1° Maggio ricordando Antonio Gramsci che moriva 83 anni fa e con il pensiero per i manifestanti uccisi a Chicago il 1° maggio 1886, e gli innocenti operai impiccati dalla “giustizia” USA.

Primo Maggio 2020

Il 1º maggio 1886, in piazza Haymarket, a Chicago, Illinois, si tenne un raduno di lavoratori ed attivisti anarchici a sostegno delle lotte di lavoratori in sciopero. Uno sconosciuto lanciò una bomba su un gruppo di agenti di polizia, uccidendone uno istantaneamente.  La polizia inizio a sparare ad altezza d’uomo: furono uccisi altri sette agenti da fuoco amico ed altri civili. Nel processo successivo venne emessa una condanna a morte per impiccagione di otto lavoratori anarchici di oginine tedesca (August Spies, Albert Parsons, Adolph Fischer, George Engel, Louis Lingg, Michael Schwab, Samuel Fielden e Oscar Neebe), che in seguito vennero riconosciuti innocenti. Nell’immagine la copertina di un numero di «Corrispondenza Internazionale» del 1978 , con l’illustrazione d’epoca dell’impiccagione di quattro di essi (11 novembre 1887: Spies, Parsons, Fischer ed Engel ). August Spies, prima di essere ucciso, pronunciò la celebre frase “Verrà il giorno in cui il nostro silenzio sarà più forte delle voci che strangolate oggi“. 


La memoria del Primo Maggio. Storia iconografica della festa dei lavoratori. Gli inizi del radicamento, Marsilio, 1988

Questo sardo, gobbo, e’ intelligente.
Troppo.
E per questo dobbiamo fare in modo
che questo cervello smetta di funzionare

Benito Mussolini

Ottantatré anni fa moriva Antonio Gramsci.
Vogliamo “pensare” questo «Primo Maggio», con i pensieri di Antonio Gramsci.

Petite Plaisance

 

Cultura non è possedere un magazzino ben fornito di notizie, ma è la capacità che la nostra mente ha di comprendere la vita, il posto che vi teniamo, i nostri rapporti con gli altri uomini. Ha cultura chi ha coscienza di sé e del tutto, chi sente la relazione con tutti gli altri esseri.

Non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens. Ogni uomo infine, all’infuori della sua professione esplica una qualche attività intellettuale, è cioè un “filosofo”, un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea di condotta morale, quindi contribuisce a sostenere o a modificare una concezione del mondo, cioè a suscitare nuovi modi di pensare.

Gli intellettuali sono i ‘commessi’ del gruppo dominante per l’esercizio delle funzioni subalterne dell’egemonia sociale e del governo politico.

Lo studentucolo che sa un po’ di latino e di storia, l’avvocatuzzo che è riuscito a strappare uno straccetto di laurea alla svogliatezza e al lasciar passare dei professori crederanno di essere diversi e superiori anche al miglior operaio.

Odio gli indifferenti. […] Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. […] Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo? […] Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.

Il tempo è la cosa più importante: esso è un semplice pseudonimo della vita stessa (lettera a Tania, 2 luglio 1933).

La bontà disarmata, incauta, inesperta e senza accorgimento non è neppure bontà, è ingenuità stolta e provoca solo disastri.

Sono pessimista con l’intelligenza, ma ottimista per la volontà. (19 dicembre 1929)

Antonio Gramsci

Antonio Gramsci (1891-1937) – Odio gli indifferenti. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa. Vivere vuol dire essere partigiani. L’indifferenza non è vita.
Antonio Gramsci (1891-1937) – Cultura è capacità di comprendere la vita. Ha cultura chi ha la coscienza di sé e del tutto, chi sente la relazione con tutti gli altri esseri.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Max Picard (1888-1965) – L’uomo contemporaneo accosta tutte le cose in un arruffio incoerente e questo dimostra che anche la sua interiorità è un coacervo privo di qualsiasi connessione.

Max Picard 02
Hitler in noi stessi. Distruzione della verità . Ordine nuovo – propedeutica nazista – possibilità di salvezza

«L’uomo contemporaneo accosta tutte le cose in un arruffio incoerente e questo dimostra che anche la sua interiorità è un coacervo privo di qualsiasi connessione. L’uomo contemporaneo non si trova più di fronte alla stabile datità delle cose e le cose non gli vengono più incontro una ad una, né egli stesso s’avvicina alla singola cosa compiendo un atto particolare: verso l’uomo contemporaneo, la cui interiorità è un coacervo incoerente, si muove oggi un sconclusionato arruffio esterno. Non si presta neppure più attenzione a cosa ci viene incontro, poiché si è soddisfatti purché qualcosa venga ed è proprio in una siffatta confusione che qualsiasi cosa e chiunque può immischiarsi».

Max Picard, Hitler in noi stessi, Pgreco, Roma 2016, p. 14.


Max Picard (1888-1965) – Il silenzio emerge dal frastuono del mondo attuale perché sta al di fuori della dimensione dell’utile. La parola non avrebbe profondità, se le mancasse lo sfondo del silenzio. La parola sorge dal silenzio.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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«La preghiera del partigiano» – I partigiani furono mossi dall’anelito per la giustizia, animati da un progetto politico e da speranza comunitaria. La speranza si radica nella storia, ed è la conoscenza veritativa il fondamento da cui ricominciare

Preghiera del Partigiasno copia
Vasilij Kandinskij, Destino (Muro rosso), 1909. The Astrakhan State Art Gallery n.a. P.M. Dogadina

Preghiera del partigiano 

Là sulle cime nevose
una croce sta piantà.
Non vi sono né fiori né rose
è la tomba d’un soldà.
D’un partigian che il nemico uccise,
d’un partigian che tra il fuoco morì;
a mamma tua lontana
ti piange sconsolata
mentre una campana
in ciel prega per te.
E noi ti ricordiamo,
o partigiano che guardi di lassù,
mentre scendiamo al piano
ti salutiamo, caro compagno.

Non pianga più la mamma
il figlio suo perduto sull’Alpe sconosciuto
un altro, eroe sta là.
Vi vedo e penso ancora nell’ora dei tramonti
al sorger dell’aurora montagne del mio cuor.
Questo dolce ricordo
mi fa sognare, mi fa cantare
tutta la melodia
che riempie il cuor di nostalgia.
Vi vedo e penso ancora nell’ora dei tramonti
al sorger dell’aurora montagne del mio cuor.


Salvatore Bravo

La preghiera del partigiano

La preghiera del partigiano è un canto della resistenza. L’autore non ha un nome: l’esperienza partigiana è stata un’esperienza di prassi comunitaria. Nulla si teme maggiormente nei nostri anni che la prassi politica e storica, per cui l’esperienza partigiana è stata ridimensionata a presenza liturgica svuotata di ogni valenza rivoluzionaria. Si susseguono gli appelli a cantare “Bella ciao”, ad inneggiare sui balconi alla Liberazione in una triste festa confinata all’urlo di circostanza in un microspazio, che denota la restrizione delle nostre libertà. L’urlo liberatorio in un momento di grande incertezza serve a dare l’ennesima illusione, ovvero quella di essere protagonisti della storia. Il velo dell’ignoranza scende con le sue illusioni, permette di non vedere che il 25 Aprile 1945 è uno dei tanti furti a cui la comunità è sottoposta. La festa della Liberazione dovrebbe essere la festa con cui si festeggia e si rende vivo il ricordo del progetto costituzionale.
La Costituzione affonda il suo senso nell’esperienza della dittatura e nell’esperienza partigiana. La dittatura aveva offeso la volontà di ciascuno, le volontà erano coartate ed oggetto di perenne di violenza, i partigiani mostrarono che non vi è comunità, se non nel rispetto nelle volontà di ciascuno. Ci furono errori, certamente, ma devono essere letti all’interno della cornice storica del momento. Il loro agire dimostrò che la volontà non può essere nullificata, che la volontà senza giustizia non è che una vuota forma di volontarismo fine a se stesso.
I partigiani furono mossi dall’anelito per la giustizia. La volontà della giustizia implica il “no” al potere, la capacità di distanziarsi rispetto alla coercizione del potere per poterlo sovvertire. La parola giustizia sociale, oggi, è temuta, mentre imperversano gli effetti dei tagli alla sanità, dopo decenni di partecipazione ai “bombardamenti etici” della NATO e con la distribuzione delle ricchezze sempre più ineguale. Al posto della parola giustizia, “essenza dell’esperienza partigiana”, oggi ci si propone di ricordare la data fondativa della Repubblica con la spettacolarizzazione della festa: sui balconi si canta e si balla come se si fosse su un piccolo palcoscenico, i video virali impazzano, così il messaggio cade svilito tra il narcisismo e l’incoscienza collettiva. Negli ultimi anni si è ipotizzato anche, non poche volte, di festeggiare il 18 Aprile 1948 data in cui il fronte popolare fu sconfitto, piuttosto che il 25 Aprile 1945. Si teme l’esperienza partigiana, poiché ci ricorda quanto i padri fondatori siano stati traditi e dimenticati.

Festa della giustizia che non c’è
Si dovrebbe, in questa data, rileggere la Costituzione nella quale la giustizia, in nome della quale si è combattuto, ha trovato forma giuridica ed etica. La giustizia partigiana ha favorito processi di concretizzazione dei diritti sociali: non vi è giustizia senza diritti sociali. Al posto di essi prevalgono i processi di privatizzazione, di individualismo, si esaltano i soli diritti individuali scissi dai diritti sociali tradendo la lotta partigiana. La stessa rete è privatizzata, per cui la conoscenza non è per tutti, ma solo per alcuni. Di tutto questo si tace, si riempie il vuoto con canti e balli che servono a “tenere buoni” su un balcone una popolazione che subisce provvedimenti con il parlamento esautorato dalle sue funzioni. Intanto si canta e si balla e non si comprende cosa ci stanno portando via: la nostra storia e con essa la nostra identità. Il regime fascista, nella sua morte, rivelò la sua verità: era un regime violento e dunque la sua fine fu violentissima, ma i partigiani seppero pensare “quella morte” e la trasformarono in progetto politico e in speranza comunitaria. Vissero un processo dialettico di rinascita con cui ridiedero dignità ad un popolo umiliato ed offeso, anche se a volte complice. Di tutto questo sembra non esserci più traccia, al suo posto vi è solo una breve gioia da consumarsi esibendosi sul balcone tra gli sguardi dei passanti e le riprese degli smartphone.

La cultura partigiana che non c’è
Sorge un ulteriore dubbio: cosa conoscono i nostri giovani dei partigiani? Poco o nulla. I tagli alla scuola, la storia ridotta ad una presenza curriculare senza spessore e la scuola che quest’anno non c’è, fanno in modo che ne abbiano un’idea vaga e fuorviante, pertanto festeggiano ciò che non conoscono. Si permette di festeggiare ciò che non si conosce, in quanto non crea nessun concetto, non c’è pericolo che l’esperienza partigiana si trasformi in attività politica, per cui li si lascia festeggiare … sono innocui, e domani non sarà un altro giorno.
A tutto questo è necessario non reagire, ma agire, ed ancora una volta è la conoscenza il fondamento da cui ricominciare. Coloro che vivono la conoscenza come missione con cui umanizzarsi ed umanizzare devono far sentire la loro resistenza civile non abbandonando le nuove generazioni allo squallore di una gioia belante.
La speranza si radica nella storia, pertanto si tratta di conoscere e cogliere che i partigiani non hanno lottato solo per se stessi, ma per la comunità intera. Le loro storie ci raccontano di vicende umane, in una situazione storica eccezionale, capace di comprendere la giustizia ed il suo valore. Senza giustizia non vi è comunità, ma solo la giustapposizione violenta di individui espressione della politica che non c’è anche in questa giornata.

Salvatore Bravo

 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Anna Bravo (1938-2019) – Non dobbiamo smembrare e sminuzzare l’interezza dell’esperienza partigiana. Le donne erano contemporaneamente partigiane in armi o gappiste e membri di gruppi di difesa delle donne. Domina l’immagine di nonviolenza come assenza di conflitto, ma non è così, poiché la nonviolenza riconosce che vi è in atto un conflitto terribile.

Anna Bravo

Intervento di

Anna Bravo

Storica, Università di Torino

Movimenti di liberazione e riduzione del danno

(Cerimonia di consegna del Premio “Diana Sabbi”, Provincia di Bologna, Bologna, 12 maggio 2006)

Grazie per questo invito che per me è un onore ed una gioia. Ovviamente non solo per me, perché è come se ci fosse un filo di continuità, tra la grande donna che ha fatto così tante cose nella sua vita, e alcune rappresentanti delle nostre istituzioni elettive, storiche, ricercatrici giovani, filo che lascia pensare ad una tradizione che corre attraverso persone diverse. Una tradizione in cui sono benvenuti gli uomini, quelli che sono interessati a questo tema e portano un contributo nuovo.
Ho pensato di presentare alcune riflessioni su un concetto a me molto caro in questo periodo: quello della riduzione del danno. Negli anni c’è stata una campagna mediatica e di molti libri completamente centrata sull’aspetto cruento della resistenza (non credo assolutamente che bisogna sacralizzare la resistenza) che ha favorito un’immagine non rispondente al vero. Parlerò di riduzione del danno non per contrapporre dei pro a dei contro, per fare la conta del bene e del male che c’è stato (non penso sia un tema interessante), tratterò invece questo concetto, perché, insisterere tanto sull’aspetto cruento della resistenza ha causato un effetto deleterio: quello di smembrare, di sminuzzare l’interezza dell’esperienza partigiana. Il secondo pericolo che vedo è che si crei un solco tra resistenza armata e resistenza non armata: due fenomeni diversi ma con punti in comune importanti da rintracciare per evitare contrapposizioni inutili che non fanno procedere nella ricerca storica. Quindi si tratta di prendere lo spunto da una campagna mediatica ‘brutta’ per capire se ci sono delle cose da ricavare per andare avanti.
Vorrei, preliminarmente dire due cose: primo, quando si parla di riduzione del danno, non si parla del cosiddetto male minore che significa contemplare una situazione e scegliere il male meno grave. Parlare di riduzione del danno, in particolare in una situazione di guerra, significa, invece, agire perché un danno diventi più piccolo, si tratta di una posizione molto attiva e forte in cui le donne sono state particolarmente protagoniste. Secondo, il concetto di riduzione del danno non appartiene solo ai movimenti di resistenza; nella corrente giuridica del pacifismo, che nasce già nella seconda metà dell’800, vi è un grande lavoro di riduzione del danno affidata ad accordi bilaterali, a trattati internazionali che fissano divieti ed obblighi sia per i prigionieri di guerra sia per i civili (la massima esponente di questa corrente pacifista è una donna che si chiamava Berte von Suttner, che ha avuto il premio Nobel nel 1905), vi è il tentativo di creare una struttura giuridica che ponga dei limiti oltre i quali erano previste ritorsioni più gravi. (Purtroppo tutto questo è sempre accaduto solo dopo una guerra, basti pensare alla dichiarazione dei diritti dell’uomo).
L’aspetto interessante delle pratiche di riduzione del danno nella resistenza, intesa nel suo senso più ampio, è che avvengono dentro la guerra, in piena guerra. Parlerò della resistenza in Italia per squarci, poiché il tempo è poco. Comunque, lo sforzo di ridurre il danno è un punto tipico, per certi versi ovvio. Il partigiano combatte nel suo territorio, a che fare con i suoi connazionali, concittadini, compaesani, è interessato a proteggere il paese pertanto è quanto mai scontata questa caratteristica dell’azione. Ma il movimento partigiano, il movimento armato, ha anche una priorità, quella di contribuire alla sconfitta di fascisti e tedeschi. Far saltare un treno mette in difficoltà il nemico, ma c’e la consapevolezza che tale ponte nel dopoguerra non ci sarà più. Qui emerge l’aspetto drammatico che il partigiano in armi spesso vive.
Vi è un’insieme di ricerche italiane molto belle, parlo di Pezzino, Contini, Portelli, Paggi, che hanno analizzato tale dilemma nelle conseguenze della memoria di cittadini vittime di stragi naziste, registrando contraddizioni, come è normale che sia. Il partigiano, perciò, si trova di fronte questo dilemma, che non si può risolvere in modo indolore, mentre la resistenza disarmata, civile, ha come sua priorità quella di diminuire al massimo il dominio e lo sfruttamento che il nazismo esercita sulle popolazioni occupate. Ossia, limitare la razzia di beni, di persone, le deportazioni degli ebrei e quelle politiche. La resistenza civile si muove molto all’interno di questa logica attiva di diminuzione del danno.
Pensando alla contrapposizione che poteva nascere dalla campagna mediatica in cui da un lato c’è la resistenza armata uguale sangue e violenza, la resistenza civile uguale salvezza ed angelismo, il concetto di riduzione del danno è interessante, poiché presenta punti di contatto tra questi due settori della resistenza, che noi donne non abbiamo mai contrapposto l’uno all’altro, ma che spesso sono stati tenuti divisi. Durante le pratiche armate c’era infatti la possibilità di ridurre il danno.

Nelia Benissone
Anna Maria Bruzzone
Rachele Farina

Partirò portando l’esempio di alcune donne che erano contemporaneamente partigiane in armi o gappiste e membri di gruppi di difesa delle donne che come noto sono l’organizzazione più attenta a salvaguardare la comunità, la sua sopravvivenza ed i suoi valori. (Un esempio vicino a noi, dall’altra parte dell’Italia, è quello dei gruppi di Carrara, che riescono a bloccare gli sfollamenti forzati vanificando il piano tedesco di ritirarsi attraverso territori sgombri. Essi impediscono questa manovra e la distruzione completa della città di Carrara). Una donna che lavora nei due settori è Nelia Benissone, una delle partigiane intervistate da Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina per La resistenza taciuta.
Nelia aveva come specializzazione il sequestro di fascisti e tedeschi da scambiare con partigiani o con ostaggi, una classica azione che si fa con le armi, prendendo una persona per strada e portandola ai comandi per dare avvio alla trattativa. Nello stesso tempo era molto impegnata nel soccorso rosso, nei gruppi di difesa della donna, contribuiva a creare ambulatori per i giorni della liberazione, essendo così, parte di una cosa e dell’altra. Sentendola raccontare dopo tanti anni, non si capisce la cosa che più le dava soddisfazione, gioia di sé, l’unica cosa che si comprende è che le mancava la politica, perché i casi della vita hanno fatto sì che lei non potesse più avere un impegno politico. Comunque, come si è potuto vedere, anche il partigiano in armi, in questo caso la partigiana, può muoversi nell’ottica della diminuzione del danno, insieme ad altre donne, determinando un punto di convergenza.

Un secondo terreno, che stranamente non è emerso durante la polemica di due o tre anni fa intorno al libro di Pansa, è costituito dalle pratiche armate che nascono proprio per ridurre il danno. Uno degli aspetti meno citati è il fatto che, se l’Italia nel dopoguerra ha avuto danni limitati all’apparato industriale, è perché i partigiani hanno difeso le fabbriche. Militarmente, con le armi in pugno, hanno salvaguardato gli impianti industriali. Infatti, gli indici di distruzione sono più alti per quanto concerne l’agricoltura rispetto all’industria, proprio per questa azione difensiva dei partigiani. Nelle campagne vi era l’abitudine dei fascisti di bandire gli ammassi e di requisire gli animali, mucche, cavalli ecc. I partigiani spesso arrivavano disturbando e facendo fallire la requisizione, sapendo bene che requisire una mucca, significava togliere ad una famiglia il modo di tirare avanti ancora per un anno di guerra o di quanto sarebbe stato. Tali sono casi di grande interesse, ma poco valorizzati.
Un altro caso in cui bisognerebbe far partire delle ricerche è il problema delle tregue, visto finora in maniera molto limitativa. Spesso le tregue venivano fatte per motivi politici, per isolare una certa parte politica rispetto ad altre, ma in alcuni casi, come nel biellese, sono state fatte per dare un po’ di respiro alle popolazioni, per consentire di fare uscire dalle valli i tessuti e far entrare denaro per la sopravvivenza. In tal caso, concordare una tregua è proprio un atto di riduzione del danno, abbandonando l’idea di bellicosità come valore da perseguire sempre e comunque, vuol dire aver capito quando è più importante che si possano esportare tessuti e dar da mangiare alle persone piuttosto di fare uno scontro a fuoco.
Sempre nel biellese, nella primavera del ’45, viene firmato un contratto molto avanzato nell’industria tessile, con ridistribuzione del potere e ridistribuzione economica. Esso è stato “incoraggiato” dai partigiani dimostrando un altro modo di intervenire nella società civile: essi mostrano le armi ma non le utilizzano.
E’ possibile così individuare il valore di riduzione del danno connaturato a certe pratiche armate. Infine l’aspetto, di cui si è discusso poco, ossia la riparazione del danno sul piano simbolico. E’ vero che c’e stato un dibattito molto forte intorno all’idea di morte della patria (penso da un lato a Ernesto Galli della Loggia e Elena Aga Rossi, dall’altro a Claudio Pavone, Vittorio Foa e molti altri). Alcuni sostengono che l’8 settembre con il disfacimento dell’esercito vi è la fine della patria, altri come Vittorio Foa pensano, diversamente, alla rinascita della patria perché quella che muore è la patria fascista. Si tratta di due posizioni inconciliabili se viste a livello dei vertici, come questione di apparati, crollo dell’esercito e degli alti comandi, disfacimento degli uffici ecc. In ogni caso, pensando ad alcune ricerche che ho fatto tanti anni fa, mi rendo conto che il concetto di morte della patria non colpisce solo i fascisti, i monarchici o chi pensa che la sfera pubblica delle istituzioni debba mantenere il suo potere, per essere rispettabile e rispettata. Ci sono anche borghesi ‘piccoli-piccoli’ che non sono particolarmente legati a queste tesi, ma che si sentono, in qualche modo, vicini al destino dell’esercito e delle istituzioni e che, trovandosi occupati, vivono l’umiliazione di un popolo che non osa agire perché occupato e sfruttato dai nazisti.
E’ chiaro che il riscatto dall’occupazione fascista e dalla sua primogenitura, nonché la riduzione del danno, sono rappresentati dalla resistenza, come movimento. Guardando la storia ad un livello micrologico, si vede l’esistenza del disagio, della sofferenza, dello smarrimento, in persone che non sono legate ad ideali militaristi, patriottici o monarchici. E si vedono situazioni in cui le armi possono funzionare come riscatto sul piano simbolico. Avevo un amico, un giovane operaio di famiglia contadina, Giovanni Rocca, nome di battaglia Primo, che aveva combattuto con i partigiani in Jugoslavia e poi era tornato al suo paese nel Monferrato. Era molto combattivo e in poco tempo aveva tirato su un gruppo di amici e fatto molti colpi rifornendosi ampiamente di armi nemiche. Nel giro di poco più di un anno era diventato capo di una divisione garibaldina grande e combattiva. La sua inclinazione “anarcoide”, “ribellistica” aveva causato in parte screzi con la dirigenza garibaldina composta da persone molto più adulte e con una storia molto diversa.
Prima ancora di conoscere questa persona, di diventare sua amica, ho sentito parlarne proprio da questi borghesi ‘piccoli piccoli’ che ho nominato. Come sapete le trattative tra partigiani e tedeschi esistevano per lo scambio di ostaggi di prigionieri, trattative per stabilire una tregua momentanea, per non fare rappresaglie in un certo paese. Nel momento della trattativa ad un lato del fiume vi erano gli ufficiali e dall’altro questo mio amico (vestito in maniera spettacolare: con i pantaloni corti, gli stivali, un berretto con una enorme stella rossa, giubbotto di pelle e carico dalla testa ai piedi di armi tedesche) che pianissimo senza scorta attraversava questo ponte. Questi borghesi piccoli piccoli avevano paura della durezza leggendaria di questo comandante partigiano, paura dei grandi rivolgimenti che la resistenza prometteva all’Italia.
Avrebbero forse preferito restare come erano, ma vivendo quella situazione di umiliazione, di non osare di ribellarsi, di sentirsi nessuno, come si sente chi è occupato, si identificavano moltissimo con questo ragazzo, utilizzando la frase “andava a trattare da pari a pari”. Tale può definirsi una forma di riduzione del danno simbolico, attuata paradossalmente, attraverso l’ostensione di un corpo maschile ricoperto completamente di armi. Si tratta di una forma di riduzione del danno molto vicina ad una cosa che forse può sembrare il suo contrario.

Parlando dei gruppi di difesa della donna ho dimenticato di dire una cosa molto importante. Essi cercavano di dare sepoltura ai morti partigiani. (Qualcuno ricorderà le ragazze dei gruppi che nei funerali portavano un garofano rosso e alle quali i fascisti giravano intorno) ed alle vittime dei tedeschi anche non partigiani. Il tentativo era di rendere giusto onore alle vittime e di sanare quella ferita enorme che prova una comunità quando i morti non vengono sepolti. Le esequie rappresentavano un’alta strategia politica simbolica che paradossalmente rientrava nello stesso piano di ricostituzione della fiducia in sé, del senso dell’onore che aveva questo mio caro amico.
Partendo dal fastidio di vedere questa campagna che ha smembrato l’interezza di un’esperienza molto complicata, in cui nessuno ha parlato del fatto che si stabilivano tregue che consentivano alla gente di sopravvivere, di questi funerali ancora molto vivi nella memoria delle persone anziane, credo, per concludere, che gli storici uomini, per lo meno alcuni, sono stati troppo legati a quest’immagine della lotta armata come sola vera forma di lotta antifascista, mentre è acclarato che ci sono forme di lotta altrettanto importanti come ad esempio la protezione degli ebrei che significa sottrarre prede ad Hitler, fatti che hanno lo stesso valore. Nel dibattito di due-tre anni fa, non sono venuti fuori questi temi, impoverendolo molto, ma aprendo per alcuni un altro punto di vista, con uno sguardo di riflessione di genere maschile e femminile, libero da questo primato delle armi e dalla falsa idea che non usarle costituisca un atto di codardia, di rinuncia al conflitto.
Chiudo dicendo che sono di fede atea e nonviolenta. In giro domina l’immagine di nonviolenza come assenza di conflitto, ma non è così, poiché la nonviolenza riconosce che vi è in atto un conflitto terribile e cerca di gestirlo riducendo al massimo il danno, quindi è la forma più alta a cui noi possiamo rifarci e che esisteva già nella resistenza.

Anna Bravo


“Ma, insomma, se sapessero solo cos’han fatto le donne!”. A vibrare così è la voce di una delle dodici partigiane piemontesi le cui testimonianze sono state trascritte e raccolte qui da Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina. Erano gli anni settanta del secolo scorso e, nonostante fossero passati decenni dalla fine della guerra, ancora “non si sapeva”. O meglio, il prevalente “manierismo resistenziale” conveniva, nell’ufficialità degli anniversari, sul “prezioso” contributo delle donne alla lotta di Liberazione, ma non si spingeva ad accreditarne l’indispensabilità. Concentrata sulle vicende politico-militari, la storiografia continuava a ignorare una parte essenziale dell’accaduto. Grazie al libro di Bruzzone e Farina, oggi riproposto in una nuova edizione, la soggettività femminile ha invece preso la parola, determinando una svolta nella percezione collettiva della Resistenza. Si è abbandonata la logica subalterna del puro affiancamento – supporto logistico, ruoli di staffette, vivandiere, infermiere, infine custodi memoriali delle imprese maschili – per restituire piena dignità di azione, lungimiranza, caratura morale e civile a chi aveva esposto la propria giovinezza a ogni rischio, quanto e talora più dei compagni in armi, e nel dopoguerra non aveva preteso medaglie o riconoscimenti. La Resistenza troppo a lungo taciuta di queste donne, in gran parte di origini proletarie, è stata risarcita solo dal loro tardivo racconto.


Le pubblicazioni di Anna Bravo

La Repubblica partigiana dell’Alto Monferrato, Torino, 1964
Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, 1991 (curatela)
In guerra senza armi, Laterza, 1995 (con Anna Maria Bruzzone)
Donne del ‘900, Liberal, 1999 (con Lucetta Scaraffia)
Storia sociale delle donne, Laterza, 2001 (con Lucetta Scaraffia)
Il fotoromanzo, Il Mulino, 2003
I Nuovi fili della memoria. Uomini e donne nella storia, Laterza, 2003 (manuale per le scuole superiori,
La vita offesa, FrancoAngeli, 2004
Sopravvissuti, Alinari, 2004 (con Liliana Picciotto Fargion)
Comune di donna. Sindache in provincia di Bologna, Clueb, 2004
La prima volta che ho votato, Scritture, 2006 (con Caterina Caravaggi e Teresa Mattei)
A colpi di cuore. Il Sessantotto, Laterza, 2008
Intervista a Primo Levi, ex deportato, Einaudi, 2011 (curatela, con Federico Cereja)
La conta dei salvati, Laterza, 2013
Raccontare per la storia, Einaudi, 2014


Emanuela Minucci, Addio ad Anna Bravo, studiosa delle donne e dei movimenti politici del novecento, in La Stampa, 8 dicembre 2019.

Federico Cravero, Addio ad Anna Bravo, una vita dalla parte delle donne, in Repubblica, 8 dicembre 2019.

Alberto Leiss, Anna Bravo, storica, su donneierioggiedomani.it


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Tra guerra e paura. La lotta all’epidemia è descritta nella forma di una guerra capillare e pervasiva che irrora la comunità, fino a trasformarla in un luogo chiuso in cui regna la paura dell’altro. Nella guerra la prima vittima è la verità, scriveva Eschilo.

Covid 19 e guerra
Salvatore Bravo

Tra guerra e paura

 

La lotta all’epidemia è descritta nella forma di una guerra capillare e pervasiva che irrora la comunità,
fino a trasformarla in un luogo chiuso in cui regna la paura dell’altro

Il proliferare della parola guerra è un ottimo espediente per occultare le responsabilità.

«Nella guerra la prima vittima è la verità», scriveva Eschilo.

Il Covid-19 non è solo un problema epidemiologico, anzi, lo stato di eccezione in cui siamo sta rivelando “le verità nascoste” del sistema, attraverso i provvedimenti attuati per inibirne la diffusione.
In questi mesi serpeggia un nuovo linguaggio che si catalizza intorno alla parola “guerra”. La parola “guerra” stride con il periodo pasquale, la pasqua con i suoi significati simbolici e teologici sfuma tra le chiuse chiese e l’aggressività verbale in nome della difesa della salute. Contro il nemico sull’uscio di casa. La lotta all’epidemia è descritta nella forma di una guerra capillare e pervasiva che irrora la comunità, fino a trasformarla in un luogo chiuso in cui regna la paura dell’altro: l’infezione ha il viso del vicino, il pericolo è incarnato nella comunità vivente veicolo del retrovirus.
La guerra reca con sé la paura specie se il nemico è invisibile, impalpabile: è ovunque, ma resta invisibile, indeterminato, può essere in chiunque. La paura non paralizza solo gli spostamenti e le relazioni, ma specialmente rafforza il desiderio di dirigismo ed autoritarismo, mediante i quali difendersi dall’aggressore. Si cavalca la guerra e la paura nel circo mediatico. Scorre nella rete la parola guerra, si compara la situazione attuale a contesti altri, ci si spinge a paragonare la guerra al retrovirus alle vicende della seconda guerra mondiale. La forzatura è assolutamente palese, ma ha l’effetto di provocare la chiamata alle armi contro i trasgressori, e specialmente di giustificare la paralisi della democrazia, e l’assenso ai nuovi padroni: i virologi.

Democrazia senza politica
La politica tace e cede il passo agli esperti che progettano la guerra. I finanzieri hanno ceduto il posto agli scienziati, nel silenzio della politica, per cui le loro dichiarazioni sono il nuovo oracolo verso cui si tende l’orecchio oranti, sono i generali di una popolazione impaurita che ha perso il controllo sulla propria vita. I virologi giudicati come esponenti dell’oggettività della scienza sono i nuovi punti di riferimento, le loro parole sono indiscutibili. La politica fa un passo indietro per non perdere consensi e delega ai virologi l’agenda da dettare. La politica arretra sempre, prima dinanzi ai finanzieri, ora davanti ai virologi, e dunque è evidente il grande vuoto dell’Occidente.
L’Occidente non pratica la politica, perché ha smesso di essere comunità. Comunità e politica sono un binomio inscindibile come insegna Platone col mito di Prometeo nel Protagora. Naturalmente i virologi si limitano ad indicare provvedimenti tacendo le istituzioni di appartenenza ed i legami tra scienza, politica e finanza. La parola “guerra” che risuona violenta tra le sinapsi degli impauriti sudditi serve a celare l’intreccio per ostentare l’immagine di una realtà sociale progredita e scientifica.
Le domande possono tacere come l’opposizione, poiché la “guerra” esige il distanziamento spaziale e temporale. Dove si combatte una guerra ci sono soltanto soldati, tutti i cittadini sono in trincea. Ogni casa è una trincea, per cui si vive separati, ed in tal modo le parole cadono, le prime vittime della guerra sono le domande, le richieste di chiarimenti, il silenzio delle opposizioni. Domenico Arcuri commissario all’emergenza ha dichiarato il 18 Aprile che vige una guerra. In tempo di guerra il potere invita ad adeguarsi e ad effettuare “dichiarazioni” ragionevoli. Le uniche affermazioni ragionevoli sono le enunciazioni del governo:

«Tra l’11 giugno 1940 e il primo maggio 1945 – dice – a Milano sono morti sotto i bombardamenti della seconda guerra mondiale 2 mila civili, in 5 anni; in due mesi in Lombardia per il coronavirus sono morte 11.851 civili, 5 volte di più». Da qui la riflessione: non può esserci ripartenza senza la salute. «Dobbiamo agire con cautela e prudenza come in questi mesi. – dice Arcuri – È clamorosamente sbagliato comunicare un conflitto tra salute e ripresa economica. Senza salute, la ripresa durerebbe un battito di ciglia, bisogna tenere insieme questi due aspetti. Dobbiamo ripartire ma garantendo la salute e la sicurezza del numero massimo di cittadini possibile. Serve esperienza e intelligenza. Non abbiamo tempo per dibattiti».

«Non c’è tempo per dibattiti», in un normale paese democratico, tali parole sarebbero sufficienti per la caduta del governo. Dove non c’è dibattito non c’è democrazia. Ci si scandalizza del caso ungherese: V. Orban, il 30 marzo 2020, ha ricevuto dal parlamento potere speciali, ha istituzionalizzato apertis verbis la contrazione della democrazia. Il caso italiano è peggiore: i DPCM non sono oggetto di discussione, il parlamento è un bivacco vuoto, non si discute e non si dibatte, perché si è in guerra. La funzione dell’uso della parola guerra trova una prima ragione: si è in guerra, quindi niente discussioni. L’Europa tace ed interviene solo sui conti pubblici e sui tagli alle politiche sociali; sul deficit di democrazia tace svelando d’essere semplicemente l’Europa della finanza.

Guerra scientifica
Il 29 marzo, da Fazio, Prodi ribadiva è «come una guerra», sostenendo l’affermazione di Draghi. Anzi, nel paragone di Draghi, la lotta al Covid-19 è una «guerra scientificamente giusta». La guerra necessita di essere valutata secondo criteri scientifici in possesso da Draghi. L’uso truffaldino della parola scienza è fatto con maestria, la guerra è scientifica, per cui nessuno può contestare i provvedimenti e la loro esattezza. Draghi e Prodi si intendono di guerra, hanno depauperato il patrimonio pubblico a favore dei privati. Anche quella era una guerra, ma i morti e gli infelici effetti di quei provvedimenti erano rappresentati come “risanamento economico”:

Prodi: «Come la guerra, ha ragione Draghi» – Mentre la settimana che inizia segnerà un momento cruciale anche per gli aiuti europei. Sul tema, in serata, si è fatto sentire l’ex presidente della Commissione europea, Romano Prodi: «È come la guerra, il paragone di Draghi è scientificamente giusto. Non è la crisi del 2008 che parte dalla finanza e poi prende il resto dell’economia, prende tutti: i ristoratori e quelli che devono andare a mangiare». Esiste, ha spiegato l’ex premier a Che tempo che fa, «una diffusa idea che la solidarietà europea finisca per aiutare soprattutto gli altri, ma gli olandesi devono capire: se succede una grande crisi a chi vendono i loro tulipani?».

 

Verità e guerra
Il proliferare della parola guerra è un ottimo espediente per occultare le responsabilità, e far apparire le decine di migliaia di vittime come normali e naturali, perché se c’è la guerra ci sono vittime, e non ci si chiede se erano evitabili, e se i tagli alla sanità sono tra le cause dell’ecatombe: la guerra semplicemente ha le sue vittime, ed i suoi eroi sul campo (personale sanitario).
Ma è una strana guerra, poiché ci sono le vittime, gli eroi, i generali al comando, ma mancano i carnefici, o meglio è tutta colpa di un virus: non vi sono carnefici umani, è una fatalità naturale. In tal modo si educa ad affidarsi agli eroi ed ai generali. La popolazione inerme trova in loro il rifugio dai bombardamenti virali. Il circo mediatico con toni sempre più aggressivi incita a sanzionare i trasgressori, la rabbia è veicolata verso i nuovi untori: in tal modo i responsabili sono esenti da critiche e da processi. La paura inibisce il pensiero, cerca il responsabile immediato, e così si resta impigliati nello scorrere delle informazioni senza discernimento, senza poter ricostruire la genetica dei fatti. «Nella guerra la prima vittima è la verità», Eschilo sentenziava. La cultura classica attraversa i tempi e ci dona la bussola per capire il presente.

Normalità della guerra
La parola guerra ha l’effetto di formare le menti alla normalità dell’aggressione per risolvere i problemi a dispregio dell’articolo 11 della Costituzione:

“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.

La coerenza con l’articolo 11 vorrebbe che si insegnasse ad usare un linguaggio di pace e di concetti nelle contingenze difficili. Invece le argomentazioni sono sostituite dalle esortazioni alla guerra contro il nemico invisibile. La normalità della guerra di tutti contro tutti prima del Covid-19 era edulcorata dal sentimentalismo mediatico. Ora la maschera cade. In contingenze sfavorevoli si fa appello solo all’attività repressiva indorata da forme di orgoglio nazionali: inni sui balconi, esposizione di bandiere, appelli mediatici per mostrare di essere un grande paese.
La politica ha assunto la postura di Clinia nelle Leggi di Platone, ovvero la guerra è un valore, nei tempi di pace si educa alla guerra in modo che in caso di necessità il passaggio risulti lieve. La globalizzazione ha educato alla guerra ed alle sue parole, per cui la politica ed i suoi esperti che descrivono la guerra e la necessità del dirigismo autoritario non sorprendono nessuno, perché si è stati emotivamente preparati alla divisione ed alla solitudine dalla guerra perenne della globalizzazione:

«CLINIA: Credo, straniero, che a chiunque sia facile comprendere le nostre usanze. Come vedete, la natura di tutta la regione di Creta non è pianeggiante come quella dei Tessali, ed è per questo motivo che quelli si servono per lo più di cavalli, mentre noi corriamo a piedi: il nostro territorio infatti è irregolare, ed è più adatto alla pratica della corsa. In questa regione è necessario possedere armi leggere e correre senza portare con sé cose pesanti: la leggerezza degli archi e delle frecce sembra dunque essere adatta. Tutte queste cose ci preparano ad affrontare la guerra, e, mi sembra, tutto è stato ordinato dal legislatore in vista di questo obbiettivo: perché anche per i pasti in comune, forse li ha introdotti, vedendo che tutti, quando fanno una guerra, sono costretti dalla situazione stessa a mangiare insieme durante questo tempo per motivi di sicurezza. Del resto mi sembra che abbia voluto condannare la stoltezza della maggior parte di coloro i quali non capiscono che ogni stato si trova sempre in una guerra incessante contro un altro stato finché vive. Se allora in tempo di guerra bisogna mangiare insieme per ragioni di sicurezza, e comandanti e soldati devono essere addestrati per la guardia, questo dev’essere fatto anche in tempo di pace. Infatti, quella che la maggior parte degli uomini chiama pace, è soltanto un nome, perché di fatto ogni Stato è per natura sempre in guerra, anche se non dichiarata, contro un altro stato. Considerando la cosa da questo punto di vista, scoprirai che il legislatore di Creta stabili tutte le nostre consuetudini pubbliche e private in vista della guerra, e che per questa ragione ci comandò di osservarle, poiché pensava che nessun’altra ricchezza o possesso fosse utile, se non si vincesse in guerra, dato che tutti i beni dei vinti finiscono nelle mani dei vincitori». [1]

 

La democrazia ha bisogno di parole per capire: senza di esse non è che un corpo privo di vita. Il Covid-19 con le sue tragedie, se non innesca la dialettica della verità rischia di rendere vane il numero, innumerevole, di persone che non ci sono più, e specialmente è fondamentale comprendere quanto avviene per dare dignità ai morti ed a coloro che hanno vissuto il trauma del lutto.
La democrazia non vive di paure, ma di verità e dialettica. Le parole sono l’anima pensante di una nazione, se le parole che circolano sono solo parole di guerra, non vi sarà comunità democratica, ma solo il regno dell’aggressività che entra in ogni relazione e si insedia nei pensieri per curvali allo sguardo guerriero.

Salvatore Bravo

[1] Platone, Le Leggi, Ousia, Edizione Acrobat, a cura di Patrizio Sanasi, pag. 5,

 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Fernanda Mazzoli – La ripresa, finalmente! Ma chi guida la task force incaricata di traghettare il Paese fuori dell’emergenza da Covid 19? La mitologia del cambiamento e la sua necessaria demistificazione

Covid 19 e ripresa economica

Fernanda Mazzoli

La ripresa, finalmente!
Ma chi guida la task force incaricata di traghettare il Paese fuori dell’emergenza da Covid 19?
La mitologia del cambiamento e la sua necessaria demistificazione

La fase due dell’emergenza da Covid 19, fatta balenare con insistenza e puntualmente rinviata – come si addice ad un premio promesso a bambini della cui condotta virtuosa non si è ancora pienamente convinti –, potrebbe avere il merito, se non di accompagnare il Paese nella lenta e faticosa ripresa, di fare giustizia di tutto il discorso solidaristico ed umanitario che nella fase uno ha ricoperto con la stagnola dei buoni sentimenti il linguaggio del terrore e della punizione, snocciolato a suon di bollettini di guerra pomeridiani e di immagini di trasporti nella notte di povere salme scortate dai militari.

È naturalmente prematuro entrare nel merito di metodi e contenuti di tale fase, considerato il profluvio quotidiano di dichiarazioni da parte di politici, giornalisti, esperti a vario titolo tanto perentorie quanto prontamente smentite, ma alcuni indizi permettono di avanzare qualche ipotesi e di mettere a fuoco certe dinamiche e linee di forza che disegneranno il contorno del mondo post-emergenza.

Al netto di tutti gli appelli e gli auspici per una società diversa “dove niente sarà come prima”, ritualmente alternati all’elenco delle crude cifre di morti e contagiati, ci sono ragionevoli motivi di ritenere che tutto sarà peggio di prima. Il capitale non mancherà infatti di cogliere le straordinarie opportunità offerte dalla fase emergenziale per riposizionarsi e ridisegnare le proprie strategie, sacrificando alcuni “rami secchi” per colonizzare altri più promettenti ambiti, riconvertendosi in salsa green e sfruttando in profondità il prodigioso giacimento offerto dalle nuove tecnologie.

Che a guidare la task force incaricata di traghettare il Paese verso una graduale uscita dallo stato emergenziale che ne ha congelato la vita politica, sociale, economica e culturale sia Vittorio Colao,[1] uomo legato per formazione ed incarichi ricoperti alle banche d’affari, al settore delle telecomunicazioni, al Bilderberg[2] e alla Round Table of Industrialist[3] è un indizio su possibili futuri scenari che va ben oltre la biografia personale e le competenze individuali del personaggio. Con lui, si è scelto di porre la ricostruzione socio-economica dell’Italia sotto l’egida dei poteri forti, fortissimi che dominano il mondo: finanza e multinazionali.

Attendersi una svolta rispetto alle politiche liberiste degli ultimi anni e alle storture più feroci del capitalismo è mero esercizio per anime belle e forse troppo arduo anche per loro. Il “mondo diverso” di cui traboccano le pagine dei quotidiani e le invocazioni di smemorati politici nostrani e ceto medio riflessivo potrebbe avere le tonalità brutali del massacro greco, piuttosto che i colori di liberté, éaglité, fraternité sventolati da interessati, improbabili e improvvisati amanti dell’umanità.

A meno che, naturalmente, lo choc della realtà non sviluppi una salutare reazione capace di coinvolgere diversi strati della società e di creare forme adeguate di critica sociale, di organizzazione, di mobilitazione sotto il segno di una messa in discussione radicale del modo di produzione capitalistico.

Un altro tassello significativo per comporre il quadro del Paese post-epidemia viene dalla scuola che, in questo periodo, si è conquistata l’attenzione di giornali e televisioni grazie alla didattica a distanza che già da più parti viene indicata come un modello auspicabile di innovazione metodologica. Il Miur, che da oltre vent’anni è prontissimo a recepire e a sostanziare in “riforme” le svariate pressioni provenienti dal mondo dell’economia per orientare il sistema dell’istruzione in funzione del mercato, anche in tanto frangente ha dato prova di tutta la sua sensibilità.

Il ministro Azzolina ha di recente firmato un decreto con il quale ha istituito una commissione di esperti in innovazione didattica e formazione, per preparare non solo e non tanto il rientro a settembre, ma nientedimeno che la scuola del futuro. Non si pensi di trovare fra i prescelti intellettuali ed accademici di chiara fama; a quel che è dato sapere sino ad oggi, i nomi sono quelli di presidi impegnati da tempo nell’introduzione nelle loro scuole di una massiccia digitalizzazione o di strampalati metodi mutuati dall’estero dove sono già stati oggetto di puntuali critiche da parte di studiosi che hanno denunciato il calo delle competenze degli studenti in seguito all’adozione degli stessi.

Il presidente della Commissione Istruzione della Camera in una illuminante e trionfalistica intervista ci tiene a sottolineare che l’attuale fase di sperimentazione forzata ha innescato una vera e propria “miccia di un primo graduale cambiamento”, destinato a sviluppare la coesistenza tra la didattica tradizionale in presenza e quella a distanza messa in atto tramite efficaci piattaforme digitali.

Ora, la digitalizzazione della didattica è questione talmente complessa (sul piano teorico e su quello applicativo) e investe talmente tanti aspetti sovente interdipendenti – cognitivi, culturali, organizzativi, sociali, relazionali, psicologici, contrattuali, lavorativi, giuridici – che non è possibile affrontarli nello spazio di un breve intervento, ma sui quali sarà necessario interrogarsi e costruire analisi e risposte adeguate sul breve-medio termine.

Mi limiterò pertanto a sottolineare un elemento che si ricollega a quel primo indizio fornito dalla composizione della task force deputata a mettere in cantiere la fase due dell’emergenza.

La didattica a distanza richiede l’adozione di piattaforme digitali che vengono fornite dalle grandi imprese che gestiscono la rete. Google, Microsoft e Apple sono gli apripista nella corsa per fornire alle scuole programmi e supporti indispensabili per attivare l’e-learning,[4] con al seguito l’editoria scolastica che desidera ricavarsi la sua parte nel gran banchetto in allestimento.

Il ministero annuncia l’arrivo di altri 80 milioni da fondi strutturali europei per consentire alle scuole di dotarsi dell’attrezzatura indispensabile, mentre l’amministratore delegato di Google, in un empito di encomiabile generosità e di umana empatia, in linea d’altronde con le finalità benefiche della multinazionale dell’informatica che presiede, ha deciso di rendere gratuito fino a luglio Hangouts-meet,[5] uno dei software di videoconferenze più gettonato. Tanto il bello verrà a settembre …

E non concernerà soltanto la scuola, che di per sé rappresenta già una bella fetta di mercato, ma tutto il settore coinvolto nello smart working,[6] altra nuova frontiera promessa all’innovazione in materia di organizzazione del lavoro. E dell’esistenza, in quanto tale modalità “agile” è quanto di più pesantemente invasivo sia dato concepire in termini di sovrapposizione e confusione fra tempi di vita e tempi di lavoro. Per non parlare dell’atomizzazione sociale estrema che essa inevitabilmente comporta e dell’anomalia rappresentata da un lavoratore dipendente che utilizza i propri mezzi di produzione, con notevole pregiudizio per importanti aspetti normati contrattualmente, primo fra tutti la sicurezza.

Eppure, per il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali di questo governo presieduto dall’Avvocato del Popolo, il “lavoro agile”, grazie all’assenza di vincoli spaziali e orari e alla sua organizzazione per obiettivi (preconizzata ormai da anni dai teorici del new management),[7] permetterebbe al lavoratore di conciliare tempi di vita e di lavoro e, contemporaneamente, migliorare la sua produttività.

Molti altri elementi legati all’attuale crisi suscitano domande di fondo circa la nostra società e la nostra stessa civiltà e promettono interessanti sviluppi ad una articolata e scrupolosa disamina; i tre punti qui accennati possono, però, bastare da soli a suggerire uno scenario futuro sicuramente all’insegna del cambiamento, ma nella stessa direzione di tutti i cambiamenti invocati e messi a punto fra i cori osannanti di intellettuali e giornalisti di regime negli ultimi decenni: la colonizzazione da parte dell’economia di mercato di settori crescenti della vita sociale ed individuale.

La mitologia del cambiamento e la sua necessaria demistificazione proiettano in primo piano la questione centrale, ineludibile: ogni istanza di miglioramento dell’attuale assetto sociale, ogni anelito di giustizia, ogni aspirazione ad un mondo diverso da questo che ben conosciamo e di cui l’epidemia ha rivelato la sostanziale fragilità, per non ridursi a vana chiacchiera che oscura con orpelli retorici una realtà costruita sulla predazione e l’accaparramento di risorse naturali e lavoro umano in vista della massimizzazione dei profitti, richiede di porsi il problema – teorico ed organizzativo – della fuoriuscita dal capitalismo e dell’elaborazione di un socialismo per la nostra epoca. Compito tanto urgente quanto immane che richiede innanzitutto serietà e umiltà intellettuali: tante, troppe sono le macerie che gravano sulle nostre spalle e le suggestioni cinesi emergenti in questi giorni non contribuiscono certo a liberare la strada dalle rovine, rischiano, al contrario, di bloccarla per lungo tempo ancora.

Una progettualità che non può che accompagnarsi alla consapevolezza della necessità di un rilancio del conflitto sociale, per evitare che a guidare la ripresa siano gli stessi che con le scellerate politiche delle privatizzazioni hanno già depauperato la sanità, la scuola e l’ambiente.

Emergenza contro un qualche nemico esterno (ieri il terrorismo, oggi il virus, domani chissà quale altro morbo) e conseguente appello all’unità nazionale hanno storicamente favorito il rafforzamento di interessi privati assai poco unitari e nazionali, hanno rappresentato uno strumento politico-ideologico di punta in quella “guerra di classe dall’alto” che il capitale ha scatenato contro i ceti popolari dagli anni Ottanta del Novecento e che, per ora, ha vinto.

Fernanda Mazzoli

[1] Vittorio Colao, dirigente d’azienda, amministratore delegato di Vodafone dal 2008 al 2018. Laureato alla Bocconi, ha ottenuto un Master in Business Administration alla Harvard University. Ha iniziato la sua carriera lavorando a Londra presso la banca d’affari Morgan Stanley. Ha lavorato poi per dieci anni negli uffici diMilano della società McKinsey & Company. Nel 1996 divenne direttore di Omnitel Pronto Italia (oggi Vodafone Italia). Nel 1999 è nominato amministratore delegato di Vodafone Omnitel (divisione italiana). Nell’aprile 2020 è designato dal governo italiano per guidare la task force della cosiddetta “Fase 2” per la ricostruzione economica del Paese dopo la pandemia.

[2] Gruppo Bilderberg (detto anche conferenza Bilderberg o club Bilderberg). I partecipanti al gruppo Bilderberg sono capi di Stato, ministri del tesoro e altri politici dell’Unione Europea; prevalentemente i membri sono esponenti di spicco dell’alta finanza europea e anglo-americana.

[3] The European Round Table of Industrialists [Tavola rotonda europea degli industriali], abbreviazione ERT, è un gruppo di patrocinio nell’Unione europea composto da circa 50 leader industriali europei che lavorano per rafforzare la competitività in Europa. Il gruppo lavora sia a livello nazionale che europeo.

[4] Per apprendimento online (noto anche come apprendimento in linea, teleapprendimento, teledidattica. Cfr., V. Eletti (a cura di), Che cos’è l’e-learning, Roma, Carocci, 2002; G. Trentin, La sostenibilità didattico-formativa dell’e-learning: social networking e apprendimento attivo, Milano, Franco Angeli, 2008.

[5] Hangouts è un software di messaggistica istantanea e di VoIP sviluppato da Google. È disponibile per le piattaforme mobili Android e iOS e come estensione per il browser web Google Chrome.

[6] Il lavoro agile o smart-working è stato definito nell’ordinamento italiano [Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana] come: «una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa», LEGGE 22 maggio 2017, n. 81 Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato., su gazzettaufficiale.it, 13 giugno 2017.

[7] Il New Public Management [Nuova Pubblica Amministrazione], conosciuto anche con la sigla NPM, è uno stile di governance (governo d’impresa) che è emerso nei primi anni Ottanta del Novecento nei lavori di alcuni teorici statunitensi. Cfr.: J. Boston, J. Martin, J. Pallot, and P. Walsh, Public Management: The New Zealand Model, Auckland, Oxford University Press, 1996; Patrick Dunleavy, Helen Margetts, New public management is dead: Long live digital era governance, Journal of Public Administration Research and Theory, July 2006; Jan-Erik Lane, New public management, Routledge, 2000; G. Gruening, Origini e basi teoriche del New Public Management, in M. Meneguzzo, Managerialità, Innovazione e Governance: La Pubblica Amministrazione verso il 2000, Aracne; L.L. Jones, F. Thompson, L’implementazione strategica del New Public Management, in Azienda Pubblica, n. 6, 1997; K. Mc Laughlin, S. Osborne, E. Ferlie, New Public Management: Current Trends and Future Prospects, Routledge, London 2002; M. Meneguzzo, Ripensare la modernizzazione amministrativa e il New Public Management. L’esperienza italiana: innovazione dal basso e sviluppo della governance locale, in Azienda Pubblica, n. 6, 1997; A. Di Paolo, L’introduzione del New Public Management e della Balanced Scorecard nel processo di riforma dell’Amministrazione pubblica italiana, in Economia Pubblica, 2007.

Fernanda Mazzoli – Il problema non è chi taglia il traguardo: il problema è il traguardo. Nella Scuola  si vuole imporre come traguardo il passaggio dalla formazione della personalità umana alla formazione del capitale umano
Fernanda Mazzoli – Intorno alla scuola si gioca una partita decisiva che è quella della società futura che abbiamo in mente. La scuola può riservarsi un ruolo attivo, oppure scegliere la capitolazione di fronte al modello sociale neoliberista.
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Fernanza Mazzoli, Javier Heraud (1942-1963) – Non rido mai della morte. Semplicemente succede che non ho paura di morire tra uccelli e alberi. Vado a combattere per amore dei poveri della mia terra, in una pioggia di parole silenziose, in un bosco di palpiti e di speranze, con il canto dei popoli oppressi, il nuovo canto dei popoli liberi.
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Fernanda Mazzoli – Leggendo il libro di Giancarlo Paciello «Elogio sì, ma di quale democrazia?».
Fernanda Mazzoli Attila József (1905-1937) – Con libera mente non recito la parte sciocca e volgare del servo. Il capitalismo ha spezzato il suo fragile corpo.
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Fernanda Mazzoli – Ripensare la scuola per mantenere aperta, all’interno dell’istituzione scolastica, quella dimensione “utopica” così intimamente legata all’idea stessa di educazione, idea che comporta una tensione intrinseca verso “un altrove” che nulla ha a che vedere con l’adattamento al presente.
Fernanda Mazzoli – Jules Vallès (1832-1885), Jules l’«insurgé», aveva scelto di essere un réfractaire e tale rimase per tutto il corso della sua vita. Prima, durante e dopo la Comune di Parigi.
Fernanda Mazzoli – Un libro per chiunque avverta la necessità di aprirsi una strada fra le brume del presente e voglia farlo con onestà e coraggio intellettuali e morali. È di un pensiero forte che necessitiamo.
Fernanda Mazzoli – La poesia di Xu Lizhi nella fabbrica globale del capitalismo assoluto. La gioventù chinata sulle macchine muore prima del suo tempo. Senza il tempo per esprimersi, il sentimento si sgretola in polvere.
Fernanda Mazzoli – Il romanzo di Georges Perec «Les choses» è di una attualità sconcertante. I libri, quando cercano con onestà intellettuale la verità, dicono molto di più di quel che dicono i loro autori.
Fernanda Mazzoli – Il libro di Antonio Fiocco «Ideare il futuro comunitario per viverne l’essenza nel presente». L’inesausta tensione progettuale per il bene comune, mai da considerarsi come acquisizione definitiva
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Fernanda Mazzoli – Il libro di Antonio Fiocco «Ideare il futuro comunitario per viverne l’essenza nel presente». L’inesausta tensione progettuale per il bene comune, mai da considerarsi come acquisizione definitiva

Fernanda Mazzoli-Antonio Fiocco

Antonio Fiocco

Ideare il futuro comunitario per viverne l’essenza nel presente

ISBN 978-88-7588-239-6, 2019, pp. 80, Euro 10 – Collana “Divergenze”

indicepresentazioneautoresintesi
Fernanda Mazzoli

L’inesausta tensione progettuale per il bene comune,
mai da considerarsi come acquisizione definitiva

Ho letto il recente saggio di Antonio Fiocco, Ideare il futuro comunitario per viverne l’essenza nel presente,[1] con la lente un po’ particolare di un lettore privo di rigorosa formazione filosofica, ma sinceramente interessato ad orientarsi nella realtà contemporanea con strumenti interpretativi solidi, nella prospettiva di pensarne una radicale trasformazione che coincida, come principio generale, con la fuoriuscita dal modo di produzione capitalistico e dal tipo di relazioni sociali che esso comporta. La questione indicata dall’autore come centrale – ovvero quella della progettualità, intesa come necessità di elaborare a livello prima di tutto teorico un percorso che vada in tale direzione e un’idea di società seriamente alternativa all’attuale – mi riguarda dunque da vicino.
La riflessione di Antonio Fiocco non ha pretesa di sistematicità od esaustività, ma il merito (e non è poca cosa, dati gli attuali scenari politici e culturali) di individuare con chiarezza due aspetti imprescindibili del problema: da un lato, l’insufficienza e la contraddittorietà di una messa in discussione dell’attuale assetto sociale che non tocchi la questione di fondo che il capitalismo è irriformabile (anzi, come ben sottolineato da numerosi studi degli ultimi anni, è capace di assorbire e fare proprie molte istanze critiche nei suoi stessi confronti) [2] e che occorre dunque contrapporgli la visione di una società completamente diversa quanto a fondamenti e finalità, e dall’altro il fallimento sostanziale di esperienze rivoluzionarie che non si siano fatte carico pienamente – a partire da un’elaborazione teorica coerente – di tale esigenza di progettualità. Una carenza in tal senso finisce, infatti, per consegnare un processo di grande rinnovamento politico e sociale al gioco delle contingenze, alle pressanti esigenze pratiche con il rischio che esso venga snaturato, o esaurisca la sua spinta rivoluzionaria. L’autore pensa in particolare alla Russia sovietica e al corso involutivo susseguito all’«assalto al cielo» tentato dalla rivoluzione bolscevica.
La inadeguata attenzione alla progettualità appare, pertanto, ad Antonio Fiocco come il vulnus che ha logorato dall’interno sia esperienze storiche grandiose, sia costruzioni filosofiche ambiziose (basti pensare a quella di Sartre) e che, nella odierna fase del capitalismo avanzato, vanifica la possibilità stessa non solo di di costruire, ma anche di pensare un’ alternativa credibile al capitalismo. La non-progettualità finisce per legittimare e rinforzare l’attuale stato delle cose, poiché, mancando una proposta complessiva di ampio respiro, restano solo contestazioni parziali facilmente neutralizzabili o riforme chiamate a correggere gli squilibri del sistema alfine di meglio conservarlo.
Si impone, quindi, la necessità di progettare una nuova idea di comunismo, necessità resa ineludibile non solo da istanze filosofiche, maturate anche nel confronto con la prassi rivoluzionaria, ma pure dalla constatazione che ogni epoca storica ha elaborato un suo concetto di comunismo (da Gesù a Babeuf, da Marx a Stalin, secondo la suggestiva ipotesi di Costanzo Preve qui richiamato), mentre la post-modernità sembra non avere alcuna intenzione di metterne in cantiere uno. Compito oggi più difficile che mai, perché sembra difficile dare torto a Fiocco quando osserva che «ormai anche chi è sinceramente, soggettivamente, rivoluzionario e marxista, corre il rischio di non saper più pensare la realtà personale e sociale se non all’interno delle coordinate dettate dal capitale».[3]
E qui irrompe l’altra grande questione che l’autore si limita ad accennare e che pure il suo lavoro non può fare a meno di evocare con forza: quale soggetto – individuale e/o collettivo – può progettare questa idea di comunismo per una società a capitalismo avanzato all’epoca della globalizzazione? Se Fiocco rimanda per una possibile articolazione del problema ai fondamenti umanistici del comunismo,[4] dal suo testo emerge, tuttavia, con chiarezza che solo un pensiero che attribuisca alla filosofia un ruolo veritativo autonomo può superare quel limite di universalismo che ha inficiato precedenti teorie radicate sul Partito o la Classe, le quali hanno finito per piegarsi all’urgenza delle condizioni storico-sociali, fino a compromettere seriamente la loro incidenza sui processi di trasformazione sociale. La questione è enorme, mobilita sia un’elaborazione concettuale che ha segnato due secoli di pensiero europeo, sia un pezzo importante della storia dell’umanità e finisce per combaciare con l’enormità della nostra miseria attuale, che è assenza di teoria e assenza di prassi, mentre le contraddizioni stridenti del sistema capitalistico finiscono sempre per ricomporsi in un suo rafforzamento, in virtù anche di questo vuoto.
La pesante sconfitta del comunismo storico – che non è solo crollo di regimi che già da tempo avevano perlomeno esaurito la loro spinta emancipativa, ma anche disgregazione di istanze, lotte e movimenti capaci di proporre una visione antagonistica complessiva – ha minato l’idea stessa che sia possibile concepire un altrove rispetto alla società di mercato e alla razionalità liberista. E ha finito inoltre per orientare il superstite discorso sul comunismo, relegato ai margini della cultura e rimosso dalla vita politica, quando non criminalizzato, nella direzione di una sorta di teologia negativa, attenta a dire come non dovrà essere il comunismo del futuro, piuttosto che a progettarne le linee di fondo, operazione necessaria per uscire dalla subordinazione politico-culturale al capitale. Se è, infatti, evidente che non è possibile (e nemmeno auspicabile) costruire da cima a fondo e con materiali predisposti le osterie dell’avvenire, la scrivente concorda con Fiocco sulla necessità di elaborare una nuova idea di comunismo, quale condizione per uscire, prima di tutto sul piano intellettuale, dall’impasse di un ordine sociale contrabbandato come naturale, eterno ed unico.

Da dove ripartire, dunque? Antonio Fiocco in questo testo non traccia una strada maestra che attraversi la notte del presente, come si è detto, ma sicuramente lascia cadere diversi sassolini che costringono il lettore, anche non filosofo di professione come chi scrive, a fermarsi, raccogliersi e pensare a come disegnarla questa strada e per andare dove. Al netto di ogni illusione su un possibile paradiso futuro – aggiungo – proprio per non cadere nella micidiale trappola liberista della fine della storia, in un improbabile (e sinistro) mondo conciliato e pacificato, dove i cerchi dei beati ospitino indifferentemente e a scelta profluvi di merci e uomini tutti d’un pezzo impegnati a gareggiare virtuosamente in bontà, solidarietà e reciproco amore.
Il sassolino nel quale la sottoscritta è inciampata è quello della natura umana, caratterizzata come morale e razionale, posta a fondamento del possibile comunismo del futuro. Ora, rispetto agli amici di Koiné che, ormai da anni, hanno sviluppato una seria ricerca teorica su questo concetto, sono piuttosto incline a sottolineare la curvatura tragica di tale natura, l’ineludibile e insuperabile conflittualità ad essa congenita, suscettibile per il convergere di molteplici e svariati fattori di tendere verso il bene, ma mai come acquisizione definitiva, quanto come inesausta tensione. Ciò che non esclude il riconoscimento del suo carattere morale e razionale (da cosa, altrimenti, potrebbe scaturire tale tensione?), ma sposta l’attenzione sul non-compiuto, non-finito e sul suo incessante farsi. Condivido pienamente, comunque, la centralità accordata alla nozione di natura umana nella elaborazione della progettualità, nella ferma convinzione che su questo concetto, su una sua meticolosa ed articolata definizione, si giochi la possibilità di ricostruire dalle macerie un percorso di liberazione dalle logiche del capitale. La bussola capace di guidare questo arduo processo dovrebbe infatti, a giudizio della scrivente, cercare di dare una risposta, rigorosa quanto a fondamenti teoretici, ma sempre aperta alla ricerca, al dubbio e al confronto, a una domanda fondamentale: “Che idea di uomo abbiamo?”.
Il punto è dirimente, perché il capitalismo, e la sua attuale variante liberista, un’idea molto precisa in merito ce l’ha ed è anche grazie alla forza e alla capacità di irradiazione di quest’idea che ha, per adesso, vinto. Ancora una volta, la questione cruciale è quella dell’egemonia che investe innanzitutto il piano intellettuale. Porre con chiarezza questa dimensione antropologica e affrontarla in profondità significa individuare il cuore di una riflessione teorica capace di progettualità.
Altro grande merito di questo libro – che in una sessantina di pagine compendia una materia estremamente densa, offrendo ricchezza di spunti e di indicazioni, anche bibliografiche – è di affermare il primato, che è ontologico prima che cronologico, della teoria sulla prassi, della filosofia sulla sua applicazione, principio corroborato dalla stessa esperienza storica che mostra abbondantemente come «una elaborazione teorica coerente o incompleta porta comunque a risultati materiali insufficienti o controproducenti».[5] Se, in proposito, Fiocco riprende la tesi di altri pensatori, in particolare di Preve, giova però ricordare quanto la ripresa e la riproposizione di questo concetto siano rese necessarie dalla sua inattualità. La ragione liberista dominante inneggia infatti al sapere immediato, alla competenza spendibile sul mercato – il grande bazar delle merci, ma anche del lavoro, della cultura, delle relazioni interpersonali, merci tra le merci – e confina il sapere teorico nella soffitta delle anticaglie, bollandolo come inutile, privo di presa sulla realtà, noioso ed antidemocratico per la sua complessità. Non è un caso, e l’autore lo ricorda, che la scuola sia divenuta il terreno di manovra privilegiato di questa vasta operazione ideologica. La didattica delle competenze, ultimo ritrovato di pedagogisti in salsa ministeriale, suggella efficacemente l’ impianto culturale della buona scuola. Essa costituisce la matrice entro la quale modellare un nuovo profilo educativo che assume una specifica concezione dell’uomo, che è quella dell’imprenditore di se stesso e del consumatore informato. L’emarginazione delle conoscenze teoriche e la riduzione dei processi di astrazione alle tecniche del problem solving spacciate come innovazione metodologica contribuiscono molto efficacemente ad addestrare le nuove generazioni a compiti semplici, ripetitivi in quanto risolvibili all’interno di determinate procedure e specifici, attinenti, cioè, al particolare piuttosto che allla totalità. Degli individui atomizzati privi di progettualità sociale, adattati al grande ingranaggio sistemico nella speranza di trovarvi una nicchia il più possibile comoda per se stessi, incapaci di togliere al mondo in cui vivono le vesti dello spettacolo di cui si ammanta, ottime pedine per la sua riproduzione: uno scenario che non autorizza certo facili ottimismi, ma sollecita l’urgenza di una risposta forte, di un pensiero – imperniato su uomo e polis e la loro reciproca relazione – che sappia rimettere in moto la storia.

Fernanda Mazzoli

[1] A. Fiocco, Ideare il futuro comunitario per viverne l’essenza nel presente, 2019, Petite Plaisance.

[2] Cfr. in particolare L. Boltanski- E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, 2014, Mimesis.

[3] A.Fiocco, op. cit., p. 52.

[4] C.Fiorillo, L. Grecchi, Il necessario fondamento umanistico del comunismo, 2013, Petite Plaisance.

[5] A. Fiocco, op. cit., p. 5.

Fernanda Mazzoli – Il problema non è chi taglia il traguardo: il problema è il traguardo. Nella Scuola  si vuole imporre come traguardo il passaggio dalla formazione della personalità umana alla formazione del capitale umano
Fernanda Mazzoli – Intorno alla scuola si gioca una partita decisiva che è quella della società futura che abbiamo in mente. La scuola può riservarsi un ruolo attivo, oppure scegliere la capitolazione di fronte al modello sociale neoliberista.
Fernanda Mazzoli – Alcune considerazioni intorno al libro «L’AGONIA DELLA SCUOLA ITALIANA» di Massimo Bontempelli
Farnanda Mazzoli – Il libro «No alla globalizzazione dell’indifferenza» di Giancarlo Paciello. Un’agguerrita strumentazione intellettuale capace di affrontare e dissolvere le nebbie ideologiche. Rivendicazione di un «universalismo universale» fondato su una comune natura umana. Rivendicazione di una «ecologia integrale». Defatalizzazione del mito del progresso.
Fernanda Mazzoli – Una voce poetica dimenticata: Isaak Ėmmanuilovič Babel’. Fondare la rivoluzione sull’anima umana, sulla sua aspirazione al bene, alla verità, al pieno dispiegarsi delle sue facoltà. La rivoluzione non può negare la spiritualità, l’esperienza interiore dell’uomo, i suoi fondamenti morali.
Fernanza Mazzoli, Javier Heraud (1942-1963) – Non rido mai della morte. Semplicemente succede che non ho paura di morire tra uccelli e alberi. Vado a combattere per amore dei poveri della mia terra, in una pioggia di parole silenziose, in un bosco di palpiti e di speranze, con il canto dei popoli oppressi, il nuovo canto dei popoli liberi.
Fernanda Mazzoli – Per una seria cultura generale comune: una proposta di Lucio Russo.
Fernanda Mazzoli – Leggendo il libro di Giancarlo Paciello «Elogio sì, ma di quale democrazia?».
Fernanda Mazzoli Attila József (1905-1937) – Con libera mente non recito la parte sciocca e volgare del servo. Il capitalismo ha spezzato il suo fragile corpo.
Fernanda Mazzoli – René Char (1907-1988) – Résistance n’est qu’espérance. Speranza indomabile di un umanesimo cosciente dei suoi doveri, discreto sulle sue virtù, desideroso di riservare l’inaccessibile campo libero alla fantasia dei suoi soli, e deciso a pagarne il prezzo. Les mots qui vont surgir savent de nous de choses que nous ignorons d’eux.
Fernanda Mazzoli – Ripensare la scuola per mantenere aperta, all’interno dell’istituzione scolastica, quella dimensione “utopica” così intimamente legata all’idea stessa di educazione, idea che comporta una tensione intrinseca verso “un altrove” che nulla ha a che vedere con l’adattamento al presente.
Fernanda Mazzoli – Jules Vallès (1832-1885), Jules l’«insurgé», aveva scelto di essere un réfractaire e tale rimase per tutto il corso della sua vita. Prima, durante e dopo la Comune di Parigi.
Fernanda Mazzoli – Un libro per chiunque avverta la necessità di aprirsi una strada fra le brume del presente e voglia farlo con onestà e coraggio intellettuali e morali. È di un pensiero forte che necessitiamo.
Fernanda Mazzoli – La poesia di Xu Lizhi nella fabbrica globale del capitalismo assoluto. La gioventù chinata sulle macchine muore prima del suo tempo. Senza il tempo per esprimersi, il sentimento si sgretola in polvere.
Fernanda Mazzoli – Il romanzo di Georges Perec «Les choses» è di una attualità sconcertante. I libri, quando cercano con onestà intellettuale la verità, dicono molto di più di quel che dicono i loro autori.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – Il disprezzo come modalità di governo. Il disprezzo è la vera cifra dell’esperienza «covid 19». il sintomo di una malattia carsica e profonda che attende la cura del pensiero e della prassi.

Coronavirus- covid 19

Salvatore Bravo

Il disprezzo come modalità di governo

Il disprezzo è la vera cifra dell’esperienza covid 19: il popolo è oggetto di una pedagogia regressiva e reazionaria, di un esperimento paternalistico ed ideologico. Si susseguono gli appelli a restare in casa in ogni foggia e maniera. Si cerca di raggiungere le diverse fasce di età utilizzando immagini, slogan, pubblicità di diverso genere, funzionali alle fasce di età. In genere per convincere a restare in casa si utilizzano “i volti preoccupati” dei vip di circostanza, i quali descrivono le loro giornate al tempo del covid 19, anche loro costretti, come tutti, a restare in casa, a rinunciare agli splendori quotidiani per una sana cattività.
La volgarità del disprezzo non ha pudicizia. Si cerca di convincere la popolazione che tutti siamo eguali ed uniti in un unico destino. Si occultano le differenze, si rimuove la solitudine dei tanti che sono lasciati soli e sono impediti nelle attività quotidiane. La violenza del potere si concretizza in una falsa immagine della popolazione. Nei servizi televisivi sulle vite dei vip viene abilmente occultato che la loro condizione è diseguale rispetto alla media della popolazione. La vita vera, perché esiste la verità del quotidiano, si materializza nella difficoltà nel reperire il necessario per la sopravvivenza. Le lunghe file per la spesa per anziani e disabili sono l’incubo quotidiano, a cui si unisce la solitudine delle vuote ore casalinghe. Dopo l’attesa e le file si deve subire la televisione di Stato e non, che magnifica il sacrificio dei cittadini mostrando che non ci sono privilegiati, ma che anche i ricchi piangono, anche i famosi sono chiamati a rinunciare alla loro vita di consumo per essere parte del sacrificio nazionale. Nei servizi televisivi appaiono nello splendore abbacinante del trucco di scena e colgono l’occasione per una nuova esposizione mediatica, si garantiscono un’ulteriore visibilità mediatica.
Le vite delle persone normali con le loro ansie non appare, scompare tra le fumisterie dei trucchi, delle luci dell’ideologia del privilegio camuffato per condivisione nazionale. I famosi si appellano al senso civico, invitano alla pazienza, a leggere libri ed al senso della famiglia. Le loro vite sono la negazione dei valori a cui si appellano, ma si tratta solo di un altro copione con cui recitare un altro ruolo. Il nichilismo è per sua natura liquido, si può recitare ogni ruolo, perché nessuno è vero. Offende ed umilia la popolazione la farsa quotidiana e l’assenza dei veri protagonisti di questa tragedia nazionale.

Multe
Le trasgressioni devono essere sanzionate, se mettono in pericolo le vite degli altri, ma se in una condizione di tracollo economico, con il lavoro nero da sempre tollerato e sostenuto, si multano i trasgressori fino a tremila euro, ci si deve chiedere: multe di tale entità possono essere pagate dal precario che lavora in nero e deve uscire di casa per sopravvivere? Gli stipendi medi non raggiungono i mille euro; è lecito, è giusto, multare con tremila euro una persona costretta, in molti casi, a trasgredire?
Ancora una volta la distanza tra governati e governanti è abissale. Alla retorica della bandiera, delle canzonette sul balcone, al retorico “andrà tutto bene” bisogna opporre la crudezza del vero. La pandemia sta mostrando le verità di un sistema sclerotizzato in contraddizioni che non trovano voce. La “sinistra” di governo tace, ma è parte della scena mediatica che ci vuole ubbidienti e senza pensiero. Si sta consumando l’ennesima “farsa dolorosa” con le complicità di sistema, il quale avvezzo da decenni alla sottomissione delle masse, mette in pratica il disprezzo come forma di governo. È un’arma da non sottovalutare: il disprezzo entra nella psiche, nelle relazioni, forma alla servitù. Nel trattare l’altro da servo imbecille, si porta l’latro al convincimento di esserlo e in questo modo lo si persuade di non meritare altro che disprezzo, i suoi diritti non sono che capricci: il covid 19 è un terribile esperimento sociale, in cui il disprezzo per le masse è la nuova formula alchemica dei dominatori. Talvolta il potere batte i pugni per difendere la popolazione dai dinieghi dei plutocrati di Bruxelles, è la parodia della paternalismo borbonico. Il popolo bambino-suddito deve “percepire” che vi è il Super io che lo protegge, ma non gli consente di essere libero e padrone di sé: deve imparare la dipendenza.

Linguaggio
Il linguaggio del potere verso i sudditi è sempre prescrittivo: “State a casa!”, “Lavatevi le mani!” “Uscite uno alla volta!”. Ai bambini si danno ordini in modo ripetuto, perché possono disobbedire. I bambini non hanno autocoscienza, pertanto devono essere controllati con le parole che mentre ordinano, per il loro bene, terrorizzano con la sanzione e nello stesso tempo con immagini che servono ad impaurire ed inibiscono il pensiero. Le immagini che a ciclo continuo ci subissano, non aiutano a capire, ma servono a tener buona la popolazione. Capire il motivo dell’anomalia del numero dei morti non è consentito, implicherebbe il potere che si mette a nudo con le sue responsabilità dalla gestione dell’epidemia ai tagli sociali. Se non si comprendono le ragioni, se non sono oggetto di pubblica discussione, il potere si assicura che il dopo sarà eguale al prima. È in atto una manovra di conservazione e di investimento sul futuro del potere.
Nella melassa degli appelli e della propaganda ci sono anche gli angeli e gli eroi: il personale medico. Ma quest’ultimo non è costituito da eroi ed eroine, ma da vittime. Sulla loro carne viva si consumano decenni di tagli alla sanità, di numero chiuso alle università. Lavorano più di quanto dovrebbero e le loro vite sono in costante pericolo. Designarli come eroi è un modo per aggirare il problema della sanità pubblica e delle politiche di pareggio dei conti. Nella confusione non mancano i pretoriani del potere che donano centinaia di milioni di euro alla sanità: i finanzieri globali si possono permettere gesti di generosità con i quali essere, ancora, nella luce della ribalta. Sono giudicati come benefattori del popolo tanto nessuno si chiede da dove provenga tanta ricchezza. Colgono un’ottima occasione per farsi pubblicità e cancellare il sospetto che siano parte sostanziale del problema e non la soluzione.

Religione come oppio dei poveri
Le messe ed i crocifissi che vengono esposti per fermare la pandemia sono un ottimo espediente per tenere buona la popolazione, perché crede che tutto ciò che accade è dovuto a cause trascendenti. Dopo decenni di disprezzo verso la religione la si scongela per rabbonire le masse. Il senso religioso non è questo, ma vive nella vita quotidiana del libero atto di fede che non si lascia strumentalizzare, ma vive la scelta di essere altro nel mondo rispetto ai canoni convenzionali. Il credente difende la fede dall’uso che il potere ne vuole fare all’occorrenza: la religione di circostanza è l’oppio che si dà a taluni per calmierare la rabbia e le domande. Lo spazio che viene concesso alla religione è parte del disprezzo generalizzato verso un popolo che dev’essere eternamente bambino.

Eroi della didattica mediatica
I tempi grami vogliono una pluralità di eroi e di eroine. La didattica mediatica ha i suoi protagonisti in docenti che vengono invitati ad usare le piattaforme per videolezioni. Nessuno spiega ai docenti i rischi delle videolezioni, i pericoli della rete e specialmente che la propria immagine e la propria voce possono essere manipolate ed oggetto di ogni genere di uso. Si invita, si blandisce all’uso non consapevole. Non è una forma di disprezzo l’invito all’uso senza la consapevolezza? Ci si appella alla relazione empatica dopo che la scuola è stata ridotta ad azienda nella quale i fini educativi sono solo forma, mentre la tecnica è tutto. Si esige che siano i docenti a rassicurare i discenti, rivelando che le famiglie ed il loro senso comunitario è stato estinto dall’individualismo di sistema. La scuola nella quale si è imparato a competere a livello orizzontale e verticale, ora, dev’essere empatica… I docenti sono niente come gli alunni, per cui ad essi si può chiedere tutto.

Tempi moderni
Al bambino la verità va detta gradualmente: si deve abituare alla sottrazione delle sue libertà poco alla volta. La verità non la si dice intera, ma data la costitutiva fragilità del bambino si scelgono i tempi con cui dirgli a cosa va incontro. Si verifica la reazione ai primi provvedimenti. Se è positiva, si procede oltre. Il disprezzo è tutto qui, il popolo è un suddito che va governato dosando i provvedimenti, osservando le reazioni per poi decidere che si può chiedere ed esigere ancor di più. Il fine non è svelato, la verità è solo del potere. Il bambino deve solo imparare ad obbedire e se non lo fa si minaccia di controllare la tracciabilità dello smartphone. Si rafforza tale modalità ripetendo che è momentanea e che è per il suo bene, perché il popolo è naturalmente incapace di capire cosa è il bene ed il male: c’è il potere che gli insegna cosa deve docilmente fare e come deve vivere.

Nichilismo passivo
È in scena il nichilismo. Il nichilismo non è una teoria, ma una pratica di vita circolare ed invasiva che deve addestrare, le menti come i corpi, alla sudditanza. Perché gli uomini e le donne sono niente, sono entità manipolabili, sono argilla pronta a prendere la forma voluta dal potentato di turno. Nichilismo circolare, perché è il sistema dal basso verso l’alto, dall’alto verso il basso, ad esserne coinvolto. Il covid 19 sta rilevando, ancora una volta, la struttura nichilistica dell’Occidente nella forma della finanza. Nichilismo passivo, poiché la microfisica del potere esige la passività dei sudditi e gli stessi governanti sono i sudditi dei paradigmi culturali che mettono in pratica. Ora che la verità appare tra le sue tragiche fessure, sta agli uomini ed alle donne di buona volontà e di verità non farsi sfuggire un’occasione storica per un nuovo inizio. Il nichilismo non è la fine della storia, ma il sintomo di una malattia carsica e profonda che attende la cura del pensiero e della prassi.

Salvatore Bravo

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Silvia Vegetti Finzi – La tecnica, finalizzata all’efficienza e al successo, travalica sovente la conoscenza teorica, celando, sotto l’imperturbabile apparenza dello scienziato, il volto inquietante dell’apprendista stregone, travolto dall’impersonale autonomia dei suoi stessi poteri.

Silvia Vegetti Finzi 02

La crisi delle grandi utopie del secolo ci rinvia al compito di riconoscere, tra le altre cause, le passioni che le hanno alimentate: tanto quelle espresse quanto quelle invisibili perché sepolte negli inferi del pensiero notturno. Non per questo ci sarà concesso di controllarle una volta per tutte. La fiducia che Eros possa prevalere sulle oscure potenze di Thanatos illumina l’orizzonte freudiano della storia, senza tuttavia sottrarci al conflitto e alla cura, come rivela la conduzione interminabile dell’analisi.
Poiché le tensioni emotive pervadono ogni umana esperienza e nessun vissuto può dirsi al riparo dalle perturbazioni degli affetti, non vi è un “al di là della passione”, un esercizio incontaminato del pensiero. Fortunatamente la ragione spassionata rimane un ideale regolativo più che una pratica di vita.
Con la consueta, lapidaria efficacia, Lacan definisce il sapere dell’inconscio «impossibile e necessario». Tanto più necessario in quanto la pretesa (espressione della deriva passionale della conoscenza umana) di padroneggiare i moti di vita e di morte che costituiscono l’ordito segreto del mondo è tutt’altro che esaurita. La tentazione di tradurre in atto, senza mediazioni, senza remore, il desiderio inconscio caratterizza la scienza moderna dove la tecnica, finalizzata all’efficienza e al successo, travalica sovente la conoscenza teorica, celando, sotto l’imperturbabile apparenza dello scienziato, il volto inquietante dell’apprendista stregone, travolto dall’impersonale autonomia dei suoi stessi poteri. Adorno, che ne coglie l’intima hybris, ci esorta in controtendenza all’indugio, alla sospensione dell’urgenza passionale, perché «la contemplazione senza violenza, da cui viene tutta la felicità della verità, impone all’osservatore di non incorporarsi l’oggetto: prossimità nella distanza».[1]

Silvia Vegetti FinziFreud: dalla conoscenza dellepassioni alla passione della conoscenza, in S. Vegetti Finzi (a cura di), Storia delle passioni, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 274-275.

[1] Th.W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Einaudi, Torino 1994, p. 97.



Silvia Vegetti Finzi – Senza rischi non si cresce e i bambini hanno bisogno di incontrare l’imprevisto. I bambini possono aiutarsi, consolarsi e diventare grandi utilizzando le loro potenzialità, le loro risorse. Sono ancora privi di esperienza, è vero, ma la vita s’impara solo vivendo.

Alcuni libri

di Silvia Vegetti Finzi

I bambini sono cambiati

I bambini sono cambiati. La psicologia dei bambini dai cinque ai dieci anni

I bambini di oggi sono cambiati. Crescono sempre più in fretta. A sette, otto anni sono già informati, riflessivi, attenti alle novità, ma anche esigenti e caparbi, spesso soli e privi di vere risposte. Come vivono veramente gli anni brevi e sfuggenti che li separano dall’adolescenza, e soprattutto come possono essere aiutati ad affrontare la vita che si apre loro davanti? Questo libro, scritto in forma di dialogo e rivolto a tutti coloro che hanno a che fare con i bambini, propone una prima analisi del problema, una lettura dei vari aspetti di un’età ricchissima di fermenti, potenzialità e promesse, ponendosi anche come guida per affrontare i rapporti familiari e scolastici o per poter intervenire nel caso di comportamenti difficili.

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L'età incerta. I nuovi adolescenti

L’età incerta. I nuovi adolescenti

Chi sono i ragazzi del Duemila? Come capire che cosa avviene dentro di loro? Dalla prepubertà allo sviluppo sessuale e alla piena adolescenza, fino all’impegnativa conquista dell’identità e dell’autonomia personale, “L’età incerta” indaga non solo l’evoluzione dell’adolescente, affrontando tutti gli snodi più problematici, ma anche i rapporti con genitori, insegnanti, coetanei, sino alla scoperta dell’amore e alla relazione di coppia. Uno strumento per conoscere, dal punto di vista dei ragazzi, i sentimenti e le emozioni che li animano, i rischi che incontrano e le risorse di cui dispongono. Un libro che può aiutare gli adulti a svolgere il loro compito senza lasciarsi travolgere dall’ansia e dalla paura di sbagliare.

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Nei primi cinque anni di vita il bambino vive un’avventura straordinaria e tumultuosa: guarda il mondo con occhi magici e nello stesso tempo impara a vivere e ad amare seguendo un percorso che lo porta, a piccoli passi, dalla dipendenza all’autonomia. In questo suo cammino occorre saper cogliere i mille messaggi che il piccolo ci manda con i suoi comportamenti. Che significato hanno il rifiuto del cibo, l’insonnia, il capriccio inarrestabile? Perché ha paura degli estranei, è geloso del papà o passa ore davanti al televisore? Scritto in forma di dialogo, questo libro prepara i genitori a rispondere con spontaneità, sensibilità e competenza ai bisogni e ai desideri del loro bambino, un essere sempre unico e imprevedibile.

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Quando si è buone madri? E quando buone figlie? E se non si è per niente madri, si può essere buone donne? Le storie parallele di Dacia Maraini e Silvia Vegetti Finzi, l’una portata via dall’Italia e ultra protetta dalla madre mentre è in corso nel Paese la dittatura fascista, l’altra invece abbandonata dalla mamma e dal papà in fuga dallo stesso regime. E i racconti di Anna Salvo, le cui pazienti sul lettino continuano a mettere al primo posto il loro rapporto con la madre. Il libro raccoglie il dibattito che si è svolto sul tema nel corso di una manifestazione intitolata “I dialoghi di Trani”, organizzata dall’Associazione Maria del Porto e dai Presidi del libro.

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L’ospite più atteso. Vivere e rivivere le emozioni della maternità

Negli stati crepuscolari della mente, intermedi tra il sonno e la veglia, affiorano le fantasie materne. Là dove, incontrando il bambino che nascerà, lo conducono nel mondo che l’attende.

In questo libro l’autrice narra e commenta, con profonda sensibilità, una storia di maternità con l’intento di valorizzare una esperienza fondamentale, che non sempre occupa il posto che merita nella vita delle donne. Già i mesi dell’attesa costituiscono, se non vengono prevaricati da altre richieste, un periodo di straordinaria intensità emotiva. Ma, nell’epoca della fretta, molte giovani donne si trovano sole e smarrite al momento di realizzare il desiderio di un figlio. Per aiutarle è allora opportuno riallacciare un dialogo tra le generazioni ove alcune troveranno la possibilità di rievocare situazioni ed emozioni che credevano dimenticate, altre di sentirsi motivate e preparate ad accogliere «l’ospite più atteso», il figlio che nascerà.

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Il romanzo della famiglia. Passioni e ragioni del vivere insieme

Dalla formazione di una nuova coppia alla nascita e all’educazione dei figli, ai conflitti, alla separazione ecc. Un viaggio alla scoperta di noi stessi e del concetto di famiglia alla luce della riflessione psicoanalitica.

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I contraccettivi e le biotecnologie, negli ultimi anni, hanno reso la procreazione una scelta volontaria. In questo volume l’autrice ripercorre l’esperienza della maternità cercando di fornire alle coppie una guida e un supporto che sia d’aiuto nel momento determinante della decisione, facendo chiarezza sulle antiche tecniche della procreazione assistita.

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Quando i genitori si dividono

Quando i genitori si dividono. Le emozioni dei figli

Le separazioni e i divorzi sono nel nostro Paese in continua crescita. Ma, si chiede la psicologa Silvia Vegetti Finzi, cosa accade quando i genitori si separano? Grazie alle moltissime lettere ricevute da ragazzi e adulti che vivono o hanno vissuto le difficoltà di un divorzio e forte della sua esperienza clinica, l’autrice mostra i molti modi in cui la rottura dei rapporti familiari segna, in bene e in male, il percorso esistenziale di chi è costretto a subirla e come, spesso, la percezione di essa vari a seconda dell’età e del sesso. Appendice di Daria Finzi e Anna Spadacini.

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Nuovi nonni per nuovi nipoti

Nuovi nonni per nuovi nipoti. La gioia di un incontro

Silvia Vegetti Finzi offre un interessante spaccato della realtà dei nonni partendo dall’inedito rapporto tra l’ultima generazione di nonni e quella dei loro giovanissimi nipoti. I nonni di oggi, cresciuti per lo più negli anni del miracolo economico, hanno partecipato alla modernizzazione della società e fruito di un benessere diffuso, ma hanno anche assistito agli sconvolgimenti prodotti dagli anni della contestazione, al rovesciamento dei canoni e dei valori della tradizione. Ora, in uno scenario caratterizzato dall’eclisse degli ideali politici, dalla precarietà del lavoro, dalla crisi della coppia e della scuola, nonne e nonni, seppure in modo diverso, sembrano costituire l’unica solida architrave della famiglia. Spesso garantiscono ai figli un aiuto economico e suppliscono alla generale carenza di servizi per l’infanzia prendendosi cura dei nipoti. Esentati da compiti educativi diretti, possono sperimentare il piacere di condividere con i bambini ambiti di libertà, di fantasia e di gioco, ricevendone in cambio affetto e complicità. La “nonnità” svolge quindi una funzione importante, talora essenziale, ma proprio per questo è sottoposta più che in passato a un carico di aspettative, richieste, pressioni e ricatti affettivi difficile da governare. Le numerose testimonianze raccolte, organizzate e analizzate per argomenti, fanno di queste pagine un racconto a più voci in cui caratteri e storie molto diverse si incontrano e si confrontano.

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Il bambino della notte

Il bambino della notte. Divenire donna, divenire madre

Nel momento in cui le tecniche si stanno impadronendo della procreazione questo libro intende andare controcorrente, ribadendo l’importanza della mente e del corpo della donna nella maternità. Attraverso la narrazione di una analisi, l’autrice ricostruisce il lungo processo che conduce dall’essere figlia all’essere madre.

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Parlar d'amore

 
Parlar d’amore. Le donne e le stagioni della vita

Silvia Vegetti Finzi raccoglie in questo libro le lettere più significative che le lettrici di “Io donna” le inviano ogni settimana e le dispone lungo un percorso accidentato e affascinante: dai primi passi dell’innamoramento alle diverse declinazioni delle relazioni amorose, dal vivere in coppia al desiderio di maternità, dall’abbandono al tradimento, fino agli anni della maturità e della vecchiaia, ancora ricchi di nuove, impreviste opportunità. L’autrice ne individua gli snodi cruciali in una conversazione spontanea e consapevole che mette in luce la straordinaria ricchezza della vita femminile, il coraggio con cui le donne, attraversando prove e difficoltà, pretendono e ottengono la loro parte di felicità.

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La stanza del dialogo

La stanza del dialogo. Riflessioni sul ciclo della vita

Ne “La stanza del dialogo” si parla dell’educazione dei figli, di genitori alle prese con adolescenti che assumono comportamenti apparentemente incomprensibili, della difficoltà di trovare l’anima gemella in un’epoca che alimenta aspettative irreali, di famiglie che si compongono e si disfano, del tempo che passa veloce e di tante altre cose. Ma ciò che colpisce maggiormente dell’agile libretto che raccoglie e contestualizza ora una scelta degli interventi di Silvia Vegetti Finzi sul settimanale ticinese Azione, è il tono con cui la psicologa-scrittrice si rivolge ai suoi interlocutori: un tono che esprime un altissimo senso della dignità umana, un rispetto profondo per le donne e gli uomini di oggi, accettati, senza facili indulgenze, per quello che sono, con tutte le loro evitabili e inevitabili debolezze.

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Psicanalisi al femminile

Psicoanalisi al femminile

Anna Freud, Melanie Klein, Marie Bonaparte, Lou Andreas-Salomé, Sabina Spielrein, Helen Deutsch, Karen Horney, Françoise Dolto, Luce Irigaray. Sono state queste donne a percorrere i sentieri interrotti, gli interrogativi inevasi, le possibilità intentate dalla psicoanalisi, esplorandone le zone buie.

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Psicoanalisi ed educazione sessuale

Psicoanalisi ed educazione sessuale

La sessualità è un problema importante e molto difficile da affrontare: conviene cominciare a studiarla il più presto possibile, benchè i pregiudizi cerchino di impedirlo. In questa antologia, quanto mai opportuna, i grandi della psicoanalisi analizzano i silenzi e le bugie con cui per anni si è risposto alle domande dei bambini sugli enigmi del corpo e della sessualità. Ferdinando Savater

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Storia della psicanalisi

Storia della psicoanalisi. Autori, opere, teorie 1895-1990

Mai come oggi la psicoanalisi ha avvertito l’esigenza di una riflessione sulla propria identità e il proprio futuro. Dopo più di cento anni dall'”Interpretazione dei sogni” (1900), considerata l’opera di fondazione, molti cambiamenti sono sopravvenuti. Pur restando Freud un punto di riferimento ineludibile, il paradigma iniziale si è articolato in un ventaglio di prospettive e in una molteplicità di Scuole diffuse in tutto il mondo. Per orientarsi tra le diverse alternative, Silvia Vegetti Finzi si è proposta di ricostruire da un punto di vista storico i molteplici percorsi della psicoanalisi e i problemi teorici, terapeutici, culturali e sociali che essa ha affrontato e diversamente risolto, restituendo respiro critico e prospettiva unitaria al vivace dibattito intorno a questa disciplina. Esposto con stile piano e coinvolgente, rivolto a un ampio pubblico, non solo a studenti e professionisti, il saggio di Silvia Vegetti Finzi illumina il passato, interroga il presente e prefigura il futuro.

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Freud e la nascita della psicoanalisi

Freud e la nascita della psicoanalisi

(scheda di Civitarese, G., L’Indice 1996, n. 1, pubblicata per l’edizione del 1995)

Chi ha avuto modo di apprezzare la “Storia della psicoanalisi. Autori opere teorie 1895-1990” troverà in questo nuovo volume di Silvia Vegetti una conferma.Si tratta infatti di una guida alla psicoanalisi, attraverso la “biografia” della scoperta diFreud e l’analisi dei suoi scritti principali, piana e di piacevole lettura quanto rigorosa nei contenuti. Tra gli spunti che si possono ricavare da questo testo sottolineerei la difesa della trasmissibilità della psicoanalisi, nei suoi contenuti teorici e nelle sue virtualità decostruttive, anche al di fuori di percorsi iniziatici e contro la pretesa avanzata da alcuni di una qualche extraterritorialità rispetto al “normale” discorso epistemologico.Proprio l’attenzione ai problemi epistemici – la psicoanalisi come ultima avventura della razionalità occidentale e la dialettica tra polarità ermeneutica e adesione ai paradigmi delle scienze della natura – conferisce al testo la sua attualità.Un pubblico di “non addetti ai lavori” troverà di che interessarsi alle vicende di una disciplina che ha avuto un impatto difficilmente immaginabile sulla cultura di questo secolo. Studenti a vario titolo delle teorie freudiane avranno a disposizione uno strumento di lavoro che fa dell’accuratezza delle note e dei rimandi bibliografici uno dei suoi elementi distintivi. Potrebbero essere delusi invece quanti andassero alla ricerca di riletture originali o interpretazioni inedite delle tesi freudiane.

Pensa a Itaca sempre
il tuo destino ti ci porterà
[…] Non sperare ti giungano ricchezze:
il regalo di Itaca è il bel viaggio
senza di lei non lo avresti intrapreso.
Di più non ha da dirti.
E se ti appare povera all’arrivo
non t’ha ingannato.
Carico di Saggezza e di esperienza
avrai capito un’Itaca cos’é.

Kostantinos Kavafis

Una bambina senza stella

 

Silvia Vegetti Finzi

Una bambina senza stella

Le risorse segrete dell’infanzia per superare le difficoltà della vita

Rizzoli, 2015, pp. 229.

“I bambini possono aiutarsi, consolarsi e diventare grandi utilizzando le loro potenzialità, le loro risorse. Sono ancora privi di esperienza, è vero, ma la vita s’impara solo vivendo”.

Risvolto di copertina

Chi è la bambina senza stella? Una bambina, in cui si cela l’autrice, sfortunata, ma non troppo. Seguendo il filo dei suoi ricordi, sedotto da una scrittura suggestiva e poetica, il lettore porrà ritrovare, per consonanza, tratti perduti della propria infanzia, là dove risiede il cuore pulsante della vita e la parte più autentica di sé.

Cresciuta, come molti altri, negli anni tragici del fascismo, della guerra e delle persecuzioni razziali, che la coinvolgono in quanto nata da padre ebreo, la bambina ne uscirà intatta avendo preservato la magia dell’infanzia e la voglia di crescere. Le sue vicende, rievocate con sorprendenti flash della memoria e puntualmente commentate da una riflessione competente e partecipe, svelano le sofferenze dei bambini, spesso colpiti dai traumi della separazione, dell’indifferenza e del disamore. E il dolore infantile non cade mai in prescrizione.

Negli squarci di un passato che non passa possiamo cogliere però, con l’evidenza della vita vissuta, anche le meravigliose risorse con le quali l’infanzia può attraversare le difficoltà della vita: il gioco, la fantasia, la creatività e l’ironia. Risorse che, attualmente, un’educazione ansiosa e iperprotettiva rischia di soffocare.

Ed è con la forza del pensiero, della scrittura e della testimonianza che questo libro si propone di rassicurare i genitori che i loro figli ce la possono fare, ce la faranno, se riusciranno a realizzare, mettendosi alla prova, le loro potenzialità.

E la vita s’impara, non solo vivendo, ma anche raccontandola in una trama che, intessendo passato e futuro, dona senso e valore alla casualità del destino.


Alcuni appunti di lettura

«È con meraviglia che la bambina si apre alla realtà circostante» (p. 21).

«Accade che i bambini, sfogliando i primi libri, ne traggano un’impressione così intensa da imprimersi per sempre nella memoria» (p. 27).

«Il corpo si conosce solo vivendolo, mettendolo alla prova. Non si cresce senza esporsi a qualche ragionevole rischio» (p. 32).

«I nostri bambini crescono nella società del troppo. Il superfluo toglie valore alle cose riducendole a oggetti interscambiabili e insignificanti» (p. 36).

«Nessuno basta a se stesso. Si esiste sempre per qualcuno con cui si intreccia un dialogo che anima il pensiero. Anche quando quel “qualcuno” non ci sarà più» (42).

«Nessuno si salva da sé» (p. 51).

«L’inganno derealizza il mondo e destabilizza il senso di sé …» (57).

«I bambini prima di parlare sono parlati, investiti dalle espressioni che gli adulti rivolgono loro …» (p. 86).

«La solitudine è un sentimento complesso, intermittente, che si declina in vari modi a seconda delle circostanze della vita. In certi momenti si confonde con l’isolamento, in altri con l’abbandono, in altri ancora con lo spaesamento nel tempo, nello spazio. Ma esiste anche una solitudine felice, desiderata, ricercata per ritrovare se stessi e incontrare le proprie immagini interiori» (p. 103).

«Il tempo della memoria non è lineare. La sua catena è composta di segmenti che solo a posteriori vengono connessi nella narrazione e inseriti nella cornice della storia» (p. 134).

«Il malessere dei bambini risulta più opprimente di quello degli adulti perché non hanno la minima idea di quando finirà» (p. 146).

«[…] senza rischi non si cresce e i bambini hanno bisogno di incontrare l’imprevisto per attivare processi di adattamento. […] Se impediamo ai bambini di entrare nel mondo reale, si confronteranno con quello virtuale, spesso più ingannevole e pericoloso» (189).

«[…] l’evoluzione della mente non si accompagna necessariamente a quella del corpo e può accadere che le gambe rincorrano i pensieri» (p. 193).

«[…] comprende, con un intimo sentire, che d’ora in poi i confini della sua vita saranno più ampi e più alti. È il miracolo della bellezza che, se colta, può salvare il mondo» (p. 205).

«In mancanza di un positivo contesto di riferimento, come sottrarsi agli stereotipi che ingabbiano l’infanzia? Come trasformare l’identità ricevuta passivamente in identità modellata creativamente, secondo un orizzonte di valori e uno stile di vita personali?» (p. 212).

«È raro che un educatore sospenda la percezione immediata di un allievo e si lasci sorprendere. Spesso trova più comodo inserirlo in un casellario già predisposto […]» (p. 224).

Una bambina senza stella copia

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Peter Watkins – La Comune di Parigi è sempre stata seriamente emarginata dal sistema educativo francese. Le questioni che i comunardi affrontarono erano molto simili a quelle con cui dobbiamo confrontarci oggi.

Peter Watkins La comune di Parigi01
Jules Vallès

L’insorto

indicepresentazioneautoresintesi

 

«La Comune di Parigi è sempre stata seriamente emarginata dal sistema educativo francese, nonostante – o forse perché – è un evento chiave nella storia della classe operaia europea, e quando ci siamo incontrati la maggior parte del cast ha ammesso di conoscere poco o nulla sull’argomento ed è stato molto importante che le persone si siano coinvolte direttamente nella nostra ricerca sulla Comune di Parigi, acquisendo così un processo esperienziale nell’analisi di quegli aspetti dell’attuale sistema francese che stanno fallendo nella loro responsabilità di fornire ai cittadini un processo veramente democratico e partecipativo. Migliaia di Comunardi morirono per i loro ideali nel 1871. Speriamo che prima di vedere la fine del film capirete perché, e quanto le questioni che affrontarono siano molto simili a quelle con cui dobbiamo confrontarci oggi».

Peter Watkins

 

La Commune (Paris, 1871) è un film storico-drammatico del 2000 diretto da Peter Watkins sulla Comune di Parigi. Come rievocazione storica in stile documentaristico, il film ha ricevuto molti consensi dalla critica, per i suoi temi politici e per la regia di Watkins. La Comune (Parigi, 1871) è stata girata in soli 13 giorni in una fabbrica abbandonata alla periferia di Parigi.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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