Salvatore Bravo – L’integralismo aziendale ha il volto del diversity management. Vera Libertà è emancipazione dall’utile iscritto nel recinto dell’aziendalizzazione, è autonomia nella comunità liberata dai postulati del plusvalore.

Diversity management:vera libertà

Se esiste chi ti dà la libertà, quella non è libertà.
Perché sia libertà, nessuno te la può dare: devi prenderla tu, tu solo!

José Dolores (Evaristo Marquez, nel film di Gillo Pontecorvo, «Queimada» [1969])

Si può ascoltare l’intero dialogo nelle sequenze del film Queimada, che mostrano la cattura del combattente rivoluzionario José Dolores da parte dell’imperialismo inglese impersonato da William Walker (Marlon Brando), cliccando qui:

Capture of José Dolores


Salvatore Bravo
L’integralismo aziendale ha il volto del diversity management.
Vera libertà è emancipazione dall’utile iscritto nel recinto dell’aziendalizzazione,
è autonomia nella comunità liberata dai postulati del plusvalore
 

Diversity Management
Il dispositivo di inclusione agisce ad ogni livello. Proliferano figure professionali che operano capillarmente nella pancia del sistema. Il controllo è mascherato con la menzogna conosciuta. Si invoca l’inclusione, si applaude all’assimilazione per neutralizzare la possibilità di percorsi alternativi. L’inclusione riporta ogni gruppo umano all’interno del sistema per normalizzarlo ed evirarlo del potenziale rivoluzionario ed emancipativo. Si invoca la democrazia, in realtà si organizzano pratiche di gerarchizzazione verticistica. Il diversity management (gestore delle differenze) è la nuova figura professionale addetta all’inclusione; le aziende private possono usufruire del manager delle differenze al fine di aumentare la produttività. Il gestore delle differenze nelle aziende ha il compito di favorire l’integrazione: è il manager-tutor, la cui presenza denuncia un pregiudizio atavico, ovvero i diversi non hanno capacità decisionali e relazionali autonome, ma – da figli di un dio minore – devono essere accompagnati nell’integrazione aziendale. Il manager deve agire allo scopo di includere per curvare la creatività dei diversi verso la produzione. I “creativi-diversi” devono avere nel manager un punto di riferimento che interviene per evitare conflitti e contradizioni che possano minacciare la capacità competitiva dell’azienda. Il fine è la governance dell’azienda, la produzione rallenta qualora vi siano ostilità striscianti e non. Invece, puntando sulla valorizzazione inclusiva, si incentiva la capacità di competere dell’azienda e il suo successo sul mercato. I diversi sono “notoriamente dei creativi”: anche questo è un pregiudizio, non li si riconosce come “persone”, ma come “creature speciali e divergenti” da usare all’occorenza.
La frontiera dello sfruttamento ha trovato una nuova miniera da cui attingere risorse a basso costo. Soggetti fragili e disponibili alla gratitudine verso coloro che “li accettano e accolgono” facilmente si lasciano usare dal sistema, in quanto non discernono nell’abbaglio di una normalità agognata e mai conosciuta l’uso strumentale che, ancora una volta, si fa di essi. La trappola è palese: usare le differenze per farne la pattuglia di difesa dell’azienda, e spingere l’incluso a dipendere dalla famiglia-azienda fino a richiedere che lavori creativamente, spontaneamente e volontariamente al massimo delle sue possibilità. Il dispositivo di inclusione sterilizza la prospettiva critica di coloro che spinti ai margini con maggiore chiarezza possono elaborare percorsi emancipativi di uscita dal sistema.

Collaborazione produttiva
La relazione comunitaria nella quale i soggetti si confrontano e affrontano per creare il mondo con il logos e con la potenza della parola è sostituita con collaborazione produttiva. Le differenze si trascendono nel comune obiettivo della squadra aziendale: vincere e competere. Sono private della forza plastica creativa per essere orientate verso l’utile. L’inclusione diviene un meccanismo di depauperamento della dialettica dell’esodo dal sistema. Al suo posto vige l’azienda con il diversity management che omogeneizza i comportamenti e gli obiettivi. In tal modo elimina le differenze, le rende secondarie: alla fine della rieducazione i lavoratori sono posti sulla stessa linea di intenzioni e valori. Alla conclusione del percorso non deve restare che l’asservimento al mercato. Le donne, le persone omosessuali, i disabili sono, ancora una volta, umiliati e offesi perché usati dal sistema che ne negava le identità, e che ora, con una torsione ideologica, li utilizza come alfieri nella difesa del mercato che li accoglie, ma chiede loro di rinunciare alle loro identità, di assottigliarle fino a farle vaporare. Le differenze divengono flatus vocis, propaganda neoliberale alla ricerca di consensi e di servi fedeli dinanzi alle sempre più palesi contraddizioni del sistema capitale. Sono oggetto di una gestione psicologica e burocratica, e in tale gestione dall’alto l’autonomia è ceduta all’azienda che con il suo apparato stabilisce strategie, linguaggi e tattiche mediante le quali trasformare i creativi in un’occasione di espansione e consolidamento nel mercato. La valorizzazione delle competenze e delle abilità porta al potenziamento dell’organizzazione, la quale gradualmente diventa un corpo unico in posizione d’attacco. Il diversity management deve valorizzare (e agire su) una serie di differenze classificate in diversità primarie e secondarie, le prime sono:

  • cultural diversity
  • gender diversity
  • ageing diversity
  • disability diversity

Anche le diversità secondarie devono essere valorizzate: il background educativo, l’età, l’esperienza lavorativa, la situazione famigliare. La diversità secondaria è acquisita con l’esperienza esistenziale. Il diversity management è in realtà un supervisore che deve trasformare ogni potenzialità in investimento che produce plusvalore per l’azienda.

Integralismo aziendale
L’integralismo aziendale ha il volto del diversity management il quale ha il compito di sfruttare tutte le componenti dell’azienda e di rappresentare la strategia come “inclusiva” e “positiva”. Deve pubblicizzare la politica di accoglienza aziendale in modo da ottenere consenso sul mercato e vendere il prodotto inclusione come qualsiasi merce, lo scopo è aumentare la produttività del 20 % o 30%. Le persone dal sistema azienda non sono valutate per il loro valore irrepetibile, ma per il successo lavorativo, pertanto possiamo facilmente dedurre che nel caso i creativi non producano secondo le aspettative saranno ricondotti alla loro marginalità. Le aziende, inoltre, con l’inclusione manipolano l’opinione pubblica, si autorappresentano come i trombettieri delle differenze con il sostegno dei media che creano un frame della libertà e dell’inclusione finalizzato a consolidare il neoliberismo e a rimuovere le critiche e le verità che mettono in dubbio la gabbia d’acciaio dell’aziendalismo. Le aziende – per acquisire consensi sul mercato – pubblicizzano l’integrazione, che diviene pubblicità a buon mercato. La precarietà, i morti sul lavoro, l’ineguaglianza sociale e i diritti sociali sono rimossi dall’orizzonte cognitivo della collettività che si limita a ripetere le formule verbali del sistema. L’azienda si fa artefice del rispetto verso i diversi e nel contempo è complice dello sfruttamento delle nazioni in perenne sviluppo economico costretti all’emigrazione. Gli emigrati rientrano nell’operazione di inclusione del diversity management, per cui il mercato neoliberale costruisce una cornice positiva di se stesso da vendere e ciò gli consente di sfruttare e saccheggiare le nazioni che accettano gli investimenti e di precarizzare in patria ogni componente lavorativa. Le differenze sono in questo contesto “risorse umane”, materia prima da convertire in artiglieria nella competizione per l’assalto al mercato. Le diversità vengono annichilite nel loro valore identitario per essere addomesticate nel sistema della produzione e del consumo infinito. Il capitalismo vincerà sempre sin quando il frame di sistema non sarà oggetto di critica e prassi. Per rompere la cornice della propaganda sono indispensabili le domande e la problematizzazione delle parole. Il diversity management è il gestore delle differenze e ciò presuppone un concetto di normalità quale paradigma con cui valutare e definire le alterità; in questo caso la normalità è la forma mentis aziendale, per cui si mette in atto un nuovo tipo di internamento celato da inclusione. Le forme dell’internamento variano nel tempo, ma hanno sempre il compito di dominare per consolidare il presente. Le differenze producono saperi divergenti che vengono assoggettati e normalizzati con l’inclusione. Il dispositivo di normalizzazione mette in atto nuove strategie di internamento difficili da riconoscere, agisce sul linguaggio in modo che le parole non corrispondono all’azione. È necessario che tra le parole e l’esperienza vi sia l’attività di mediazione del logos con il quale smascherare l’inganno del politicamente corretto. Il primo gesto-parola di un resistente è riaprire la catena dei perché con la quale riportare le parole nella concretezza materiale dei processi produttivi e di dominio:

Bisogna dunque riprovare a riaprire la catena dei perché. Questa volta, però, bisogna riaprire questa catena con un altro approccio e con altri destinatari. L’approccio dev’essere molto più radicale, e i destinatari non possono più essere i cosiddetti “militanti”, il “popolo di sinistra”, eccetera. I destinatari sono tutti coloro che vogliono riflettere e comprendere, del tutto indipendentemente da come si collocano (o non si collocano) topologicamente nel teatrino politico. Per chi scrive l’appartenenza è nulla, e la comprensione tutto. Cerchiamo allora di riaprire la catena dei perché partendo da un anello della catena che ci permetta di stringere con sicurezza qualcosa di solido[1]”.

Il primo “perché” da riattivare è il domandarsi il motivo per il quale “i diversi” e “i normali” non possono liberamente ed autonomamente riconfigurare le loro relazioni, ma devono subire la gestione di una figura esterna che deve stabilire i confini e le finalità dell’integrazione. Il potere nella forma dl dominio deve neutralizzare ogni spazio di libertà per riportarlo all’interno della cornice della produttività. L’autonomia può disegnare scenari alternativi, e specialmente, può svelare che “i normali” come “i diversi” sono nel giogo del potere, e quindi per rompere potenziali solidarietà si interviene con figure professionali che posseggono le parole, sono i padroni di saperi aziendali con cui tacitare ogni processo comunitario di consapevolezza. Il secondo “perché” è l’uso della lingua inglese per indicare la professione di “gestore delle differenze”. La lingua non è uno strumento neutro, e l’uso della lingua anglosassone è un atto di vassallaggio verso il capitalismo americano, un atto di sudditanza e di resa senza condizioni che non ha eguali nella storia. La catena dei “perché” potrebbe proseguire assieme alle contraddizioni di un sistema “sensibile verso i diversi”, ma che ha abbassato il livello di sicurezza nell’attività lavorativa in modo speculare alle retribuzioni: la morte sul lavoro è entrata tra le banalità del quotidiano. Si svela con il diversity management la verità che si nasconde dietro il palcoscenico della “sensibilità” verso le differenze: una realtà razzista, classista e cinica che usa ogni mezzo per produrre plusvalore. La gestione delle differenze non è inclusione, ma funzionalizzazione delle stesse, una nuova forma di razzismo, in cui se non si produce secondo gli obbiettivi della dirigenza si è fuori del sistema, e ciò riguarda tutti. In assenza di dialettica ogni “inserimento” è incorporamento coatto imbellettato da lotta contro le disuguaglianze e le discriminazioni.

La libertà è l’emancipazione dall’utile iscritto nel recinto dell’aziendalizzazione, è autonomia identitaria nella comunità liberata dai postulati del plusvalore. Bisogna alzare gli scudi del concetto e della prassi contro i processi di normalizzazione in atto.

Salvatore Bravo

 

[1] Costanzo Preve, Marx e Nietzsche, Petite Plaisance Pistoia, 2004, pag. 6.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – «Forsan et haec olim meminisse iuvabit». Illuminismo meridionale, plebe ed emancipazione, limite e democrazia nella Costituzione del 1799. Eleonora Pimental de Fonseca, Francesco Mario Pagano, Gaetano Filangeri.

Eleonora de Fonseca Pimental - Francesco Mario Pagano-Gaetano Filangeri

Salvatore Bravo

«Forsan et haec olim meminisse iuvabit»

Illuminismo meridionale, plebe ed emancipazione, limite e democrazia nella Costituzione del 1799

*****

Illuminismo meridionale
L’Illuminismo meridionale non è presente nei manuali di storia della filosofia, nelle accademie le ricerche sull’Illuminismo si limitano, in genere, gli studi agli autori noti. Gli autori meridionali compaiono solo in casi eccezionali ed all’interno di circoli accademici di nicchia. Il loro oblio ci racconta della sconfitta della la Repubblica del 1799 e della vittoria piemontese sull’Italia meridionale. Per dominare un popolo è necessario privarlo della sua memoria storica e della sua identità, non è necessario eliminarlo biologicamente.
Ma la modernità e la contemporaneità hanno sviluppato innumerevoli dispositivi di sterminio. La scomparsa di una tradizione culturale trasforma i popoli in plebe, in massa informe che attende dal dominatore una nuova anima che funge da falsa identità. Il dominatore “trasmette”, in modo unidirezionale, la sua storia, rade al suolo la storia degli sconfitti e si assicura la loro perpetua sudditanza. Le parole del popolo divengono le parole dei vincitori, gli autori con cui si “pensa e progetta” la storia sono le parole dei colonizzatori. Per i popoli meridionali così è stato. Ai piemontesi ora si sostituisce il dominio anglosassone. Pertanto la lingua ed i valori appartengono ad altri, sono imitate le parole come i comportamenti, mentre i luoghi della memoria divengono mercati per i nuovi potentati. I domini si stratificano ed affondano la memoria. I popoli divengono plebe sviluppando una percezione distorta ed aggressiva di sé. Il vuoto intuito e la violenza perenne dei dominatori si trasformano in identità posticce ed esteriori: il nulla identitario è sostituito con l’eccesso e l’aspirazione collettiva alla privatizzazione di ogni gesto ed allo smantellamento del senso pubblico, fino a sottrarsi ad ogni vincolo etico e comunitario. Nel caos dell’illimitatezza i popoli divengono masse tracotanti che compensano l’incapacità di tracciare il proprio destino con la disarmonia etica ed estetica: dal tessuto urbano all’abbigliamento vi è una struttura comune, ovvero l’occupazione aggressiva di ogni spazio al fine di marcare una presenza per occultare la sconfitta politica con l’esteriorità aggressiva. Le parole sono dette con l’angloitaliano che annichilisce non solo i dialetti, ma anche la lingua italiana. Il dispositivo di dominio ha lo scopo palese di trasformare i popoli in plebi precarie, e tale azione diviene più semplice con i popoli che hanno già subito violenze e mutilazioni identitarie.

Plebe ed emancipazione
La plebe non solo non è un soggetto politico, ma specialmente non ha valori linguistici e religiosi di cui si sente parte. È una massa esposta alle tragedie della storia, e si adatta. Ma, mentre si abbandona al nuovo dominatore a cui chiede identità e storia, diviene servile come i “lazzari napoletani”. La plebe non ha concetto, ma spera nell’obolo del nuovo vincitore. L’Italia meridionale è oggi l’espressione compiuta della condizione plebea, è l’archetipo dei popoli privati della loro anima collettiva e sostituita con i miti e gli incanti anglosassoni: i dialetti arretrano, la religione è in abbandono, la politica è sfregiata del suo senso dai nuovi sceriffi della legge, dall’invocazione impotente agli uomini forti che devono guidare il gregge verso un futuro che non c’è, ma si connota come l’ennesimo saccheggio delle risorse materiali e spirituali.
Ricordare l’Illuminismo meridionale significa riannodare i fili di una memoria spezzata da altri, perché il dominio si configura con la violenza della frantumazione dello spazio e del tempo. Nell’Illuminismo meridionale la differenza tra popolo e plebe non è soltanto delineata, ma specialmente si pone il problema di come trasformare le plebi in popoli. Eleonora Pimental de Fonseca[1] si impegnò nel coinvolgere la popolazione nella politica con il Monitore, il cui motto era “Far diventare la plebe popolo”. Francesco Mario Pagano[2] scrive i Saggi politici (1783 1785) e stese la Costituzione del 1799, mentre Gaetano Filangieri[3] delinea il concetto di felicità individuale mai scisso dal destino della comunità. Il popolo diventa plebe nella passività e specialmente nella rinuncia alla ricerca della felicità personale la quale è servizio alla comunità: la felicità di ordine acquisitivo è plebea, perché la soggettività è consegnata al disincanto delle merci. La Costituzione americana (17 settembre 1787) riporta il diritto alla felicità attraverso l’opera giuridico-filosofica di Gaetano Filangieri.

Limite e democrazia nella Costituzione del 1799
L’ostentazione della ricchezza è oggetto di censura nella Costituzione del 1799, coloro che usano il potere del denaro per offendere l’altrui condizione, e dunque si affermano sull’infelicità altrui, sono oggetto di una censura politica ed educativa. L’illimitatezza è il privato che assimila il pubblico, pertanto è nemico della cittadinanza. Nella Costituzione del 1799 vi è una parte che ha titolo Censura e, nell’articolo 314, si condannano con la censura gli eccessi: non si può essere cittadini senza il senso della misura. Per Pagano l’essere umano ha una sua natura etica, pertanto i diritti devono essere controbilanciati dai doveri. Il senso del limite restituisce dignità all’essere umano, il quale ha una natura etica che gli consente di razionalizzare i comportamenti. Pagano censura l’individualismo che rompe la comunità ed innesca processi di competizione che la disintegra dal suo interno. La costituzione del 1799 condanna l’individualismo in modo da favorire la coesione comunitaria nella quale si consolida la comunicazione e la maieutica. Non a caso gli articoli 398-399, nel Titolo XV, affermano la libertà di espressione come fondamentale per la Repubblica. La libertà di espressione dev’essere supportata da un contesto educato all’ascolto ed al contraddittorio, pertanto l’educazione al limite è la condizione per la comunicazione e la partecipazione politica. La cultura del diritto e del dialogo sono il centro della ricerca giuridica e filosofica di Pagano, il quale risponde al pericolo dei corsi e ricorsi storici vichiani con la cultura del diritto. Per Pagano il ritorno alla barbarie è scongiurato se i popoli non subiscono il diritto, ma partecipano vivamente alla sua elaborazione. L’Illuminismo meridionale dinanzi all’imbarbarimento dei costumi e del linguaggio ci indica un percorso per uscire dalla violenza della passività: il diritto alla cittadinanza partecipata e consapevole. L’alternativa non può che condurre all’anarchia della sregolatezza e all’infelicità generale. In un momento storico in cui si vaccinano i giovani inducendoli a tale operazione non con l’informazione, ma mediante “rave” organizzati nei “centri di vaccinazioni”, si può affermare che la barbarie è tra di noi. I giovani sono trattati come plebi, panem et circenses, in questo caso il panem è sostituito dal vaccino. Il paese dei balocchi si fonde con il biopotere producendo una barbarie unica nella storia: l’informazione ed il contraddittorio sono sostituiti con la musica assordante. La parola maieutica è sostituita con la propaganda, si trattano le nuove generazioni come sudditi da portare nel paese dei balocchi. Si celano gli interessi economici e si accompagnano le nuove generazioni al pascolo della barbarie: la scelta consapevole è sostituita con la musica e ciò rammenta altri periodi storici.

L’Illuminismo meridionale ha posto per primo, e fortemente, la differenza tra plebe e popolo. Ora che i popoli sono indotti dai nuovi piffererai verso l’abisso della plebe, dimostra la sua attualità e la necessità di ripensare il presente con il passato. Senza la tensione concettuale tra il presente ed il passato non vi è futuro, ma solo la sussunzione distruttiva. Forsan et haec olim meminisse iuvabit [“Forse un giorno ci farà piacere ricordare anche queste cose”] (Virgilio, Eneide, I, 203), il verso virgiliano con cui la Pimental si avviò al patibolo risuona ancora, ma ancora non è ascoltato. Gli illuministi meridionali restano testimoni eroici che attendono di essere ripensati. Le parole di Mario Francesco Pagano, il Platone napoletano, nella Costituzione del 1799 risuonano, oggi: sono vere e lontane:

«La libertà è la facoltà dell’Uomo di valersi di tutte le sue forze morali e fisiche, come gli piace, colla sola limitazione di non impedire agli altri di far lo stesso. Contro l’oppressione ogni Uomo ha il dritto d’insorgere, il Popolo ha diritto di insorgere, ma quando diciamo Popolo, intendiamo parlare di quel Popolo che sia rischiarato ne’ suoi veri interessi, e non già d’una plebe assopita nell’ignoranza, e degradata nella schiavitù, non già della cancrenosa parte aristocratica. L’uno e l’altro estremo sono de’ morbosi tumori del corpo sociale, che ne corrompono la sanità».

Salvatore Bravo

[1] Eleonora Pimental de Fonseca (Roma, 13 gennaio 1752– Napoli, 20 agosto 1799).

[2] Francesco Mario Pagano (Brienza, 8 dicembre 1748 – Napoli, 29 ottobre 1799). 

[3] Gaetano Filangieri (San Sebastiano al Vesuvio, 22 agosto 1753 – Vico Equense, 21 luglio 1788).

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Tito Perlini (1933-2013) – Il pensiero di Marcuse ha una lucidità impareggiabile nel denunciare gli aspetti letali della totalità integrata e nel prospettare la vitale necessità di spezzarne il cerchio fatato, ma arranca quando cerca di indicare in positivo le modalità da adottare per conferire al movimento teso verso la liberazione la forza capace di incidere efficacemente sulla realtà al fine di una trasformazione di fondo.

Tito Perlini 02

Marcuse ribadisce, in questo testo, alcuni punti caratteristici del suo pensiero che egli tiene ben fermi. Essi sono:

1) Nel capitalismo persiste la tendenza al crollo anche se essa è impedita ad attuarsi dalla contro-tendenza che spinge il capitalismo stesso a configurarsi come totalità integrata ed integrante.

2) Qualsiasi attesa del crollo basata sull’idea della sua inevitabilità è da scartare per il fatto che la teoria, facendola propria, degenera in falsa coscienza rinunciando a porsi, insieme alla pratica, come elemento della trasformazione senza la quale il crollo stesso è impensabile come premessa al socialismo, potendo rivelarsi, se non scongiurato, come qualcosa di catastrofico, tale da provocare una ricaduta nella barbarie.

3) La battaglia decisiva per il rovesciamento del modo di produzione capitalistico deve aver luogo al livello più alto e dimostrare di saper spezzare l’« anello più forte della catena» poiché senza l’intensificarsi di tendenze di segno anti-capitalistico, rivolte ad una rottura di tipo rivoluzionario, nei paesi «avanzati» dell’occidente, il «socialismo realizzato» (per la complementarietà stessa dei due blocchi facenti capo a USA e URSS che, pur restando in contrasto, sono soggetti ad un’unica logica e si integrano e sorreggono a vicenda all’interno di una situazione che favorisce il capitalismo) resterà invischiato nelle sue deformazioni e le tendenze centrifughe producentisi nell’ambito del cosiddetto Terzo Mondo continueranno a venir riportate, con la violenza o mediante forme di subordinazione o integrazione economica, entro l’alveo degli interessi capitalistici capaci di strutturarsi su scala mondiale.

4) È presente nella pratica radicale, che, sola, oggi può nella metropoli del capitale porre le premesse per la rivoluzione, un aspetto libertario e anti-autoritario, che è l’espressione spontanea, soggettiva della rivolta stessa, la quale critica, giudicandole inadeguate all’ampiezza della trasformazione, le forme tradizionali della pratica che si qualificava come rivoluzionaria (il che implica il rifiuto di ogni forma di marxismo reificato e la rinuncia ad ogni tentazione centralistico-burocratica).

Quest’ultimo punto, riaffermato con decisione, lascia comunque drammaticamente aperto il problema del rapporto tra spontaneità ed organizzazione. Marcuse si rende conto che l’appassionata affermazione dei diritti che spettano alla prima non annulla il nodo intricatissimo di problemi posti dal prospettarsi della seconda alla stregua di una necessità ineludibile. Circa una possibile soluzione di questo che è da sempre il punctum dolens del marxismo Marcuse non riesce che a fornire indicazioni vaghe. La parte «positiva» del suo discorso, che insiste sulla necessità per la nuova sinistra di forme di organizzazione decentrate e del ricorso ad un’autogestione cui vengono dedicati solo fugaci accenni, appare francamente come la più debole. Marcuse, del resto, ne è conscio. Di una lucidità impareggiabile nel denunciare gli aspetti letali della totalità integrata e nel prospettare la vitale necessità di spezzarne il cerchio fatato, il pensiero di Marcuse arranca quando cerca di indicare in positivo le modalità da adottare per conferire al movimento teso verso la liberazione la forza capace di incidere efficacemente sulla realtà al fine di una trasformazione di fondo. Una siffatta insufficienza, del resto, non è senza rapporto con la condizione oggettiva entro la quale la teoria critica si dibatte. Il problema dell’organizzazione è il più delicato anche perché, una volta rifiutati sia l’esaltazione tecnocratica dell’organizzazione elevata come tale a valore sia il mito di una spontaneità rivoluzionaria allo stato puro, resta l’obbligo di fare i conti con quella razionalità puramente formale e strumentale con cui il sistema di dominio fa tutt’uno, la quale, anche se negata alle radici, continua pur sempre a riprodursi all’interno di qualsiasi forma organizzativa per «alternativa» questa possa valersi e per vigile possa essere l’impegno di coloro che vi aderiscono a mantenersi immuni dagli effetti esercitati dalla ratio del dominio. E questa una contraddizione che resta irrisolta. Qui il discorso di Marcuse appalesa limiti ben precisi, che non sono certamente solo suoi. Ciò che continua, però, a suscitare simpatia e ammirazione è l’energia davvero indomabile con cui questo grande vecchio, ultimo esponente ormai di una schiera di intellettuali formatisi nel clima saturo di attese messianiche del periodo seguente alla prima guerra mondiale fedeli al retaggio della filosofia classica tedesca e decisi a far propria la causa degli oppressi, a porsi dalla parte di coloro cui viene negata la speranza, continua a ribadire con tenacia, ad onta di ogni smentita apparentemente definitiva da parte dell’accadere storico, la sua non fideistica fiducia, sorretta dal lucido pessimismo della ragione critica, nella capacità degli uomini di giungere a far proprie le possibilità concrete atte a permettere la trasformazione del mondo.

Tito Perlini, Introduzione a Herbert Marcuse, Teoria e pratica, Shakespeare and Company di Guseppe Recchia, Brescia 1979, pp. 35-37.


Tito Perlini (1931-2013) – «ATTRAVERSO IL NICHILISMO Saggi di teoria critica, estetica e critica letteraria», Aragno editore, 2015
Tito Perlini (1933-2013) – La rivoluzione non è Negazione del passato, ma ciò cui essa s’oppone: Il capitalismo, che è antitetico allo sviluppo della civiltà e che mira solo a conservare sé stesso. Vero conservatore non è chi difende un cattivo presente, ma chi insorge contro tale falsa conservazione.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Politeia . Castelli Romani – 1871. La Comune di Parigi e «L’insorto» di Jules Vallès. Sabato, 22 maggio 2021, ore 17,0.

Jules Vallès- Politeia

Sabato, 22 maggio 2021, ore 17,0.

Per collegarsi:

https://join.skype.com/acNNTCKTot8g

Jules Vallès

L’insorto.

Introduzione, traduzione e cura di Fernanda Mazzoli.

ISBN 978-88-7588-207-5, 2019, pp. 320, Euro 27.

indicepresentazioneautoresintesi

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Henry David Thoreau (1817-1862) – Se un uomo è libero nel pensiero, nella fantasia, nell’immaginazione, «ciò che non è» non gli appare mai per molto tempo come «ciò che è».

Thoreau Henry David 01

 

Non sono molti i momenti in cui vivo sotto un governo, persino in questo mondo. Se un uomo è libero nel pensiero, nella fantasia, nell’immaginazione, in modo tale che ciò che non è non gli appare mai per molto tempo come ciò che è, non è detto che governanti o riformatori stolti riescano a ostacolarlo.

Henry David Thoreau, La disobbedienza civile, a cura di Franco Meli, traduzione di Laura Gentili, SE, Milano 1992, p. 44.

Henry David Thoreau (1817-1862) – Questa è la biblioteca, ma il mio studio è là fuori, oltre la porta. Credo che non esista niente – neppure il crimine – maggiormente contrario alla poesia, alla filosofia e alla vita stessa che questa incessante smania per il business.
Henry David Thoreau (1817-1862) – È impossibile descrivere l’infinita varietà di sfumature della natura. Per descrivere queste foglie si dovranno usare parole colorate.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Fernanda Mazzoli – Cronache dal mondo libero.

TSO a Fano

Fernanda Mazzoli

CRONACHE DAL MONDO LIBERO

 

Non passa giorno senza che la macchina mediatica non si scagli contro i nemici della democrazia, non si indigni contro le violazioni dei diritti umani perpetrate al di fuori dei giardini fioriti dell’U.E.
Per loro fortuna, noi viviamo nella migliore delle democrazie possibili e pertanto i professionisti dell’antifascismo e del rispetto dei valori costituzionali possono dormire sonni tranquilli per quanto riguarda le faccende interne e concentrare, così, al meglio le forze per denunciare violenze, arbitri ed illegalità che affliggono chi non vive in questo nostro mondo libero.
Sempre per loro e nostra fortuna, capita che da noi, se qualcuno mal consigliato protesta contro un qualche provvedimento adottato per salvaguardare il bene pubblico, non finisca ammanettato in una cella angusta e puzzolente, ma si ritrovi comodamente assistito nel reparto psichiatrico di un attrezzato ospedale di una ridente città di È quanto è successo, qualche giorno fa, ad uno studente diciottenne di Fano che, istigato – riporta preoccupata la stampa locale,[1] ribadisce preoccupata ed indignata la Preside che ancor prima di essere insegnante e dirigente è una mamma – da un losco cinquantenne no mask, solito ad aggirarsi intorno agli edifici scolastici per adescare irrequieti adolescenti in rotta di collisione con le norme anti-Covid, ha inscenato in classe una protesta contro l’uso della mascherina. Il ragazzo – già noto alle cronache scolastiche per essere un bastian contrario – si sarebbe incatenato (?) al banco e si sarebbe tolto la mascherina.
Di fronte ad un tale atto osceno perpetrato in luogo pubblico, per di più destinato all’educazione dei giovinetti, è stato allertato il 118 che è prontamente intervenuto ed ha condotto il ragazzo al Pronto Soccorso dove, di fronte al suo stato di evidente confusione morale, gli è stato amorevolmente affibbiato un TSO, convalidato prontamente dal Tribunale di Pesaro. Gli è toccato in sorte il privilegio di essere uno dei primi a sperimentare “la scuola affettuosa” che il neo ministro dell’Istruzione sta progettando per aiutare le nuove generazioni ad uscire dalle “gabbie del Novecento”, quel secolo buio di totalitarismi, guerre, rivoluzioni, conflitti sociali ed una irrequietezza di fondo che la medicina liberal-liberista ha saggiamente sopito.
La messa in sicurezza dell’edificio e dei suoi occupanti si è svolta senza incidenti, tanto più che al personale sanitario si sono affiancati i carabinieri: la classe dello studente plagiato è stata trasferita in un’altra aula, mentre il teatro dell’increscioso incidente è stato sottoposto ad opportuna sanificazione.
Tutto è rientrato nell’ordine: sui lidi di Fano i bagnini cominciano a prepararsi per l’estate, gli studenti dell’Istituto in cui è avvenuta la disdicevole vicenda continuano ad alternare giorni in presenza e giorni in DAD, dopo avere trascorso quasi un anno in DAD integrale, le forze dell’ordine sono sulle tracce del cattivo maestro per di più cinquantenne e forse nemmeno troppo in forma, il ragazzo si sta riposando nelle stanze ovattate dell’Ospedale dove forse arriva l’odore del mare. Alcuni no mask ne approfittano per fare un po’ di confusione – la vita in provincia in fondo è monotona ed ogni occasione è buona per divertirsi – ma le forze dell’ordine li stanno identificando uno a uno e chissà che non si scopra che sono al soldo di qualche agente russo, o del Vecchio della Montagna, o del nipote di Saddam Hussein che, per vendicare lo zio ingiustamente accusato di usare armi chimiche di distruzione di massa, sta dando una mano al Covid che, ci hanno messo in guardia i virologi, si ringalluzzisce tutto quando si imbatte in qualcuno senza mascherina.
Le forze del Bene hanno segnato un punto a loro favore, ma, come è noto, vincere una battaglia non significa vincere la guerra e sono tanti e tali i pericoli che minacciano questo nostro mondo libero che dobbiamo prepararci ad una lunga guerra di posizione dove ciascuno è chiamato a fare il proprio dovere. Gli insegnanti, per esempio.
I giovani sono il cuore pulsante del Paese, è la sollecitudine per le generazioni future ad ispirare le scelte politiche di ogni governo che si rispetti ed è per questo che prendiamo il Recovery Fund, ma, purtroppo, sono fragili, corrono dietro alle nuvole e alle farfalle e finiscono per perdere la strada maestra, per perdersi dietro pericolose chimere, come dimostra anche il triste caso fanese. Grande è la responsabilità degli insegnanti, i quali non sempre sono all’altezza del compito che la società affida loro, distratti spesso da questioni di stipendio, oppure incaponiti nella vetusta idea di insegnare la loro materia. La dea Fortuna splende, però, sempre nei nostri cieli europei e da lassù ci manda un prezioso kit pedagogico per aiutare gli studenti delle Superiori a combattere disinformazione e fake news, al fine di rafforzare la resilienza della società.[2]
È davvero commovente che istituzioni cui spetta il gravoso compito di governare un (quasi) intero continente nel bel mezzo di un’emergenza sanitaria che minaccia di durare a lungo trovino il tempo di preoccuparsi che la formazione dei giovani poggi su salde fondamenta veritative.
D’altronde, solo un osservatore distratto potrebbe stupirsene; non è la prima volta che la U.E., attraverso uno dei suoi organismi, si occupa di ristabilire verità non ancora sufficientemente chiare ai popoli europei. E di riscrivere la storia, ponendo fine una volta per tutte con un tratto autorevole al dispersivo lavoro di ricerca degli storici che, oltretutto, porta ben pochi vantaggi all’erario e così stabilisce ex lege l’equiparazione di comunismo e nazismo. Quanto a quei milioni di russi sovietici morti per liberare il suolo europeo dalle armate di Hitler, sembra si tratti di una fake news messa in giro dai nostalgici dei Cosacchi e di disgustosi rituali antropofagi ai danni dei più piccoli.
D’altra parte, sarebbe da sciocchi preferire due brutali energumeni che a furia di calci e pugni spediscono in galera qualche nemico della Verità ad un’eterea, immateriale Polizia del Pensiero che aiuta a discernere il vero dal falso comodamente da casa, attraverso un semplice clic, oppure prende corpo negli accenti nobili e persuasivi di un professore, tutto compreso dell’importanza del compito riservatogli: formare le giovani generazioni alla nuova cittadinanza europea, digitale, resiliente e naturalmente inclusiva, salvo per quei pochi disinformati che, incapaci di comprenderne i vantaggi, recano danno a se stessi e alla collettività.

***

[1]https://www.ilrestodelcarlino.it/fano/cronaca/senza-mascherina-scuola-1.6326800 . Il ragazzo è stato dimesso ieri, dopo che del fatto si sono interessati dei politici facenti riferimento alla Lega, ben contenti di avere l’occasione di sventolare la bandiera della difesa della libertà, generosamente lasciata nelle loro mani dai benpensanti progressisti e sinistroidi, sempre più sinistri. Chi scrive ha proposto ad un Coordinamento di docenti della provincia, nato nel corso delle lotte contro la riforma renziana, un comunicato sulla vicenda che sottolineava essere la scuola luogo di dialogo e non di ricoveri coatti: proposta respinta per l’opposizione di qualcuno che temeva di fare il gioco della Lega, alla quale evidentemente intende lasciare libero tutto il campo!

[2]Sono state diramate circolari d’informazione nelle scuole che rinviano, per ulteriori approfondimenti, a https://europa.eu/learning-corner/spot-and-fight-disinformation_it



Intervista al 18enne di Fano sottoposto a Tso – YouTube


 
Fernanda Mazzoli – Il problema non è chi taglia il traguardo: il problema è il traguardo. Nella Scuola  si vuole imporre come traguardo il passaggio dalla formazione della personalità umana alla formazione del capitale umano
Fernanda Mazzoli – Intorno alla scuola si gioca una partita decisiva che è quella della società futura che abbiamo in mente. La scuola può riservarsi un ruolo attivo, oppure scegliere la capitolazione di fronte al modello sociale neoliberista.
Fernanda Mazzoli – Alcune considerazioni intorno al libro «L’AGONIA DELLA SCUOLA ITALIANA» di Massimo Bontempelli
Farnanda Mazzoli – Il libro «No alla globalizzazione dell’indifferenza» di Giancarlo Paciello. Un’agguerrita strumentazione intellettuale capace di affrontare e dissolvere le nebbie ideologiche. Rivendicazione di un «universalismo universale» fondato su una comune natura umana. Rivendicazione di una «ecologia integrale». Defatalizzazione del mito del progresso.
Fernanda Mazzoli – Una voce poetica dimenticata: Isaak Ėmmanuilovič Babel’. Fondare la rivoluzione sull’anima umana, sulla sua aspirazione al bene, alla verità, al pieno dispiegarsi delle sue facoltà. La rivoluzione non può negare la spiritualità, l’esperienza interiore dell’uomo, i suoi fondamenti morali.
Fernanza Mazzoli, Javier Heraud (1942-1963) – Non rido mai della morte. Semplicemente succede che non ho paura di morire tra uccelli e alberi. Vado a combattere per amore dei poveri della mia terra, in una pioggia di parole silenziose, in un bosco di palpiti e di speranze, con il canto dei popoli oppressi, il nuovo canto dei popoli liberi.
Fernanda Mazzoli – Per una seria cultura generale comune: una proposta di Lucio Russo.
Fernanda Mazzoli – Leggendo il libro di Giancarlo Paciello «Elogio sì, ma di quale democrazia?».
Fernanda Mazzoli Attila József (1905-1937) – Con libera mente non recito la parte sciocca e volgare del servo. Il capitalismo ha spezzato il suo fragile corpo.
Fernanda Mazzoli – René Char (1907-1988) – Résistance n’est qu’espérance. Speranza indomabile di un umanesimo cosciente dei suoi doveri, discreto sulle sue virtù, desideroso di riservare l’inaccessibile campo libero alla fantasia dei suoi soli, e deciso a pagarne il prezzo. Les mots qui vont surgir savent de nous de choses que nous ignorons d’eux.
Fernanda Mazzoli – Ripensare la scuola per mantenere aperta, all’interno dell’istituzione scolastica, quella dimensione “utopica” così intimamente legata all’idea stessa di educazione, idea che comporta una tensione intrinseca verso “un altrove” che nulla ha a che vedere con l’adattamento al presente.
Fernanda Mazzoli – Jules Vallès (1832-1885), Jules l’«insurgé», aveva scelto di essere un réfractaire e tale rimase per tutto il corso della sua vita. Prima, durante e dopo la Comune di Parigi.
Fernanda Mazzoli – Un libro per chiunque avverta la necessità di aprirsi una strada fra le brume del presente e voglia farlo con onestà e coraggio intellettuali e morali. È di un pensiero forte che necessitiamo.
Fernanda Mazzoli – La poesia di Xu Lizhi nella fabbrica globale del capitalismo assoluto. La gioventù chinata sulle macchine muore prima del suo tempo. Senza il tempo per esprimersi, il sentimento si sgretola in polvere.
Fernanda Mazzoli – Il romanzo di Georges Perec «Les choses» è di una attualità sconcertante. I libri, quando cercano con onestà intellettuale la verità, dicono molto di più di quel che dicono i loro autori.
Fernanda Mazzoli – Il libro di Antonio Fiocco «Ideare il futuro comunitario per viverne l’essenza nel presente». L’inesausta tensione progettuale per il bene comune, mai da considerarsi come acquisizione definitiva
Fernanda Mazzoli – La ripresa, finalmente! Ma chi guida la task force incaricata di traghettare il Paese fuori dell’emergenza da Covid 19? La mitologia del cambiamento e la sua necessaria demistificazione
Fernanda Mazzoli – L’io minimo ai tempi dell’epidemia. Lo spiritello esangue e pervicace della mentalità di sopravvivenza. Sopravvivere diviene preferibile a vivere nella consapevolezza.
Fernanda Mazzoli – La speranza, nel libro di Arianna Fermani, forte della sua fragilità,  è apertura e rischio, si oppone alla paura, si accompagna alla fiducia e alla perseveranza, abita il campo della libertà, si confronta con la scelta, osa pensare il possibile (quando appare ancora impossibile) cercando di rendere realizzabile lo sperabile,  è slancio verso il futuro, immaginazione creatrice, fiducia in un avvenire migliore costruito con pazienza e talento. È scommessa educativa, paideia, «speranza di seminare semi e di veder nascere fiori».
Fernanda Mazzoli – La colpevolizzazione delle condotte individuali non conformi ai corretti stili di vita è assurta a dispositivo ideologico tanto semplice quanto efficace, perfetto per tempi come i nostri, allergici al ragionamento complesso e al pensiero dialettico.
Fernanda Mazzoli – Quei nostri morti: Angelo Appiani, Arturo Chiappelli, Arturo Malagoli, Roberto Rovatti, Ennio Garagnani, Renzo Bersani. Modena 9 gennaio 1950
Fernanda Mazzoli – Vecchi e nuovi amici dell’umanità.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Diceva Danilo Dolci: «Chi si spaventa quando sente dire “Rivoluzione” forse non ha capito». Per i partigiani di oggi la Rivoluzione è cura e responsabilità verso il presente ed il futuro, è scoprire la verità senza la quale nessun movimento di profonda trasformazione è possibile.

Danilo Dolci 01

Una nuova stella gialla
Lunedì 8 marzo i Centers for Disease Control and Prevention (CDC) hanno reso pubblico la prima guida per le persone vaccinate. Si afferma che i vaccinati potranno togliere le mascherina e tornare alla normalità senza distanziamento. I non vaccinati dovranno conservare mascherina e rispettare il perenne distanziamento. La ragione scientifica non è chiara. Normalmente chi non è vaccinato non è un pericolo per i vaccinati. La documentazione scientifica insegna che i virus mutano a causa dei vaccini, pertanto le varianti saranno il prodotto della campagna vaccinale, a cui le multinazionali del farmaco risponderanno con vaccini da “inoculare” nel mercato. Il nuovo ciclo produttivo con il biopotere conseguente è, ormai, lapalissiano. Nel ciclo produttivo medicale vi è un’eccedenza rispetto al lucro che bisogna far emergere, vi è un disegno politico che ammicca al passato e vuole riprodurre nuove logiche di dominio con il consenso dei nuovi sudditi. Definire gli spazi ed i reticolati per la categoria dei non vaccinati ed aggiungere ad essi lo stigma del segno (mascherina) di riconoscimento con pubblico disprezzo è la riproduzione di una tragica verità storica che l’Europa ha già conosciuto: la stella gialla per gli ebrei. Il biopotere inventa nuove categorie su cui esercitare il potere e scaricare la pubblica aggressività. Si può immaginare che qualora ciò fosse attuato i non vaccinati potrebbero diventare la causa di ogni male da utilizzare in ogni frangente di crisi. Le contraddizioni sociali hanno trovato un colpevole su cui scaricare la causa di ogni male. Si ottiene, dunque, un doppio risultato: si costringe i resistenti ad entrare nel mercato del farmaco “liberamente”, e nel contempo gli ultimi resistenti sono oggetto di una marginalità socialmente codificata. Il potere diviene dominio e saggia la sua onnipotenza verificando la passività degli stessi. Questi ultimi dopo decenni di individualismo supportato da una formazione specialistica sono incapaci di decodificare le derive in atto, pertanto il potere ritiene di poter procedere dopo i pass ed i treni per i soli vaccinati per un ultimo salto verso una nuova forma di segregazione, la quale non necessita, al momento, di confini o reticolati geograficamente codificati e strutturati, ma il confino è più insidioso e violento, forse, in quanto è interno. La logica della gradualità nell’introdurre provvedimenti di esclusione è stata ampiamente utilizzata in tutti i regimi definiti “totalitari”. Si immagini una persona non vaccinata perennemente con la mascherina e distanziata oggetto degli sguardi di disapprovazione ed isolata. Si mette in atto un meccanismo di distruzione dell’altrui vita e personalità pur lasciandolo in vita. La sua parola è nulla, la sua identità sociale semicancellata, colpevolizzata con ragioni pseudoscientifica a cui religiosamente i nuovi sudditi credono. In un’epoca di precarietà ed emigrazione, chiunque non voglia vaccinarsi è costretto ad essere, inoltre, separato dai suoi affetti ed isolato nella nuova realtà, in cui è costretto a vivere. La violenza si moltiplica e la si coglie solo se si passa da ordini astratti ad un sapere concreto e materiale.

Partigiani della contemporaneità
La nuova inquisizione è tra di noi ed ha l’aspetto modernissimo della medicina non più al servizio della persona, ma del mercato. La colpa di coloro che potrebbero portare la nuova stella gialla, non sul petto, ma sul volto è aver messo in discussione le verità del mercato delle multinazionali del farmaco. La nuova colpa non è di tipo etico, ma inceppare il consumo, osare non essere massa, ma assumere una posizione personale senza nuocere a nessuno.
Si festeggia e si ricorda ogni anno la fine dei totalitarismi, ma è solo propaganda, perché si vuole orientare lo sguardo nel passato, in modo che non si colgano le derive totalitarie nel presente con le indebite pressioni per anestetizzare il senso critico. I nuovi partigiani, di cui abbiamo necessità, sono coloro che si battono per rendere evidenti le dinamiche in corso con le sue conseguenze. Si osannano i partigiani del passato per presentare il tempo odierno come “il migliore dei mondi possibili”, necessitiamo di partigiani che svelino la verità dell’esattezza dei mercati e delle scienze destrutturando criticamente i miti annessi. I nuovi partigiani hanno il dovere di informare e comunicare con ogni mezzo i pericoli in corso. Essere partigiani, oggi, è più difficile che in passato, poiché il partigiano, come suggerisce la parola, deve schierarsi, scegliere, separarsi dall’informe per dare il suo contributo civile per trasformare il dominio gerarchico in potere di tutti, ovvero in sana e comunitaria partecipazione. Il partigiano ha il compito di ricucire le divisioni e le fratture orizzontali che la verticalizzazione del dominio produce con i “nuovi saperi” finalizzati all’atomocrazia depressiva ed aggressiva.

La Rivoluzione di Danilo Dolci
Danilo Dolci ((28 giugno 1924 Sesana, Slovenia – 30 dicembre 1997)) dimenticato dalla cultura ufficiale, ci ha donato nei suoi innumerevoli scritti e poesie la necessaria differenza tra dominio e potere: il primo è gerarchizzato e si fonda sulla logica della trasmissione dei comandi e dei saperi senza mediazione razionale e comunitaria, mentre il secondo appartiene a tutti. Il potere è possibilità diffusa e comunitaria che ha come principio primo la comunicazione maieutica, ovvero il mettere in comune, in modo che ciascuno possa trasformare in atto le proprie potenzialità nella vita comunitaria, la quale è prassi politica, poiché in essa si decide della vita di ciascuno senza escludere nessuno. La vera Rivoluzione auspicata da Danilo dolci è la demassificazione mediante lo sviluppo delle personalità in un clima di positiva dialettica sociale che non esclude il conflitto, il quale è capace di segnare positivamente la vita interiore di ogni cittadino. Il conflitto dialettico è il fondamento della comunicazione maieutica, poiché il confronto implica una tensione che conduce verso l’universale concreto e partecipato. In un momento fosco e dubbio per la nostra democrazia ricordare un “partigiano” come Danilo Dolci può essere occasione per riflettere sul senso della politica sepolta da scandali e violenze:

Rivoluzione è cura del presente, responsabilità verso il presente ed il futuro, aprirsi a dimensioni che pongano in tensione realtà apparentemente separate. Rivoluzione è scoprire la verità senza la quale nessun movimento di profonda trasformazione può esserci. Ogni partigiano lavora per la Rivoluzione anche quando la storia sembra fare pericolosi giri di boa e tornare indietro. Siamo tutti implicati nella Storia, la quale è di tutti. L’esperienza partigiana ha visto la partecipazione di persone appartenenti a realtà ideologiche diverse, perché quando il pericolo è vicino, la salvezza necessita della partecipazione di tutti, ognuno ha il suo compito per impedire nuove regressioni sociali.

Salvatore Bravo

 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Thomas Isidore Noël Sankara (1949-1987) – Per ottenere un cambiamento radicale bisogna avere il coraggio d’inventare l’avvenire. Noi dobbiamo osare inventare l’avvenire.

Thomas Sankara 01

L’imperialismo è un sistema di sfruttamento che non si presenta solo nella forma brutale di coloro che vengono con dei cannoni a conquistare un territorio, imperialismo è più spesso ciò che si manifesta in forme più sottili, un prestito, un aiuto alimentare, un ricatto. Noi stiamo combattendo il sistema che consente ad un pugno di uomini sulla terra di comandare tutta l’umanità.

Thomas Sankara


Per ottenere un cambiamento radicale
bisogna avere il coraggio d’inventare l’avvenire.
Noi dobbiamo osare inventare l’avvenire.

Thomas Sankara


Salvatore Bravo

Il Che Guevara africano

Thomas Isidore Noël Sankara (Yako, 21 dicembre 1949 – Ouagadougou, 15 ottobre 1987) è stato Presidente del Burkina Faso dal 1983 al 1987, anno in cui fu assassinato durante un colpo di Stato sostenuto dalla Francia e dagli Stati Uniti. Sankara affermava che le idee non muoiono, che si possono ammazzare coloro che le professano, ma le idee sopravvivono. Sankara non è stato un santo, ma è stato comunque un martire, perché in nome del popolo e delle idee ha sacrificato la sua vita, ha lasciato una traccia su cui abbiamo il dovere di pensare e costruire un modello altro rispetto all’attuale. Aveva ben chiaro che la politica deve gestire l’economia, e che senza tale dialettica non si hanno che oligarchie che dominano e riducono repubbliche e democrazie a pura attività procedurale. Il suo discorso sul debito all’Organizzazione per l’Unità Africana del 29 luglio 1987 ci parla ancora, perché esplicita una verità che vale per i paesi africani, ma anche per i paesi occidentali. Il colonialismo non è terminato, ma ha cambiato forma, anzi è diventato più subdolo. Per dominare uno Stato non necessariamente si devono utilizzare i cingolati: uno Stato può essere dominato con i prestiti. Questi ultimi sono il mezzo con cui la finanza controlla l’economia e la politica, interviene in esse, ne determina le finalità. I nemici dell’Africa non sono i precari diffusi in ogni nazione, ma le oligarchie globali che cannibalizzano i popoli con prestiti che determinano forme di dipendenza e ingerenza distruttive:

 

Le origini del debito risalgono alle origini del colonialismo. Quelli che ci hanno prestato denaro, sono gli stessi che ci avevano colonizzato. Sono gli stessi che gestivano i nostri stati e le nostre economie. Sono i colonizzatori che indebitavano l’Africa con i finanziatori internazionali che erano i loro fratelli e cugini. Noi non c’entravamo niente con questo debito. Quindi non possiamo pagarlo.Il debito è ancora il neocolonialismo, con i colonizzatori trasformati in assistenti tecnici anzi dovremmo invece dire «assassini tecnici». Sono loro che ci hanno proposto dei canali di finanziamento, dei «finanziatori». Un termine che si impiega ogni giorno come se ci fossero degli uomini che solo «sbadigliando» possono creare lo sviluppo degli altri [gioco di parole in francese sbadigliatore/finanziatore, bâillement/bailleurs de fonds]. Questi finanziatori ci sono stati consigliati, raccomandati. Ci hanno presentato dei dossier e dei movimenti finanziari allettanti. Noi ci siamo indebitati per cinquant’anni, sessant’anni anni e più. Cioè siamo stati portati a compromettere i nostri popoli per cinquant’anni e più. Il debito nella sua forma attuale, controllata e dominata dall’imperialismo, è una riconquista dell’Africa sapientemente organizzata, in modo che la sua crescita e il suo sviluppo obbediscano a delle norme che ci sono completamente estranee. In modo che ognuno di noi diventi schiavo finanziario, cioè schiavo tout court, di quelli che hanno avuto l’opportunità, l’intelligenza, la furbizia, di investire da noi con l’obbligo di rimborso. Ci dicono di rimborsare il debito. Non è un problema morale. Rimborsare o non rimborsare non è un problema di onore. Signor presidente, abbiamo prima ascoltato e applaudito il primo ministro della Norvegia intervenuta qui. Ha detto, lei che è un’europea, che il debito non può essere rimborsato tutto. Il debito non può essere rimborsato prima di tutto perché se noi non paghiamo, i nostri finanziatori non moriranno, siamone sicuri. Invece se paghiamo, saremo noi a morire, ne siamo ugualmente sicuri.[1]

 

L’internazionale delle patrie può essere un argine a tale strategia di dominio neocoloniale. Non a caso Sankara cambiò il nome al proprio Stato appena insediatosi, da Alto Volta Burkina Faso, il primo era un nome dato dai colonialisti francesi, in cui il popolo non poteva identificarsi, il secondo è un nome che fa riferimento alla storia e alle tradizione del suo Stato.

Autonomia
Il Burkina Faso (Paese degli uomini integri) è un progetto di riconquista della sovranità popolare, in modo che il popolo sia agente attivo del suo sviluppo e non certo “plebe” che vive degli aiuti alimentari internazionali. Non praticò l’autarchia, ma l’autonomia dello Stato dalla dipendenza alimentare e delle merci. Tutto ciò che poteva essere prodotto in Burkina Faso andava favorito, in modo da consolidare lo Stato e formare una diffusa classe media. Cercò di fermare la desertificazione piantando 10 mln di alberi. La politica patria doveva rispondere alle esigenze della popolazione, senza contrapporsi agli altri popoli. Tale transizione verso un’effettiva indipendenza fu sostenuta con un processo di alfabetizzazione, circa il 70% della popolazione fu alfabetizzata durante i pochi anni della sua presidenza. Il popolo doveva diventare consapevole che la crisi è un mezzo per passivizzare il popolo, chiuderlo in uno stato di minorità permanente. La crisi economica dev’essere compresa nel suo significato politico, essa non è un evento fatale o naturale, essa è causata dalle oligarchie, pertanto comprenderla significa porre le condizioni per defatalizzare il destino degli Stati:

Quando ci parlano di crisi economica, dimenticano di dirci che la crisi non è venuta all’improvviso. La crisi è sempre esistita e si aggraverà ogni volta che le masse popolari diventeranno più coscienti dei loro diritti di fronte allo sfruttatore. Oggi c’è crisi perché le masse rifiutano che le ricchezze siano concentrate nelle mani di pochi individui. C’è crisi perché pochi individui depositano nelle banche estere delle somme colossali che basterebbero a sviluppare l’Africa intera. C’è crisi perché di fronte a queste ricchezze individuali che hanno nomi e cognomi, le masse popolari si rifiutano di vivere nei ghetti e nei bassi fondi. C’è crisi perché i popoli rifiutano dappertutto di essere dentro una Soweto di fronte a Johannesburg. C’è quindi lotta, e l’esacerbazione di questa lotta preoccupa chi ha il potere finanziario.[2]

 

Si esce dalla crisi con l’autonomia della patria, che pone le condizioni per i diritti sociali e l’emancipazione. Il popolo è un’unità complessa, per cui tutti i suoi componenti devono partecipare alla vita politica. Lottò contro le discriminazioni, e per la pari dignità delle donne. Non volle pagare i debiti dello Stato per liberarsi dalla dipendenza economica che assoggetta i popoli, e consente alle logiche gerarchiche di perpetuarsi. Il ciclo debito-pagamento è funzionale a lasciare gli equilibri del potere stabili, e a neutralizzare la consapevolezza dei popoli. La dipendenza sviluppa nei popoli uno stato di prostrazione psicologica di cui i poteri approfittano per dominarli perennemente, per cui cancellare i debiti indotti da politiche neocoloniali e oligarchiche è il primo passo per rendere autonomi uno Stato e ridare dignità ai popoli:

Del resto le masse popolari in Europa non sono contro le masse popolari in Africa. Ma quelli che vogliono sfruttare l’Africa sono gli stessi che sfruttano l’Europa. Abbiamo un nemico comune. Quindi il club di Addis Abeba dovrà dire agli uni e agli altri che il debito non sarà pagato. Quando diciamo che il debito non sarà pagato non vuol dire che siamo contro la morale, la dignità, il rispetto della parola. Noi pensiamo di non avere la stessa morale degli altri. Tra il ricco e il povero non c’è la stessa morale. La Bibbia, il Corano, non possono servire nello stesso modo chi sfrutta il popolo e chi è sfruttato. C’è bisogno che ci siano due edizioni della Bibbia e due edizioni del Corano. Non possiamo accettare che ci parlino di dignità. Non possiamo accettare che ci parlino di merito per quelli che pagano e perdita di fiducia per quelli che non dovessero pagare. Noi dobbiamo dire al contrario che oggi è normale si preferisca riconoscere come i più grandi ladri siano i più ricchi. Un povero, quando ruba, non commette che un peccatucolo per sopravvivere e per necessità. I ricchi, sono quelli che rubano al fisco, alle dogane. Sono quelli che sfruttano il popolo. Signor presidente, non è quindi provocazione o spettacolo. Dico solo ciò che ognuno di noi pensa e vorrebbe. Chi non vorrebbe qui che il debito fosse semplicemente cancellato? Quelli che non lo vogliono possono subito uscire, prendere il loro aereo e andare dritti alla Banca Mondiale a pagare! Non vorrei poi che si prendesse la proposta del Burkina Faso come fatta da «giovani», senza maturità e esperienza. Non vorrei neanche che si pensasse che solo i rivoluzionari parlano in questo modo. Vorrei semplicemente che si ammettesse che è una cosa oggettiva, un fatto dovuto.[3]

 

Armi e plebeizzazione dei popoli
La vendita delle armi da parte di paesi democratici e non è uno dei mezzi più efficaci per dominare i popoli, in particolare i popoli africani, con le armi si sostiene l’odio tribale, con le armi la violenza diventa la normalità che inibisce la crescita economica e civile. Un popolo che ha paura non è mai libero, le armi diffondono insicurezza, inducono ad invocare i governi “forti” per difendere la vita. Le armi non sono semplici merci, ma un mezzo per soggiogare i popoli africani con le divisioni e le guerre intestine sostenute dalle multinazionali delle armi:

E vorrei terminare dicendo che ogni volta che un paese africano compra un’arma è contro un africano. Non contro un europeo, non contro un asiatico. È contro un africano. Perciò dobbiamo, anche sulla scia della risoluzione sul problema del debito, trovare una soluzione al problema delle armi. Sono militare e porto un’arma. Ma signor presidente, vorrei che ci disarmassimo. Perché io porto l’unica arma che possiedo. Altri hanno nascosto le armi che pure portano. Allora, cari fratelli, col sostegno di tutti, potremo fare la pace a casa nostra. Potremo anche usare le sue immense potenzialità per sviluppare l’Africa, perché il nostro suolo e il nostro sottosuolo sono ricchi. Abbiamo abbastanza braccia e un mercato immenso, da Nord a Sud, da Est a Ovest. Abbiamo abbastanza capacità intellettuali per creare, o almeno prendere la tecnologia e la scienza in ogni luogo dove si trovano .Signor presidente, facciamo in modo di realizzare questo fronte unito di Addis Abeba contro il debito. Facciamo in modo che a partire da Addis Abeba decidiamo di limitare la corsa agli armamenti tra paesi deboli e poveri. I manganelli e i macete che compriamo sono inutili. Facciamo in modo che il mercato africano sia il mercato degli africani. Produrre in Africa, trasformare in Africa, consumare in Africa. Produciamo quello di cui abbiamo bisogno e consumiamo quello che produciamo, invece di importarlo.Il Burkina Faso è venuto a mostrare qui la cotonnade, prodotta in Burkina Faso, tessuta in Burkina Faso, cucita in Burkina Faso per vestire i burkinabé. La mia delegazione ed io stesso siamo vestiti dai nostri tessitori, dai nostri contadini. Non c’è un solo filo che venga d’Europa o d’America. Non faccio una sfilata di moda ma vorrei semplicemente dire che dobbiamo accettare di vivere africano. È il solo modo di vivere liberi e degni. La ringrazio Signor presidente. Patria o morte, vinceremo![4]

 

Quando Thomas Sankara fu ucciso possedeva solo una casa col mutuo ancora da pagare e il suo conto in banca era appena attivo. Nei pochi anni della sua presidenza ha ottenuto risultati sorprendenti:

 

  • Vaccinati 2.500.000 bambini contro morbillo, febbre gialla, rosolia e febbre tifoide. L’Unicef stesso si complimentò con il governo.
  • Creati Posti di salute primaria in tutti i villaggi del paese.
  • Aumentato il tasso di alfabetizzazione.
  • Realizzati 258 bacini d’acqua.
  • Scavati 1.000 pozzi e avviate 302 trivellazioni.
  • Stoccati 4 milioni di metri cubi contro 8,7 milioni di metri cubi di volume d’acqua.
  • Realizzate 334 scuole, 284 dispensari-maternità, 78 farmacie, 25 magazzini di alimentazione e 3.000 alloggi.
  • Creati l’Unione delle donne del Burkina (UFB), l’Unione nazionale degli anziani del Burkina (UNAB), l’Unione dei contadini del Burkina (UPB) e ovviamente i Comitati di difesa della rivoluzione (CDR), che seppur inizialmente registrarono alcuni casi di insurrezione divennero ben presto la colonna portante della vita sociale.
  • Avviati programmi di trasporto pubblico (autobus).
  • Combattuti il taglio abusivo degli alberi, gli incendi del sottobosco e la divagazione degli animali.
  • Costruiti campi sportivi in quasi tutti i 7.000 villaggi del Burkina Faso.
  • Soppressa la Capitazione e abbassate le tasse scolastiche da 10.000 a 4.000 franchi per la scuola primaria e da 85.000 a 45.000 per quella secondaria.
  • Create unità e infrastrutture di trasformazione, stoccaggio e smaltimento di prodotti con una costruzione all’aeroporto per impostare un sistema di vasi comunicanti attraverso l’utilizzo di parte di residui agricoli per l’alimentazione.[5]

 

L’impossibile è possibile.

Coloro che invocano come unica soluzione per gli Stati africani l’emigrazione – che dissangua l’Africa delle sue energie migliori per compensare la denatalità dell’Occidente e favorire la precarizzazione generalizzata –, lavorano comunque per le oligarchie, talvolta con le migliori intenzioni, altre in modo palesemente complice.

Salvatore Bravo

***

[1] Discorso di Sankara sul debito all’Organizzazione per l’Unità Africana del 29 luglio 1987.

[2] Ibidem.

[3] Ibidem.

[4] Ibidem.

[5] Fonte Wickipedia


Alessandro Aruffo, Sankara. Un rivoluzionario africano, Massari, 2007


Carlo Batà, L’Africa di Thomas Sankara, Achab, 2003.


Giuliano Cangiano, Sostiene Sankara. Racconti disegnati di felicità rivoluzionarie, Becco Giallo, 2014


Marinella Correggia (a cura di), Thomas Sankara, il presidente ribelle, Manifestolibri, 1997


Thomas Sankara Speaks. The Burkina Faso Revolution, 1983-87, by Thomas Sankara, Pathfinder Press, 1988


Thomas Sankara, I discorsi e le idee (a cura di Marinella Correggia, introduzione di Paul Sankara), Sankara, 2006.


Valentina Biletta, Una foglia, una storia. Vita di Thomas Sankara, Ediarco, 2005.


Vittorio Martinelli (con Sofia Massai), La voce nel deserto (prefazione di Jean-Léonard Touadi), Zona, 2009


We Are the Heirs of the World’s Revolutions. Speeches from the Burkina Faso Revolution 1983-87, by Thomas Sankara, Pathfinder Press, 2007


Women’s Liberation and the African Freedom Struggle, by Thomas Sankara, Pathfinder Press, 1990


Thomas Sankara : La mia rivoluzione si chiamava felicità.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Sante Notarnicola (1938-2021) – … ci ho messo 50 anni a diventare comunista … La libertà ha bisogno di attenzioni, di cure continue e soprattutto ha bisogno di memoria.

Sante Notarnicola 021

A Sante,
alla sua capacità di esser stato,
e di essere ancora,
per sempre,
ad un tempo,
fragile e misteriosa
cristalide,
come gioventù
ricca di speranze,
di possibili metamorfosi,
matrice di trasformazioni
– condizione della realizzazione –
e farfalla
che col suo diafano
e lieve battito d’ali
punteggia
la trama
di Iride.


Carmine Fiorillo

La farfalla
Tentai di gettare l’anima al di là del muro … cercando di seguire la farfalla.

Chiara è una bimba felice.
Nata attrezzata
per i giochi infiniti.

Chiara lo sa, con lei
giocheremo tutta la vita.

Sante Notarnicola


Non c’è vita
che almeno per u n attimo
non sia stata immortale.
 
La morte
è sempre in ritardo di quell’attimo.
 
Invano scuote la maniglia
d’una porta invisibile.
A nessuno può sottrarre
il tempo raggiunto.

Wislawa Szymborska

Sante Notarnicola

[…] ci ho messo 50 anni a diventare comunista. E 20 anni 8 mesi e 1 giorno di prigione. E 11 anni di carcere di massima sicurezza. E 5 anni di celle punitive. E la posta censurata. E i vetri divisori ai colloqui […] E le cariche dei carabinieri nei corridoi delle prigioni. E il sangue nelle celle. E il sangue dal naso. E il sangue dalla bocca. E i denti rotti. E la fame all’Asinara. E il silenzio obbligatorio al bunker della Centrale, a cala d’Oliva. E i racconti dei torturati. E i colpi contro la porta per non farti dormire. E i colloqui respinti senza un motivo. E la posta sottratta. E il linciaggio del vicino di cella. E il vivere col cuore in gola. E la pressione che sale. E il cuore che senti ingrossare. E il compagno che se ne va con la testa. E le divisioni a 5 nei cortili. E le rotture politiche. E le divisioni che teoricamente dovevano rafforzarci. E il dilagare del soggettivismo. E i vetri infranti ai colloqui. E le rivendicazioni coi pugni chiusi. E la ritirata strategica. E gli scioperi della fame condannati. E i sorrisi spariti. E i soggettivisti sconfitti. E gli odi tra compagni. E le demolizioni personali. E la disgregazione umana. E le perquisizioni anali. E le sei diotrie perse. E l’assalto coi cani nelle celle. E i compagni colpiti da schizofrenia. E i primi tradimenti. E la massa di dissociati. E l’isolamento politico. E la piorrea che avanza. E gli anni che passano e i giorni che conti. E i silenzi, i silenzi, i silenzi.[1]

Poesia per comunicare in condizioni difficili. Poesia per rompere l’isolamento a cui vorrebbero costringere corpo e cervello. Poesia come difesa dall’abbrutimento della prigione. Poesia per amare ancora, per vivere ugualmente una vita complessiva.[2]

 

«Caro Sante,
Le tue poesie (alcune, come sai, le conoscevo già) sono belle, quasi tutte; alcune bellissime, altre strazianti. Mi sembra che, nel loro insieme, costituiscano una specie di teorema, e ne siano anzi la dimostrazione: cioè, che è poeta solo chi ha sofferto o soffre, e che perciò la poesia costa cara. L’altra, quella non sofferta, di cui ho piene le tasche, è gratis.

Primo Levi».[3]

***

[1] S. Notarnicola, Materiale interessante. Liberi dal silenzio, Edizioni della Battaglia, Palermo,1997, p. 10.

[2] Ibidem, p. 35.

[3] Lettera di Primo Levi a Sante Notarnicola, in S. Notarnicola, L’anima e il muro, a cura di D. Orlandi, disegni di Marco Perroni, Odradek, Roma 2013, pp. 19-20.






Sante Notarnicola – Tentai di gettare l’anima al di là del muro … cercando di seguire la farfalla.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Eugenio Montale (1896 – 1981) – La storia non si snoda come una catena di anelli ininterrotta, la sua direzione non è nell’orario. La storia non è poi la devastante ruspa che si dice. Lascia sottopassaggi, cripte, buche e nascondigli.

Eugenio Montale, La storia

La storia non si snoda
come una catena
di anelli ininterrotta.
In ogni caso
molti anelli non tengono.
La storia non contiene
il prima e il dopo,
nulla che in lei borbotti
a lento fuoco.
La storia non è prodotta
da chi la pensa e neppure
da chi l’ignora. La storia
non si fa strada, si ostina,
detesta il poco a poco, non procede
né recede, si sposta di binario
e la sua direzione
non è nell’orario.
La storia non giustifica
e non deplora,
la storia non è intrinseca
perché è fuori.
La storia non somministra carezze o colpi di frusta.
La storia non è magistra
di niente che ci riguardi. Accorgersene non serve
a farla più vera e più giusta.
La storia non è poi
la devastante ruspa che si dice.
Lascia sottopassaggi, cripte, buche
e nascondigli. C’è chi sopravvive.
La storia è anche benevola: distrugge
quanto più può: se esagerasse, certo
sarebbe meglio, ma la storia è a corto
di notizie, non compie tutte le sue vendette.
La storia gratta il fondo
come una rete a strascico
con qualche strappo e più di un pesce sfugge.
Qualche volta s’incontra l’ectoplasma
d’uno scampato e non sembra particolarmente felice.
Ignora di essere fuori, nessuno glie n’ha parlato.
Gli altri, nel sacco, si credono
più liberi di lui.

 

Eugenio Montale, [1]

 

Il presente non è tutto
Nei tempi bui in cui tutto sembra procedere nel rumore cadenzato e stridulo dei cingolati del , la poesia appare come libertà, breccia nella plumbea cappa dei nostri giorni senza speranza e senza prospettiva. Montale nella poesia La Storia ci induce a riflettere sull’andamento della storia per poter riprendere il cammino che pare già segnato, ma in realtà è un campo di possibilità che si snoda davanti a noi. Il capitalismo ha in odio la storia, poiché essa testimonia che ogni potere è nel tempo, vorrebbe dissolverla in modo che si pensasse che il presente ha in sé la pienezza senza trascendenza, che oltre il tempo presente con la sua visione unidirezionale non vi è nulla. Il capitale nella sua fase apicale ha divorato anche il nulla, non ammette antitesi di nessun genere, si presenta come l’essere univoco parmenideo, deve eliminare ogni orizzonte temporale per erigere prigioni globali. Montale ci rammenta che la storia non è prevedibile, è attività creatrice, ha improvvise deviazioni, nessuno la possiede, ma appartiene a tutti, e dunque con l’aiuto delle circostanze l’impossibile può diventare reale. La storia ideale costruisce eroi ed ipostasi quali artefici della storia, ma la verità è che la storia è il frutto di una pluralità di soggetti che muoiono anonimi, eppure partecipano vivamente al suo procedere, sono il sale della vita che crea nuove possibilità. La loro gioia è nella partecipazione silenziosa che non verrà segnalata da nessuno storico. Ciò malgrado, dietro i rumori dei grandi vi è la storia dei piccoli, dei resistenti, che con la loro piccola vita possono deviare il corso fatale della stessa. Coloro che vogliono ridurre la storia ad un teorema con definizioni e corollari predeterminati hanno già perso, perché si pongono fuori del cammino della storia vivente:

 

La storia non si snoda
come una catena
di anelli ininterrotta.
In ogni caso
molti anelli non tengono.
La storia non contiene
il prima e il dopo,
nulla che in lei borbotti
a lento fuoco.
La storia non è prodotta
da chi la pensa e neppure
da chi l’ignora. La storia
non si fa strada, si ostina,
detesta il poco a poco, non procede
né recede, si sposta di binario
e la sua direzione
non è nell’orario.

 

Piani di passaggio
La storia ci sembra, ora, in questi decenni omogenea: un piano liscio su cui scorrono merci e chiacchiere. L’impero del valore di scambio sembra non lasciare scampo, assimila ogni differenza, espelle dal suo grembo maligno ogni alterità. L’omogeneità si ripiega su se stessa, non lascia varchi, brecce da cui ri-dialetizzare il presente. Montale ci invoca a guardare fortemente la storia e a cogliere sul piano liscio improvvise “buche” che consentono il passaggio verso nuovi mondi. Il piano grigio e compatto della globalizzazione, apparentemente invincibile, è puntellato di resistenti che non si lasciano divorare dalla chiacchera, ma conservano la loro umanità, la loro razionalità critica che trasforma il presente in attività divergente. La storia non è conclusa, il potere vive l’illusione del controllo totale, si bea della sua tracotanza, ma la vita con le sue buche gli sfugge. Le buche possono trasformarsi in voragini tali da deviare il corso degli eventi, da mutare la geografia dei significati che il potere vorrebbe eternizzare:

 

La storia non è poi
la devastante ruspa che si dice.
Lascia sottopassaggi, cripte, buche
e nascondigli.

 

 

Fuori dalle reti
Per poter comprendere la storia, se mai questo sia possibile, dobbiamo guardare fuori la rete che ci rassicura, distribuisce i ruoli, tira una linea tra vincitori e vinti. La storia vera e viva è fuori della rete. Solo chi è fuori della rete può comprendere la verità della storia. Chi è tagliato fuori dalla storia, svela le illusioni di coloro che sono nella rete, chi sfugge alla rete per volontà o per un caso trova un varco, è l’attore di un nuovo inizio. Gli infelici che sono “fuori” non sono da compiangere, perché in loro riposa la possibilità di un nuovo percorso, perché dal loro “fuori” vedono la verità della rete con i suoi disincanti. Il loro sguardo penetra nella notte oscura per incontrare l’inizio di un nuovo giorno, la tragedia si sposa con la speranza:

 

C’è chi sopravvive.
La storia è anche benevola: distrugge
quanto più può: se esagerasse, certo
sarebbe meglio, ma la storia è a corto
di notizie, non compie tutte le sue vendette.
La storia gratta il fondo
come una rete a strascico
con qualche strappo e più di un pesce sfugge.
Qualche volta s’incontra l’ectoplasma
d’uno scampato e non sembra particolarmente felice.
Ignora di essere fuori, nessuno glie n’ha parlato.
Gli altri, nel sacco, si credono
più liberi di lui.

 

Non dobbiamo temere di essere degli invisibili, dei pesci piccoli che nuotano alla periferia della rete, coloro che non sono nella rete non appaiono, ma sono la sostanza del mondo, e la storia vive delle loro inconfessabili libertà. La teoria del caos (James Yorks) ci insegna che un battito d’ali può causare effetti che non possiamo prevedere. Dobbiamo continuare a battere le nostre ali. I nostri pensieri, il nostro impegno sono le ali della storia. La storia viva è indecifrabile, insondabile e non si ripete mai in modo eguale, pertanto anche nella disperazione può fiorire la speranza, perché la storia è molto più di ciò che appare, leggiamo e viviamo. La storia incombe, se ci arrestiamo davanti alla sua grandezza, ma se entriamo in essa e ci doniamo senza la presunzione del risultato tutto può ancora essere ed esserci. Non dobbiamo allevare barbari dal calcolo facile e dal cuore lento, ma guerrieri gentili dalle cui parole può rifiorire un mondo.

Salvatore Bravo

 

[1] Eugenio Montale, La Storia, in Satura, Mondadori, Milano 1971).

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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