Giorgio Penzo – Recensione a «DUEL» di Steven Spielberg, U.S.A., 1971

Duel_locandina

David, piccolo borghese con moglie, figli e casetta con giardino, possessore di una brillante “compact-car” rosso fiamma, si reca a trovare un superiore.

Mentre si srotolano le miglia dell’autostrada e David (Dennis Weaver) ascolta comunicati commerciali a raffica e si sorbisce musichetta “Country and Western” di bassa lega, supera un colossale camion piuttosto vecchiotto, ma con numerosi cavalli nel motore (come vedremo). Un breve suono di clacson per chiedere strada, un veloce sorpasso, ed incomincia l’incubo: il banale diviene tragedia, il reale irreale; l’incubo si concluderà negli ultimi fotogrammi quando il protagonista, ormai in salvo, inizierà di fronte al sole un rito di ringraziamento che lo ricolloca nuovamente nella vita reale.

  1. – La Caccia

Nel lungo sogno appare chiaro il motivo della caccia, come osserva giustamente Giuliano Giuricin, in una lettera a Cinema Nuovo: «Al centro dell’opera di Spielberg si trova il motivo della caccia, come la polarità di cacciatore e cacciato che Wright Mills caratterizza la struttura mentale dell’uomo contemporaneo».

Non a caso appare qui il nome di Mills, autore di Colletti bianchi: La classe media Americana che descrive impietosamente vita e miserie dei tanti David da cui è composta la classe media U.S.A.

Ma la caccia non è una caccia libera e spietata, bensì soggiace a certe regole che riportano alla mente il codice della caccia alla volpe o, ancor meglio, la caccia con i falconi: un testo come il De Arte Venandi Cum Avibus di Federico II, con le regole minuziose e con l’indicazione delle prede possibili per un animale nobile come il falcone, è il riferimento più preciso che mi venga alla mente.

Regola prima del binomio camion-camionista (quasi invisibile) è considerare come preda il binomio David-macchina. Fofi: «In Duel è il camion ad imporre la regola: non attacca l’uomo fuori dalla macchina o la macchina priva dell’uomo, ce l’ha con l’insieme uomo-macchina». Dimostrazione abbastanza evidente di questo è il momento in cui il camion distrugge completamente la stazione di servizio quando David cerca di chiamare la polizia: in effetti è la cabina telefonica il suo bersaglio, poiché David non rispetta una regola base cercando di far intervenire in questo duello un altro elemento, la polizia appunto; il tema del rispetto delle regole si ritrova quando David cerca di convincere due vecchietti a chiedere aiuto: la reazione del camion è pronta e decisa, mette fuori combattimento la macchina dei due ed attende pazientemente che David lo preceda, perché la preda deve sempre temere, fuggire dinanzi alla minaccia: solo alla fine, quando la macchina (senza David) impatta contro il camion, la regola è violata, il cacciato si ribella al cacciatore ed impone la sua legge.

E’ bene intendersi subito su due punti: quando dico “camion” alludo al duo camion-conducente invisibile (o quasi); la supposta lealtà dello scontro è mera finzione, poiché l’aspetto quantitativo, la grandezza del camion, chiude apparentemente ogni possibilità di scampo al duo David-macchina: in effetti, come prima ho ricordato, è ribaltando questo criterio quantitativo nello scontro, e sostituendovi un criterio qualitativo, cioè l’astuzia e l’intelligenza, che David “viola” le regole di partenza ed impone le sue: “taglia”, si direbbe in termine bridgistico.

Non mi sembra inoltre che “il gioco” divenga progressivamente “un gioco mortale”, ma anzi che l’incubo sia presente e letale fin dal famoso colpo di clacson che suscita la reazione del camion: il braccio che invita al sorpasso quando sulla corsia opposta passa un bus e il tentativo di schiacciare la macchina al passaggio a livello, sono sicuramente la prova che non è mai un gioco. C’è certamente l’impressione da parte dello spettatore di assistere ad una lotta del gatto col topo, ma è la dimensione innaturale, incubica, in cui si svolge il dramma che lo porta a ciò.

  1. – Il Gran Feticcio: L’Automobile

Un altro aspetto, forse marginale, ma utile per comprendere il film di Spielberg è il suo attentare ai sacri miti della way of life americana, per esempio l’automobile: la bellissima vettura rosso-fiamma di David passa attraverso numerose traversie e verso la fine del film la vediamo ridotta ad un ammasso di lamiere che ben poco ha dell’aggressivo aspetto di partenza: lo status symbol che essa è viene ridicolizzato, messo alla berlina e infine ridotto alla sua forma primigenia: “chalybs es et in chalybem reverteris”; alla fine, come una qualunque arma di poco prezzo, viene utilizzata per organizzare il trick ai danni del camion e mentre prima, lungo tutto il percorso era stata sbeffeggiata dal colosso inseguitore, proprio ridotta a quello che in partenza non doveva essere, strumento e basta, sasso gettato con violenza, adempie ad una funzione, salvare l’uomo, per la quale non era stata costruita.

Solo quando David “si libera” della sua macchina, è salvo: meglio, solo dopo il disastro finale, in cui sia il camion che la vettura “periscono”, l’uomo può innalzare quella specie di epinicio che esalta al tempo stesso la “liberazione” dal Male (ciò che è estraneo, alieno) e il rinnovato “piacere” di vivere.

Ma l’atteggiamento di Spielberg verso la macchina non è piattamente negativo, bensì dialettico, è un odio-amore: se in Duel sembrerebbe che solo con la distruzione di questo instrumentum regni americano l’uomo possa riprendere contatto con le forze visibili ma misteriose della Natura da cui nasce, nel successivo Sugarland Express la macchina è anche amica, è Libertà, è Fuga dalla costrizione, è mezzo per raggiungere uno scopo “nobile”, se vogliamo (il figlio perduto).

Si potrebbe aggiungere, occupandoci adesso del camion, che senza la visione fugace di un paio di stivaletti di cuoio e di un braccio sinistro mosso meccanicamente, sia il camion stesso che abbia preso vita, intelligenza, astuzia dal suo fantomatico guidatore e gli si sia sostituito: qui il riferimento letterario e cinematografico è più preciso, basterebbe pensare al Golem di Wegener, al Frankestein (quello di Mary Shelley, non quello di molti filmacci) e soprattutto ai Robots del premonitore R.U.R. di Čapek.

Convalida di questa ipotesi è il misterioso liquido che scorre fra i rottami del mostro ormai distrutto: sangue del guidatore o olio della coppa? L’uno e l’altro, forse, indistinguibili, tale è stata la simbiosi fra uomo (invisibile) e mezzo meccanico.

Un altro mito a cui attenta il film di Spielberg è lo stereotipato milieu di tante avventure western entrate nella leggenda, come Stagecoach o My darling Clementine, perché, non dimentichiamolo, è proprio attraverso il deserto, simile a quello della Monument Valley, che si svolge l’avventura di David: solo che invece delle maestose e dinoccolate figure di John Wayne o Henry Fonda caracollanti su mustangs in uno sfondo di rara bellezza, si presenta David con la macchina che i reiterati assalti del camion riducono sempre più simile ad un rottame; il cavallo diviene un ronzino di ferro, così come il superman che veste da cowboy diviene un ometto pazzo di paura (a proposito, quanti avranno riconosciuto nel Dennis Weaver di Duel il timido, nevrotico watchman pieno di tic del Motel Grandi in Infernale Quinlan?) che trova nella rabies esistenziale il mezzo per salvare la pelle.

III. – Analogie Col Mondo Medioevale

Innanzitutto il termine Duel che, per quanto sintetico ed efficace, non rende sufficientemente il senso del film, trattandosi, come si è visto, di uno scontro ineguale, dato che al camion sono dati tutti gli atouts, mentre solo in fondo David riesce a introdurre le sue regole qualitative.

Il duello, a mio avviso, sorge da quel sorpasso che apre l’incubo: visto in questo senso, non si tratta più di una semplice punizione, ma di un guidrigildo che David deve versare per il delitto commesso: non ha importanza se la penale è la vita stessa di David.

La regola del duello, il seguire scrupolosamente le norme del codice cavalleresco, è un impegno del camion,

anche a costo di procrastinare la punizione: infatti attende David e la macchina ai bordi della strada (per analogia una specie di tregua di Dio); aspetta che David risalga sulla macchina quando questi vorrebbe fuggire a piedi (per analogia il duellante che permette al rivale di riprendere la spada caduta); il volere lo scontro a due, senza nessuna interferenza da parte della polizia (scena della cabina telefonica) o di altri (i vecchi coniugi); riprende la caccia solo quando le parti di cacciato e cacciatore, inseguito ed inseguitore sono perfettamente definite, canoniche.

In un certo senso è come l’inseguimento di Achille a Ettore intorno alle mura di Troia, con un protagonista (Achille) già sicuro della vittoria, il deuteragonista (Ettore) presago della sconfitta, ma conscio che vi è una dignità da difendere e nel cui cuore alberga una “speranziella”: in Duel il finale è però capovolto, in primis perché manca una τύχη che abbia già predeterminato l’esito della lotta e poi perché è violando le regole dell’avversario, cioè scindendo il sinolo uomo-macchina e rinunciando al secondo termine per pensare a se stesso come animal, come soggetto all’istinto di conservazione che David riesce a cavarsela, evitando la resa dei conti, come un guerriero che si tolga l’armatura dinanzi ad un altro armato pesantemente e riesca a tendergli una trappola mortale (Orazii e Curiazii, o, per rimanere nel mondo medioevale, la scena dell’affondamento nei laghi Masuri dei Cavalieri Teutonici opposti ai contadini di Alexander Nevsky, entrambi esempi di insopportabile rottura delle regole belliche cavalleresche).

Se per esempio riprendiamo le pagine del tournoi che nell’Ivanhoe oppone il Cavaliere Nero alias Cavaliere Del Catenaccio alias Riccardo Cuor di Leone ai più prestigiosi rappresentanti dell’Ordine dei Templari, come Brian de Bois-Guilbert, vediamo che il rituale (quello eternato da Walter Scott…) viene rispettato; ma all’apparire di Locksley alias Robin Hood e dei suoi allegri compagni di Sherwood, è valendosi di regole “diverse” da quelle della cavalleria che questi riescono a mettere sotto i titolati Normanni (attacco al castello di Front-de Boeuf). Walter Scott redime peraltro gli allegri predoni facendone seduta stante dei supporters del re in incognito e reinserendoli nella legalità perbenista.

Un aspetto più figurativo che discorsivo è la possibilità di istituire un parallelo fra il camion e un drago, proprio uno di quei draghi che sembrano uscire dalle menti fervide di un Merlino o di un Cavaliere della Tavola Rotonda: questa notazione mi sembra valida appena ci si ricordi del lento procedere del camion lungo la galleria che lo riporta a David: i due fari, non so se per un fenomeno ottico o per un eccezionale esito fotografico, sembrano veramente occhi di un drago, fiammeggianti come le litografie del tempo andato amavano rappresentarcelo; occhi di un essere pronto a ghermire la vittima, ma lento e maestoso perché sicuro dell’esito dello scontro.

Nel Drago di Evghenij Schwarz il mostro è tanto sicuro della propria vittoria nel futuro duello col giovane eroe, che, per quanto dapprima tentato di usare qualche astuto accorgimento per sbarazzarsi del rivale, alla fine accetta, per dignità ed orgoglio, di combattere secondo le regole, e viene clamorosamente sconfitto ed ucciso (questo è un inciso, perché il dramma di Schwarz ha ben altre implicazioni).

  1. – Una Lotta Gatto-Topo Ribaltata

Il motivo dello scontro ineguale è pur esso fertile di riferimenti.

La natura ci dà esempi sconvolgenti di scontri apparentemente ineguali nei quali il piccolo prevale sul grosso valendosi di quel quid che è dato da una summa di astuzia, agilità, destrezza e riflessi pronti: pensiamo, ad esempio, allo scontro vespa-migale, che è per lo più risolto quando la vespa riesce a paralizzare i centri nervosi del rivale o, ancora meglio, alla classica lotta mangusta-cobra: in un ideale bookmaker, ben pochi punterebbero sulla mangusta, eppure, e non solo nei libri di Rudyard Kipling, quest’ultima spesso prevale.

Pensiamo all’incontro-scontro Ulisse-Polifemo: anche qui il banale diviene tragedia, ma, pur se con mezzi diversi, Ulisse, emblema della scaltrezza umana, gioca la montagna di carne che gli sta di fronte: ma l’esito dello scontro è talmente schiacciante in suo favore, che non si attaglia al film, in cui l’eroe (se di eroe si può parlare) se la cava per il rotto della cuffia.

Molto più preciso e puntuale è il confronto: David-vettura contro camion – David contro Golia, anche se valido soltanto nello scontro finale: in effetti David (che l’omonimia sia solo un caso?) utilizza la macchina come una pietra lanciata da una fionda contro il Golia del momento e, altrettanto inevitabilmente, lo abbatte: qui si ferma il paragone, perché il David Biblico è già un “Unto da Jahweh”, la sua impresa è baciata dalla “grazia soprannaturale”, mentre l’altro David deve fare tutto da solo.

  1. – Il Camion Come Simbolo – Melville

Un sogno quindi, o «tutto quello che lo spettatore vuole, a seconda delle paure notturne, basate sulle sue inadempienze e sulle sue frustrazioni» (Fofi): quindi, aldilà del primo piano di lettura, che è relentless thriller di solido intreccio, si colloca un gusto verso la tradizione letteraria che ha avuto in America grandi rappresentanti: l’allegoria e il simbolismo.

Cerchiamo di esemplificare i due termini e stabilire, con l’aiuto di Richard Chase, in quale direzione si immetta Spielberg: la famosa lettera scarlatta, protagonista, in un certo senso, dell’omonimo romanzo di Hawthorne, è un simbolo comune o segno, indica l’adulterio appunto, ma (secondo piano di lettura) è «anche il marchio impresso sopra ogni vita umana» (Chase).

La balena bianca, il Moby Dick di Melville è un simbolo poetico: il significato della balena non è univoco, può essere eventualmente unilaterale (per Achab Moby Dick è il Male, ma non necessariamente per Ismaele o per il lettore: Achab allegorizza la balena; concentra in una la molteplicità delle interpretazioni).

Lasciando da parte le differenze fissate da Coleridge per distinguere allegoria e simbolismo, cioè vederle come rampollanti rispettivamente dalla fantasia o dalla immaginazione, dando la palma della “facoltà poetica” all’immaginazione (come ogni buon romantico), Chase osserva che: «l’allegoria raggiunge il suo massimo splendore quando tutti sono d’accordo nel definire la verità, quando la letteratura è esposizione, mentre una letteratura simbolista nasce dal dissenso nel definire la verità».

Tenendo ben presente la lezione di Melville, del Melville maggiore di Moby Dick e Bartleby, Spielberg utilizza il Leviatano adattandolo ai suoi tempi e facendone un mostro da autostrada. Anche la analogia fra i protagonisti del dramma è puntuale, anche se il rapporto cacciatore-cacciato è inverso: nel romanzo Moby Dick è un simbolo, ma è pure ben presente, come attestano i poderosi colpi alle barche ed infine alla nave e, soprattutto, la gamba di legno di Achab – nel film il camion, fin dal suo apparire sullo schermo suscita un reverenziale timore ed una impressione di forza (le targhe dei vari stati collocate sul davanti sono riprese come se fossero trofei di guerra di un combattente invincibile); sia nel film che nel romanzo entrambi questi combattenti vigorosi sono “fuori della norma”, sono resti di un’epoca ormai passata che fronteggiano il “nuovo”: basti ricordare lo scontro fra l’imponente camion stile anni ’40 e la vettura di David e paragonarlo con la baleniera solida e funzionale degli anni 1840-1850 (funzionalità che ci viene descritta da Melville in pagine memorabili per perizia tecnica e commosso rispetto del lavoro umano) alla caccia di un qualcosa di selvaggiamente anomalo, come il capodoglio bianco che non sottostà alla logica mercantilistica dei Nantucketesi, primi ambasciatori del capitalismo U.S.A. sui mari (50 anni prima della guerra con la Spagna).

La necessità quasi biologica che un uomo sopravviva al dramma, qui David, là Ismaele, viene ad affermare vigorosamente che, nonostante tutto, la vita umana rimane al centro della Natura, anche dopo i più furibondi drammi esistenziali: a Ismaele, raccolto nella bara del suo amico Queequeg (supremo oltraggio alla morte in agguato) e a David (restituito alla vita quando la ruota del camion ha compiuto il suo ultimo giro) si apre una nuova pagina, la pagina dove si scrive la fine delle facili illusioni e l’invito alla vigilanza verso i mostri che l’uomo crea con le sue stesse mani: Moby Dick diventa nemico solo perché con la caccia si attenta al suo esistere fisico, alla sua animalità, mentre il camion reagisce solo perché provocato da un sorpasso.

Si potrebbe obbiettare che quello che in Moby Dick nasce da una feroce lotta per la sopravvivenza, viene provocato nel film da una ripicca, ma, a mio avviso, anche qui Spielberg coglie il segno, facendo vedere che nell’universo scentrato e disumanizzato dell’Occidente e del suo rampollo più forzuto, gli U.S.A., il banale può provocare il dramma: caduti gli elementi cosiddetti “sani” della giovane America, rimane il futile a determinare gli incontri-scontri.

Si può ora rispondere ad una domanda fondamentale per la comprensione del film: il camion è simbolo o allegoria, semplice segno o summa di molti significati che ne formano un simbolo poetico?

A mio avviso il camion è un simbolo, come appunto la balena bianca.

Riprendiamo un passo del Pierre di Melville: «Per quanto ne dicano certi poeti, la Natura non è tanto l’interprete eternamente soave di se stessa, quanto la semplice fornitrice di quell’astuto alfabeto per mezzo del quale, selezionando e combinando come crede, ciascun uomo legge la propria peculiare lezione secondo il proprio cervello e stato d’animo».

Ora, il camion non è parto della Natura, anzi lo si direbbe soltanto un prodotto artificiale che serve; tuttavia, il fatto che Spielberg ignora la presenza del conducente induce lo spettatore a credere il camion come un qualcosa che sia divenuto da inorganico organico e da organico essere pensante.

In questa riuscita nel rendere naturale il camion, nel dargli una dimensione ed istinti naturali (quale istinto è più naturale della caccia?) sta una parte del successo di Spielberg.

Quindi il camion, integrato in una realtà come quella “Naturale”, che si può leggere ma non definire in assoluto (per dirla con Melville), è per ognuno ciò che ognuno lo crede. «Ambiguo come la natura, splendido ed orribile, benigno e malvagio» (Nemi D’Agostino). Riguardo all’ultimo punto non dimentichiamo infatti il momento in cui il camion trae d’impaccio uno scuolabus, quasi a far sembrare parole di un pazzo le affermazioni di David sulla persecuzione di cui è vittima e le sue invocazioni d’aiuto.

«Il camion può essere tutto: la violenza del sistema americano, certamente, ma soprattutto, nella costruzione incubo del film, un concentrato di ciò che popola gli incubi dell’uomo medio: dunque anche, magari, la rivoluzione e il proletariato, oppure l’irrazionale e la morte» (Fofi).

  1. – Dovuto A Kafka

Mi sembra che sia necessario fare i conti con un altro autore, la cui influenza è determinante per il film, e cioè Kafka.

Diario di Franz Kafka, 20 Dicembre 1910: «Con che cosa posso giustificare il fatto che oggi non ho scritto ancora nulla? Con nulla. Tanto più che la mia disposizione di spirito oggi non è delle peggiori. Ho sempre nell’orecchio una invocazione: “Potessi tu venire, Tribunale invisibile!”».

Ecco in nuce uno dei poli di sviluppo de Il Processo. Anche David ha commesso la sua infrazione (il sorpasso), che rimanda evidentemente a ben altre colpe, al limite alla colpa di vivere: egli deve essere punito; addetto alla esecuzione il camion.

David tuttavia non sa o finge di non sapere il perché dell’inseguimento, cerca una risposta nel razionale (ricordiamo il breve processo mentale che sviluppa durante la colazione allo snack-bar) e non la trova.

E’ lo stesso tentativo di Josef K. ne Il Processo, trovare il motivo del suo arresto: «Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché, senza che avesse fatto nulla di male, una bella mattina lo arrestarono». Da qui il protestare continuamente la propria innocenza.

Ma nello stesso capitolo de Il Processo, uno dei guardiani spiega molto chiaramente che: «l’autorità non cerca la colpa» ma «com’è detto nella legge, è attratta dalla colpa»; e alla risposta di K. «Questa legge non la conosco», l’altro guardiano pronunzia le parole che spiegano la problematica più profonda del romanzo: «Vedi, Willem, ammette di non conoscere la legge e nello stesso tempo afferma di essere innocente».

Aggiunge Mittner: «Mentre ancora nella Colonia Penale (1914) il mondo della giustizia si svela subito nella sua struttura concreta, visibilissima: detenuti, ufficiali, impiegati, celle di punizione e una valle in cui da tempi immemorabili si eseguono le sentenze capitali con una macchina che lentamente incide nel corpo del reo i segni misteriosi della Legge disprezzata, nel frammento del 1910 vi è già embrionalmente quella che sarà la grande innovazione del Processo: l’imputato non può mai vedere i suoi giudici, non è mai ammesso al loro cospetto», non conosce la sua colpa.

In America Carlo Rossmann ha appena ritrovato lo zio, “sostituto freudiano del padre”, ed incomincia a conoscerlo, quando un invito per una serata lo porta lontano da casa: la violazione di un appuntamento che Carlo non può conoscere (e quindi rispettare) lo fa ridiventare orfano. In un certo senso, la colpa e la condanna di Carlo sono già predeterminate, le sue obiezioni sono chiacchere, come dice Mr. Green.

Ne Il Processo, quando Josef K. si incontra, nella sala affollata, col giudice istruttore, cerca, seguendo un filo logico, di spiegare l’arbitrio del suo arresto e la nullità della decisione a suo riguardo: ma sia le reazioni della folla sia quelle dei singoli sono totalmente anomale rispetto alle sue parole; il giudice istruttore dicendo: «Volevo farle presente che Lei – senza averne coscienza – rinuncia al privilegio che costituisce per un arrestato l’interrogatorio», afferma una volta di più che il processo è una macchina che funziona irreversibilmente e le obiezioni di K. sono inconsistenti.

Vi sono molti punti di contatto, nel film, con le affermazioni che Orson Welles ha fatto relativamente al “suo” Josef K. in una intervista: «Josef K. è anche un piccolo burocrate. Io lo considero colpevole». Alla domanda perché è colpevole Welles ha risposto: «Egli appartiene a qualcosa che rappresenta il male e che, al tempo stesso, fa parte di lui. Non è colpevole di quanto gli viene rimproverato, ma è colpevole lo stesso; appartiene ad una società colpevole, collabora con questa. K. collabora per tutto il tempo. Io gli permetto soltanto di sconfiggere i suoi carnefici».

Più avanti Welles ha affermato: «Non sono assolutamente d’accordo con queste opere d’arte, questi romanzi, questi films che oggigiorno parlano di disperazione. Non penso che un artista possa prendere come soggetto la disperazione totale: le siamo troppo vicini nella vita quotidiana. Questo genere di soggetto può essere utilizzato quando la vita è meno pericolosa e decisamente positiva».

Se prendiamo alla lettera le “affermazioni” di Welles, e le confrontiamo con i “fatti” di Duel, anche Spielberg dà prima una dimensione incubica al film, ma poi “rassicura” lo spettatore (che ha avuto tutto il tempo di immedesimarsi con David). In questo senso è esatta la affermazione di Giuliano Giuricin che dice: «Il finale di Duel non sembra coerente col resto del film, rassicura invece di allarmare lo spettatore, non ne sovverte insomma le categorie mentali e gli schemi ideologici», operazione questa che esegue invece, ad esempio, Kafka ne Il Processo: la frase finale «”Come un cane!” mormorò, e gli parve che la sua vergogna gli sarebbe sopravvissuta», si sintonizza perfettamente con una vicenda, quella di Josef K., che non si chiude, ma viene soltanto sospesa, per riprendere con altre forme espressive e con personaggi più asciutti, ne Il Castello.

Welles non accetta questo finale: i due esecutori non riescono a servirsi del coltello e devono utilizzare un mezzo molto più impersonale come la dinamite; Josef K. riesce, in un gesto di ribellione (il primo, forse) a rilanciare la dinamite: è un finale aperto, nel senso che K. può salvarsi, e comunque non si lascia agire.

Anche il David di Duel è passivo durante tutto l’arco del film ed attivo solo nel finale: ma la sua ribellione è più fruttuosa, riesce addirittura a distruggere il nemico.

VII. – Conclusioni

E’ chiaro che né lo Josef K. di Welles né tantomeno il David di Duel rispettano la coerenza del discorso iniziato ed infatti il finale risulta “strano” rispetto al resto del film, ma mi sembra che non si tratti necessariamente di un ricorso al tradizionale happy-end del cinema americano: la vita di David è salva, ma è chiaro che le sue “categorie mentali” sono sconvolte e di tutto il suo bagaglio di fiducia nel “sistema” americano è rimasto il sine qua non, la pelle.

Il film di Spielberg si chiude con David inginocchiato sulla terra e accecato dal sole, mentre, come già osservavo, effettua una specie di rito di ringraziamento: in questo ricongiungimento con la Natura può vedersi un apologo sulla necessità della difesa dell’Umanità dai mostri che essa stessa costruisce e che, resisi indipendenti, si ribellano.

Quali sono i limiti dell’operazione di Spielberg? Pur tenendo conto che il film rappresenta un fatto nuovo nel panorama del cinema americano, perché usa un modello letterario (il simbolismo) derivato dalle avanguardie europee, ma risalente ad un maestro tipicamente americano come Melville, riconosciuto che è possibile dare al film un significato di difesa dell’Uomo contro le macchine che lo estraniano da se stesso, è doveroso riconoscere che Spielberg non ha (o non ha ancora) la consapevolezza che «i suoi problemi, il suo senso di disagio, di essere in trappola, sono legati a mutamenti storici di struttura, a fasi di conflitto nell’interno delle istituzioni sociali» (Mills).

In sostanza Spielberg non riconosce che la realtà del mondo, e quindi la via per fuggire agli incubi che assillano David e Spielberg stesso, nasce dallo scontro diretto fra chi accetta la realtà così com’è e la ratifica, e chi invece vuole cambiarla; il che non significa limitarsi a cambiare la struttura economica, ma attuare un rivolgimento che porti appunto a quel “uomo nuovo” che è al centro della visuale di Marx e che un certo tipo di economicismo (come osserva Paul Sweezy sulla Monthly Review) ha spesso posto in secondo piano.

“Dal regno della necessità” (attraverso la ribellione) “al regno della libertà”. Spielberg riconosce la necessità della ribellione e la necessità un “uomo nuovo”, ma non lo identifica con quello derivante dall’analisi e dalla lotta marxista: la sua posizione è quella di chi ricerca isolatamente una terza via in uno scontro che pone direttamente di fronte due concezioni di pensiero e di vita. Ed è una lotta, questa, in cui tertium non datur.

 

Giorgio Penzo

Articolo già pubblicato come lettera nella parte riguardante il rapporto tra Duel e Moby Dick nella rivista di cinema «CINEMA NUOVO».

Giorgio Penzo – nato a Trieste nel 1948, diplomato presso il Liceo Classico “F. Petrarca” di Trieste e laureato presso la facoltà di “Lettere e Filosofia” dell’Università di Trieste (summa cum laude), si dedica con passione allo studio della storia del cinema.

Victor Nomero – L’alimentazione condiziona il nostro futuro? Sostenibilità e scelte alimentari

Copertina di Per una solidarietà globale

http://www.petiteplaisance.it/libri/231-240/235/int235.html

È appena stato pubblicato Per una solidarietà globale. Insostenibilità e antispecismo sarà l’etica a darci un futuro? di Moreno Fabbri: un breve, denso e documentato scritto, già pubblicato in rivista, unitamente alle congeneri riflessioni di Fulco Quilici e di Giuseppe De Rita, e riproposto con alcune integrazioni, con l’aggiunta di una sintetica bibliografia. Nel volumetto sono citati studi ed analisi che negli ultimi decenni hanno contribuito al dibattito sulla insostenibilità del modello socio-economico occidentale e sulle macroscopiche sperequazioni che caratterizzano la società globalizzata.

A fronte dei dati scientifici che accreditano alcuni degli scenari apocalittici da più parti paventati, si fa qui riferimento a diverse proposte di analisti e di studiosi da tempo impegnati ad individuare possibili scelte virtuose che, facendo appello ad una accresciuta coscienza individuale, siano capaci di imprimere un nuovo segno alle scelte di ciascuno per preservare e custodire la vita di ogni essere senziente e di tutto il pianeta.
In questi ultimi anni si è assistito ad un accresciuta attenzione verso le questioni della sostenibilità e dell’alimentazione che hanno trovato i loro momenti culminanti nell’Esposizione Universale attualmente in corso a Milano e nella recente enciclica papale Laudato si’.
Il volumetto, impreziosito da tre disegni di carattere bucolico di Vincent Van Gogh, con un particolare de L’albero della vita di Gustav Klimt in copertina, costa 4 Euro ed è reperibile nelle librerie telematiche o facendone direttamente richiesta all’editrice. info@petiteplaisance.it

Carmine Fiorillo – Il carro armato di Benigni e i bambini di Terezín. Considerazioni inattuali a margine del film «La vita è bella»

Bencar

mostra_terenzin

VILLACHIARA –  I DISEGNI DI TEREZIN
Mostra tenutasi dal 27 gennaio al 1 febbraio 2009

Fotogramma tratto da "La vita è bella": Giosuè sul Carro armato USAFotogramma tratto da “La vita è bella”: Giosuè sul Carro armato USA

«Affetto e rispetto per un amico di Roberto Benigni, l’italiano più amato negli Stati Uniti» (La Repubblica, 27/4/99). Con queste parole Bill Clinton accoglieva Massimo D’Alema al Summit della NATO, rievocando lo show del comico alla cerimonia di conferimento dei tre Oscar a La vita è bella (e, guarda caso, nessuno a The Truman show): i mass-media americani e i servizi di intelligence USA coglievano nel film una straordinaria occasione per rendere funzionali agli interessi imperiali i messaggi subliminali incuneati nella tessitura narrativa del soggetto firmato da Cerami e Benigni. Si ricordi la chiusa del film: il giovane soldato americano apre la torretta del carro armato americano e saluta Giosuè – nel silenzio del campo di sterminio deserto – con un «Hi Boy! … vieni ti diamo un passaggio». E Giosuè alla madre ritrovata grazie alla posizione “alta” sulla torretta: «Mamma, si torna a casa col carro armato [americano] … abbiamo vinto!».

Sembra proprio che Benigni abbia vinto i tre Oscar piroettando su quello stesso carro armato che nel suo film è equivoco emblema e improbabile – certamente oggi – metafora della “liberazione” e della “vita”. L’italiano «più amato negli Stati Uniti» (ma si sa che Clinton non eccelle in sincerità), ha piegato – forse non cogliendone le implicazioni – alla scena finale del carro armato americano liberatore molte scene del film, a partire dalla scena 38 del Soggetto, che introduce per la prima volta il carro armato come immagine subliminale: un primo stimolo forse troppo debole per essere percepito e immediatamente riconosciuto nel suo tragico significato, ma non tanto debole da non riuscire ad esercitare una qualche influenza sui processi psichici del recettore-spettatore.

Alla scena 38 siamo già in piena guerra, e non è indifferente che un genitore regali al figlioletto «un piccolo carro armato di latta». Per chi scrive La vita è bella è davvero stridente non aver scelto un altro gioco per Giosuè: poteva essere un “piccolo camion”, un “piccolo trattore”, una “macchinina”, ecc. Ma è evidente che il «piccolo carro armato di latta» della scena 38, che ancora nella scena 41 Guido indica al figlioletto come «finto», deve diventare nella scena 53 il «primo premio», un «carro armato vero, nuovo nuovo», e nella scena 82 il «carro armato verde, con la stella bianca degli americani», il carro armato americano con cui «si torna a casa» (scena 83). L’immagine insistita del carro armato è del tutto strumentale ai fini della chiusa, ed è questa la sottile violenza fatta dagli autori al bambino, perché il gioco costruito dal padre Guido-Benigni sull’immagine del carro armato non è il vero gioco di Giosuè (il suo gioco di bambino); e dunque spesso non è contento del “gioco” paterno e chiede, invece del «primo premio», di «andare dalla mamma» accontentandosi della «merenda» al posto del carro armato (scena 53). Il “gioco” paterno è per lui a volte insopportabile e violento: «E poi sono cattivi cattivi, urlano» (scena 53). Ma Guido deve legittimare la durezza e la severità: «Per forza, il premio è grosso, devono essere severi, duri… Il carro armato vero fa gola a tutti».

Sull’analisi psicologica della funzione del gioco nell’infanzia Cerami avrebbe potuto studiarsi almeno i testi di Bruno Bettellheim, uno psicanalista ebreo viennese che fu rinchiuso per un anno nei campi di concentramento di Dachau e di Buchenwald e che poi si dedicò completamente alla psicoterapia dei bambini (cfr. Il prezzo della vita. La psicoanalisi e i campi di concentramento nazisti, Bompiani 1976; Il mondo incantato, Feltrinelli, 1978; ecc.).

A coloro che hanno visto La vita è bella e che vogliano davvero riflettere consigliamo l’attenta lettura del Soggetto edito da Einaudi. Potranno cogliervi, specie nella seconda parte, oltre ad un’equivoca operazione culturale, anche sciatteria di linguaggio e miseria espressiva (si pensi alle ultime battute messe in bocca a Giosuè) appena mascherate dall’indubbia capacità istrionesca del Benigni non a caso dichiarato amico del D’Alema interventista e osannato dallo spergiuro Clinton come «l’italiano più amato negli Stati Uniti», con il suo «carro armato americano»,vessillifero della «guerra umanitaria»: si premi dunque Benigni e La vita è bella, a febbraio. Ad aprile dello stesso anno le bombe “intelligenti” con la stella bianca americana giungono sul territorio della Federazione Jugoslava. A Benigni, considerata la sua enfasi sul «carro armato americano», consigliamo di leggere il romanzo Amatissima, della scrittrice nera americana Toni Morrison (Premio Nobel 1993): sulla prima pagina del volume campeggia la seguente dedica: «Agli oltre sessanta milioni» (il riferimento è alle vittime della schiavitù in America).

Per quanto ci riguarda preferiamo far volare la Colomba della Libertà di Picasso per ricordare altri bambini vittime dell’olocausto: i bambini di Terezín. Terezín: una città fortezza e di frontiera costruita nel 1780 dall’imperatore Giuseppe II e dedicata alla madre Maria Teresa, da cui appunto il nome. Diventò tra il 1942-1944 il «ghetto dell’infanzia». Vi furono rinchiusi circa 15.000 bambini, tra i 7 e i 13 anni. A gruppi furono trasportati ad Auschwitz e qui avvelenati o bruciati nei forni crematori, le loro ceneri disperse. Dei quindicimila ragazzi soltanto un centinaio erano ancora vivi al momento della liberazione da parte delle truppe sovietiche.

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Uomini e donne di straordinaria sensibilità, anch’essi deportati, destinati alla sorveglianza dei ragazzi, in quella allucinante situazione riuscirono a mantenere vivo in essi il senso della vita e della speranza facendoli lavorare e studiare, distribuendo a tutti quel calore umano e affettivo tanto necessari nell’età infantile. È merito loro se oggi possiamo porre alla riflessione di tutti noi le testimonianze di questa incredibile vicenda della storia moderna. 4.000 disegni e 66 poesie ci sono così pervenute, e sono oggi custodite nel Museo Ebraico di Praga. Renzo Vespignani, il grande artista italiano, nel donare un suo dipinto dedicato ai bambini di Terezín, scriveva nel 1982: «Che io dovessi aggiungere qualcosa alla visione di questi martiri-bambini mi sembrò impossibile. Del resto come rinunciare all’onore di legare il mio nome ai loro nomi dimenticati? Ho cercato di ingombrare il foglio il meno possibile; il resto dello spazio l’ho lasciato ai loro dolcissimi, strazianti addii».

La lezione dei bambini, 1942.

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Leggiamo insieme quanto scrivono Cerami-Benigni nel Soggetto.

Scena 38. Giosuè «si tira dietro, con lo spago, un piccolo carro armato di latta» (Benigni-Cerami, La vita è bella, Einaudi, 1998, p. 100). Il suo gioco è interrotto dal richiamo della madre («Lascia il carro armato!», ibidem) che lo aiuta a sedersi sul manubrio della bicicletta. Il bambino dice al padre: «Vai forte, babbo!» e, così dicendo, «lascia cadere il carroarmato» (ibidem).

Scena 41. Guido, davanti alla pasticceria Ghezzi, dice a Giosuè: «Lascia fare … quella torta è finta, è come il tuo carro armato!» (ibidem, p. 103).

Scena 53. Nel Lager Guido cerca di spiegare a Giosuè i termini del gioco che si è inventato per lui: «E chi vince prende il primo premio». «Che si vince babbo?». «… Un carro armato!». «Ce l’ho già il carro armato!», dice Giosuè. E Guido: «Un carro armato vero, nuovo nuovo!». Giosuè si ferma con la bocca aperta: «Vero? … E come si fa ad arrivare primi?» (ibidem, pp. 126-127). Ma Giosuè non è contento di questo gioco e invoca: «Voglio andare dalla mamma! […] E poi sono cattivi cattivi, urlano». E Guido: «Per forza, il premio è grosso, devono essere severi, duri … Il carro armato vero fa gola a tutti». Giosuè: «Non ci credo che si vince un carro armato vero!». Guido: «Ti dico di sì!». Giosuè: «E che bisogna fare? La posso vedere la mamma?». Guido: «Quando finisce il gioco». Giosuè: «E quando finisce?». Guido: «Bisogna arrivare a … mille punti. Chi ci arriva vince il carro armato». Giosuè: «Il carro armato? Non ci credo. (piagnucola) Ce la danno la merenda?» (ibidem, pp. 128-129).

Scena 56. Giosuè è ancora perplesso. Guido: «Che c’è Giosuè, hai giocato con i bambini oggi?». Giosuè: «Sì, ma i bambini non sanno proprio le regole. Hanno detto che non è vero che si vince il carro armato». Guido: «Lo sanno lo sanno. Sono furbi come volpi, non ci cascare. Il carro armato

fa gola a tutti. Non c’è il carro armato, ma scherzi?» (ibidem, p. 141).

Scena 82. «Non c’è più nessuno. […] improvvisamente qualcosa rompe il silenzio. È il rumore sordo di un motore […]: da una strada tra due costruzioni sbuca imponente un enorme carro armato verde, con la stella bianca degli americani. […] I cingoli si bloccano a pochi passi dal bambino […]. La torretta del carro armato si apre e compare un giovane soldato americano, che vede il bambino e sorride. […] Giosuè fissa l’enorme carro armato, che è in moto. Fa un passo avanti: “È vero!”. È pazzo di felicità. […] Carrista: “Sei solo bambino? […] Ti diamo un passaggio …vieni … sali …» (ibidem, pp. 187-188).

Scena 83. «I sopravvissuti del campo stanno camminando verso la strada […] Tra loro si fanno largo i mezzi motorizzati dell’armata americana. Il panorama è visto da sopra il carro armato, che scende giù lentamente… Sul carro, accanto alla torretta, attaccato al carrista americano, c’è Giosuè, eccitato, incantato, che mette in bocca l’ultimo pezzetto di cioccolata. Il carro sorpassa i poveretti […]. D’improvviso il bambino si volta: il carro armato è passato vicino a qualcuno che lui conosce: “Mamma!” […] “Abbiamo vinto! Mille punti! Da schiantare da ridere. Primi! Si torna a casa col carro armato … abbiamo vinto» (ibidem, pp. 188-189).

Tanto per ricordare:

70 anni fa furono i soldati dell’Armata Rossa ad entrare nel campo nazista di Auschwitz e non i carri armati americani.

Donato Sperduto – Agire o lasciar fluire? Emanuele Severino e Carlo Levi a confronto

Carlo Levi

Introduzione
Sia nei suoi scritti che nella  vita reale, lo scrittore torinese Carlo Levi ha sempre messo in relazione la dimensione ‘teoretica’ con quella ‘pratica’. Non si è ad esempio limitato a scrivere contro il fascismo, ma si è anche concretamente impegnato contro la persistenza di tale regime in Italia invitando gli italiani a non avere paura della libertà (non a caso Paura della libertà è il titolo del primo libro da lui scritto).
Anche il rinomato pensatore bresciano Emanuele Severino vede una correlazione tra ‘teoria’ e ‘pratica’, tra fede nel divenire e «nichilismo dell’Occidente». La celebre affermazione severiniana1 dell’eternità di ogni essere «sembra comportare di diritto la più radicale riforma antropologica»2. Infatti, tra etica ed ontologia esiste un legame inscindibile nel senso che ad una determinata toeria sull’essere segue una precisa dimensione antropologica. Ed è lo stesso Severino a ritenere che il pensare determina l’azione. Egli ha in effetti evidenziato le implicazioni etiche della concezione nichilistica dell’essere.
In questo mio lavoro scandaglio gli aspetti centrali del pensiero severiniano e di quello leviano mettendoli a confronto con l’intento di elucidare i punti che li avvicinano e che valorizzano anche il pensiero di Carlo Levi, il rinomato romanziere italiano autore anche di opere teoretiche ingiustamente trascurate.

1. La fluidità del tutto
Il filosofo bresciano ritiene che non tenendosi fermo all’estrema contrapposizione dell’ente e del niente, il pensiero occidentale ha smarrito il senso dell’essere, l’ha alterato e dimenticato, e così è caduto nell’estrema contraddizione, ha ammesso l’assurdo: che il non-niente (l’ente) è niente. Questo è avvenuto perchè quell’opposizione non è stata fatta valere necessariamente, assolutamente, ma è stata limitata temporalmente. Il nichilismo consiste proprio nella nientificazione di ciò che è, nella persuasione che l’essere divenga (esca dal nulla e ritorni nel nulla), potendo pertanto  non essere, e conseguentemente nella prassi (la volontà di pontenza) che scaturisce da questo convincimento.
Severino avvalora la sua tesi del nichilismo dell’Occidente rifacendosi ai filosofi  greci. Infatti, una volta escluso che il senso della cosa sia metastorico, ossia che non «sia apparso ad un certo momento» della storia umana (SFP, p. 369), egli afferma che il senso (nichilistico) della cosa è stato portato alla luce dalla metafisica greca (marcatamente da Platone).
La civiltà occidentale ha obliato il senso dell’essere, perchè ha voltato le spalle all’eternità dell’essere, affermata da Parmenide. A questo proposito, il motto di Severino è‚ appunto, «ritornare a Parmenide».
La fatidica affermazione della temporalità dell’ente ha dei risvolti etici. Allora quando si è persuasi che l’ente è nel tempo, «la nascita del progetto di dominio e di sfruttamento dell’ente non solo è possibile, ma è inevitabile» (AT, p. 31). Consistendo la volontà di potenza nella volontà che l’ente sia nel tempo, la caratteristica essenziale della civiltà occidentale non può che essere proprio la volontà di potenza.
Severino approfondisce questa tematica ricorrendo significativamente alla metafora del mare proprio perché il divenire esprime «la fluidità del mondo» (LeC, p. 122). Come per navigare occorrono le imbarcazioni, e prima ancora il mare, e, anzi, prima di tutto, che si creda nell’esistenza del mare, così per dominare il mondo occorrono degli strumenti, e prima ancora la dominabilità del mondo, e, «anzi, prima di tutto, che si creda nell’esistenza della dominabilità e flessibilità del mondo; occorre la fede nell’esistenza del dominabile» (FF, p. 109). Ora, essendo il mondo dominabile in quanto fluidità o divenire (le cose escono dal nulla e ritornano nel nulla), gli abitatori del tempo manipolano, producono e distruggono la totalità delle cose, perchè hanno fede nel divenire (nella fluidità) dell’ente, perchè credono di vedere questo divenire. Sì che, se il divenire dovesse risultare impossibile e non evidente, tale dovrà risultare anche il dominio del mondo. Ma allora, credendo nell’impossibile e agendo in base a questa fede (che però non è considerata una fede dall’abitatore del tempo), non sarà azzardato affermare che sulla terra domina ormai la follia estrema, che «la storia della nostra civiltà è la storia della follia estrema» (T, p. 218). Ed è proprio a questa conclusione che Severino perviene evidenziando la tesi della fluidità del tutto propria, a suo parere, al pensiero occidentale (ma, da quanto scrive, anche a quello orientale).

2. La distruzione degli immutabili
La volontà di potenza è incarnata dalle due fondamentali espressioni del nichilismo metafisico: Dio e la tecnica (EN, p. 183). Questi due “tecnici supremi” sottopongono ad una dominazione illimitata tutte le cose. Ma oramai «Dio è morto» ed è la tecnica ad esercitare questa dominazione illimitata. Come si spiega la morte del «vecchio re»? Per rispondere a questa domanda bisogna tener conto dell’interpretazione che Severino dà della storia del pensiero occidentale e che può essere definita così: inevitabile evocazione e distruzione degli immutabili.
I pensatori greci3 hanno inteso il divenire come l’uscire dal niente e il ritornarvi, da parte delle cose del mondo. Ma la fede nel divenire delle cose implica l’imprevedibilità del divenire e questa imprevedibilità genera terrore. Tutto ciò che diviene irrompe nel mondo ed incomincia ad essere, è stato un niente. Ed «è proprio per questo suo essere stato un niente che ciò che irrompe nel mondo è assolutamente, infinitamente imprevedibile […]; e quindi è la minaccia estrema rivolta alle cose esistenti» (LC, p. 23). Per difendersi dall’angoscia del divenire gli abitatori del tempo, a partire da Eschilo, hanno predisposto come rimedio del dolore la verità, l’epistème, ossia «ciò che sta, imponendosi su ogni negazione che vorrebbe travolgerlo» (L, p. 164) e su ogni divenire (FF, p. 12). L’immutabile è quindi il rimedio del dolore. Ma, come ha visto Nietzsche, «il rimedio è stato peggiore del male» (FC, p. 11). La civiltà della tecnica ha così dovuto distruggere l’immutabile perchè rende impossibile il divenire. L’immutabile, infatti, «è il senso prestabilito al quale ogni sopraggiungente deve adeguarsi e nel quale ogni sopraggiungente è anticipato» (AT, p. 123). Ma, una volta anticipato, ciò che diviene non esce dal niente, bensì dalla propria anticipazione. Allora il niente non è più niente (viene cioè entificato) e il divenire diventa apparenza.
Morto Dio, il nuovo rimedio, cioè la scienza e la tecnica, quest’ultima essendo la scienza applicata all’industria, hanno preso il suo posto. Col suo carattere ipotetico, la previsione scientifica riesce a dominare realmente il divenire, riconoscendone l’imprevedibilità. Ma questo non vuol dire che, con l’eclissi dell’epistème, non sia rimasto alcun immutabile. L’unico immutabile che non è stato distrutto dal divenire è «la fede nell’evidenza del divenire», perchè, come ha visto l’attualista Giovanni Gentile, è «quell’unico immutabile che consente al divenire di mantenersi aperto come divenire» (AT, p. 123). Tuttavia, restando all’interno della fede nel divenire, nemmeno scienza e tecnica possono liberare dal dolore (FF, parte IV).
Per Severino si presentano in questo modo almeno due problemi cruciali. Da una parte l’uomo contemporaneo non può più trovare rimedio al dolore nell’Ente eterno, dall’altra si prospetta la mancanza di una vera via che permetta all’uomo di liberarsi dal dolore. Inevitabile porsi la domanda decisiva e darle una risposta fondata: cosa bisogna fare per poter esser felici?
Come vedremo, in Severino ogni sopraggiungente, quindi anche l’alienazione della verità, non è qualcosa che sarebbe potuto non apparire, ma qualcosa destinato ad apparire. Si pone allora il problema del tramonto dell’«isolamento della terra». Cosa si deve fare affinchè tramonti l’isolamento della terra (ossia il mondo del mortale separato dal destino della verità)? La soluzione del problema non può però emergere dalla risposta a questa domanda, anzitutto perchè la domanda: “Che fare?” sorge e trova risposta «soltanto all’interno della fede originaria in cui consiste l’isolamento della terra» (DN, p. 405). Non è restando all’interno dell’alienazione della verità che si può uscirne! La salvezza della verità, che è l’autentico significato del tramonto del nichilismo e dell’isolamento della terra, non è il risultato di una “mia” o “nostra” impresa.
«Nell’orizzonte della verità, “io”, “tu”, “noi” non dobbiamo far nulla» (DN, p. 407). Ma questo non vuol dire che, se «tutte le cose sono e divengono necessariamente», «non occorrerebbe più che noi prendessimo delle decisioni, nè che ci sforzassimo laboriosamente» (Aristotele, De interpr., 18b 31-33). Per Severino, neanche con questo modo di pensare si esce dal terreno del nichilismo. «Chi è convinto che non gli rimane altro che incrociare le braccia – chi cioè è convinto di poterle incrociare e di poter rinunciare ad agire –‚ se tutto accade necessariamente, costui è convinto di essere libero di incrociarle e di rinunciare ad agire, e isola dal Tutto la dimensione delle proprie decisioni» (DN, pp. 447-448). Se il tramonto del nichilismo e dell’isolamento della terra è destinato ad accadere, non solo non si deve far qualcosa, ma non si deve nemmeno rinunciare ad agire – e tanto meno ricorrere all’“attendismo”.
La verità non è qualcosa che deve essere messo in pratica; la liberazione dal dolore del mortale non è quindi la salvezza del mortale, ma ne è il tramonto. «All’essenza della verità non appartiene dunque la domanda: “Che cosa si deve fare?”, ma la domanda: “Che cosa è destinato ad accadere?”» (SFP, p. 32; cfr. anche G, pp. 73-78). Nel destino della verità, ogni cosa si inoltra nel cerchio dell’apparire necessariamente, con un ordine immodificabile e insostituibile. L’isolamento della terra e il nichilismo, che appaiono all’interno della verità dell’essere, non possono non accadere.

3. L’eternità dell’essere
Mi pare opportuno, a questo punto, esporre succintamente i tratti essenziali del pensiero severiniano dell’eternità dell’essere ovvero di quella che vorrei chiamare la metafisica futile di Severino. Ecco a quale conclusione conduce l’argomentazione severiniana ancorata al principio che l’essere è necessariamente se stesso: è immediatamente autocontraddittorio affermare che qualcosa non sia, che si dia un tempo in cui l’essere non sia (che l’essere non sia sé, ma il suo opposto); allora all’essere – e alle sue determinazioni – conviene immediatamente l’essere. «Risiede nel significato stesso dell’essere, che l’essere abbia ad essere» (SO, p. 317) e dunque non si può non dare «l’identità dell’essenza con sé medesima (o la sua differenza dalle altre essenze), ma l’identità dell’essenza con l’esistenza (o l’alterità dell’essenza dall’inesistenza)» (ibid.). L’essere non è dunque indifferente a che sia o non sia e la negazione di proposizioni del tipo «L’essere (l’intero) non diviene» («L’essere è immutabile») e «L’essere (l’intero) non si annulla, e non esce da una iniziale nullità» «è intrinsecamente contraddittoria» (SO, p. 519). La verità dell’essere, la struttura originaria della verità è appunto l’essere (l’eternità) dell’essere ed è l’apparire dell’autonegazione della negazione della verità. Propria alla metafisica futile è, dunque, la “confutazione” (l’élenchos) della negazione della verità dell’essere (del resto sia in ‘futile’ che in ‘confutare’ è presente la radice latina FU, ‘versare’). Autonegandosi, la negazione lascia stare ciò che nega. Se si tiene presente che il verbo latino destino, costruito sulla radice sta, esprime «il senso fondamentale dello “stare”» (DN, p. 131), in questo senso si può parlare di «destino della verità», per indicare  che ciò che la verità dice non può essere rimosso, smentito, e che ogni ente, persino il più insignificante, è già da sempre e per sempre sollevato nell’essere (DN, pp. 124-125).
Tutto è eterno, tenendo presente che per Severino «l’eternità di ogni ente è l’eternità di ciò che esso è nel modo in cui lo è» (DN, p. 99). Tuttavia, tutto è eterno e ogni cosa appare e scompare. Ma quest’ultima affermazione non vuol significare che tutto diviene (appare e scompare). Vi possono essere divenire e percezione del divenire soltanto se “qualcosa” non diviene. Quel qualcosa di immoto è l’apparire trascendentale: ciò che sopraggiunge e esce dallo sfondo dell’apparire (ovvero dall’apparire trascendentale) non esce dal niente e non vi ritorna. Dunque, per Severino «il divenire che appare è sempre il divenire di una determinazione particolare, o “empirica”, del contenuto che appare» (EN, p. 98). Se l’apparire empirico (l’apparire di una determinazione particolare) entra ed esce dall’apparire, l’apparire inteso «come evento trascendentale, ossia come l’orizzonte della totalità di ciò che appare» (ibid.), non può apparire e scomparire. Gli enti possono apparire solo in quanto appare l’intramontabile cerchio, l’apparire trascendentale. Allora, divenendo, l’apparire empirico entra ed esce dall’apparire trascendentale, esce dall’ombra del non apparire ed entra nella luce dell’apparire (e viceversa). La totalità dell’ente (il Tutto) appare, quindi, processualmente, non si svela totalmente nell’apparire trascendentale (l’«eterno» severiniano non è pertanto atemporale). E in G Severino afferma poi che «il cerchio originario dell’apparire del destino esiste in una molteplicità di cerchi.» (G, p. 37)

5. Libertà e necessità
Una volta affermato che qualcosa si inoltra non nell’essere, ma nell’apparire, ossia che le variabili sopraggiungono ed escono dall’intramontabile cerchio dell’apparire, Severino deve risolvere un altro problema squisitamente filosofico: il problema della libertà. Esso può essere posto in questo modo: «le varianti seguono un destino necessario, nel processo del loro apparire e sparire, oppure appaiono, ma sarebbero potute non apparire e scompaiono ma sarebbero potute non scomparire? » (EN, p. 164). È con DN, che costituisce una notevole ‘svolta’ nel pensiero di Severino, che sopraggiunge nel cerchio dell’apparire il risolversi del problema della libertà.
In DN (e prima ancora in AT, pp. 108-111) viene testimoniata l’appartenenza della libertà all’essenza del nichilismo. Proprio con quest’affermazione inizia il cap. 1 di DN: «La libertà appartiene all’essenza del nichilismo, ossia all’alienazione che, completamente inavvertita, guida e domina lo sviluppo della civiltà occidentale» (DN, p. 19). Se la contingenza dell’ente  deve essere esclusa, perchè, oltre ad ammettere la possibilità che l’essere non sia, riferisce un predicato a qualcosa che non appare, e quindi tale riferimento non può esprimere un contenuto fenomenologico, proprio per questo stesso motivo si deve escludere la contingenza dell’apparire. Severino afferma, quindi, categoricamente che «Non solo ogni decisione è eterna e tutto è già da sempre deciso, ma le decisioni che appaiono sono il destino necessario della storia e nulla accade che non sia l’accadimento del destino» (DN, p. 94). Tutto ciò che accade (anche la follia dell’Occidente) è inevitabile, necessario. «Non esiste alcuna cosa che possa sfuggire alla necessità : perchè lo sfuggirle è il negarla […] e il negarla è autonegazione» (DN, p. 124). A differenza della libertà (l’esser disponibili all’essere e al niente), la necessità non è l’essenza della servitù (non è una costrizione): «il cuore di ogni cosa è la necessità stessa della verità, che dunque non ostacola e non imprigiona le cose, ma è il luogo in cui esse sono tutto ciò che possono essere» (ibid.). Il discorso di Severino non è‚ quindi, assimilabile al fatalismo. Nel cuore della libertà – o della contingenza – dell’ente sta invece la nientità dell’ente (DN, p. 120). Tutte queste affermazioni hanno fatto dire a C. Fabro che quella di Severino è «la negazione più radicale della libertà» in cui egli si sia mai imbattuto4.
Severino ci tiene a precisare che la necessità di cui lui parla (la “necessità futile”; cfr. § 11) non ha però nulla a che vedere con la “necessità” evocata dalla cultura occidentale, perchè alla radice di quest’ultima vi è la volontà di potenza. «Nella storia dell’Occidente la “necessità” compare sin dall’inizio divisa in se stessa: come la “necessità“ degli immutabili che dominano la ribellione del divenire, e come la “necessità“ del divenire che continua a sopravvivere sotto il dominio degli immutabii dell’Occidente e prepara la loro distruzione. La volontà di potenza sta alla radice di questa divisione della “necessità“» (SO, p. 97). Entrambe le facce della medaglia della “necessità” tradizionale sono inaccetabili per il filosofo bresciano (si tratterà allora di vedere come deve essere intesa esattamente la “necessità futile” della metafisica futile di Severino).
Dato che tutti gli enti sono eterni, non è semplicemente un fatto che ognuno di essi stia insieme agli altri, ma è inevitabile che ogni ente stia insieme agli altri e che sia «un loro inevitabile compagno. È cioè impossibile che un qualsiasi ente sia, senza che un qualsiasi altro ente sia. Ad esempio, è impossibile che il cielo stellato sia e questo cantare dei grilli non sia; o che la verità dell’essere sia e la storia del nichilismo non sia» (DN, p. 113). Ogni ente è necessariamente unito ad ogni altro, ogni parte è unita al Tutto e ad ogni altra parte. Tutto ciò che appare non può non apparire. «L’apparire di tutto ciò che appare appartiene alla necessità, detta dal dire necessario […], nel senso che la negazione della necessità è autonegazione non solamente in quanto essa nega l’opposizione dell’ente al niente, ma anche in quanto essa nega l’apparire di ciò che appare» (DN, p. 129). La necessità non è soltanto che l’ente non è un niente, ma anche che l’ente appare come concreto determinarsi dell’esser ente, «è dunque l’unione tra l’opposizione dell’ente al niente e l’apparire di una molteplicità di enti determinati […]. E quell’unione è la struttura originaria della verità, ossia la struttura originaria del destino» (DN, p. 130).

6. La Gioia e la Gloria
Come visto, ciò che accade non è il prodotto di azioni, non è ciò che il mortale crede che accade;  «ma ciò che accade è il destino […] che nessun dio e nessun uomo possono “tenere” e dominare» (DN, p. 489). Per Severino, le azioni non producono le “opere storiche”. «Le azioni sono astri eterni che chiamano, perchè si svelino, altri astri eterni. La “storia” è la risposta a questa chiamata. È l’intreccio del chiamare e del rispondere» (FF, p. 271). In quanto non ottiene ciò che essa vuole, la volontà fallisce nel suo intento di essere volontà, non riesce cioè ad essere volontà. Allora, avvalendosi di un verso di Eschilo (Prometheus, v. 314)5, Severino può rilevare che la téchne è molto più debole della necessità.
Ciò che manca alla volontà isolante per essere volontà – e al voluto per essere voluto – è il destino della verità. Esso è quindi eternamente ciò che la volontà non può mai riuscire ad essere. «Solo il destino è la volontà perfetta» (DN, p. 581). Nello sguardo del destino (eternamente apparente), la volontà è apparire e può volere soltanto il necessario e l’eterno: può volere soltanto ciò che è necessità che appaia, che è necessità che sia voluto. Nel cerchio dell’apparire, il destino della verità appare contrastato dall’isolamento della terra. Ma questo contrasto (questa contraddizione) appare come negato. È necessità che appaia come negato; «e questa negazione è essa stessa un tratto della necessità del destino. La volontà del destino è quindi volontà che vuole la negazione del contrasto tra il destino e l’isolamento, cioè vuole il completo tramonto dell’isolamento della terra» (DN, p. 583). Ed è necessità che (anche) questa volontà ossia che il destino appaia. La volontà del destino vuole il tramonto della volontà dell’isolamento della terra. L’apparire di questa volontà è  l’apparire della necessità del tramonto dell’isolamento, che è il tramonto dell’alienazione del destino della verità. E «proprio perchè ciò che appare è il destino, la volontà che vuole il destino» «è la volontà che ha già da sempre ottenuto ciò che essa vuole» (DN, p. 582). Nel discorso non finalistico di Severino, l’isolamento della terra è quindi già da sempre tramontato, oltrepassato – ma esso, nel cerchio finito dell’apparire, contrasta il destino della verità (il dolore «è eternamente oltrepassato dalla Gioia» (PM, p. 105)).
Inoltre, non solo la contesa tra il destino e l’isolamento della terra è già da sempre tramontata, «ma ogni contraddizione è già da sempre oltrepassata»(DN, p. 588). Prima di vedere come viene precisata questa tematica nel volume La Gloria, va rilevato che  ogni contraddizione appare (come negata e, insieme, come non oltrepassata) nel cerchio finito dell’apparire, che non può essere l’apparire del Tutto. Infatti, «l’apparire del Tutto è l’apparire dell’oltrepassamento di ogni contraddizione e, appunto per questo, apparire infinito» (DN, p. 589). L’apparire infinito del Tutto è il contenuto del cerchio finito dell’apparire nel suo aver già da sempre oltrepassato ogni contraddizione che avvolge tale contenuto in quanto finito. E questo contenuto è il destino, che, come contenuto finito, è la propria incapacità ad esser se stesso e che, nel suo aver già da sempre oltrepassato la totalità della contraddizione che lo avvolge in quanto contenuto finito, è se stesso. «II Tutto non è semplicemente altro dal contenuto del cerchio finito dell’apparire, ma è ciò che in verità questo contenuto è. In verità – cioè al di fuori del suo contraddirsi. II Tutto è l’esser se stesso del cerchio dell’apparire del destino» (DN, p. 590).
Ogni contraddizione è da sempre e per sempre un passato. Lo stesso mortale, in quanto contrasto tra il destino della verità e l’isolamento della terra, è già da sempre oltrepassato. E il mortale è appunto questo oltrepassamento: il Tutto è ciò che in verità il mortale è. Il Tutto è l’inconscio più profondo del mortale. Poichè ogni dolore, ogni pena è una contraddizione, il Tutto, come oltrepassamento di ogni contraddizione del finito, è la Gioia. E, quindi, la Gioia è l’inconscio più profondo del mortale.
In G, che costituisce la risoluzione di Destino della necessità, Severino arriva a dire che «la terra, inoltrandosi nel cerchio dell’apparire del destino, è destinata all’oltrepassamento della solitudine: il destino della verità è destinato a manifestarsi non contrastato dall’isolamento della terra. Questa destinazione appartiene al destino. Il disvelamento della Gioia, nel suo esser libera dal contrasto con la solitudine della terra, è la Gloria.» (G, p. 30) Ma la ‘buona novella’ (mi sia consentita l’espressione…) non finisce qui. Anzi, l’evoluzione (infinita?) del pensiero dell’eternità dell’essere fa entrare nel cerchio dell’apparire un ulteriore tassello dello stare della verità:  «la Gloria è il dispiegamento infinito, nel cerchio finito dell’apparire del destino, del suo essere già da sempre totalmente dispiegata nell’apparire infinito della Totalità dell’essente. Il culmine della Gloria è dunque il dispiegamento infinito della terra oltre la solitudine della terra.» (G, p. 32)
La Gloria che compete al cerchio finito del destino «è la necessità che ogni luogo raggiunto dalla terra sia oltrepassato e che dunque sia oltrepassato anche il luogo in cui consiste la solitudine della terra.» (G, p. 92)
Dunque, con La Gloria viene palesato l’oltrepassamento infinito proprio all’apparire e allo scomparire degli eterni: «Poiché è necessario che ogni luogo incontrato dalla terra – ogni eterna configurazione o fase della terra – sia oltrepassato, il dispiegamento della terra nel cerchio del destino è infinito; e quindi, dopo l’apparire di una qualsiasi configurazione, un’infinità di configurazioni della terra attende ancora di entrare nel cerchio del destino. E l’infinità di configurazioni che la terra è destinata a manifestare è a sua volta una parte del Tutto, ossia dell’eterno oltrepassamento concreto della totalità delle contraddizioni, nel quale consiste l’apparire infinito.» (G, p. 153)
Mi pare poi opportuno notare  anche che   per Severino «La Gloria non è una beatitudine futura che ancora attenda di essere: il dispiegamento infinito della terra è già, eternamente; e tuttavia è destinato a inoltrarsi nel cerchio dell’apparire del destino (e nella costellazione infinita dei cerchi) lungo un percorso che non è mai compiuto. Essere la Gloria significa, per ogni cerchio dell’apparire, essere questo disvelamento infinito del dispiegamento eterno della terra – che peraltro appare già eternamente nell’apparire infinito del Tutto, sì che in quel disvelamento non incomincia ad essere nemmeno l’apparire del dispiegamento infinito […] nello sguardo del destino della verità la Gloria di ogni cerchio del destino è insieme la Gloria di ogni altro cerchio. Essere la Gloria significa essere la costellazione infinita dei gloriosi» (G, pp. 155-156)

7. Il non-nonessere
Che ne è della radicale riforma antropologica operata da Severino? Gli scritti severiniani non dicono all’uomo cosa debba fare, come agire, in quanto «è impossibile agire ‘conformemente’ al destino della verità, perché l’agire stesso, in quanto tale, è difformità dal destino, ossia è l’illusione che, all’interno della terra isolata, ha fede nel proprio essere un io che ha la capacità di far diventar altro le cose della terra.» (G, p. 77)  Tutto accade necessariamente e «Già da sempre esiste dunque, ed appare, la totalità dei dolori e dei piaceri, dell’angoscia e della felicità che sono destinati a manifestarsi lungo il sentiero della solitudine della terra, e dei quali è per lo più portatore l’io dell’individuo. Ciò significa che all’Io finito del destino (ma anche all’io dell’individuo, e, poi, a ogni forma dell’io e ad ogni essente) non può accadere nulla che egli non sia già.» (G, p. 63) Carlo Levi direbbe che pertanto, non si tratta di dover agire, quanto di lasciar scorrere o fluire le cose. Vediamo come l’intellettuale torinese è arrivato ad un’argomentazione così radicale. È bene dire che l’ha fatto riferendosi al concetto di “futilità”.
I libri più prettamente filosofici di Levi sono il primo e l’ultimo da lui scritti: Paura della libertà e Quaderno a cancelli. Paura della libertà è stato pubblicato nel 1946, sebbene Carlo Levi l’abbia scritto «sette anni»6 prima, ossia in Francia, nel 1939. (Nel 1964 l’autore vi aggiunge un ulteriore capitolo: “Paura della pittura”, scritto nel 1942.) Questo libro, che Levi considera un «poema filosofico»7, è quindi stato scritto prima ma pubblicato dopo il più celebre Cristo si è fermato a Eboli8 (1945).
Da cosa ha origine l’individuo? Nel suo poema filosofico Levi risponde a questo quesito parlando della “massa”: «Più antica di ogni ricordo, più vaga di ogni speranza, più lontana della nascita, sta in tutti i cuori una oscurità illimitata […] zona nera di eterna passività, necessario nulla, dalla cui contraddizione hanno origine le cose, smisurata e senza termini» (PL, p. 105). Con un’arguta argomentazione che ricorda l’idealismo hegeliano e l’attualismo gentiliano, autori letti o riletti durante la sua detenzione nelle carceri torinesi9 perché legato all’area antifascista, Levi sviluppa questo discorso dicendo che ciò da cui l’uomo ha origine, la massa, è «un assoluto illimitato, e perciò inesistente, come il suo opposto, l’assoluta finitezza»; si tratta di «un concetto che contraddice se stesso», «è il nulla» (PL, pp. 105-106).
Da questo nulla, da questo «caos», nasce ogni individuo. L’uomo «viene dalla massa per differenziarsi» (PL, p. 23). La massa, dunque, è la condizione prima di ogni individualizzazione (o differenziazione, o rinascita). Levi la considera anche la  « forma delle forme»,  «quella forma che sta sotto a tutte le forme e che le comprende tutte, che non ne ha nessuna in modo determinato, ma che ha la possibilità di tutte le forme»10.
In Quaderno a cancelli11 Levi denomina «la pura Probabilità, o Futilità» (QC, p. 110) il punto da cui si origina il processo di individuazione visto che il risultato specifico di tale processo (il punto di arrivo) è ‘aperto’: «tutto è realmente possibile» (Cristo, p. 98). L’indeterminato, il concetto che contraddice se stesso, sembra essere il non essere, il cui opposto è l’essere. In realtà la massa (o l’indistinto originario) è la sintesi di essere e non essere, cioè un’entità che «è e non è insieme, e il suo non essere non ha per opposto l’essere, ma tutt’al più un non-nonessere (di cui non vedo il significato) : essa insieme, non dialetticamente, non è e non-non è» (QC, p. 110). Infatti, come dice  Hegel nella Scienza della logica, il puro essere ed il puro niente è lo stesso; l’inizio contiene dunque entrambi, l’essere e il niente: l’unità di essere e niente.
A quello di non-nonessere (alla massa) Levi associa il concetto junghiano di «indistinto originario»: «Esiste un indistinto originario, comune agli uomini tutti, fluente nell’eternità, natura di ogni aspetto del mondo, spirito di ogni essere del mondo, memoria di ogni tempo del mondo. Da questo indistinto partono gli individui, mossi da una oscura libertà a staccarsene per prender forma, per individuarsi – e continuamente riportati da una oscura necessità a riattaccarsi e fondersi in lui. Questo doppio sforzo sta fra due morti: la caotica prenatale, e il naturale spegnersi e finire. Ma morte vera è soltanto il distacco totale dal flusso dell’indifferenziato, vuota ragione egoistica, astratta libertà – e, all’opposto, l’incapacità totale a differenziarsi, mistica oscurità bestiale, servitù dell’inesprimibile» (PL, p. 23).
L’uomo può ritenersi ‘vivo’ quando prende le mosse dalla massa e le dà forma, senza però approdare nel suo opposto, l’astratta determinatezza : «i soli momenti vivi nei singoli uomini, i soli periodi di alta civiltà nella storia, sono quelli in cui i due opposti processi di differenziazione e di indifferenziazione trovano un punto di mediazione, e coesistono nell’atto creatore» (ibid.). Per Levi, l’animo umano oscilla tra l’indeterminatezza (la massa) e la determinatezza (l’individualità). E la dialettica massa-individualità ha una valenza storica e sociale, oltre che esistenziale: «Quello che è vero per l’individuo, è vero per la società e per lo stato» (PL, p. 55). Allora, il tendere come anche l’aver teso verso la categoria dell’indeterminatezza oppure della determinatezza concerne non soltanto la vita del singolo (la storia individuale), bensì altresì la storia del genere umano.
Un individuo – e un popolo, ed il genere umano – fruisce di autentica libertà nel preciso momento in cui riesce – creativamente – a mediare gli opposti differenziazione-indifferenziazione, a dare forma all’informe. La sintesi degli opposti (la ‘doppiezza nell’unità’), il processo di individuazione, funge da garanzia di libertà ed autonomia.

8. Opposizione tra arte e religione
Levi carica il processo di individuazione di valenze filosofiche e psicologiche. Ma non solo. Esso va infatti rapportato ai concetti di ‘sacro’ e di ‘religioso’: «non potremo intendere nulla di umano se non partiremo dal senso del sacro: il più ambiguo e profondo e doppio e vermaquilino dei sensi, l’oscura continua negazione della libertà e dell’arte, e, insieme, per contrasto, il generatore continuo della libertà e dell’arte. Né potremo intendere nulla di sociale se non partiremo dal senso del religioso, questo figlio poco rispettoso del sacro.» (PL, p. 21)
Il sacro e la religione non coincidono. Anzi, essi costituiscono un’altra coppia di opposti: mentre la prima dimensione connota l’informe e l’indistinto, la seconda ha una valenza negativa in quanto determinazione astratta e mutazione del «sacro in sacrificio» (ibid.). Tanto il sacro quanto la religione sono dei mezzi del processo di individualizzazione, ma ognuno in un diverso e opposto modo. «Il senso, e il terrore, della trascendenza dell’indistinto, lo spavento dell’indeterminato in chi è nello sforzo di autocrearsi e di separarsi, questo è il sacro.» (PL, p. 24)  Significativo il riferimento leviano allo sforzo di autocrearsi e di separarsi, ossia alla creazione. Per scoprire se stesso e il mondo, per autocrearsi, l’uomo deve partire dal caos (dal disordine, dall’informe) per generare il cosmos (l’ordine). L’uomo ha da essere ‘creatore’, ossia – platonicamente – Demiurgo, cioè Artista (Artigiano). Nei suoi scritti Levi ricorre, come Alain, a termini come ‘produttore’ o Contadino per designare la sua visione dell’individuo ‘sano’ che, in quanto tale, non ha reciso – e tanto meno ha intenzione di recidere – il cordone ombelicale che lo lega all’indistinto originario.
Al processo creativo fa da ostacolo la religione.  «Religione è la sostituzione all’inesprimibile indifferenziato di simboli, di immagini reali e concrete, in modo da relegare il sacro fuori della coscienza, porgendo ad essa degli oggetti finiti e liberatori.» (PL, p. 24)  La religione non mira a favorire l’invenzione della verità e la libertà dell’uomo. Al contrario, essa è  «un mezzo che tende, per liberare lo spirito dal senso terrificante della trascendenza, a sostituirla con simboli visibili, idoli.» (ibid.) Dal punto di vista storico, con questa operazione si è dato concretamente il via libera alla tirannide, alla divinizzazione (deificazione) dello Stato, alla hegeliana superiorità dello Stato sull’individuo. La religione protende essenzialmente a far obliare l’indistinto originario, l’autentico punto di partenza di ogni creazione, della libertà creatrice.
La libertà umana non può né consistere  «nella sostituzione all’uomo del suo simbolo, del suo idolo» (PL, p. 25) – ossia nella deificazione dello Stato –, né tanto meno nell’individualismo astratto in cui non si dà alcun senso di comunità o Stato. La libertà dell’uomo implica il continuo (o ciclico) ritorno ad un indistinto originario il cui oblio implica lo staticizzarne il fluire eterno. Queste prerogative vengono salvaguardate dall’arte, che è allora autentica espressione della libertà creatrice dell’uomo.
Dunque, l’affermazione e la determinazione dell’uomo possono avvenire – e di fatto sono avvenute nel corso della storia – in due modi radicalmente diversi: sotto la spinta della religione oppure della poiesis.  «La storia non è che la vicenda eterna del faticoso determinarsi della massa umana, e del suo risolversi in stato, poesia, libertà, o del suo celarsi in religione, rito, costume; e del ricrearsi continuo della massa dall’inaridire degli stati, dal cristallizzarsi delle religioni.» (PL, p. 106)  Le due possibilità di concretizzazione del processo di individualizzazione di cui parla Levi, con evidenti riferimenti al pensiero vichiano, non possono realizzarsi allo stesso tempo, pena la contraddizione. Infatti, mentre la religione  «è la limitazione simbolica dell’universale»,  «è la manifestazione certa di una servitù liberatoria e divina»,  «è rituale fisso», l’arte non può che essere «l’espressione concreta» dell’universale,  «la voce stessa della libertà umana»,   «mitologia». Date queste premesse, Levi non può che trarre la seguente conclusione:  «L’espressione religiosa è dunque l’opposto della espressione poetica» (PL, p. 69). Ricorrendo al religioso, l’uomo si appiglia alla  «certezza», ad una realtà  «trascendente e permanente», caratterizzata dall’immutabilità (PL, p. 71).
Tuttavia proprio l’immutabilità risulta essere espressione di inautenticità non consentendo all’uomo di essere ‘umano’, di essere cioè se stesso e perciò è fonte di alienazione. Invece l’espressione artistica è indice di  «creazione»(PL, p. 73) e libertà, ossia propriamente di mutevolezza e divenire. La religione limita la creazione e la libertà umana (impone loro dei limiti determinati, fissi); l’idolo, la divinità immutabile, impone la sua legge alla libertà e alla creatività, riducendole così in schiavitù, non facendole più essere autonome.  «Figurazione religiosa ed espressione artistica sono antitetiche: questa, creazione tutta umana, non conosce altra legge che la propria e implicita ed eternamente mutevole, anche quando raffiguri gli oggetti della religiosità: quella ha per suo compito di relegare l’arte sull’altare della certezza e della durata, di legarla nei suoi stessi schemi, perché essa continui; di sacrificarla, acciocchè essa possa diventare un legame simbolico, e quindi una pratica comunicazione tra gli uomini. L’opposizione è quella di creazione e di limite» (PL, pp. 72-73) (perciò, precisa Levi, non esiste,  «a rigore, un’arte religiosa: contraddizione in termini» (PL, p. 70)).

9. La morte degli dei (il Naufragio del Piloro)
Come detto, per Levi l’espressione artistica  «non conosce altra legge che la propria»: l’arte non è soggetta a nessuna legge estrinseca, non è soggetta ad altra legge che la propria, ed ubbidisce unicamente ad essa. Levi precisa che questa legge consiste nella libertà creatrice che prende le mosse dall’eterno fluire e dalla mutevolezza e che conserva queste peculiarità dell’umano. In altri termini, arte è sinonimo di divenire. In quanto tale, per usare una felice espressione di Gustavo Bontadini,  «il divenire come legge nega ogni legge del divenire, ogni legge che determini il contenuto del divenire.»12  Se l’arte si rifacesse ad una legge diversa dalla propria, se venisse inquadrata in schemi fissi, essa cesserebbe di essere libera (creazione). La sua legge (o autonomia) non le può consentire di accettare nessun’altra legge all’infuori della propria, ma, anzi, le impone di liberarsi da ogni altra imposizione, di distruggere ogni altra legge. Altrimenti l’arte non sarebbe arte, l’umano non sarebbe umano, ossia libertà creatrice e divenire. Il rifiuto della religione, la nietzscheana distruzione degli dei («Dio è morto») ovvero, per utilizzare la terminologia di Emanuele Severino, la distruzione degli immutabili è dunque necessaria perché essi – come visto – rendono impossibile o illusorio il divenire, la libertà. Soltanto con la distruzione degli immutabili (degli dei) sono possibili l’arte e l’individuo, è possibile forgiare (determinare) in modo originale e  ‘concretamente’ l’indeterminato. Con la morte degli dei è possibile creare od inventare la verità13. È questa la conclusione a cui perviene Carlo Levi fin da Paura della libertà. (Questa profonda tesi racchiude la chiave di lettura delle scelte e delle opere del Levi scrittore, pittore e politico.)
L’arte, di cui Croce proclama l’autonomia, non può quindi essere asservita e assoggettata. E ciò vale per qualsivoglia disciplina e dimensione umana. Il ‘detto’ che sintetizza alla perfezione il pensiero leviano è: «muoiono gli dei, si crea la persona umana» (PL, p. 134).
Per liberare l’uomo dalla paura della libertà, per salvare la libertà (filosoficamente, per ‘salvare i fenomeni’), Carlo Levi afferma coerentemente la necessità di negare gli dei immutabili. Difatti il divenire come legge nega ogni legge del divenire, cioè ogni legge che determini il contenuto del divenire, perché altrimenti il divenire sottosta ad una legge a lui estrinseca che gli impedisce di essere espressione di creatività, libertà e novità:  «perché l’idolo viva, ogni azione autonoma è sacrilega e mortale: solo è necessaria la obbedienza» (PL, p. 113). Dunque, l’idolo (la religione, lo Stato, ecc.) dice a ciò che è ancora informe come deve essere formato, a ciò che è come deve essere oppure non essere, impedendo ogni possibilità di libertà creatrice. Nel caso del dio Stato,  «la sua lingua è legge, e ogni legge è religiosa: poiché non è la norma interna di un’azione singola; ma la norma esterna e arbitraria di ogni possibile azione […]. Ogni autonomia, ogni atto creatore, è per sua natura, fuori di questa legge, nemico dello Stato, sacrilegio.» (PL, p. 112)  La filosofia  dello  scrittore piemontese non potrebbe essere meno esplicita e limpida su questo punto!
La conclusione che si prospetta? Se ci si affida agli dei  «finisce la libertà della legge morale interna alle cose, per iniziarsi la servitù della legge esterna, della legge religiosa» (PL, p. 121).
In uno scritto14 successivo a Paura della libertà Levi ritorna sul tema della morte degli dei descrivendo minuziosamente i vari elementi raffigurati in quadri e disegni concernenti il “Naufragio del Piloro”: «Un oceano artico, con balene, iceberg, gabbiani, pesci, foche, e poi onde nascenti, fino alla tempesta; e una nave [il Piloro], prima dolcemente navigante nella calma del mare, con tutte le sue vele gonfie; e poi il vento, il fulmine, l’albero maestro spezzato, le barche di salvataggio inutili, gli uomini vanamente cercanti scampo nel mare terribile, la poppa che si solleva mentre la nave precipita nell’abisso.» (corsivo mio)
Tuttavia il Naufragio del Piloro non si limita semplicemente a rievocare l’inabissamento di una grande nave. Oltre al senso letterale, affiora quello simbolico. Ciò che viene inghiottito dalle onde del «mare terribile» è sì una nave, che Ercole Levi, padre di Carlo, denominò il Piloro; ma Carlo Levi puntualizza che «il piloro era essere Padre» (questa la dimensione psicologica della tematica in questione). Non solo. Egli rileva inoltre che quel disegno simboleggia l’«infinita possibilità di creazione del reale» e gli fa vedere, «con estasi e rapimento, la realtà farsi, sotto le mani, forma e figura»; e insieme gli fa accorgere «con dolore, repulsione, angoscia, dell’errore, della contraddizione, della volgarità inespressiva che sta dentro la realtà, e nega la poesia.»15
Nel Naufragio del Piloro Levi rappresenta , quindi, in modo simbolico oltre che figurativo, la morte degli dei, la nietzscheiana ‘morte di Dio’. Il divenire è ovviamente rappresentato dal mare. Inizialmente, sotto la dominazione degli dei immutabili, è la calma del mare a regnare; è cioè l’immutabile a dominare le onde del mare. Ma il mare non può essere continuamente calmo, la sua forza ed il suo flusso non possono essere arrestati assolutamente. Ecco emergere pertanto le onde nascenti, indicanti l’affievolirsi della paura della libertà. La ribellione del divenire agli immutabili che intendevano farlo scomparire (negarlo) è a quasto punto inarrestabile: inevitabile la tempesta, lo spezzarsi dell’albero maestro, l’inabissamento della  nave. Gli dei sono troppo più deboli del divenire.
Ritengo pertanto che Carlo Levi vada forzatamente annoverato tra i pensatori moderni che, come vuole Severino, hanno espresso la necessità della distruzione degli immutabili. Oltre a Nietzsche, Leopardi e Gentile, autori ai quali si riferisce il filosofo bresciano, va aggiunto Carlo Levi.

10. Avvenimento versus azione
Per Severino, credendo nel divenire delle cose il mortale, avendo preteso recidere il cordone ombelicale che lo lega necessariamente al destino della verità, crede anche di manipolarle e di distruggerle. Vive conseguentemente nell’alienazione costituitata dal nichilismo (ossia il “Venerdì Santo” che precede la “Pasqua”).
Per Levi, l’uomo che si libera dagli dei non si separa da sé, non si aliena. Al contrario, riconquista l’immortalità ed il paradiso perduti vivendo  «in un tempo ritrovato, dove non vi è prima e poi, giorno e notte, ma dove ogni attimo è eterno»(PL, p. 125). Avendo ritrovato il tempo originario (o perduto), proprio alla massa (all’indistinto originario) e pertanto da identificare con   «l’eternità» o forse con   «il nulla» (Or., p. 15), l’uomo è libero di creare. Ne L’Orologio16, Levi qualifica con l’appellativo di Contadini gli individui « che fanno le cose, che le creano, che le amano »(Or., p. 166). Il Contadino ovvero l’Artigiano / Demiurgo di Platone dà ordine al disordine percependo (vivendo e pensando) il tempo vero, immagine dell’eternità,  «immagine pura di un fluire eterno» (Or., p. 10) ed unica garanzia della vita(lità) dell’individuo. Al Contadino si oppone il Luigino, il parassita che, obliando «l’oscuro fondo vitale di ciascuno di noi» (Or., p. 165) e non creando, per vivere si nutre di chi produce. L’etica dei Luigini si distingue nettamente da quella dei Contadini. E questa opposizione si basa su una diversa percezione del tempo. I Luigini sciolgono il legame che lega ogni essere all’indistinto originario e in questa maniera frazionano l’unità originaria e, dunque, il tempo immagine pura di un fluire eterno. Di conseguenza si affidano al ritmo matematico dell’orologio senza comprendere di vivere nell’alienazione della verità, di intraprendere il sentiero dell’alienazione. I  «due tempi» seguono  «un altro ritmo» ed obbediscono «ad altre leggi». Essi sono, «fra loro, incomunicabili» e già in Cristo si è fermato a Eboli, Levi rileva che essi danno luogo a due opposte civiltà (Cristo, p. 72).
Ma la distinzione tra due atteggiamenti esistenziali opposti figura già in Paura della libertà, proprio dopo che Levi ha trattato dell’indistinto originario. Lo scrittore torinese distingue l’«azione» dall’«avvenimento»: l’azione è «frutto della differenziazione completa: l’individuo, staccato dal tutto, si muove per darsi forma, e il suo movimento è incomprensibile se non a lui.» (PL, p. 23 (corsivo mio)) L’azione concerne quindi i Luigini (o, nel caso di Severino,  gli abitatori del tempo). «L’avvenimento è invece il prodotto dell’attività umana in quanto creatrice, ricca cioè nello stesso momento di differenziazione e di indifferenziazione, di individualità e di universalità[…], libera insieme e necessaria» (PL, pp. 23-24). L’avvenimento è pertanto proprio al Contadino, all’individuo vero.
Pur non anticipando la concezione severiniana dell’eternità dell’essere, le considerazioni leviane sulla dimensione temporale individuano l’importanza del concetto di eternità e della conseguente necessità di distinguere due opposte concezioni del tempo fondanti, ciascuna, un’etica diversa. In effetti, il tempo dell’orologio è l’opposto del tempo vero, della contemporaneità dei tempi: se nella dimensione meccanica del tempo si può distinguere il ‘prima’ dal ‘poi’, nella dimensione durativa del tempo – simile alla crociana contemporaneità ed alla bergsoniana durée réelle –  i tre tempi (passato, presente e futuro) esistono contemporaneamente (sviluppando le considerazioni sul tempo fatte da Sant’Agostino sulla base della teoria platonica del tempo immagine dell’eternità17, Levi avrebbe potuto dire che essi sono presenti, allo stesso tempo). Il tempo meccanico  «non fluisce, ma scatta in una serie di atti successivi, sempre uguali e monotoni»(Or., p. 11). Indubbio, allora, che il Luigino non può assolutamente essere un creatore.

11. La «necessità futile»
Le riflessioni contenute in Paura della libertà ritornano, come ha ammesso lo stesso autore, nei suoi successivi libri. Il cerchi si chiude con Quaderno a cancelli, l’ultimo libro scritto da Levi. In questa sorta di zibaldone, scritto in stato di cecità, Levi passa in rassegna varie tappe della sua vita, riespone ed ‘aggiorna’ molti aspetti e temi centrali del suo pensiero, della sua posizione filosofica.
Anche in Quaderno a cancelli egli parla dell’  «infinito ritorno a un indistinto anteriore prima del tempo […] fatto di archetipi prima di ogni possibile trasgressione» (QC, p. 222; chiaro il riferimento alla teoria junghiana degli archetipi) come anche della massa da cui ha origine la persona umana. Ora, come visto, questo punto di partenza viene denominato  « la Futilità » o anche la  «pura Probabilità» che  «è e non è insieme, e il suo non essere non ha per opposto l’essere, ma tutt’al più un non-nonessere» (QC, p. 110). Ma nella realtà dominano la divisione e la separazione del contemporaneo che hanno dato inizio al tempo degli dei. In Paura della libertà Levi fa riferimento al Paradiso perduto ed in Quaderno a cancelli si riferisce particolarmente alla rottura della  «naturale unità della sfera materno-filiale» (QC, p. 29), alla Morte della Madre. In entrambi i casi si tratta del distacco dal tempo prima dei tempi e della conseguente perdita dell’immortalità da parte dell’uomo. La vera differenza tra i due libri (il primo e l’ultimo di Carlo Levi) consiste nel fatto che mentre il primo   «non è solo un lamento funebre sulla civiltà che scompare, ma anche un volume folto di idee sulla rinascita e la riscoperta della civiltà»18, ossia indica all’uomo il sentiero del Giorno, il secondo libro non ritiene più recuperabile – quanto meno per l’autore – l’immortalità perduta. Inevitabile, quindi, l’attardarsi sul sentiero della Notte19.
Le affinità con il pensiero severiniano non devono sorprendere più di tanto. Infatti, la loro riflessione trova il suo fulcro da una parte nell’eternità e nell’unità del tutto, dall’altra nella critica della civiltà che ha voluto dividere l’indivisibile. Entrambi i pensatori si oppongono alla concezione classica del tempo implicante il “prima” ed il “poi” poichè questa interpretazione ‘malata’ della dimensione temporale implica uno stile di vita alienato, in quanto in tal modo l’uomo recide (o crede di recidere) il cordone ombelicale che lo lega all’eterno, dimentica cioè che l’inconscio dell’inconscio è costituito dall’eternità dell’essere. Al di là (o al di sotto) del tempo meccanico esiste il tempo vero, immagine pura di un fluire eterno (per Levi) o apparire e scomparire dell’eterno (per Severino). La dimensione psicologica affiora esplicitamente sia in Levi che in Severino ed entrambi propongono una concezione della felicità analoga a quella plotiniana, secondo cui l’uomo o, meglio, la parte superiore dell’anima umana, risiede stabilmente nell’intellegibile (nell’eterno), fonte di felicità: per Severino, l’uomo è da sempre e per sempre ancorato all’eterno (è eterno), alla gioia, perfino nell’oblio della verità dell’essere; per Levi, la felicità «è vano cercarla: perché non è raggiungibile che da chi ce l’ha»(QC, p. 203). Ed in Cristo si è fermato a Eboli parla in questi termini della sua consapevolezza dell’essere ancorato all’indistinto originario e della felicità che ne deriva: «Mi pareva di essere staccato da ogni cosa, da ogni luogo, remotissimo da ogni determinazione, perduto fuori del tempo, in un infinito altrove. Mi sentivo celato, ignoto agli uomini, nascosto come un germoglio sotto la scorza dell’albero: tendevo l’orecchio alla notte e mi pareva di essere entrato, d’un tratto, nel cuore stesso del mondo. Una felicità immensa, non mai provata, era in me, e mi riempiva intero, e il senso fluente di una infinita pienezza.» (Cristo, pp. 198-199)
Non è casuale che i due pensatori italiani considerino «invidiosi» (AT, p. 22) e «gelosi» gli dei dell’Occidente (QC, p. 208) che negano l’eternità agli altri esseri per farne una prerogativa esclusivamente loro. Essi si scagliano contro gli dei del Possesso, contro i Padroni che considerano tutti gli altri esseri dei servi. Non per niente, i due filosofi ‘antitradizionalisti’, seppure su una base in parte diversa, sono concordi nel ritenere che non ci si possa impossessare delle cose, parlarne come di qualcosa di ‘mio’ o di ‘tuo’. Levi si rifà sintomaticamente ad una realtà concreta, alla lingua Ronga : «Nella lingua Ronga / non puoi dire mio / così nessuno può offenderti nelle cose / nè privarti di quello che non hai. / Non un uomo, molto meno un dio / parola svanita di inchiostro / dove il pane non è nostro / e nostro non può essere il  Padre» (QC, p. 22).
Alla logica del possesso e dell’utile, tanto Severino quanto Carlo Levi  antepone la logica del futile:  «ma la Futilità / non è utile nè inutile / non appartiene e non possiede / non serve  (non è serva) / non è tenuta e non tiene / a nessuna di queste cose pertiene.» (QC, p. 25)  Ogni ente è se stesso, è eterno. Nessuna gerarchia ontologica è pertanto ammissibile. E nessuno (nessun eterno) può appropriarsi dell’eterno. Pertanto,  Emanuele Severino non può che essere considerato, insieme a Carlo Levi20,  un assertore del pensiero futile: per entrambi si tratta di “lasciar scorrere le cose” (etimologicamente, “futile” significa “che lascia scorrere”: basti pensare al vaso Futile delle Vestali). Sebbene sia soltanto lo scrittore piemontese a parlare di futilità – in relazione al punto di partenza di ogni determinazione umana –, per il filosofo bresciano non si tratta di suggerire all’uomo una norma di vita. Allora, anche per Severino centrale è la nozione di  futilità. La differenza tra i due pensieri futili consiste in questo: se per Levi la futilità è il punto di partenza di un processo che sfocia nella creazione, nell’«avvenimento», nell’impegno concreto, per Severino essa costituisce vuoi il punto di partenza, vuoi il punto di arrivo del suo pensiero: tutto accade (entra ed esce dall’apparire trascendentale) secondo “necessità”.
Allora uno dei principi fondamentali del pensiero severiniano è, propriamente, quello di futilità: la futilità del tutto, ossia il necessario apparire e scomparire dell’eterno. Si prospetta quindi quello che solo in apparenza può essere considerato un paradosso (‘etico’): l’uomo guidato dal principio di futilità. Ritengo pertanto che piuttosto che parlare di neoparmenidismo – o di spinozismo –, come confermato anche dalle pagine di G prese in considerazione nel caso del pensiero di Severino sia più appropriato parlare di metafisica o pensiero futile.  Inoltre, se per etimologia ed assonanza il termine ‘fluidità’ deriva proprio da “futilità”21, non resta che opporre, al senso greco del divenire e della fluidità esplicato da Severino, il senso severiniano del divenire e della fluidità: il necessario apparire e scomparire dell’infinità degli eterni (che si oppone alla ‘modernità liquida’). Visto poi che il filosofo bresciano distingue la “necessità” di cui parla la tradizione occidentale dalla sua nozione di “necessità”, reputo che quest’ultima possa essere considerata, sulla scorta di quanto sostiene Levi in merito al non-nonessere, la «necessità futile» (QC, p. 50): propria del pensiero severiniano è da un lato la necessità della confutazione della negazione della verità, dall’altro  la necessità dell’ apparire e dello scomparire degli enti come base dell’essere dell’uomo (nel caso di Levi, proprio dell’“indistinto originario” è il necessario fluire eterno da cui deve emergere la creatività umana). Quella severiniana è quindi una necessità doppiamente “futile”.
Severino ha avuto modo di dire che «Certo, non si può rendere pietra ciò che è fluido. Questo è l’errore della tradizione dell’Occidente, che al di sopra della fluidità del mondo (e dunque riconoscendola) pone la pietra di Dio. Ma quando si riconosce che il senso greco della fluidità, cioè del divenire, è il contenuto di un sogno […], allora ciò che è impietrito è solo il sogno del divenire, è solo un divenire dipinto, e quindi, affermando l’eternità di tutte le cose, non si impietra più una fluidità reale, ma ci si trova in ac-cordo col cuore delle cose, che ‘non trema’ e che via via va mostrandosi.» (LeC, pp. 122-123) Bisogna però aggiungere che affermando l’eternità del tutto, si arriva ad affermare – conseguentemente – la futilità / fluidità del tutto (prima valenza della “necessità futile”) come anche l’inconfutabilità della verità (seconda valenza della “necessità futile”).
Pertanto, a quella che  chiamo la metafisica futile di Severino fa da controparte, parallelamente, un’antropologia futile. L’uomo è necessariamente un essere “futile”, ovverosia “inaffidabile”. Infatti, in opposizione a Martin Heidegger, che parla di “Gelassenheit”, l’uomo severiniano lascia fluire l’essere (per  Heidegger si tratta invece di lasciar essere gli enti). Di conseguenza, per Severino l’uomo  non può né agire né prendere decisioni in quanto espressioni del nichilismo dell’Occidente. L’uomo, eterna apparizione dell’essere, sa che la verità non può essere messa in pratica. A tale uomo sono poi estranee tanto la fede nel divenire quanto la fede nella verità. La futilità del tutto non è quindi una fede, bensì la verità inconfutabile.
Carlo Levi, invece, pensa ad uomo che, dopo essersi immerso nel mare della “futilità”, agisce, crea ed “inventa” la verità: l’uomo vero è un Contadino, un Demiurgo.

(Mythenstrasse 31, CH-6020 Emmenbrücke – Svizzera; sperd-to@gmx.ch)

Note

1 Cito gli scritti di Emanuele Severino utilizzando le seguenti abbreviazioni (come viene indicato, solo per gli scritti che hanno conosciuto una nuova edizione ampliata le citazioni non si riferiscono alla prima edizione, ma alla nuova edizione): AT = Gli abitatori del  tempo, 2a ed., Armando, Roma 1981; DN =  Destino della necessità, Adelphi, Milano 1980; EN =  Essenza del nichilismo, 2a ed., Adelphi, Milano 1982 ; FC =  La filosofia contemporanea, Rizzoli, Milano 1986; FF = La filosofia futura, Rizzoli, Milano 1989; FM = La filosofia moderna, Rizzoli, Milano 1984; G =  La Gloria, Adelphi, Milano 2001; L =  Oltre il linguaggio, Adelphi, Milano 1992; LC =  Legge e caso, Adelphi, Milano 1979; LeC = La legna e la cenere, Rizzoli, Milano 2000; PM =  II parricidio mancato, Adelphi, Milano 1985; SFP =  Studi di filosofia della prassi, 2a ed., Adelphi, Milano 1984; SO =  La struttura originaria, 2a ed., Adelphi, Milano 1981; T =  Téchne, Rusconi, Milano 1979.
2 C. ARATA, L’aporetica dell’intero e il problema della metafisica, Marzorati, Milano 1971, p. 169.
3 Sull’umanesimo della metafisica greca, cfr. la trilogia di L. GRECCHI, L’umanesimo della antica filosofia greca, Petite Plaisance, Pistoia 2007; L’umanesimo di Platone, Petite Plaisance, Pistoia 2007 e L’umanesimo di  Aristotele, Petite Plaisance, Pistoia 2008.
4 C. FABRO, L’alienazione dell’Occidente, Quadrivium, Genova 1981, p. 151. Su E. Severino, cfr. inoltre L. MESSINESE, Essere e divenire nel pensiero di E. Severino, Città Nuova, Roma 1985; A. ANTONELLI, Verità, nichilismo, prassi, Armando, Roma 2003; L. GRECCHI, Nel pensiero filosofico di Emanuele Severino, Petite Plaisance, Pistoia 2005; AA.VV., Le parole dell’Essere. Per Emanuele Severino, Bruno Mondadori, Milano 2005; D. SPERDUTO, Vedere senza vedere ovvero Il crepuscolo della morte, Schena editore, Fasano di Brindisi 2007.
5 Su Eschilo, cfr. D. SPERDUTO, Eschilo in G. D’Annunzio, E. Severino e L. Grecchi, in AA.VV., Filosofia ed estetica, Petite Plaisance, Pistoia 2007, (Koiné, XIV), pp. 79-89.
6 C. LEVI, Paura della libertà [PL], Einaudi, Torino 1980 (1a ed. 1946), p. 12.
7 «Questo è veramente il più importante dei miei libri, nel senso che non è un racconto, e d’altra parte per me è assurda questa definizione di generi, oggi. Io stesso non saprei come definirlo; ma se vogliamo usare empiricamente un titolo, potrebbe essere un poema filosofico» (“Scuola viva: incontri con gli autori”, 1971, p. 13).
8 C. LEVI, Cristo si è fermato a Eboli [Cristo], Einaudi, Torino, 1975 (1a ed. 1945).
9 È questo il ’carcer tetro’? Lettere dal carcere 1934-1935, a cura di Daniela Ferraro, Il Melangolo, Genova 1991.
10 G. PELLEGRINI, Nel sole di Villa Strohl-Fern (Carlo Levi), Corbo e Fiore, Venezia 1985, p. 119.
11 C. LEVI, Quaderno a cancelli [QC], Einaudi, Torino 1979. A questo proposito, cfr. Carlo Levi inedito: con 40 disegni della cecità, a cura di D. Sperduto, Edizioni Spes, Milazzo 2002.
12 G. BONTADINI, Saggio di una metafisica dell’esperienza, Vita e Pensiero, Milano 1938, p. 52. Sull’attualità di Bontadini, cfr. D. SPERDUTO, Tra Gustavo Bontadini ed Emanuele Severino, “Aquinas”, XLIX (2006), nn. 2-3, pp. 671-679.
13 Cfr. D. SPERDUTO, Carlo Levi e l’invenzione della verità, “Critica letteraria”, XXXII (2004), pp. 789-796.
14 C. LEVI, Le tracce della memoria, a cura di M. Pagliara, Donzelli, Roma 2002, pp. 37-41.
15 Ivi., p. 38.
16 C. LEVI, L’Orologio [Or.], Einaudi, Torino 1989 (1a ed. 1950).
17 Cfr. D. SPERDUTO, L’imitazione dell’eterno. Implicazioni etiche della concezione del tempo immagine dell’eternità da Platone a Campanella con un saggio sulla nozione di tempo in Carlo Levi, Schena, Fasano di Brindisi 1998, pp. 41-44 e 85-109.
18 G. FALASCHI, Carlo Levi, La Nuova Italia, Firenze 1978 (1a ed. 1971), pp. 13-14.
19 Sulla ‘morte’ e sulla ‘rinascita’ in Levi, cfr. G. LUPO, Tra inferno contadino e paradiso americano: Carlo Levi, Dante e la Bibbia, “Otto/Novecento”, XXVIII (2004), n. 1, pp. 69-85 e D. SPERDUTO, La rosa bianca e la rosa nera: Il Notturno di Gabriele d’Annunzio e il Quaderno a cancelli di Carlo Levi, “Critica letteraria”, XXXIII (2005), pp. 699-714.
20 Sul pensiero futile di Carlo Levi sviluppato in Paura della libertà (1946) ed in Quaderno a cancelli (1979), cfr. anche D. SPERDUTO, La futilità del tutto. Emanuele Severino e Carlo Levi, “Sapienza”, LVII (2004), pp. 485-489.
21 Sulla “futilità” in Levi, cfr. R. GALVAGNO, Carlo Levi, Narciso e la costruzione della realtà, Olschki, Firenze 2004.

Augusto Cavadi – Il saggio di N. Pollastri: «Consulente filosofico cercasi»

Augusto Cavadi

Come molti ricordano, Hegel notava con sottile ironia che chiunque voglia imparare un mestiere – ciabbatttino o medico – ritiene indispensabile sottoporsi ad apprendistato, mentre filosofi ci s’improvvisa scavalcando la fase dell’iniziazione. Oggi si potrebbe aggiungere che, nell’ambito degli studi filosofici, nessuno si sognerebbe di pronunziarsi su un pensatore o su una corrente di pensiero se non avesse letto almeno un titolo della bibliografia attinente. Questa elementare cautela viene allegramente scavalcata in un solo caso: quando ci si pronunzia sulla Philosophische Praxis di Gerd Achenbach e, più in generale, sul variegato mondo delle filosofie-in-pratica. Qui, infatti, è come se gli ultimi venticinque anni fossero due o tre settimane; come se centinaia di volumi e di articoli scientifici, in tutte le principali lingue del mondo, non fossero stati scritti. Sarebbe ridicolo, se non fosse patetico, constatare come serissimi docenti universitari, che non aprono bocca su un argomento quando non sono informati e aggiornati, sono prontissimi a sparare sentenze ogni volta che vengono richiesti di un parere sulla “consulenza filosofica” o su qualche altra pratica filosofica (di cui non hanno la minima cognizione diretta).
Da qualche mese questa superficialità non ha più scusanti: due precursori di questo nuovo ‘paradigma’ filosofico hanno pubblicato degli strumenti propedeutici che, in poche ma incisive pagine, riescono a diradare pregiudizi e fraintendimenti (almeno in chi sia animato da sinceri intenti di comprensione). Il primo saggio (D. Miccione, La consulenza filosofica, Xenia, Milano 2007, pp. 126) ha carattere più divulgativo e presenta, con uno sguardo davvero planetario, la mappa attuale delle diverse ‘scuole’. Il secondo, poi, a firma di Neri Pollastri, non è soltanto accessibile al vasto pubblico, ma anche dotato di notevole spessore teoretico. La tesi centrale dell’autore è inequivoca: la consulenza filosofica è «filosofia, e nient’altro. Non una professione d’aiuto, se non di mero aiuto al filosofare, cioè al pensare e al ricercare nuove forme di pensiero; non una professione d’ascolto, se non nel senso che, per dialogare, è sempre necessario anche ascoltare; non una terapia, perché anzi è il suo contrario, il suo radicale abbandono; non ‘cura di sé’, se non nel senso che, occupandosi del modo di pensare il mondo, si occuperà anche del modo in cui si pensa se stessi; non formazione, se non in un senso estremamente indebolito e allargato del termine; non una ‘tecnica’, perché priva di un obiettivo preciso e predeterminato, se non quello di cercare ciò che non si conosce. Dunque non rimane che ribadire quel che fin dalla sua origine si è intenzionalmente voluto che fosse: la consulenza filosofica è filosofia. E lo è a buon diritto, perché ne condivide i tratti caratteristici, salvo metterli in pratica su un terreno diverso da quello della filosofia tradizionale: nella realtà concreta e quotidiana; con individui particolari, e per giunta non filosofi; alla ricerca di una comprensione del senso degli aspetti minuti e particolari della realtà, più che delle universalità; ‘improvvisando’ creativamente in modo istantaneo, quindi producendo comprensioni del reale forse spesso meno profonde, ma sempre e comunque di tipo filosofico» (pp. 75 – 76).
Ma se è così, il movimento della filosofia-in-pratica lancia al mondo della filosofia una sfida, o meglio una richiesta: di essere contestata punto per punto come qualsiasi altra proposta filosofica (dunque opponendole argomentazione ad argomentazione), ma nel rispetto della sua specificità epistemologica. Le gare di nuoto sono regolamentari sia se si nuota sul dorso sia se si nuota a farfalla: nessuno si sognerebbe di rimproverare ad un atleta che opta per il primo stile di non adottare il secondo. Così fanno filosofia gli storici della filosofia, i teoretici sistematici e i filosofi-in-pratica: ma solo una spocchiosa intolleranza accademica (legata al paradosso di una disciplina che da alcuni secoli – a differenza di tutte le altre discipline dello scibile umano – non si preoccupa delle ricadute sulla società delle proprie acquisizioni) potrebbe tentare di negare cittadinanza filosofica a chi non accetta di situarsi, istituzionalmente, o come creatore di sistemi filosofici originali o come interprete dei sistemi elaborati altrove.

Costanzo Preve – Recensione a: Carmine Fiorillo – Luca Grecchi, «Il necessario fondamento umanistico del “comunismo”», Petite Plaisance, Pistoia, 2013

 

 

Il necessario fondamento umanistico del comunismo

http://www.petiteplaisance.it/libri/151-200/198/int198.html

 

Ho letto ed annotato con estrema attenzione il saggio di Fiorillo e di Grecchi, e ritengo di averne capito non solo la lettera e lo spirito, ma anche l’elemento qualitativo differenziale che lo distingue da altri consimili saggi dedicati al comunismo.
Personalmente condivido integralmente questo elemento qualitativo differenziale, assolutamente estraneo e scandaloso per la stragrande maggioranza dei pochi che ancora oggi si dichiarano “marxisti”, e cioè la necessità di trovare l’unico serio fondamento del comunismo nella natura umana, opportunamente definita e ricostruita. Per questa ragione espongo qui alcune note personali, non complementari ma convergenti. Il lettore si accorgerà da solo se vi saranno eventuali differenze (il diavolo si nasconde sempre nel dettaglio!).

In Marx si incontra nella stessa persona un filosofo idealista ed un sociologo materialista, passato anche attraverso una critica della economia politica. Come rileva correttamente il saggio, è fuorviante (e faccio ammenda io stesso) parlare per Marx di “cantiere in costruzione”, senza contare l’orribile espressione di “cassetta degli attrezzi”. A modo suo, infatti, Marx ha coerentizzato il suo pensiero, mentre non ha assolutamente coerentizzato quello che poi fu chiamato “marxismo”, la cui coerentizzazione fu compiuta per committenza esterna ed indiretta della socialdemocrazia tedesca nel ventennio 1875-1895. Si trattava però di una coerentizzazione contraddittoria ed instabile, che non permette di trovarvi una fondazione filosofica del comunismo.
Marx fu un filosofo idealista implicito, in cui l’idealismo esisteva in penombra come ricostruzione narrativa della storia universale intesa come teatro del riconoscimento dei soggetti, laddove era invece negato e rimosso sul piano esplicito, attraverso la propria errata auto-interpretazione di materialista scientifico e post-filosofico.
Marx fu un sociologo materialista, in cui la “materia” era metaforizzata attraverso il modello storico-economico discontinuo e non narrativo di modo di produzione. Questo “materialismo”, metafora infelice e fuorviante di riferimento scientifico-strutturale alla creatività dei modi di produzione, era indebolito da elementi deterministici, necessitaristici e teleologici che attribuivano di fatto (erroneamente) al modo di produzione capitalistico una tendenza evolutiva immanente necessaria in direzione della produzione comunista.
Questa tendenza evolutiva immanente non esiste, ed i quasi due secoli trascorsi da allora lo hanno abbondantemente mostrato. Al massimo è possibile parlare, ed anche qui con molte riserve, di “potenzialità immanente”, nel senso del termine aristotelico di dynamei on. Oltre non si può proprio andare. E da qui deve ripartire la discussione.

Il fallimento del comunismo storico novecentesco realmente esistito, evidente sia in Russia che in Cina, richiede una spiegazione storica, che a mio avviso è largamente compatibile con la teoria marxiana delle classi, delle forze produttive e dei rapporti sociali di produzione.
Nato in modo assolutamente aleatorio nel 1917 (non esisteva nessuna legge storica da cui ricavarlo, anche se l’ideologia comunista successiva lo fece), esso fu costruito sotto una cupola geodesica protetta (chiamata “totalitarismo” dai suoi critici liberali) e supplì alla scandalosa e manifesta incapacità di egemonia strategica delle classi degli operai di fabbrica e dei contadini poveri con una struttura dispotica accentrata, erroneamente definita “burocrazia” sia dai critici liberali che dai critici anarchici e trotzkisti, che non capirono mai che questa presunta (ed inesistente) burocrazia era soltanto il modo demonizzante di chiamare la totale incapacità di autogoverno politico diretto e di autogestione economica diretta della presunta classe messianico-salvifica operaia, salariata e proletaria (e contadina in Cina). Le ossa di uno scheletro furono scambiate per zecche e parassiti.
In forme diverse ma convergenti in Russia ed in Cina si realizzò una maestosa controrivoluzione sociale delle nuove classi medie “comuniste”, che portò in Russia ad una piena restaurazione del capitalismo ed in Cina ad un riassestamento su basi capitalistiche del vecchio modo di produzione asiatico, mai del tutto tramontato (si confrontino le tesi di M. Bontempelli in propostito). Lungi dall’essere stata la prova del fallimento del metodo di Marx, gli avvenimenti degli ultimi decenni ne sono una paradossale conferma.
Il comunismo storico novecentesco è un fenomeno storicamente legittimo ma anche epocalmente chiuso, e cioè conchiuso.

A differenza della interpretazione che ne vede il fallimento e l’integrazione nel capitalismo in un progressivo abbandono della originaria matrice “di sinistra”, il socialismo europeo realizzò questa integrazione subalterna proprio attraverso l’accoglimento e l’inserimento nella dicotomia Destra/Sinistra. Questa dicotomia era assolutamente estranea a Marx, che non fu mai “di sinistra” e non si dichiarò mai tale. La parlamentarizzazione del socialismo avvenne invece con l’adozione di una stratificata eredità illuminista, positivista e “progressista”, risvolto subalterno della ideologia borghese allora dominante. La “sinistra” è una sorta di emulsione valoriale, che dà luogo a tipi antropologici di massa altamente instabili, perché dipendenti da un fattore esogeno fuori del loro controllo chiamato “modernizzazione”. Ciò fu segnalato precocemente da George Sorel, e se ne può trovare un aggiornamento ai tempi nostri nelle opere di Jean-Claude Michéa.
L’emulsione valoriale instabile chiamata “sinistra” non poteva “chimicamente” resistere ai maestosi processi di integrazione culturale e sociale del capitalismo, che marxianamente definirei l’unico movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti. Questo avrebbe dovuto portare in tempi ragionevoli, a proposito del pensiero di Marx, non certo ad interminabili ricostruzioni filologiche, ma ad un radicale riorientamento gestaltico e soprattutto all’inserimento di Marx in una sequenza metafisica alternativa. Questo non avvenne, e non poteva avvenire, perché coloro che il popolo considerava erroneamente “intellettuali marxisti” erano semplicemente un settore rissoso degli “intellettuali di estrema sinistra”. È bene quindi utilizzare il saggio di Fiorillo e Grecchi come una occasione per riprendere da capo una discussione sul comunismo.

Il carattere normativo della natura umana è necessariamente “ideale”, perché è di evidenza empirica che concretamente tutti gli uomini sono diversi l’uno dall’altro. Non si deve però pensare che questo carattere normativo della natura umana sia solo un contingente arbitrio opinabile di alcuni candidati al dominio ed alla manipolazione, anche se ovviamente la storia delle ideologie classiste è piena di casi del genere. Il carattere normativo della natura umana, per usare il linguaggio di Karl Polanyi, non è altro che il risvolto filosofico dell’inserimento organico dell’imprescindibile fattore economico nella riproduzione sociale complessiva. E infatti oggi, in cui per la prima volta nella storia comparata della umanità l’economia appare integralmente autonomizzata da qualunque normatività sociale, il riflesso filosofico indiretto di questo fenomeno è il relativismo ed il nichilismo (più esattamente il relativismo etico ed il nichilismo ontologico). Una volta compreso questo nesso, la via per una corretta comprensione del saggio di Fiorillo e Grecchi è aperta.

Il carattere normativo della natura umana stava alla base del pensiero greco classico, ed è anzi il più rilevante elemento comune fra la filosofia di Platone e quella di Aristotele, diverse sotto molti aspetti. E questo non è un caso, perché il pensiero greco non derivava da una corretta interpretazione di una rivelazione monoteistica trascendente, ma si autofondava integralmente sul logos, termine che significa certamente anche linguaggio e ragione, ma indica soprattutto il calcolo sociale equilibrato del potere e della ricchezza. L’autofondazione sul logos portava così automaticamente il pensiero greco ad una concezione normativa della natura umana. I maestri greci non erano certamente “maestri del sospetto”, come frettolosamente un pur benemerito (ma confusionario) filosofo francese definì Marx, Nietzsche e Freud, e non pensavano certamente che una teoria normativa della natura umana portasse a strategie di disciplinamento e di addomesticamento autoritario, come pensava il benemerito (ma confusionario) Foucault. L’elemento paradossale sta in ciò, che l’autonomizzazione cannibalica della economia (nel linguaggio dei nostri autori, la crematistica) è in realtà il vero fattore di disciplinamento e di addomesticamento sociale manipolatorio, mentre una razionale teoria del carattere normativo della natura umana ne sarebbe l’antidoto ed il raddrizzamento.
La trasformazione della filosofia da luogo della saggezza comunitaria a luogo del sospetto reciproco non è ovviamente solo un “errore” di benintenzionati confusionari come Ricoeur e Foucault. Si tratta, in linguaggio marxiano, del riflesso sovrastrutturale di uno svuotamento della razionalità filosofica comunitaria da parte di un’economia automatizzata. Nel linguaggio di Bertolt Brecht, il condannato a morte dubbioso, già sotto la mannaia del boia, si chiede se alla fine anche il boia non sia un uomo.

A proposito della religione cristiana, di cui non discuto le tre varianti cattolica, protestante ed ortodossa, il problema fondamentale non sta tanto nel fatto che essa abbia predicato la collaborazione di classe (lo stesso comunismo storico novecentesco si è basato su questo stesso principio, ad esempio nei fronti popolari e nelle alleanze antifasciste), quanto nel fatto che essa ha troppo spesso predicato la sopportazione di classe. Ora, la sopportazione di classe, e cioè la sopportazione di ingiustizie distributive insopportabili, non può fondarsi su di una teoria del carattere normativo della natura umana, ma solo su teorie di tipo diverso, come il peccato originale ebraico o la predestinazione calvinista, e fra le due non so quale sia la più odiosa ed infondata.
Personalmente, avevo sopravvalutato la tendenza di Ratzinger a tornare ad una concezione aristotelica di natura umana, indubbiamente buona e razionale, sottovalutando il processo di incorporazione della chiesa cattolica nelle strategie di dominio geopolitico dell’impero americano. Con questo, non nego la correttezza del rimando al carattere umanistico di fondo del cristianesimo, e mi schiero così con Hegel e non con Nietzsche.

A proposito di Hegel, faccio riferimento ad una nota del libro, in cui è citato un noto accademico “comunista” che sostiene che il termine hegeliano di “sapere assoluto” è presuntuoso e metafisico (sic!), perché oggi noi sappiamo che ogni sapere è relativo, perché storicamente determinato. Vi sono molti aspetti da considerare, ma qui mi fermerò ad esaminarne due.
In primo luogo, Remo Bodei ha a suo tempo parlato di “interpretazioni manicomiali” di Hegel. In questo caso il termine di “sapere assoluto” nel senso hegeliano autentico del termine non può essere presuntuoso e metafisico, ma semmai il contrario, perché ab-solutus, secondo lo stesso etimo latino, significa sciolto da ogni determinazione oggettiva. Se così non fosse stato, Hegel avrebbe posto lo Stato nella sfera della assolutezza, e non in quella della oggettività.
Hegel conosce perfettamente il carattere storico delle diverse forme di arte, religione e filosofia, ma non vuole vincolarne il carattere veritativo alla relatività di determinati momenti spazio-temporali. In ogni caso, il fraintendimento di Hegel da circa due secoli è un fatto sociale totale (per dirla con Durkheim), legato proprio al fatto che la sovranità assoluta dell’economia crematistica sulla società deve sistematicamente diffamare il pensatore che più di tutti gli altri nella modernità ha rivendicato la sovranità della filosofia nella riproduzione comunitaria. Il fraintendimento manicomiale di Hegel è quindi del tutto fisiologico e strutturale.
In secondo luogo, a proposito delle note sulla interpretazione hegeliana di Roberto Fineschi (cui potrei aggiungere l’atteggiamento ambiguo verso Hegel del Lukács della Ontologia dell’essere sociale), è interessante che il buon marxista politicamente corretto, anche nel caso che sia largamente disposto a riconoscere i debiti di Marx verso Hegel non limitandoli agli anni prima del 1845, sente alla fine una irresistibile coazione a “staccare” lo scientifico Marx dal metafisico Hegel, avendo introiettato l’esigenza di purezza della vera scienza sociale contro la contaminazione metafisica. Non scendo qui nei particolari, che sarebbero numerosi e tutti pittoreschi. Basterà ricordare ancora una volta che tutte le strategie di “decontaminazione anti-metafisica” di Marx falliscono inevitabilmente, dato il carattere profondamente metafisico (sia pure reticente ed implicito) dell’autore stesso.
Alla fine, chi vuole il comunismo senza la metafisica non avrà probabilmente la metafisica, ma non avrà neppure sicuramente il comunismo.

Il riferimento a Hegel permette anche di soffermarsi sulla teoria marxiana della estinzione dello Stato, che gli autori del saggio respingono come incompatibile con il principio della pianificazione economica comunitaria. Dal momento che sono d’accordo nell’essenziale con questa tesi (gli autori ricordano opportunamente i nomi di Losurdo e di Zolo), ne approfitto per cercare di individuare genealogicamente le due fonti principali di questa insostenibile concezione marxiana. Esse sono, in breve, Fichte e Saint Simon.
Per Fichte lo Stato è una necessità che risponde alla peccaminosità umana, superabile in via di principio ma non ancora storicamente superata. In un mondo non peccaminoso, quindi, si potrebbe e si dovrebbe vivere senza bisogno dello Stato. Nel frattempo, aspettando il superamento dell’epoca della compiuta peccaminosità, Fichte sostiene uno Stato commerciale chiuso, che prefigura l’autarchia economica di molti Stati comunisti novecenteschi, e che è comunque lontanissimo dalla teologia bocconiana liberale di Draghi e di Monti.
Per Saint Simon una automatica “amministrazione delle cose”, priva di ogni carattere politico determinato, sostituirà in futuro lo Stato politico. Ed io penso che la teoria marxiana della estinzione dello Stato, dipendente da una cattiva utopia della trasparenza e dell’abbondanza entrambe illimitate, sia il frutto inconsapevole di una fusione fra l’elemento romantico-idealistico di Fichte e l’elemento proto-positivistico di Saint Simon. Il tutto, sovrapposto alla dinamica dello sviluppo del modo di produzione capitalistico, porta ad un inquinamento del carattere “scientifico” che i vari Fineschi vogliono ad ogni costo riservare al loro beniamino.

Voglio però affrontare l’aspetto forse più problematico del saggio, il rilievo fatto a Marx ed Engels (a partire dal loro Manifesto del 1848) di essere eccessivamente conflittualisti. Si tratta di un rilievo che può sembrare a prima vista simile alla critica della dottrina sociale della chiesa cattolica alla centralità nel comunismo della lotta di classe, e simile anche a certe dottrine orientali basate sulla rinuncia e sulla armonia, che la conflittualità necessariamente impedisce o rende difficili.
So bene che l’impronta generale del saggio non intende assolutamente delegittimare la lotta di classe. D’altra parte, nei casi storici (rari) in cui si manifesta in modo esplicito, la lotta di classe è un fatto, non un’opinione. Cosa ben diversa è la mentalità conflittualista, cui a volte nel senso comune popolare i comunisti vengono associati, provocando sospetto ed avversione in chi cerca spesso soltanto una modesta tranquillità.
La teoria originale del conflitto di Marx deriva a mio avviso al cento per cento da quella di Hegel, che sunteggerò in questo modo: il conflitto è immanente ed ineliminabile dalla storia, perché tende al riconoscimento da parte dei soggetti sfavoriti; finché questo riconoscimento non avviene (o non avviene adeguatamente), la conciliazione è impossibile, e non è neppure auspicabile, perché si baserebbe sulla ingiustizia; non esiste però e non può esistere una conciliazione finale e definitiva, perché essa coinciderebbe con la fine della storia.
Come si vede, una adeguata analisi della teoria del conflitto in Marx presuppone chiarezza sul fatto che in Hegel non esiste una teoria della fine della storia. La conciliazione ideale può avvenire soltanto sul piano ideale della Scienza della Logica, che non è però un coperchio di una pentola sovrapposta alla storia umana reale; l’unica storia è quella tracciata dalla Fenomenologia dello Spirito, nel senso che non esistono figure “definitive”, ma l’ultima figura è sempre provvisoria, e prolungandosi nel futuro di due secoli, ce ne saranno almeno altre quindici ancora inedite.
Il comunismo, quindi, non può essere inteso come la fine della storia. Polemizzare correttamente contro la metafisica del conflittualismo permanente, risultante probabilmente dalla confluenza della mentalità sindacalistica con quella delle avanguardie storiche anti-borghesi “distruttrici” non significa e non deve significare una adesione implicita a concezioni della armonia sociale finalmente raggiunta, come i due autori sanno bene.

Se ho un rilievo filosofico da fare a questo saggio, esso sta nel fatto che a mio avviso è di fatto sottovalutata la differenza qualitativa fra Platone ed Aristotele, in primo luogo, e fra la dialettica di Pitagora e Platone e la dialettica di Hegel e Marx, in secondo luogo. Naturalmente, so bene che gli autori sono bene informati su queste differenze, ma altro è essere informati ed altro è tenerne realmente conto metabolizzandole nel proprio pensiero. Gli autori intendono sottolineare il fatto che il problema del comunismo attraversa l’intera storia umana, e non nasce dalla genialità miracolosa di Marx ed Engels nel 1848. E tuttavia, un eccessivo “continuismo” può pregiudicare l’effetto di straniamento che i due autori si ripromettono. Per questo, qualche nota aggiuntiva non sarà forse inutile.
Platone ed Aristotele erano entrambi ispirati dall’umanesimo anticrematistico, anche se in loro (a mio avviso) non poteva esserci una vera filosofia della storia, che presuppone logicamente e storicamente l’unificazione omogena della temporalità risultante da una forma di monoteismo (del tutto assente negli antichi). L’insistenza delle numerose opere di Grecchi su questo punto è decisiva, e per ora è non casualmente ignorata o ammessa a mezza bocca per poterla depotenziare (magari con la scusa che tutti i filosofi sono anticrematistici, avendo deciso di passare la vita a leggere libri inutili anziché diventare speculatori di borsa). E tuttavia fra l’umanesimo anticrematistico di Platone e l’umanesimo anticrematistico di Aristotele, esiste una differenza qualitativa gigantesca, perché il secondo rifiuta il pitagorismo geometrizzante del primo applicato alla modellistica politica ideale. Non si tratta di una differenza da poco. Mettere al posto della causa formale geometrizzante la causa finale del “vivere bene” (eu zen) della comunità comporta il tener conto praticamente dei modi in cui tutti i cittadini concepiscono le forme della loro convivenza. So bene che in sede di storia della filosofia Platone era “comunista” mentre Aristotele non lo era (era al massimo per una economia regolata contro una crematistica sregolata). E tuttavia se vogliamo rinunciare l’idea di comunismo bisogna essere aristotelici, non platonici. Meglio una disuguaglianza moderata ed una piccola economia mercantile sotto controllo comunitario (e cioè di uno Stato democratico-comunitario) piuttosto di una progettualità matematizzante destinata a mio avviso alla catastrofe finale.
È noto che Platone e Hegel erano entrambi idealisti. Ma qui non si tratta di superare un esame universitario sui dettagli del loro pensiero, quanto prendere atto del fatto che la dialettica hegeliana (a mio avviso al cento per cento simile a quella marxiana, anche se ragioni di spazio mi sconsigliano di fornirne una adeguata dimostrazione) rompe con il modello geometrico-piatgorico, ed introduce una potenziale “interminabilità” del flusso storico che si determina bensì, ma non si determina mai una volta per tutte.

Il principio generale della evoluzione (di cui il saggio non parla mai, ma che mi permetto di introdurre) ci dice che anche la natura umana, insieme con il suo carattere normativo, evolve. So benissimo che si tratta del grande argomento di ogni relativismo, ma a mio avviso per poter svuotare questo argomento bisogna prima prenderlo in considerazione e non evitarlo. Io parto dal fatto che in tutte le civiltà umane (indo-europei, cinesi, indiani, incas, ecc.) esistono costanti di comportamento, che nel corso del tempo furono definite “umanesimo”, a fianco di comportamenti storici e religiosi molto diversi, la cui diversità è però spesso un valore da riconoscere, e non un “ritardo” da eliminare, come per secoli lo ritenne il pregiudizio occidentalistico, prima religioso e poi “laico”. Il carattere normativo della natura umana, base del comunismo, deve quindi essere inteso processualmente come universalizzazione contraddittoria e (necessariamente) agonistica, e non come restaurazione di una origine nel frattempo decaduta e perduta. So bene che questa non è la posizione degli autori del saggio, ma l’equivoco può facilmente farsi strada. Pensiamo a come Lucio Colletti ebbe buon gioco nel liquidare l’intero marxismo comunista come restaurazione utopica di un intero originario perduto.

Una breve riflessione incidentale sull’utopia, o meglio sull’elemento utopico del comunismo. Il saggio vi dà un certo spazio, e ricorda anche le poco note utopie stoiche antiche (L. Bertelli). Personalmente sarei più cauto, per ragioni che cercherò sommariamente di segnalare.
Ogni coerentizzazione del pensiero originale di Marx, compiuta al di fuori dei “tifosi” che vogliono a tutti i costi farlo diventare “scientifico” nonostante la presenza di fastidiosi residui metafisici hegeliani, porta alla conclusione che Marx realizzò un ossimoro insostenibile, e cioè una scienza utopica. Per non diventare schiavi delle parole bisogna a mio avviso tagliare decisamente il nodo gordiano, e concluderne che una scienza utopica o bisogna lasciarla com’è, ma allora è inutilizzabile, oppure bisogna disarticolarla, e cioè ridefinirne radicalmente sia il presunto elemento scientifico che il presunto elemento utopico.
A proposito della scienza, con buona pace di Engels e di Althusser (e di cento altri), il comunismo di Marx non è una scienza, né nel senso di scienza filosofica di Hegel (perché non crede esplicitamente nella veritatività sistematica della filosofia idealistica), né nel senso previsionale, empirico e sperimentale delle scienze naturali moderne, in quanto non può prevedere scientificamente assolutamente nulla, e duecento anni di false previsioni “marxiste” lo dimostrano ampiamente. Interrogato su come lo si potrebbe chiamare, resterei dubbioso, e mi risolverei provvisoriamente a chiamarlo una forma di sapere filosofico sulla totalità storica e naturale.
A proposito dell’utopia, è vero che si sono trovate anche utopie greche di tipo stoico (Bertelli), ma la Repubblica di Platone non è affatto una utopia (già Hegel lo aveva capito benissimo), perché il pensiero utopico era del tutto estraneo ai greci. Del resto, i due principali rivalutatori novecenteschi marxisti del pensiero utopico (Benjamin e Bloch) erano ebrei messianici secolarizzati, del tutto estranei al pensiero greco classico in ogni sua forma.
Il comunismo non ha bisogno né di scienza né di utopia. Il comunismo ha bisogno di soli due ingredienti, la storia e la natura umana, che si tratta però di combinare in modo adeguato. Una concezione storicistica della storia è fuorviante, perché necessariamente porta al relativismo, al nichilismo ed alla cancellazione di ogni fondamento ontologico. Una concezione pitagorico-platonica della natura è ugualmente fuorviante, perché riduce necessariamente il comunismo a “modello da applicare”, e le generazioni successive inevitabilmente distruggeranno il modello ereditato, fosse pure in modo parmenideo il migliore possibile.

Può resistere il termine “comunismo” al generalizzato discredito in cui è caduto nell’ultimo trentennio? A mio avviso a breve termine no, e per questo non credo alla opportunità di ricostruire (o rifondare) piccoli e marginali partiti comunisti. In mancanza di una seria fondazione filosofica e di una prospettiva storica essi sarebbero condannati a vegetare come nicchie identitarie di estrema sinistra, e oggi l’estrema sinistra non è che una emulsione valoriale instabile caratterizzati da elementi della cultura radicale post-moderna.
L’Italia ha portato alla guida di due partiti “comunisti” due accaniti anticomunisti  (Walter Veltroni e Fausto Bertinotti), e si tratta di un vero e proprio unicum mondiale, difficile da spiegare non solo a marziani ed a venusiani, ma anche solo a francesi e tedeschi. Il comunista D’Alema ha bombardato la Jugoslavia nel 1999. Il comunista Napolitano ha insediato Monti, il governo oligarchico più “di destra” della storia post-unitaria. Gran parte di chi si dichiara ancora “comunista” in Italia è semplicemente un anti-berlusconiano con retorica pauperistica e sociale. Pochi termini come quelli di “comunismo” sono stati tanto svuotati. Oggi i pochi “comunisti” devono sopportare la concorrenza elettorale di Vendola, Di Pietro e Beppe Grillo, e tutti i sondaggi li inchiodano ad irrilevanti prefissi telefonici.

Appare chiaro che chi ritiene di dover conservare il termine di “comunismo” non solo deve andare contro la corrente del linguaggio contemporaneo politicamente corretto, e contro l’innocua incorporazione in una estrema sinistra residuale (lo ripeto: una emulsione valoriale altamente instabile, perché priva di fondamenti veritativi), ma deve anche scommettere sia sul presente che sul futuro.
Chi rivendica oggi il termine di “comunista” deve collocarsi in un bilancio di millenni di storia, e deve prima di tutto impadronirsi di un adeguato concetto di comunità e di comunitarismo. È un vero peccato che questi due nobili termini nel chiacchiericcio politico italiano semi-colto vengano interpretati come “di destra”. Ovviamente non è così. Chi non capisce che il comunismo non è né di destra né di sinistra, è al di qua degli elementi minimi di comprensione del problema. Il comunismo è stato per un secolo “di sinistra”, ed anche per questo è fallito.
Il saggio termina correttamente con il concetto di pianificazione comunitaria. A mio avviso oltre non si può andare, perché si andrebbe in una prefigurazione pitagorica. La prefigurazione ci deve essere, e gli autori polemizzano correttamente con coloro che rifiutano per principio ogni prefigurazione, mostrando così di non avere alcuna concezione normativa di quanto stanno dicendo.

Gli autori del saggio non si limitano a proporre un riorientamento gestaltico del comunismo, affiancando alla storia la natura, ma inseriscono il comunismo in una sequenza metafisica alternativa alle teorie “progressiste” classiche di origine illuministica e positivistica. Per quel poco che conosco le (residue) comunità che si dicono comuniste, questa proposta è del tutto irricevibile.
Occorre quindi cercare nuovi interlocutori, non necessariamente soltanto giovani, ma comunque non “bruciati” dalle polemiche degli ultimi decenni.
Del resto, dovremmo fare tesoro di una esperienza secolare. Si è cercato il fondamento del comunismo o in una concezione progressistica della storia completamente illusoria, oppure in una modellistica pseudo-scientifica dei modi di produzione. Entrambi i fondamenti si sono svuotati nei decenni, fino a portare al silenzio ed alla afasia. Chiunque cerchi di rompere questa afasia dovrebbe essere ringraziato, e questo è proprio il caso di ciò di cui stiamo parlando.

Ilaria Rabatti – «La casa di carta», di Carlos María Domínguez

Carlos María Domínguez, La casa di carta, Sellerio, 2011

 

Carlos María Domínguez

 

«…il lettore è un viaggiatore che si muove in un paesaggio già scritto. Un paesaggio infinito.
L’albero è già stato scritto, e la pietra, e il vento fra i rami, e la nostalgia di quei rami e l’amore cui prestarono la loro ombra.
E non conosco gioia più grande che percorrere, in poche ore, un tempo umano che altrimenti mi sarebbe estraneo…
Non basta una vita… una biblioteca è una porta nel tempo».  (C. M. Domínguez)

 

Nella mia vita di appassionata lettrice ho maturato la certezza che un buon libro lascia sempre al lettore l’impressione di leggere qualcosa della propria esperienza personale.

Sarà forse perché amo respirare l’aria dei libri, o perché, col passare degli anni, la mia (vera) casa assomiglia sempre di più ad una “casa di carta”, che ho trovato folgorante il racconto, a tratti surreale, a tratti amaramente ironico, dello scrittore argentino Carlos María Dominguez, La casa di carta, scritto nel 2002, ma tradotto e pubblicato in Italia da Sellerio solo dopo un decennio, nel 2011. Attraversa la storia – che è anche un viaggio intorno al leggere – una tensione in forma di domanda, comune, mi pare, a tanta parte della letteratura argentina più recente (da Borges, a Manguel, a Piglia) sulla natura e l’essenza misteriosa del lettore.

Il protagonista indiretto della narrazione, Carlos Brauer, è un personaggio indimenticabile, con una totale aspirazione all’intimità e all’isolamento creativo. Lettore “puro”, assoluto (qualcuno lo definirebbe, troppo facilmente, compulsivo), egli intende il leggere non solo come un’attività, ma come una forma di vita che è al contempo difesa dalla vita e rifugio di fronte all’ostilità del mondo.

Ma Carlos Brauer è anche un geniale costruttore di cataloghi. Arrivato a raccogliere nella sua casa più di ventimila volumi, egli si porrà il problema della gestione e della disposizione dei libri nella sua biblioteca, risolvendo la “spinosa” questione delle “affezioni” – ovvero, mai collocare vicine le opere di autori che non si sopportano, come Borges e García Lorca; Marlowe e Shakespeare; Martin Amis e Julian Barnes; Vargas Llosa e García Márquez – elaborando un sistema aperto, basato sui numeri frattali, con cui poter modificare in ogni momento la collocazione dei volumi secondo criteri dinamici, ma ipotetici, «perché in fin dei conti nulla è più volubile delle valutazioni letterarie».

Sarà la drammatica (e metaforica) perdita in un incendio del catalogo – efficace ed ordinata sintesi, per tutti noi bibliofili, della realtà, la mappa che ci guida nella confusione della vita – a modificare definitivamente le sue prospettive e ad indurlo a trasferirsi, con i suoi libri, in un luogo sperduto «senza mezze tinte, né anestesia, né distrazioni, né consolazione» ai confini del mondo, sulla spiaggia di Rocha (Uruguay), dove poi maturerà la scelta con cui riscatterà la sua esistenza…

Il racconto, di cui volutamente taccio l’epilogo per non togliere al lettore il gusto della sorpresa finale, è innescato da una breve storia d’amore vissuta dal protagonista, di cui resta traccia in una dedica sul frontespizio di una copia de La linea d’ombra di Joseph Conrad, romanzo che mi pare splendidamente evocare un altro tema centrale della storia di Domínguez: quello del passaggio alla maturità del protagonista che si configura con il superamento della “propria” linea d’ombra attraverso un atto di amore estremo e assoluto.

Ilaria Rabatti

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