-corpo. L’idea ancora, potrei aggiungere, perché com’è noto nel teatro ci sono le ripetizioni. “Daccapo”, dice il regista: l’idea infatti non prende corpo facilmente, il rapporto di un’idea con lo spazio e i gesti è complesso, ed è necessario che sia al contempo spontaneo e deliberato. Succede la stessa cosa anche nell’amore: il desiderio è una forza immediata, ma l’amore chiede altresì cura, ripetizioni, vive sotto il segno della replica. “Dimmi ancora che mi ami”, e spessissimo: “Dimmelo meglio”. E il desiderio si rinnova ogni volta, le carezze amorose sono scambiate all’insegna di un’invocazione – “Ancora! Ancora!” – l’intimità fisica è il momento in cui l’esigenza del gesto è sostenuta dall’insistere della parola, da una “dichiarazione” sempre nuova. È noto che a teatro il tema del gioco amoroso è decisivo, e che è tutta questione – appunto – di dichiararsi. […]
Da qualche parte il poeta portoghese Pessoa dice: “L’amore è un pensare”. È un’affermazione apparentemente paradossale, perché si è sempre sostenuto che l’amore è fatto di corpi, desiderio, affezioni, ciè proprio tutto ciò che non è ragione né pensiero. Ma lui dice “L’amore è un pensare”. Credo che abbia ragione, penso che l’amore sia un pensare e che il rapporto tra questo pensiero e il corpo sia molto particolare […]. È vero, l’amore può piegare i corpi, causare immense sofferenze; l’amore non è un lungo fiume tranquillo, come si incaricano di dimostrarci tutti gli amori che portano al suicidio o all’omicidio.
A teatro l’amore non è soltanto, né soprattutto,  il vaudelville del sesso o la galanteria innocente, è anche la tragedia, la rinuncia, il furore. Il rapporto fra il teatro e l’amore è altresì l’esplorazione dell’abisso che separa i soggetti, e la descrizione della fragilità di quel ponte che l’amore getta tra due solitudini. Occorre tornare sempre alla medesima questione: che cos’è un pesniero che si dispiega come facendo la spola tra due corpi sessuati? Ma di cosa avrebbe parlato il teatro se non ci fosse stato l’amore? Avrebbe parlato, e in realtà l’ha fatto estesamente, della politica. Diciamo allora che il teatro è politica e amore e, più in generale, il loro intrecciarsi. Il teatro è il collettivo, è la forma estetica della fratellanza, ed è per questo che secondo me in tutto il teatro vi è un elemento comunista, dove per “comunista” intendo ogni divenire che fa prevalere l’interesse comunitario sull’egosimo, l’opera collettiva sull’interesse privato. […] l’amore è comunista in questo senso, qualora si ammetta, come faccio, che il vero soggetto dell’amore è il divenire della coppia e non la soddisfazione degli individui che la costituiscono. Da qui si può trarre un’altra possibile definizione dell’amore: comunismo minimo!
[…] Il teatro è anche prova di separazione, la profonda malinconica che circonda il momento in cui la fratellanza nata dal recitare insieme in una compagnia si scioglie. Ci si scambiano i numeri di telefono, si promette di chiamare, ma non lo si farà; è la fine, ci si separa. Ora, nell’amore la questione della separazione è così importante che si può quasi definire l’amore come una battaglia vinta contro la separazione».

 

Alain Badiou, Elogio dell’amore, Neri Pozza editore, 2013.

 


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Ilaria Rabatti – «Al fuoco della carità». Introduzione al libro di Margherita Guidacci, «Il fuoco e la rosa. I “Quattro Quartetti” di Eliot e Studi su Eliot»

Il fuoco della carità

«Al fuoco della carità»

 


Arde di carità
il tuo cuore e nel vincolo di fuoco
adombrando la rosa, trasfigura in giardini
tutta la tua intricata solitudine.
                                      
 M. Guidacci

«Questo libro che ripropone, a distanza di più di trenta anni dalla loro prima pubblicazione presso IPL , la traduzione dei Quattro Quartetti e tutti gli studi critici che Margherita Guidacci ha dedicato all’opera di T.S. Eliot, ha il senso di un necessario (e amorevole) atto di riconoscimento nei confronti di una donna che ha sempre inteso la letteratura come impegno e responsabilità etica a livello più alto e cosciente, e a cui – come sottolineava Fulvio Panzeri in un suo articolo  – la cultura italiana deve moltissimo.
Grande poeta del Novecento italiano, Margherita Guidacci è stata anche traduttrice di altissimo livello, certamente tra le migliori dei Quartetti, e critico di grande acume e sottigliezza, che, con i suoi numerosi interventi, ha dato un fondamentale contributo alla conoscenza ed alla interpretazione di Eliot, di cui ha fatto una lettura profonda in chiave non solo estetico-letteraria, ma soprattutto filosofico-esistenziale, ribadendo, in più di una occasione, la portata epocale della sua opera, ove convivono dantescamente, in un rapporto complesso, il mondo filosofico del pensiero e quello espressivo dell’arte.
Le traduzioni e gli scritti qui raccolti secondo un “umile” e “naturale” ordinamento cronologico – di gran lunga preferito dall’autrice ad un qualsiasi “sovraimposto” ordine “artificioso” – coprono un lungo arco di tempo e tracciano un itinerario di ricerca che abbraccia quasi l’intera vita della Guidacci. Per questo – come già autocriticamente appuntava la poetessa nella breve Nota introduttiva all’edizione del ’75 – al libro, che non obbedisce a un disegno preordinato, manca, per il salto negli anni e per la diversità di occasioni e di angolazioni, un’unità compositiva. Ciò nonostante, una profonda coerenza di fondo, oltre all’alto valore critico, giustificava allora e giustifica oggi la sua pubblicazione. Questa coerenza è data dalla continuità e sincerità di un interesse che, come sottolineava la Guidacci, «non si è mai affievolito verso la figura e l’opera di un poeta che ha impresso il suo segno nella letteratura del nostro secolo più profondamente, forse, di qualsiasi altro, ed a cui la mia generazione è particolarmente debitrice».


Copertina_ll fuoco e la rosa

Margherita Guidacci,

Il fuoco e la rosa.
I “Quattro Quartetti” di Eliot e Studi su Eliot,

Petite Plaisance, 2006.

indicepresentazioneautoresintesi

Eliot ha avuto dunque una parte privilegiata nella formazione poetica della Guidacci – come, del resto, in quella di molti intellettuali legati alla rivista fiorentina “Letteratura” (fondata nel ’37 da Alessandro Bonsanti per raccogliere l’eredità letteraria di “Solaria”, costretta fin dal ’34 a cessare le sue pubblicazioni per ragioni politiche)   – indicandole, per altro, nella ricerca del proprio linguaggio poetico, quella via che, attraverso il simbolismo francese,  l’avrebbe istintivamente ricondotta, per una sorta di profonda empatia, alla poesia metafisica inglese del Seicento ed all’amato John Donne (che insieme alla Dickinson, costituiranno un ben più sostanzioso nutrimento culturale e un costante riferimento in tutto l’arco del suo percorso creativo), e all’”adesione”, tutta interiore, assai controcorrente rispetto alle dottrine estetiche ermetiche allora imperanti, ad una poetica medievale dell’arte, non come pura liricità, ma come sintesi di “pensiero” e di “senso”.
In una intervista a Paola Lucarini Poggi, la Guidacci rievocando la significativa “rimozione” di quello, da lei stessa definito, come il suo “periodo francese”e ribadendo la propria intima congenialità, sia poetica che morale, con quella tradizione anglosassone della poesia metafisica d’ispirazione religiosa, che troverà appunto in Eliot il suo più grande rappresentante e continuatore, dirà: «Durante l’adolescenza mi sono avvicinata alla poesia francese contemporanea ricavandone solo il piacere della lettura, e invece per quanto riguarda quella inglese e americana ho sentito subito che mi nutriva. Soprattutto in Donne, Eliot e la Dickinson ciò che mi ha colpito di più è stato l’impegno intellettuale e al tempo stesso una grande forza di plasticità dell’immaginazione: la cosa che più mi piace della poesia è che parli tutt’insieme all’intelletto e ai sensi».
L’intensa riflessione critica condotta dalla Guidacci sull’opera di Eliot ha come termine post quem il 19469   – anno cruciale che segnerà la sua doppia vocazione di poetessa e traduttrice, con la pubblicazione sia de La sabbia e l’Angelo che delle traduzioni dei Sermoni di John Donne – e, non interrompendosi con il ’75 (l’anno di edizione presso IPL degli Studi su Eliot) si protrae fino alle soglie degli anni Novanta, a cui risalgono gli ultimi due articoli, Itinerario dalla Terra Desolata e Una lady silenziosa e dolcissima indica la rotta ai marinai, che mi è parso qui necessario accogliere per dare un quadro quanto più esaustivo del suo lavoro sul poeta americano.
Il fuoco e la rosa comprende dunque dieci saggi, tre in più rispetto all’edizione del ’75 (oltre ai due già citati articoli apparsi su “L’Osservatore Romano”, include anche il saggio Per una società cristiana, pubblicato il 25 novembre del ’48 su “L’Ultima”, prodromo del più ampio ed articolato Idea di una società cristiana, ed una breve recensione, pubblicata nell’aprile del ‘56 su “Il Ponte”, al volume Poesie minori di Eliot, curato da Roberto Sanesi) e la splendida traduzione dei Quattro Quartetti, posta, con un lieve spostamento rispetto all’originale collocazione, ad apertura di libro e con testo inglese a fronte…» [Continua a leggere nel PDF allegato]

Ilaria Rabatti,
Al fuoco della carità.
Introduzione al libro di Margherita Guidacci, «Il fuoco e la rosa»


Ilaria Rabatti – «La casa di carta», di Carlos María Domínguez

Ilaria Rabatti – Un libro di John Berger: «Da A a X. Lettere di una storia»

Ilaria Rabatti – Tra poesia e profezia: Il buio e lo splendore, l’ultima fase della poesia di Margherita Guidacci


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Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) – Nulla di grande si realizza nel mondo senza passione

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«Nell’ordinamento del mondo un ingrediente sono le passioni, l’altro è il momento razionale. Le passioni sono l’elemento attivo. Esse non sono affatto opposte costantemente alla moralità, bensì realizzano l’universale […]. Nessuna cosa è mai venuta alla luce senza l’interesse di coloro la cui attività cooperò a farla crescere; e dal momento che ad un interesse noi diamo il nome di passione, così […] dobbiamo dire in generale che nulla di grande è stato compiuto nel mondo senza passione».

G. W. F. Hegel,  Lezioni sulla filosofia della storia (1837), I, 62-63, La Nuova Italia, Firenze, 1981, pp. 73-74.

 

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