Marco Penzo – Alle origini del concetto di “comunismo”

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Rappresentando per Marx comunismo la realizzazione di una società nella quale vale l’affermazione «a ognuno secondo i suoi bisogni»,[1] questo presupposto ci può portare a riflettere più dettagliatamente al pensiero comunista ai tempi a noi remoti dei Greci e dei Romani e in generale di quel mondo che definiamo antico: convenzionalmente il mondo antico si conclude con la deposizione di Romolo Augustolo e la caduta dell’Impero Romano d’Occidente (476 d.C.), e, seguendo il Musti,[2] con la chiusura della Scuola di Atene (529 d.C.), che segna effettivamente la fine della grande storia del mondo greco antico, già debilitato dal 146 a.C., anno della distruzione di Corinto e fondazione della provincia di Acaia da parte dei Romani.[3] Ricordiamo però la storia greca manualistica si chiude in genere con la battaglia di Azio e la morte di Marco Antonio e Cleopatra nel 30 a.C.[4] Sta di fatto che un ordine “stabile” successivo alla fine dell’Impero Romano d’Occidente non si ha fino alla caduta dei Longobardi e la vittoria decisiva di Carlo Magno tra il 774 e il 776 d.C., che riporta in auge il concetto di Impero Romano, subentrando come figura legittima del potere imperiale (vedi la sua incoronazione a imperatore nell’800 d.C.) e come naturale successore dei Romani, e ufficiale avviatore di una nuova fase: ecco il Medioevo, quello che era nato con l’arrivo di popoli come Ostrogoti, Visigoti e Longobardi, ma che ha trovato autentica legittimazione e realizzazione con l’ascesa di Carlo Magno, guida dei Franchi.[5]
Ma, tornando al concetto di comunismo, forse dobbiamo riprendere i passi proprio dal mondo greco e così proprio dalla grande scuola di Atene, il pantheon della filosofia antica.
Pensando a Raffaello e alla sua opera della Scuola di Atene, ci ricordiamo dell’enumerarsi di figure storiche che hanno fondato il pensiero filosofico antico, con al centro della scena i due padri della filosofia antica (senza dimenticare il padre putativo, l’Ungaretti per gli ermetici, il Baudelaire per i simbolisti, del pensiero razionale greco, cioè Socrate): Platone e Aristotele.
Proprio questi due avrebbero creato “involontariamente” quella divisione che ben espresse l’ottimo Coleridge tra “platonici” e “aristotelici”, come ricorda ad esempio Pugliese Carratelli [6]: e mai come altri questi due pionieri del pensiero sono stati alla base del futuro pensiero di Marx, a mio dire uno degli ultimi grandi allievi di questi pensatori.
Bisogna però sottolineare che la concezione di comunismo nasce ben prima dell’evoluzione del pensiero della Trinità della filosofia greca Socrate-Platone-Aristotele.
Se vogliamo guardare molto lontano, Pettinato ci chiarisce che nell’arcaico periodo assiro sotto il regno di Ur III, fondato da Ur-Nammu e poi riformato da Shulgi si venne ad organizzare una società con principi che si possono definire comunisti (2100 a.C).[7]
Sta di fatto che nel mondo greco, e più precisamente nel VI secolo a.C., si fa risalire la prima e singolare esperienza del mondo classico: Pentatlo, uomo di Cnido che, trascinandosi nell’onda della colonizzazione greca dell’Italia, in particolare di Sicilia e Magna Grecia, tentò l’impresa di conquistare Lilibeo e Erice e sostenne Selinunte contro Segesta in una lotta che lo vide morire per mano degli Elimi, abitanti la Sicilia occidentale. I seguaci di Pentatlo in quest’avventura colonizzatrice si rifugiarono nelle isole Eolie e, probabilmente sulla base dei principi della loro guida, stabilirono una società di stampo comunista, dove Lipari era l’epicentro, mentre Stromboli, Vulcano e Salina le zone agricole. Seguendo il Musti[8] possiamo riassumere come fossero organizzate le terre, secondo una gestione di proprietà comuni o che venivano rese private limitatamente nel tempo: ogni 20 anni doveva avvenire una redistribuzione delle terre.
L’esperienza di Lipari non è però un caso così singolare: è lo stesso Musti[9] a sottolineare l’influenza dorica nella gestione “comunista” delle terre…
A proposito, viene da pensare a come i Dori in Laconia gestivano le terre, dividendole in parti uguali per la coltivazione e mantenendo il pascolo comune, sempre con la preoccupazione di gestire l’uguaglianza tra le genti “pari” e si ricorda come a Sparta si evitava l’uso di materiali preziosi come l’oro per la coniazione di monete, il tutto per scacciare quella sorta di ὓβρις tanto temuta dai Greci. Questo riporta Plutarco su Licurgo, lo storico legislatore spartano: «Licurgo si preoccupò di dividere le proprietà in modo che ogni sentore di irregolarità e di non eguaglianza potesse essere rimosso […]. Fece ritirare tutte le monete in oro e argento e impose l’uso delle sole monete di ferro. Di conseguenza a un peso e una massa grandi diede un valore insignificante, cosicché per 10 mine fosse necessario un largo ripostiglio in casa, e un giogo di buoi per trasportarle. Quando le monete ebbero corso, molti tipi di iniquità furono cacciati da Sparta».[10]
Questo concetto di moderazione, di limite, è fondamentale nel mondo antico: “in medio stat virtus” è il motto per eccellenza del mondo antico, e l’Etica Nicomachea di Aristotele il testo per eccellenza della ricerca dell’ἀρετή nella medietas. E grande fautore di questa moderatio fu il filosofo del numero, quel Pitagora che tanti conoscono per le formule matematiche, ma che forse non conoscono sotto l’ambito politico-sociale: per lui il numero è armonia, equilibrio, essenziale metro di valutazione della verità (in questo Platone, soprattutto quello più vecchio, si rifarà al pensiero pitagorico…). Il numero è il simbolo dell’ordine, quindi la società deve essere ordinata secondo questo metodo di armonizzazione. La società ideale è comunitaria, una società composta da “amici”: l’amicizia è fondamentale per una società di uguali e il “comunismo” diventa la filosofia della πόλις della Magna Grecia per eccellenza, Crotone, dove l’élite pitagorica assumeva forme certamente non prettamente o propriamente democratiche, ma comunque aristocratiche nel loro significato più nobile.[11]
Gli ἄριστοι sono nel mondo greco i “migliori”, coloro che hanno le competenze e le conoscenze per gestire la res publica: è ispirandoci a tali concezioni che arriviamo a Platone, che non solo è il massimo teorico del mondo antico sotto l’ambito politico, ma è in lui che il concetto di λόγος assume le sfumature più complete, da parola a dialogo, da ragionamento a numero. L’armonia delle idee, dei numeri porta a una concezione in cui l’uomo deve ricercare la felicità, e felicità per Platone è sapere: il mito della caverna riportato nella Repubblica[12] è l’esempio non solo gnoseologico della scoperta del Bene, ma anche uno dei primi manifesti politici sul compito dell’uomo, che nella sua pienezza è filosofo, amante della σοφία.
Tutti hanno la potenzialità di arrivare al Bene, ma molti di essi necessitano di una spinta, hanno bisogno della “discesa” al mondo della δόξα del filosofo, che rischia di essere disprezzato o ucciso dagli uomini[13], ma che fa del “comunismo della Verità” il suo scopo di vita. Il mito della caverna è grande perché dà la dimostrazione essenziale del valore non solo gnoseologico, ma anche e in un certo senso soprattutto morale del cammino del filosofo sganciato dalla δόξα.
Ed è per questo che mi permetto di definire Platone il “filosofo della libertà” del mondo antico, così come Marx lo è per il mondo contemporaneo.
Tornando a teorici di società con principi comunisti, Aristotele nella Politica parla di Falea di Calcedone, vissuto nell’età della sofistica, il quale voleva dividere in parti uguali i possedimenti per dare la maggior giustizia possibile;[14] così anche di Ippodamo di Mileto, famoso organizzatore della città e del Pireo basandosi sulla geometria pitagorica di cui fu grande sostenitore, il quale divise la società in 3 parti (soldati, artigiani, contadini) così come il territorio (comune, privato, sacro), seguendo il fatto che il 3 era il numero perfetto per i Pitagorici, tutto per ritrovare quell’armonia comunista di stampo pitagorico di cui abbiamo già parlato.[15]
E’ Aristotele a riportare le differenti teorie “comuniste” del mondo greco, ma mentre Falea e Ippodamo danno un senso tecnico più vicino alla realtà, per Aristotele il nostro Platone ha cogitato una società irrealizzabile[16]: si tratta del primo vero esempio di Utopia, nome dell’opera poi scritta da Thomas More e pubblicata nel 1516.[17]
Ma in cosa consiste questa società che per prima ha dato l’idea sì di utopia, ma anche l’idea di un mondo migliore? In Platone c’è il desiderio, la pretesa di portare un mondo ideale sulla Terra: in questo senso è un filosofo idealista, che vede nelle Idee dell’Iperuranio delle formule perfette che devono riportare la verità.
Una simile posizione non poteva essere apprezzata da un filosofo liberale come Karl Popper, il quale vide appunto in Platone (e in un certo senso, per ovvie ragioni, Socrate), ma anche in Hegel e Marx, gli ideologi del “totalitarismo”[18]: questa visione limita notevolmente la profondità del pensiero platonico e l’ambizione sociale di Hegel e Marx, che (e soprattutto il secondo), contrariamente a quanto possa pensare Popper, hanno cercato di dare un senso alla società umana intera. Per Hegel la storia si concludeva nel presente, “giustificando” il potere prussiano, mentre per Marx la storia è un processo da analizzare per cogitare una società più ugualitaria, in cui appunto il comunismo è il termine “ultimo”, il tipo di società dove ognuno ha la potenzialità di arrivare al Bene (volendo riprendere Platone) secondo, in fondo, quel principio successivo di Gramsci secondo il quale «tutti gli uomini sono “filosofi”».[19]
E in questo senso, ritornando a Platone, criticato da certa scuola marxista di essere antidemocratico,[20] contro cioè gli interessi dei più poveri e deboli, si può leggere una corretta visione platonica della società, che pure Aristotele ammette rifarsi alla democrazia oltre che all’oligarchia[21], o, meglio, all’aristocrazia di stampo pitagorico. Platone divide in 3 parti (vedi Ippodamo) la società: filosofi-guide, guerrieri, lavoratori. E’ una sorta di democrazia a piramide, dove per guidare uno stato-πόλις bisogna avere le competenze (ecco l’allievo di Socrate) e chi meglio di chi ha voluto affrontare l’uscita dalla caverna e salire al Sole, al Bene, può guidare la πόλις… E’ però lo stesso Platone ad intendere la potenzialità di ogni individuo ad arrivare all’Idea del Bene, l’ἀλήθεια per eccellenza: ritorna ancora fondamentale il mito della caverna, forse il più complesso di Platone.
Accusare Platone di antidemocrazia è fuorviante e sbagliato. Per sostenere questa posizione si può riportare la critica di Platone al possedimento smisurato della proprietà privata, che a maggior ragione i filosofi devono lasciar stare, perché contrastante con quel principio di medietas essenziale nel mondo greco e romano.
Il limite: ecco il comandamento dell’uomo antico. Platone fa valere più degli altri questo principio, che poi Aristotele esemplificherà benissimo nella differenza tra economia e crematistica, l’amministrazione della casa contro l’abuso di ricchezze,[22] e nell’affermazione di uomo come animale politico, cioè sociale.[23]
Per Platone non c’è spazio per il profitto, soprattutto nel Platone delle Leggi[24], e, se c’è, tale deve essere incamerato dallo Stato per l’amministrazione saggia e a favore del bene comune.
Se di comunismo dei beni si può parlare con Platone, quindi sotto un ambito prettamente economico, questo non si può propriamente dire nell’ambito sociale nel suo senso più esteso: tema centrale, soprattutto del mondo greco, è la schiavitù, e difatti lo schiavo per Aristotele, ad esempio, è pari a «un oggetto che respira»[25] (più tardi Varrone avrebbe utilizzato la formula «strumento che parla»[26]). Saranno gli Stoici, soprattutto quelli vicini all’ambiente romano, a rivalutare la figura dello schiavo. In particolare Seneca ed Epitteto dettero il via a un maggiore rispetto per questa classe sottomessa. Ma fu il pensiero e l’azione di Blossio di Cuma, maestro e sostenitore di Tiberio Gracco,[27] a risaltare questo atteggiamento impegnato a favore dei più disagiati: esaltò gli schiavi e si schierò dalla loro parte nella rivolta di Aristonico avvenuta nella seconda metà del II secolo a.C., il quale attirò a sé, più o meno legittimamente, più o meno onestamente, il favore degli schiavi nella lotta contro l’imperialismo schiavistico romano e nella sognata fondazione di Eliopoli, la Città del Sole che richiama verosimilmente all’Isola del Sole di Giambulo[28] e che potrebbe essere stata formulata grazie proprio alle teorie democratiche di Blossio.[29]
La Città del Sole[30] è anche il titolo dell’opera di Tommaso Campanella del 1602 che probabilmente si rifece, oltre che a Platone, anche a una simile vicenda.
Accanto a questa pretesa di giustizia sociale ante litteram, si affiancava in grandi intellettuali dell’epoca tardo-repubblicana la critica all’avidità di denaro (Sallustio[31]), ma anche un rivisitazione della condizione dello schiavo (soprattutto tramite gli storici Agatarchide di Cnido e Posidonio di Rodi[32]).
Sotto Roma lo schiavo poteva affrancarsi dal padrone e diventare liberto (cosa che non accadeva nel mondo greco): ecco quindi emergere i grandi Stoici del periodo imperiale romano, cioè Seneca, maestro di Nerone e sognatore, come prima Platone, di una società dove doveva regnare la giustizia, ed Epitteto, appunto liberto.
Pensiero affine a quello stoico era il pensiero cinico, al quale il fondatore delle Stoà, Zenone di Cizio, si ispirò per portare avanti i suoi precetti. Per i cinici, contrariamente alla visione del Greco classico, il lavoro, soprattutto manuale, era un valore: gli schiavi potevano avere dignità umana come i liberi. Ecco in quale ambiente culturale si sviluppò la manumissio dello schiavo, la sua emancipazione: il II e il I secolo a.C. furono appunto anche i periodi dove emersero le famose rivolte servili, due in Sicilia, e una, l’ultima, la più famosa e clamorosa (praticamente contemporanea alla guerra mitridatica, dove ci furono elementi servili sotto la guida di Mitridate…[33]), con Spartaco, il Trace che tra il 73 e il 71 a.C. ha scombussolato le file dell’esercito romano. Sempre con Spartaco, particolarità che ci collega agli Spartani e a Licurgo, si evitò l’uso di materiali come oro e argento a favore di bronzo e ferro[34]: in questo caso non c’era l’interesse per la coniazione di monete, ma vi era l’obbiettivo pratico di costruire armi per difendersi dai Romani (senza poi escludere una “superiorità morale” riportata da Urbainczyk[35]).
Anche nell’organizzazione della banda di Spartaco c’era un certo comunismo tra schiavi ribelli: l’intento era respingere l’imperialismo romano a favore della libertà comune.
Il comunismo non fu un elemento così fortuito, ma non era sviluppato al pensiero socialista di tipo “scientifico” marxiano: non si può parlare propriamente di rivoluzione in questo senso nel mondo antico, anche se, per concludere con Spartaco, ci furono delle avvisaglie di questa, tanto che lo stesso Marx nello scrivere a Engels, il caro amico, non nascondeva il fascino che scaturiva da Spartaco, risultando una delle figure più grandiose del mondo antico.[36]
D’altro canto, il comunismo assunse nel passato delle connotazioni particolari anche in ambito religioso: rimanendo soprattutto nell’ambito monoteistico, Giuseppe Flavio ci dice che gli Esseni (della cui comunità faceva probabilmente parte anche Gesù di Nazareth) erano un popolo che viveva in confraternite comunitarie dove vigeva la proprietà collettiva;[37] così i primi Cristiani, seguendo i precetti dei Padri della Chiesa, dovevano condividere i beni e disprezzare le ricchezze superflue:[38] non è un caso che dalla divisione del pane (corpo di Cristo) deriva il termine tanto caro ai sinistrorsi “compagno”…
Ma più di ogni altro fu Marcione che portò avanti quello che Mazzarino definisce «comunismo della carità»,[39] promuovendo uno stile di vita molto radicale sotto l’ambito dell’astinenza alimentare e libero dal matrimonio, a causa del quale secondo Marcione era vietato ricevere battesimo; comunque non c’era una pura e severa divisione tra battezzati e catecumeni durante le cerimonie, cosa che accadeva invece nel rituale del cattolicesimo primordiale.
Mazdak, figura importante del mondo persiano vissuta tra il V e il VI secolo d.C., portò avanti teorie in campo religioso, ma soprattutto in ambito sociale, dove si prevedeva la comunione dei beni per evitare cupidigia e inimicizia nella comunità.[40]
Come conclusione si può affermare che il comunismo fu presente sin dal mondo antico, ma naturalmente non nella formula marxiana: ovviamente Marx è un uomo della storia contemporanea, un filosofo che però fece del pensiero antico della Trinità greca Socrate-Platone-Aristotele un punto di riferimento fondamentale. In particolare Platone fu il vero riferimento ideologico del filosofo di Treviri, ma anche l’Ateniese non fu un innovatore ex-novo del comunismo, o più propriamente della comunione di beni: gli esempi soprariportati ci danno l’idea dello sviluppo di un pensiero, di un’azione che aveva origini precedenti alla nascita di Platone, così come società o ideologie di stampo comunista si ebbero successivamente avvicinandoci al Medioevo… Sarà con Marx che ci sarà la svolta decisiva, ma siamo in una società guidata dal capitale, che porta alla reificazione e all’alienazione dell’uomo: è il filosofo tedesco a svelare l’inganno del capitale e a lanciare contro di esso l’accusa definitiva.

 

Marco Penzo

Marco Penzo – nato a Sinalunga (SI) nel 1988, diplomato presso il Liceo Classico “F. Petrarca” di Arezzo e laureato presso la facoltà di “Lettere e Filosofia” dell’Università “Alma Mater Studiorum” di Bologna, si dedica con passione alla scrittura passando da poesia a saggistica.

Note

[1] K. Marx-F. Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma, 19692, p. 962. Questa citazione viene dalla Critica del programma di Gotha (1875). Cf. Atti degli Apostoli (At. 4, 35).

[2] Cf. D. Musti, Storia Greca, Laterza, Bari, 20063, pp. 849-850.

[3] Cf. E. Ciccotti, Storia Greca, Vallecchi, Firenze, 1922.

[4] Cf. G. Giannelli, Trattato di storia greca, Tumminelli, Roma, 19675.

[5] Per lo studio del passaggio al Medioevo cf. H. Pirenne, Mahomet et Charlemagne, PUF, Paris, 1937. Il testo è fondamentale perché spiega come l’economia europea fu “bloccata” dall’espansionismo islamico del VII secolo e come ci fu il successivo emergere di Carlo Magno, elementi che segnarono per l’autore definitivamente il passaggio dal mondo antico a quello medioevale.

[6] Cf. Platone, Discorsi sull’amicizia e sull’amore, introduzione di G. Pugliese Carratelli, a cura di E. Totti, Opportunity Book, Milano, 1995, p. 7.

[7] Cf. G. Pettinato, I Sumeri, Rusconi, Milano, 1994, pp. 283-289.

[8] Cf. D. Musti, op. cit., p. 193.

[9] Cf. Ibidem, p. 194.

[10] Plu. Lyc. 9.

[11] Come osservazione sul pensiero politico-sociale di Pitagora cf. C. Fiorillo-L. Grecchi, Il necessario fondamento umanistico del “comunismo”, Editrice Petite Plaisance, Pistoia, 2013, pp. 22-25.

[12] Cf. Pl. R. 514 a-517 a.

[13] Cf. Ibidem 517 a.

[14] Cf. Arist. Pol. II, 7, 1266 a-b.

[15] Cf. Ibidem II, 8, 1267 b.

[16] Cf. Ibidem II 1-6, 1260 b-1266 a.

[17] Cf. T. More, Utopia, Penguin, London, 2012.

[18] Cf. K. Popper, The Open Society and Its Enemies, Routledge, London, 1945.

[19] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 2007, vol. II, p. 1375.

[20] Sull’argomento cf. C. Fiorillo-L. Grecchi, op. cit., pp. 25-26.

[21] Cf. Arist. Pol. II, 6, 1266 a.

[22] Cf. Ibidem I, 9, 1256 b-1258 a.

[23] Cf. Ibidem I, 2, 1253 a.

[24] Cf. Pl. Lg. 741 E.

[25] Arist. E.N. VIII, 13, 1161 b.

[26] Varr. R. R. I, 17, 1.

[27] Cf. Plu. T. G. 20, 7.

[28] Cf. D. S. II, 55, 1-2.

[29] Su Blossio cf. D. R. Dudley, Blossius of Cumae, “Journal of Roman Studies”, 31 (1941), pp. 94-99.

[30] Cf. T. Campanella, La Città del Sole, Arnoldo Mondadori, Milano, 1991.

[31] Cf. Sall. Cat. XI.

[32] Cf. K. Meister, La storiografia greca, Laterza, Bari, 20078, pp. 179-183, 198-204.

[33] Cf. Plu. Sull. 18, 8-10.

[34] Cf. App. B. C. I, 117, 547.

[35] Cf. T. Urbainczyk, Spartacus, Bristol Classical Press, London, 2004, p. 64.

[36] Cf. K. Marx-F. Engels, Opere XLI Lettere Gennaio 1860-Settembre 1864, Editori Riuniti, Roma, 1973, p. 176.

[37] Cf. J. B. J. II, 122.

[38] In merito cf. C. Fiorillo-L. Grecchi, op. cit., pp. 35-56.

[39] S. Mazzarino, Trattato di Storia Romana – L’Impero Romano, Tumminelli, Roma, 1956, p. 202.

[40] Cf. C. Fiorillo-L. Grecchi, op. cit., p. 18 nota 18.

Salvatore Antonio Bravo – Una morale per M. Foucault?

 

Michel Foucault

 

 

Introduzione

Non vi sono opere in cui è presente una trattazione etica: il tema è disperso nei suoi testi e si intreccia tra decostruzione e costruzione del soggetto. Si cercherà, quindi, di rinvenire le tracce che possano permettere di ricostruire una possibile proposta etica dell’autore.
L’oggetto dell’analisi di Foucault, come egli ha più volte evidenziato, è il soggetto e non il potere; si potrebbe cogliere in questo una sensibilità etica, giacché l’etica ha al centro la persona e tutto riconduce ad essa.
Il rapporto potere-verità ha rappresentato un’ossessione cognitiva nel suo percorso intellettivo. Il fine dichiarato è stato sganciare il potere costituito dalla verità, in questo binomio Foucault coglieva l’invasività minacciosa verso il soggetto, che in tal modo cade nelle maglie dei processo di assoggettamento senza consapevolezza, nel silenzio di una negazione senza redenzione.
Rompere il binomio potere-verità ha l’effetto di una scissione atomica e libera una quantità inesauribile di energia; i soggetti liberati, infatti, possono uscire da silenzi e secolari mortificazioni, per una rottura epistemologica assoluta: la volontà di sapere, sostituendo la verità, che, mentre si afferma capillarmente, divora le alterità e conduce a nuovi modelli inaspettati di vita, protagonista un soggetto, che altrimenti sarebbe stato attraversato da forme assoggettanti vissute quali uniche possibile.
Si descriverà il possibile percorso di Foucault tra decostruzione del potere e gli effetti nei campi d’azione.
Un nuovo soggetto è liberato dall’Umanesimo e dai suoi assoluti funzionali ai sistemi di potere, nel cui orizzonte la parola verità non porta il peso dell’esclusione, ma, sostituita dalla volontà di sapere, può rifondare e liberare nuove forme di soggettività per nuovi campi d’azione in cui esserci.

L’ Enunciato

L’enunciato occupa una posizione centrale all’interno della struttura del pensiero di Foucault, è il mezzo minimo e complesso mediante il quale è possibile ricostruire dinamicamente saperi, oggetti del sapere, parole e soggetti.
Il soggetto e le parole sono gli effetti dell’enunciato all’interno di uno spazio dove avvengono ed emergono soggetti ed oggetti del sapere. Gli enunciati non sono mai singoli, ma sempre in una relazione tendenzialmente olistica con altri enunciati.
Se vi è l’enunciato, si eclissa ogni umanesimo: non si ricerca la sostanza o i miti concettualmente limitrofi (soggetto forte, origine, sostanza, continuità).
Il piano di emersione si fa privo di profondità, manca lo sguardo che insegue con la parola la causa e l’effetto.
Nel campo d’azione gli enunciati costituiscono la rete di relazioni spaziali e temporali entro cui si pone l’emergenza, essi non sono le precondizioni, queste ultime conservano la profondità dell’origine e sono sottratte allo sbattere delle spade del campo d’emersione dove sguardi, ruoli, dicibilità, gesti, orizzonti percettivi si intrecciano.
L’enunciato è la genealogia della parola, della dicibilità. E’ una funzione e non una struttura. Non appartiene al soggetto e non fa riferimento ad esso, piuttosto è una funzione in un campo d’azione che consente l’emergere degli oggetti.
L’inversione è avvenuta, per tradizione tipica dell’Umanesimo si partiva dal soggetto o da un oggetto epistemico, entrambi riposavano in un tempo annichilito dalla profondità. Ora sono restituiti al campo d’azione dove emergono grazie alla funzione enunciativa. È ripetibile poiché ha un suo statuto all’interno di un campo di utilizzazione. Vive in uno spazio, in un reticolo di funzioni, acquisisce in tal modo visibilità e materialità, consente di dire, di essere riconosciuto, ripetuto, circola, si dinamizza nel campo enunciativo ma all’interno di un campo di stabilizzazione, altrimenti non è possibile l’emersione di un sapere (vedasi la funzione enunciativa in Archeologia del Sapere).
Nella Nascita della clinica Foucault descrive il passaggio tra tipi di approccio metodologico in medicina, cogliendo la funzione della spazializzazione e della verbalizzazione, entrambe sono colte nel loro farsi, nel loro emergere al fine di cogliere l’oggetto e di formarlo.
Spazializzazione e verbalizzazione divengono funzioni enunciative per l’emersione del soggetto.
Così Foucault: «Per cogliere la mutazione del discorso all’atto della sua produzione bisognerà interrogare qualcosa di diverso dai contenuti tematici o dalle modalità logiche, e volgersi verso la regione in cui “le cose” e le “parole” non sono ancora separate, là dove, a fior del linguaggio, modo di vedere e modo di dire si compenetrano ancora. Bisognerà interrogare la distribuzione originaria del visibile e dell’invisibile, nella misura in cui è connessa colla divisione tra ciò che si enuncia e ciò che viene taciuto: apparirà allora, in una unica figura, l’articolazione del linguaggio medico e del suo oggetto. Ma non v’è precedenza di sorta per chi non si pone alcuna questione retrospettiva: sola merita d’esser portata in una luce di proposito indifferente la struttura parlata del percepito, lo spazio pieno nel cavo del quale il linguaggio assume volume e misura. Bisogna porsi, e, una volta per tutte, mantenersi al livello della spazializzazione e della verbalizzazione fondamentali per il patologico, là ove prende origine e si raccoglie lo sguardo loquace che il medico posa sul cuore venoso delle cose» (M. Foucault – La Nascita della clinica – Einaudi Torino – 1991).
Dunque l’enunciato assomma gesto, sguardo, visibile, invisibile in un campo di relazioni, dal cui incontro si forma l’oggetto, in questo la patologia.
L’autopercezione del medico inserito in uno spazio di relazioni è sostenuta dai linguaggi attivi in uno spazio, quali verità legittimate dalla clinica, e questo consente di definire una posizione di potere, una pratica di potere all’interno di un fascio di relazione che ritaglia nel farsi la malattia e, dunque, il paziente.
La parola enunciativa è colta nello spazio della sua dicibilità, condensata nel gesto, che mentre dice esclude, marginalizza saperi non legittimati dalle strutture di potere, nel contempo emerge nel campo delle relazione-azioni l’oggetto nominato, prende forma nella parola che porta con sé lo spessore spaziale del gesto.
L’ enunciato, dunque, si riferisce ad un campo funzionale dove si concretizza la dispersione del soggetto: il medico non è l’autore, il protagonista col suo io roccioso, piuttosto egli stesso emerge nel campo in quanto attraversato da un fascio di relazioni spaziali.
Si è formato come soggetto medico nello spazio della clinica, nella lingua specialistica che fa di lui un medico che si autopercepisce in una posizione di potere, che sussiste all’interno di una rete spaziale in cui incontra e definisce la malattia, la patologia, il paziente.
Se si sposta il medico in un’altra istituzione, in un altro spazio di relazioni, emerge la dispersione del soggetto che assume una funzione enunciativa differente.
Dov’è l’autore?
Dov’è il soggetto fondato in senso trascendentale?
I rapporti si invertono, è nelle maglie delle relazioni e delle funzioni enunciative che emergono i discorsi e con essi i soggetti. Processi di soggettivazione corrono paralleli alla formazione dei discorsi.
Chi parla?
Il soggetto è sostituito da un mormorio, da un “si dice” che affiora dalla carne della soggettivazione. Sii taglia, dunque, la testa al re, con essa ogni forma di soggettività umanistica.
Il potere scorre ovunque, ha perso con la testa ogni centro, come il dio di Cusano, il centro è ovunque.
Entstehung, l’emergenza, è l’entrata in scena delle forze, con esse l’enunciato fa la sua apparizione-irruzione, lo spazio si distribuisce e con esso gli uni sono dinanzi agli altri: lo sguardo, il gesto, la posizione occupata nello spazio. La parola si nutre dell’apparire materiale per tagliare lo spazio, per attraversarlo e restituire ad ognuno con la decifrabilità, in un confronto, affronto non privo di tensioni ripetibili.
Il soggetto ‘forte’ ripiegato nella sua sostanza splendente prima della sua caduta, identità rintracciabile all’interno della contingenza spaziale e delle forme di verbalizzazione fa parte di quel regime di verità che trova la sua genealogia all’interno del potere.
L’autore diventa il veicolo delle verità funzionali al sistema, che pongono il soggetto prima del tempo, anteriore allo spazio, il depositario istituzionale della verità, la linea che consente di identificare la continuità della verità.
La continuità trova nel soggetto-autore la sostanza mediante cui costruire una storia, dove potere e verità vivono in un binomio indiscutibile: «Credo che esista un altro principio di rarefazione di un discorso. Si tratta dell’autore. L’autore considerato non come l’individuo parlante che ha pronunciato o scritto un testo, ma l’autore come principio di raggruppamento dei discorsi, come unità e origine dei loro significati, come fulcro della loro coerenza» (M. Foucault – L’ordine del Discorso – Einaudi Torino – pag 22).
Per fondare una nuova morale libera da forme di soggettivazione ed assoggettamento diventa necessario, con la morte del soggetto, introdurre la wirkliche Historie, la quale restituisce definitivamente l’uomo e le sue esperienze epistemiche alla sua temporalità. La finitudine e la fine dell’Umanesimo sono i capisaldi teoriciche fondano un’etica per Foucault.
Con l’enunciato e la sua pratica il soggetto e la parola sono gli effetti delle pratiche discorsive; così Deleuze sull’enunciato: «Ma tutte queste posizioni non sono figure di un Io primordiale da cui deriverebbe l’enunciato: esse derivano, al contrario dall’enunciato stesso, e a questo titolo sono i modi di una ‘’non persona’’, di un ‘’EGLI’’ o di un ‘’SI’’- EGLI parla, ‘’Si parla’’ – che si specifica a seconda della famiglia di enunciati. Foucault si collega così a Blanchot che denuncia una ‘’personologia’’linguistica, e colloca i posti di soggetto nello spessore di un mormorio anonimo» (G. Deleuze – Foucault – Feltrinelli Milano – pag 18).
Non vi è più una intenzionalità, lo spessore profondo di una coscienza, uno stato di cose avulso dalle realtà e dai contesti materiali della storia.
Con tale fondamenti ogni etica di tradizione umanistica tramonta, al suo posto resta un soggetto con il compito di costruire individualmente la propria soggettività e percorsi di consapevolezza.
In Foucault la metodologia genealogica, mutuata da Nietzsche, riporta l’uomo nelle maglie della sua finitudine e con essa vi è la fine di ogni mito prima della caduta; resta l’assoluta libertà di un soggetto che può diventare con la cura di sé un’opera d’arte, materiale duttile da cesellare.
La volontà di sapere sostituendo la volontà di verità col suo potere censorio, col suo ritagliare gli spazi della dicibilità, ridona la libertà del poter essere, potenzialità infinite si aprono alla fine della storia dell’Umanesino, resta la responsabilità dell’individuo dinanzi a se stesso.
Se l’Umanesimo legava l’individuo ad una socialità iscritta nella natura, destino ineludibile ed ineluttabile, ora l’individuo è solo con la sua carnalità sciolta da legami trascendenti.
La creatività, la liberazione dei possibili, spinge e rompe o minaccia di rompere ogni identità costruita seconda continuità.
Pensiero divergente che si avviluppa nel segreto della carne che ritrova se stessa come traguardo e resistenza.
Ora l’uomo è liberato, la volontà di potenza nietzschiana ha trovato una nuova modalità di espressione totale, oltre la genealogia, nei reticolati della microfisica del potere, la liberazione induce ad un prospettivismo consapevole.
Cosa resta?
Foucault incontra fortemente e pericolosamente Nietzsche: un nichilismo attivo è quanto propone Foucault, non resta che il divenire da interpretare (cfr. Nietzsche – La volontà di potenza – aforisma 72).
Riportato il soggetto alla sua storia, svelate le continuità come forme di manipolazione, la storia può diventare il luogo di un palcoscenico dove i soggetti sono mossi da forme di sperimentazione etica e dalla cura di sé, testimonianza di una umanità liberata e prometeica.
Non vi è alcun concetto di natura, nessuna socialità, nessuna intenzionalità solo il possibile: la carne liberata può prendere il suo bisturi e ritagliare la sua anima.
La morte di Dio che Foucault coglie nella sua pienezza consente la ricerca di un’etica da sperimentare. Fin dove spingersi, qual è il limite oltre il quale non è dovuto sporgersi non è dato sapere.

Gli interdetti

Liberare le individualità significa svelare le forme implicite di censura che si ritrovano nei campo epistemici, nel mormorio che mentre avviene spazializza, dandone i confini e le possibilità d’essere all’individuo.
Si ritrova un Foucault, figlio della scuola del sospetto, che insegue gli interdetti nel loro prendere forma.
La lezione di Marx e Nietzsche sono qui presenti: il primo svela le logiche del potere, il quale si autofonda su presunti universali che celano interesse particolari, il secondo indica nella maschera, il manifestarsi di un’apparenza che mostra l’invisibile.
Quest’ultimo è costituito dalle forze inconsce che parlano in quella maschera a cui il soggetto è ridotto.
La distanza che lo separa da Marx è notevole, in quanto ha tagliato la testa al re, e la sua microfisica del potere svela la circolarità del potere, la sua dispersione nelle istituzioni che sono il campo d’azione del mormorio in cui il soggetto prende forma e dà forma.
L’enunciato e la sua funzionalità rende il farsi del potere visibile.
Per Foucault il potere è ovunque e rende possibili fasci di relazioni in cui il soggetto è immischiato, diventando parte integrante del potere.
Per Marx il potere può essere diviso spazialmente lungo una linea netta, che divide i detentori da coloro che ne sono privi, per Foucault è una diagonale che disegna lo spazio di tutti i soggetti.
Malgrado la sua militanza nel partico comunista francese, la distanza teorica dello stesso non poteva essere più grande, e difatti la sua espulsione ne fu una conseguenza.
Rendere consapevoli le forme di dicibilità e svelarne le censure è una precondizione assoluta per formulare un’etica nel pensiero di Foucault.
Per liberare gli individui e le potenziali individualità si deve staccare il potere dalla verità per far questo Foucault elenca una serie di procedure che consentono il binomio potere – verità.
La volontà di verità consente la soggezione antropologica ovvero la trasmissione e la ripetizione del binomio verità – potere a tal fine ‘funziona’ la soggezione a Dio, alla sostanza, alla natura, alle leggi della storia.
Il commento quale modalità conservatrice dell’identità permette la ripetizione in modo liturgico e solo pochi, depositari delle tecniche e dei linguaggi.
Se il commento è blindato, codificato nella sua lettura interpretativa, la sua verbalizzazione permette la conservazione di istituzioni, e spinge ogni ‘lettura altra’, verso la dequalificazione epistemica.
Le Università con la loro ‘citatologia’, direbbe il compianto Costanzo Preve, sono modus agendi di esclusione e di autoriproduzione dei poteri, portatori nel loro statuto la violenza cognitiva mascherata da formalismi liturgici: «L’indefinito spumeggiare dei commenti è lavorato dall’interno dal sogno di una ripetizione mascherata: al suo orizzonte, non vi è forse nient’altro che ciò che era al suo punto di partenza, la semplice recitazione. Il commento scongiura il caso del discorso assegnandogli la sua parte: esso consente certo di dire qualcosa di diverso dal testo stesso, ma a condizione che sia questo testo stesso ed essere detto e in qualche modo compiuto.» (L’Ordine del Discorso – Einaudi – pag 22).
La Partitura è altra strategia di esclusione, si insinua nel linguaggio e nei confini epistemici mediante antesi quali Ragione – Follia la partitura concettuale diviene una pratica di esclusione della parola e degli spazi: il manicomio e un effetto della pratica della partitura: «Esiste, nella nostra società, un altro principio d’esclusione: non più un interdetto, ma una partizione e un rigetto. Penso alla opposizione tra ragione e follia ( ) La follia del folle si riconosceva attraverso le sue parole; esse erano il luogo in cui si compiva la partizione; ma non erano mai accolte né ascoltate.» (ibidem – pag 11).

In Sorvegliare e Punire e in Storia della Follia la partitura è resa operativa e visibile nella definizione degli spazi, nella geometria dei confini, il cui perimetro segna la partizione tra il mondi di senso ed il mondo dove la parola collassa in un insensato dire che va normalizzato per cui il potere istituzionale pratica un ortopedia pedagogica.
Le modalità di esclusione presuppongono la disciplina: irregimentare le scienze, espellere da esse ogni modalità epistemica non riconosciuta e che minacci la sua autoriproduzione, la sua istituzionalizzazione: «Entro i suoi limiti, ogni disciplina riconosce proposizioni vere e false: ma essa respinge oltre i suoi margini tutta una teratologia del sapere. L’esterno di una scienza è più o meno popolato di quanto non si creda: certo, c’è l’esperienza immediata, i temi immaginari che portano e ripropongono senza posa credenze senza memorie; ma forse non ci sono errori in senso stretto, poiché l’errore non può sorgere ed essere deciso se non all’interno di una pratica definita; in compenso si aggirano dei mostri, la cui forma cambia con la storia del sapere.» (ibidem – pag 27)

La storia genealogica è dunque finalizzata a ritrovare dietro la continuità, le leggi che definiscono la continuità e nello stesso tempo segnano i confini tra dicibile ed indicibile.
La storia genealogica rivolge l’attenzione conoscitiva verso gli esclusi, liberare il non detto della storia, le individualità mute e sconfitte ma il cui recupero, la cui parola indica la violenza della volontà di verità: «Atro uso della storia: la dissociazione sistematica della nostra identità, pur debole, che cerchiamo di assicurare e di raccogliere sotto una maschera, non è che una parodia: il plurale abita, anime innumerevoli vi si disputano; i sistemi s’incrociano e si dominano gli uni con gli altri. E in ognuna di queste anime, la storia non scoprirà un’identità dimenticata, sempre pronta a rinascere, ma un sistema complesso di elementi a loro volto molteplici, distinti, e che nessun potere di sintesi domina(). La storia genealogicamente diretta, non ha per fine di ritrovare le radici della nostra identità ma d’accanirsi al contrario a dissiparla; non si mette a cercare il luogo unico da dove veniamo, questa prima patria dove i metafisici ci promettono che faremo ritorno: essa si occupa di far apparire tutte le DISCONTINUITA’ che ci attraversano.» (M. Foucault – Microfisica del Potere – Einaudi – pag 51).

La storia genealogica diviene metodologia d’indagine e di denuncia, forse il momento più alto dell’intenzionalità di ricerca che svela il suo valore etico.
Inseguire gli esclusi all’interno dei campi epistemici, riascoltare le loro voci, rompere gli spazi claustrali, raggiungere le soggettività negate, le vite consumate nel mutismo, perché la catastrofe della storia possa condensarsi nel presente in un possibile in cui gli spazi siano plurimi.
La pastorale dell’incontro, gonfia di retorica, non può fondare autonomamente un nuovo inizio, necessita di una teorizzazione delle strutture cognitive che hanno consentito i crimini e la catastrofe, direbbe Walter Benjamin, da capire per affermare nuovi paradigmi di vita condivisi.

Un’etica possibile

Un’intenzionalità etica è emerge nello stesso operare archeologico e nell’analisi della microfisica del potere.
Se la ricerca delle fluide strutture del potere diventa la storia filosofica vissuta del filosofo, ciò accade perché il potere è organizzato nello spazio, nella parola, nella carne del soggetto.
Esso è onnipervasivo bisogna scovarlo nel dettaglio perché agisce sui particolari: il corpo è all’interno delle spirali del potere, ne è plasmato, manipolato, organizzato.
Nell’analisi del biopotere il corpo diventa non l’oggetto del potere ma ne è organizzato nelle funzione biologiche, è salvato dalla malattia, scrutato prima ancora che tastato per renderlo omogeneo ad un apeiron in cui il suo ruolo è iscritto nel tutto funzionante.
Il soggetto è guardato, il temo dello sguardo, del soggetto guardato senza essere visto è una costante.
Sguardo e percezione sono tematiche diffuse nella cultura francese: Bataille, Merleau Ponty, Blanchot, Bergson è all’interno di quest’area che si fa fondante il tema del soggetto.
Si pensi alla descrizione del Panopticon: «Alla periferia una costruzione ad anello; al centro della torre tagliata da larghe finestre che si aprono verso la faccia interna dell’anello; la costruzione periferica è divisa in celle, che occupano ciascuna tutto lo spessore della costruzione; esse hanno due finestre, una verso l’interno, corrispondente alla finestra della torre; l’altra, verso l’esterno, che permette alla luce di attraversare la cella da parte a parte (..). Il Panopticon è una macchina per dissociare la coppia vedere-essere visti, senza mai essere visti; nella torre centrale, si vede tutto, senza mai essere visti» (M. Foucault – Sorvegliare e Punire – Einaudi – pag 218).

Si tratta dunque di un lavoro d’analisi al cui centro non vi è il potere ma il disperso e di ricostruirne le forme di soggettivizzazione e di assoggettamento con i suoi regimi di verità, anzi l’uomo è un’invenzione della pratica del potere.
Esso lo scruta, lo analizza, lo pervade per farlo emergere: l’uomo è un’invenzione recente oggetto delle tecniche che non sono circoscritte il confini distinguibili per chè sono la società, circolano nel corpo della società.
L’uomo è oggetto di conoscenza per poterlo render addomesticabile in una complicità collettiva.
La circolarità non implica la necessariamente la passività, anzi ciascun soggetto del sistema opera col potere nel mentre ne è costituito nel suo farsi essere.
Pertanto l’iperattivismo che Foucault utilizza per neutralizzarlo deve avere una funziona critica e consapevole. Se questa è la realtà del potere, l’iperattivismo cognitivo di Foucault è un modo per disinnescare il pericolo strisciante: la volontà di verità.
Per evitare questo l’iperattivismo assomma partecipazione politica e presenza critica: <<Il mio punto di vista non è quello secondo cui tutto è male, ma piuttosto che tutto è pericoloso, abbiamo sempre qualcosa da fare. Quindi, la mia posizione non conduce all’apatia, ma a un iperattivismo, e a un attivismo pessimistico. Penso che la scelta etico politica che dobbiamo fare ogni giorno consista nel determinare quale sia il pericolo peggiore.>> (Dreyfus – La ricerca di M. F. – Firenze – pagg 259, 260).
Educarsi al meno pericoloso implica la consapevolezza dell’uso della parola, attraverso di essa passano e si solidificano le forme di esclusione, per cui bisogna ridare la voce a tutti, far parlare i diretti interessati, volgersi nell’ottica dell’ascolta.
Solo una fenomenologia della parola può evitare la violenza istituzionalizzata.
L’esperienza del G.I.P è coerente con questo, l’organizzazione si proponeva di dare direttamente la parola ai detenuti, in modo che potessero illustrare i loro bisogni ed esprimere ciò che ritenevano intollerabile: «Il G.I.P non si propone di parlare a nome dei detenuti delle diverse carceri. Si propone invece di dare loro la possibilità di parlare di sé e di quello che accade nelle prigioni» (Didier Eribon – M. Foucault – Milano – pag 268).
Liberare la parola dai filtri delle censure, diviene un processo di liberazione generale, tutti gli attori ne sono coinvolti.
Rompere il binomio potere – volontà significa trasformare il brusio assoggettato in un atto creativo di consapevolezza per rifiutare le forme di assoggettamento silenziose ed inconsapevoli: «Forse oggi l’obiettivo principale non è scoprire che cosa siamo, ma di rifiutare quello che siamo. Dobbiamo immaginare e costruire ciò che potremmo diventare per sbarazzarci poi di quella sorta di doppio legame politico costituito dalla individualizzazione e totalizzazione simultanee del potere moderno.» (ibidem – pag 244).
Uno dei mezzi attraverso cui impedire agli individui la libera ricerca di nuove forme di sé è sempre stato il pericolo che questo potesse significare la fine dei sistemi socio politici di appartenenza, in realtà tale ricatto non ha senso per Foucault, in quanto pura forma per giustificare l’assoggettamento coercitivo: «Per secoli siamo stati convinti che fra la nostra etica, la nostra etica personale, la nostra vita quotidiana da un lato, e le grandi strutture politiche sociali ed economiche dall’altro, vi fossero delle relazioni analitiche. E abbiamo creduto di non poter cambiare nulla, ad esempio, della nostra vita sessuale, o della nostra vita famigliare, senza mettere in pericolo la nostra economia, la nostra democrazia, e così via. Penso che dovremmo sbarazzarci di questa idea di una relazione analitica o necessaria tra l’etica e le altre strutture sociali, economiche o politiche.» (ibidem – pag. 264).
Affinché ciò si possa realizzare è necessario che l’intellettuale agisca nel suo iperattivismo non solo per denunciare, ma anche per indicare le fragilità istituzionali, dare strumenti di indagini ed analisi pubblici e trasparenti, in modo da far apparire il potere dove si rende più insidioso e più invisibile: «Quel che l’intellettuale può fare è dare strumenti di analisi; è questo oggi il compito dello storico. Si tratta, infatti, di avere del presente, una percezione spesso di lunga durata, che permetta di individuare dove sono le linee di fragilità, dove i punti forti, a cosa siano legati i poteri; sulla base di un’organizzazione che ha ormai centocinquant’anni, dove si sono impiantati. In altri termini fare un rilievo topografico e genealogico della battaglia. E’ questo il ruolo dell’intellettuale.» (M. F. – Microfisica del potere – Einaudi – pag. 26).
Le parola appena citate di Foucault conducono ad una relazione tendenzialmente o fortemente individualistica.
Non vi è una natura umana come afferma in La Natura Umana pertanto svelato il potere e le sue forme di ripetizione e di autoriproduzione il soggetto per mezzo delle cure del sé può trasformare la sua esistenza in un’opera/pratica estetica ovvero sceglie le forme di assoggettamento in modo libero e consapevole.
La cura del sé non necessariamente accade in una pratica che conserva la relazione sociale quale momento fondante, l’uomo per natura non è un animale sociale è pura potenza.
E’ possibile con le tecniche del sé trasformarsi in un’opera d’arte, lavorando le tensioni della carne o liberandole, autopossedendosi.
Risuona la lezione di Pierre Hadot negli Esercizi Spirituali secondo cui la filosofia nella sua fase aurorale è pratica, è orizzonte vissuto, per cui la teorizzazione filosofica è l’effetto del sentire cognitivo nella carne.
Pensare diviene azione, ovvero modificare se stessi in un’ottica di autonomia.
Non manca riferimenti nietzscheani, all’individualismo di Nietzsche secondo cui l’Oltreuomo, vive e sperimenta forme di vita, più vite nella stessa vita, e è un tendere verso le forme testimoniato dalla vita stessa, la parola si fa silenziosa dinanzi alla coerenza di un ‘Über’, non vi sono nature o sostanze ma solo un oltre, per cui nell’iperattivismo pessimistico di Foucault, prevale il momento della parresia.

La parresia è dire il vero.
Qual è il significato generale della parola parresia? Etimologicamente, παῤῥησιάζομαι (parresiàzomai) significa «dire tutto», da «pan» (tutto) e «rhema» (ciò che viene detto).
Dunque la parresia è la relazione tra il parlante e ciò che viene detto.
Nei suoi sei corsi californiani il tema è trattato secondo canoni non convenzionali.
La relazione è con se stessi, trasformare se stessi mediante la parola in verità.
L’attenzione è posta sull’individuo, sul soggetto, ogni legame con l’altro diventa secondario.
La concretezza di un’individualità legata alla comunità da una relazione ontologica è assente, non vi è famiglia, non vi è società né stato, l’individuo sperimenta mancando una natura, una individualità senza limiti, o quanto meno nella lettura di Foucault del mondo greco predilige una parte occultando il senso della comunità.
Nei presocratici ma anche in Platone ed in Aristotele è la comunità fondata sulla natura dell’individuo ad essere l’elemento imprescindibile del ben vivere, la comunità è garanzia della misura, come lo sfero di Parmenide, ogni punto è equidistante dal centro, è il tutto a fare la sfera, secondo un ordine di proporzioni e misure.
Nel caso di Foucault l’individuo libero dal potere è schiacciato su se stesso, come fosse eternamente sclerotizzato nella fase dello specchio di Lacan.
La liberazione avviene in solitudine, senza legami necessari con la comunità verso la quale non vi sono doveri naturali.
Le tracce dell’etica in Foucault portano ad un individualismo che se può essere accolto come coerente con il 68’ e gli anni successivi in funzione del contropotere, oggi può essere veicolo e parte della logica della dismisura, del capitale quale feticcio che non vuole regole e limiti ma solo individui pronti ad abbattere ogni radicamento relazionale in quanto limite alla circolazione dei desideri e dunque del mercato.
Pertanto mentre svela con la genealogia il binomio poter – verità, cade nell’invisibile del potere ovvero favorire la libera circolazione delle individualità, ammiccare ad esse, ridicolizzare ogni regola della misura, ed ogni idea di natura fondata dialetticamente per rendere l’atomo individuo con i suoi desideri illusoriamente libero.
Il Foucault della Storia della Sessualità ripiega sulla liberazione dal potere, lascia l’individuo al suo sé, certo non ritiene che i modelli stoici o cinici possano rivivere, ma diventano un orizzonte dal quale poter trarre considerazioni sul tipo di società a cui tendere.
Manca un progetto di comunità, anzi quest’ultima è giudicata con sospetto come un potenziale limite alla libera metamorfosi pensante del soggetto.
Il male è ‘anche’ in ogni comunità dove vige la dialettica come veicolo di una verità condivisa, perché ci sia l’individuo per Foucault la comunità deve lasciar spazio alle libere soggettività le quali sono prioritarie rispetto alla comunità, il regno del nichilismo e dell’ultimo uomo rischia di trasformarsi nel regno osannato delle libertà dei liberi voleri.
Sentire se stessi senza l’altro nella concretezza delle forme medie di comunità tra l’individuo e lo stato, non potrebbe diventare il regno degli egoismi?
Più in generale per Foucault la liberazione delle individualità dal giogo – gioco dei poteri avviene respingendo l’antitesi tra identità e contraddizione, superando la dialettica hegeliano platonica, il soggetto è liberato da ogni processo di normalizzazione e paradigma di normalità a cui tendere quale dovere, Sollen kantiano, resta l’individualità da scegliere, da autofondare .
L’orizzonte della liberazione in mancanza di una prassi comunitaria, ravvisata nella storia, si sposta in avanti, finisce con l’assumere i caratteri utopici di un mondo a venire, in cui la pacificazione delle differenze delinea l’irruzione nella storia del possibile: «Il gioco così famigliare di mirarci all’altro termine di noi stessi nella follia, e di protenderci all’ascolto di voci che, venute da molto lontano, ci dicono da vicino ciò che noi siamo, quel gioco, con le sue regole, con le sue tattiche, le sue invenzioni, le sue astuzie, le sue illegalità tollerate, non sarà più, e pur sempre, se non un rituale i cui significati saranno ridotti in cenere. Qualcosa come le grandi cerimonie di scambio e di rivalità nelle società arcaiche.» (M. Foucault – la follia, l’assenza d’opera – pag 627).
Si comprende il successo di Foucault di cui si prediligono gli studi sulle tecniche del sé piuttosto che la denuncia sugli effetti del potere ed in particolare del biopotere.
Ogni fondamento ontologico è sostituito da uno spazio cavo dove poter operare quanto una macchina può operare sulla materia infinitamente con infinite trasformazioni.
Non si può non considerare l’affermazione citata secondo cui è possibile la cura di sé senza temere gli effetti sulla realtà socio politica, un’etica con un’impronta così fortemente individualistica è infondata in una società globalizzata in cui, benché la valorizzazione del capitale e delle merci spinga verso forme di individualismo parossistico, non si può non considerare che ogni vita e legata in modo indissolubile al pianeta ed alle persone contigue e lontane.
La spinta verso la globalizzazione individualistica necessita di un’etica contro la paura che rischia di ridurre in tensione bellicosa ogni relazione famigliare, duale, politica.
La società della paura esige la cura dell’altro conosciuto e non, come rimedio all’atomizzazione terrorizzante, così Bauman descrive l’attuale condizione: «In un mondo come il nostro gli effetti delle azioni si diffondono ben oltre il raggio dell’effetto routinizzante del controllo, e della conoscenza che occorre per progettarlo. Il nostro mondo è vulnerabile soprattutto ai pericoli la cui probabilità non è calcolabile: un fenomeno totalmente differente da quello cui fa di solito riferimento il concetto di <<rischio>>. I pericoli per principio non calcolabili sorgono in un contesto irregolare per definizione, in cui le sequenze interrotte e non ripetute sono divenute la regola e l’assenza di normalità è ormai norma. Esse sono incertezza sotto altro nome.» (Zygmunt Bauman – Paura liquida – Laterza Bari 2008).
La descrizione di Bauman è esplicativa, la paura monta nell’irregolarità divenuta legge e paradigma della contemporaneità, al pari di Jonas fa appello ad un’etica della responsabilità, della partecipazione e della cura della comunità.
La paura si accresce nello smantellamento di ogni tutela sociale cui si aggiungono flussi di variabili infinite utilizzate per giustificare lo smantellamento di ogni forma di socialità solidale codificata politicamente.
Per vincere la paura e ritrovarsi essere umani piuttosto è la relazione con l’altro, consapevole e dialogica, che può e deve riportare al centro la persona piuttosto che il ‘dispositivo’ sociale anonimo quale è la struttura sociale cognitiva ed epistemica descritta da Foucault nella Volontà di sapere.
Il sistema attuale tende ad utilizzare teorizzazioni che possano autogiustificarla; l’individualismo così codificato può rafforzare l’anonimo sistema in cui il mercato, l’Europa, la globalizzazione decidono: ipostasi senza volto, senza responsabilità, nuovi feticci totemici che lasciano muto e solo il suddito globale.
Manca una prassi contro la paura, la genealogia e l’impegno destrutturato di M. Foucault non hanno effetto se non vi è una prassi comunitaria capace di trasformare la paura in lettura delle contraddizioni ed in programma politico, fino a quando le scelte saranno strettamente individuali anche in presenza di una consapevolezza, elemento raro dell’attualità, nessun effetto si avrà sulle dinamiche, sul governo della globalizzazione.
Il primo momento attraverso cui riscoprire per rivivere un’azione nella comunità è il sentirsi parte in senso cognitivo ed emotivo delle comunità in cui si vive il quotidiano, ogni forma altrimenti di critica è pura teoria senza prassi, favorita anche dai potentati politico finanziari, poiché una critica o una libera individualità sciolta dal contesto è pura astrazione da cui nulla temere, può servire al pavoneggiarsi falso democratico della cultura lobbistica.
Solo con una categoria della totalità in cui si misurano e si legano soggetto – oggetto e storia – natura, il distaccarsi dell’individuo atomo può e deve fondare un’etica della prassi e della liberazione collettiva.
La responsabilità verso il presente è gravida del futuro.

Chi ha paura della totalità?

Già György Lukács in Storia e coscienza di classe afferma che la Borghesia ha paura della totalità, oggi potremmo dire che la filosofia negando la totalità rende impossibile la prassi storica.
L’appello a cui non ci si può sottrarre per riformalizzare un’etica è riattivare la categoria della totalità quale mezzo interpretativo e d’azione.
Nella totalità entrano in scena i soggetti nelle loro connessioni ideologiche, riattivano le energie sopite da processi di reificazione che ha trasformato la complessità della persona in cliente globale.
La vicinanza della parola e del programma è il fondamento epistemico da ricostruire per dare risposte alle urgenze attuali.
Nello scambio dialogico e dialettico la partecipazione politica disseminata e diffusa può essere l’ancora di salvezza per la comunità.
L’individualismo etico di Foucault somiglia al giorno dopo la catastrofe, nel nulla del presente storico, il curvarsi dello spazio e delle temporalità nell’individuo alle ricerca di una salvezza che diventi rivoluzione interiore.
L’Aufhebung della reificazione generalità vuole che il soggetto si riscopra non astratto dalla comunità ma che senta e pensi la vocazione alla comunità senza la quale è nulla e cade nel niente globalizzato.
Vi è il rischio che senza tensione dialettica, polemòs eracliteo, nell’anonimato dei significati del mercato, sia quest’ultimo la voce della sua coscienza, sia allagato il suo io, divenuto tempo dell’economia integrale.
L’urgenza di un’etica comunitaria è tanto più vera se si considera ”il pericolo” della manipolazione tecnologica, Gestell a cui bisogna ridare il governo.
Non si può non mettersi in ascolto dell’imperativo categorico di H. Jonas, “Agisci in modo che gli effetti della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita sulla terra”.
Difendere la vita e per questo ogni azione quotidiana si ritrova nella meraviglia del legame con l’altro, ogni spazio è condivisione di effetti, delle pluralità che si incontrano per viverne la responsabilità dell’attualità proiettata nel presente.
Non si può in un contesto storico in cui la permanenza della vita in senso biologico e di espressione delle differenze tradizioni è minacciata, rifugiarsi in una cura di sé, sciolta da ogni relazione.
Pertanto il recupero della categoria della totalità è il recupero di un’etica potenziale che possa nel suo farsi ridare un ruolo alla Filosofia appiattita da un’analitica trascendentale kantiana che legittima il fenomeno.
Negare la totalità è negare la funzione della filosofia, la quale indica la meraviglia, il thauma, per rifondare il presente nella sua complessità storica, la quale esige il mormorio di una relazione sociale senza la quale si potrebbe dire nietzschianamente “Il deserto avanza, guai chi fa avanzare il deserto”.
L’ultimo uomo, nel Così Parlò Zarathustra, definito come il più disprezzabile degli uomini, è la figura che minaccia un’etica della comunità, dedito al nichilismo, indifferente al bene quanto al male, o meglio redige un’idea di bene che coincide con la propria individualità mercantile.
La Verfallenheit è la sua condizione, spregevole perché reso cosa tra le cose volutamente
Trionfo del nichilismo e del mercato, con la morte di dio non resta che il proprio sé, ingiudicabile, con Dio muore la dialettica, la verità dialogica ed ogni filosofia in cui le parti sono in tensione comunicante.
La dismisura dell’ultimo uomo, è il trionfo di un’esistenza frammentaria, ma che diventa tutto: l’unico orizzonte di senso della gabbia d’acciaio.
L’ultimo uomo rischia di diventare la versione volgare della cura di sé, anziché la cura dell’anima, la cura dei propri affari minimi.
L’ultimo uomo profezia realizzata di Nietzsche è osannato: paradigma di una verità mediocre.
L’atomizzazione globale ne incentiva i desideri del ventre ne ha sclerotizzato il reale in un rispecchiamento ideologico.
Ha espulso ogni idea di comunità la quale è giudicata un limite alla dismisura di un ego apolide e vorace.
La cura di sé a cui guarda M. Foucault, improbabile che non diventi la cura di un orto sempre più ristretto oltre il quale ciò che accade è il nulla.
La filosofia che si rifugia nelle élite di comunità di individui che hanno strumenti per la tecnica del sé e lasciano fuori di sé il proliferare dell’ultimo uomo e della politica minima, consegnano al totalitarismo delle cose il tutto favorendo processi di totalitarismi nel disimpegno dalla politica e dall’economia.
La totalità rinnegata e di cui si sente l’assenza deve riformulare se stessa nella categoria del complesso: ogni elemento riportato al suo ordito, alla trama che ne svela la tessitura costituita di parti il cui senso è inscritto nella complessità.
La negazione della totalità – complessità quale categoria critica ha come effetto il favorire la riattivazione di forme succedanee, la nostalgia di un tutto in cui il mito si sostituisce all’approccio autenticamente olistico.
Ne era consapevole A. Hitler, il quale somministrò alle classi medie immiserite e senza riferimenti, strette nella paura del presente, il falso mito della razza compensatorio delle frustrazioni e delle tensioni del primodopoguerra a cui non riuscivano a dare risposte dialettiche, così H. Rauschning riporta le parole del Führer: «So bene anch’io come i vostri intellettuali, i vostri pozzi di scienza, che non esistono razze nel significato scientifico della parola. Ma voi, che siete un agricoltore e un allevatore, voi certamente siete costretto a basarvi sulla nozione di razza, senza la quale ogni allevamento sarebbe impossibile. Ebbene, io che sono un uomo politico, ho necessità anch’io di una nozione che mi consenta di infrangere un ordine radicato nel mondo e di contrapporre alla storia la distruzione della storia. Capite quel che intendo dire? Bisogna che io liberi il mondo dal suo storico passato (…). Con la nozione di razza il nazionalsocialismo spingerà la sua rivoluzione fino alla fissazione di un ordine nuovo.» (H. Rauschning – Hitler mi ha detto – Mondadori Milano 1945 – pp. 245 246).
La totalità autentica e da intendersi in senso ologrammatico: la parte è nel tutto, il tutto è nella parte, questo principio metodologico e programmatico indica in sé il concetto di male.
Ogni forma di esemplificazione è male, può diventare male.
Non è sufficiente liberare l’individuo dal confine della dialettica per evitare la violenza del potere, un individuo che diviene protagonista della costruzione del proprio sè, relativizzando la relazione complessa con la prassi politica può diventare portatore di male.
Rischia di affermarsi nella differenza liberamente scelta una forma di esemplificazione, poiché si perde la consapevolezza della formazione collettiva del sé.
Ogni persona è portatrice di un multiuniverso in cui sono stratificate in modo dinamico le temporalità della comunità.
Per cui ciascuno è un ologramma “microcosmo” di un ologramma più vasto.
Si tratta di riattivare una multidimensionalità non totalitaria per tessere la rete delle relazioni che possano ridare una narrazione alla “gabbia d’acciaio”.
Per fare questo non la filosofia dell’impotenza e dell’ineluttabile deve prevalere dato che essa induce alla fatalizzazione esemplificatoria.
Piuttosto il coraggio di non sentirsi inattuali ridando vita e storicità ad una tradizione filosofica che ha in sé gli strumenti concettuali e metodologici per una speranza collettiva, la quale non ha nulla di messianico, ma la concretezza del presente, nel coraggio della complessità.
Quest’ultima può dare l’incanto di leggere il presente con nuovi sguardi, facendosi voce del mutismo interiore, a cui rispondere con gli strumenti interpretativi della filosofia, che mentre svelano, già indicano orizzonti possibili.

Gianluca Cavallo – Potere e natura umana. Paradigmi a confronto

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Premessa

Che cosa sono io? E poi: che cosa è l’uomo, in quanto concetto universale? È possibile definirlo o sono tali e tante le differenze interne al genere cui ciascuno di noi appartiene da rendere questo uno sforzo vano?
Anche se l’uomo è a se stesso il primo e più immediato oggetto di riflessione, queste domande lo seguono da sempre, in maniera forse insolubile. Tuttavia, col rischio di fare un passo più lungo della nostra gamba, tenteremo qui, passando in rassegna le risposte più comuni nella storia del pensiero, di individuare quella che ci pare più corretta o, quanto meno, più persuasiva.
Siccome l’uomo è necessariamente inserito in un contesto sociale (o culturale) che in qualche modo ne determina le credenze e dunque il comportamento, prendere in considerazione diverse ipotesi di risposta su cosa sia l’uomo, significa porre attenzione anche al problema della sua relazione con il potere. Si vedrà, infatti, come diverse idee di “natura umana” coincidano con altrettante concezioni del potere, essendo facilmente assimilabili nel suo discorso di legittimazione.
Occorre allora chiarire, in via preliminare, che per “natura umana” si intende una caratteristica universale che sia condivisa dagli uomini di ogni tempo e di ogni luogo e perciò come un dato inemendabile che determina il comportamento degli individui sul pianeta e, per reazione, una risposta politica che si ritiene adeguata a questo. Le risposte alla domanda “che cos’è la natura umana?” che abbiamo individuato nella storia del pensiero e che abbiamo chiamato “paradigmi” sono le seguenti: 1) il paradigma realista, che considera la natura umana come qualcosa di realizzato e negativo (conflittuale); 2) quello moderno, che ritiene che l’uomo occidentale-europeo abbia realizzato pienamente la natura umana in termini positivi; 3) quello edenico, che considera la natura umana perfettamente realizzata come un dato perduto e irrecuperabile; 4) quello riduzionista, che considera il solo dato biologico dell’essere-umano; 5) quello negazionista, che afferma che una natura umana universale non esiste; 6) quello aristotelico-umanista, che considera la natura umana come una potenzialità da realizzare in base a determinati criteri universali.

Una natura umana compiuta e realizzata
Il paradigma realista
Nella maggior parte degli esempi di riflessione sull’uomo che ci fornisce la storia della filosofia troviamo una concezione della natura umana come un dato di fatto, facilmente constatabile da chiunque osservi la storia, la realtà politica, o, semplicemente, guardi con onestà dentro la propria anima. Tale atteggiamento è stato definito realista, in quanto considera la realtà umana come un fatto di cui il pensiero vero deve essere un rispecchiamento. Ogni proposizione espressa sull’argomento, potrà allora essere facilmente identificabile come vera, se ad essa corrisponde un elemento della realtà (cioè se è dotata di un referente); falsa, altrimenti.
Gli elementi che i pensatori aderenti a questa concezione ritengono di poter con esattezza individuare come caratteristiche universali sono tutti negativi: l’umanità è malvagia ed egoista, caratterizzata dal desiderio di sopraffazione in vista dell’ottenimento di una sempre maggiore quantità di beni ad uso esclusivamente personale (quella che in greco era detta pleonexia); tra gli uomini vige perciò naturalmente uno stato di odio e di guerra, cui solo una società artificialmente istituita può porre un rimedio, mai, peraltro, del tutto sicuro.
Il più prestigioso pensatore dell’antichità ad aver espresso per la prima volta in modo esplicito e compiuto queste idee è Tucidide, autore di quell’ opera fondamentale (per la filosofia, la storia e la storiografia) che è La guerra del Peloponneso. Nell’antichità classica, idee simili a quelle espresse da Tucidide furono sostenute soprattutto dai Sofisti. Che La guerra del Peloponneso narri di rapporti politici di alleanza e conflitto e che i sofisti esercitassero prevalentemente la loro professione nell’ambito della polis greca, sono dati che è utile qui ricordare per sottolineare lo stretto legame che una determinata idea di natura umana intrattiene con la riflessione politica.
Per mettere in luce i rapporti tra un’antropologia così pessimista e le risposte che si suppone la politica debba essere pronta a dare ai conflitti scatenati dall’egoismo umano, è bene fare riferimento all’opera di Thomas Hobbes, il quale può essere considerato il “sistematizzatore” della concezione di natura umana che stiamo descrivendo. Egli visse nell’Inghilterra del XVII secolo, in un’epoca in cui il paese era dilaniato dalle guerre civili, dai conflitti religiosi e politici; da questi fatti egli trasse, con un’induzione di dubbia validità, quelle che riteneva essere le caratteristiche universali dell’umanità e che aveva trovato descritte proprio in Tucidide, del quale, non a caso, egli fu uno dei primi traduttori moderni.
Secondo Hobbes, la natura umana si caratterizza per tre aspetti che la portano inevitabilmente ad ingenerare il conflitto tra i singoli: la competitività, la diffidenza e l’orgoglio. Vi è, poi, il fondamentale istinto alla conservazione della propria vita e dell’integrità del proprio corpo. La «somma» del diritto naturale è infatti «difendersi con tutti i mezzi possibili» [1] e questo è l’unico diritto inalienabile, tanto che nemmeno il sovrano assoluto può forzare il suddito a subire il male senza difesa. Questo è il bene assoluto che viene messo in questione nello «stato di natura», ossia nello stadio prepolitico dell’umanità. In questa condizione, non esistendo alcuna autorità che freni il diritto naturale che ciascuno ha su qualsiasi cosa e che tende a conseguire con qualsiasi mezzo, gli uomini «si trovano in quella condizione che è chiamata guerra e tale guerra è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo.  […] La natura della guerra non consiste nel combattimento effettivo, ma nella disposizione verso di esso che sia conosciuta e in cui, durante tutto il tempo, non si dia assicurazione del contrario.  […] In tale condizione non c’è posto per l’industria, perché il frutto di essa è incerto, e per conseguenza non v’è cultura della terra, né navigazione, né uso dei prodotti che si possono importare per mare, né comodi edifici, né macchine per muovere e trasportare cose che richiedono molta forza, né conoscenza della faccia della terra, né calcolo del tempo, né arti, né lettere, né società, e, quel che è peggio di tutto, v’è continuo timore e pericolo di morte violenta, e la vita dell’uomo è solitaria, misera, sgradevole, brutale e breve».
L’uomo è infatti indotto a ricercare il proprio vantaggio a danno di quello degli altri in parte per necessità, poiché egli deve contendere i pochi beni offerti dalla natura, in parte per sua propria volontà, poiché per natura egli è incline non già alla socievolezza, ma all’aggressività nei confronti del prossimo: «gli uomini non hanno piacere (ma al contrario molta afflizione) nello stare in compagnia, ove non ci sia un potere in grado di tenere in soggezione tutti».
Per uscire da questo stato di natura, in cui la vita e i beni di ciascuno sono costantemente esposti al pericolo, gli uomini debbono allora istituire la società, la quale è dunque un costrutto artificiale, contrario alla natura dell’uomo e limitante le sue libertà, e tuttavia necessario. Questo corpo sociale è descritto da Hobbes con la celebre metafora del Leviatano, figura mostruosa tratta dal libro Giobbe e usata dal filosofo inglese per descrivere l’unione di una moltitudine in una sola persona dei cui atti «ogni membro… con patti reciproci, l’uno nei confronti dell’altro e viceversa, si è fatto autore, affinché possa usare la forza e i mezzi di tutti, come penserà sia vantaggioso per la loro pace e la comune difesa».
Il potere che viene a costituirsi per ovviare agli inconvenienti dello stato di natura è un potere assoluto e coercitivo: la «logica realista» di Hobbes vuole che «dove c’è eguaglianza  […] non può esserci che conflitto, e dove si supera il conflitto non può esserci che gerarchia e struttura di dominio»[2]. Il governo del sovrano dev’essere teso alla conservazione più duratura possibile dell’ordine sociale, pena la ricaduta nello stato di guerra; dev’essere inoltre garantita la continuità al governo, quando un sovrano per qualche ragione decada, di modo che il Leviatano disponga di una «eternità di vita artificiale».
Se è vero che lo Stato hobbesiano è una monarchia assoluta, il cui sovrano può agire secondo arbitrio, non si deve tuttavia supporre che il potere da lui descritto sia di una forma superata da secoli e che non riguardi i nostri attuali regimi di governo, detti democratici. Lo Stato sempre assume le caratteristiche di violenza e coercizione che Hobbes gli attribuisce: il dissenso è disciplinato in maniera tale che non possa nuocere all’autorità e all’ordine costituito e «tutti gli uomini che non sono sudditi o sono nemici, oppure hanno cessato di esserlo per un patto precedente»[3]. Basti pensare a ciò che, in merito, sostiene Kant, considerato uno dei padri del liberalismo moderno: «in una costituzione civile già sussistente il popolo non dispone più di alcun giudizio giuridicamente valido che determini come essa debba essere amministrata»; l’unica libertà concessa è la «libertà della penna», la quale non può però istigare alla sovversione nei confronti del sovrano[4].
È chiaro, allora, come il paradigma realista diviene (se è vero) o è (se è falso) strumento dell’ideologia del potere statale moderno e della società mercantile capitalistica, che all’epoca di Hobbes non era ancora certamente sviluppata in senso industriale, ma di cui già si coglievano le prime avvisaglie.
Date queste premesse, infatti, il potere statale, per quanto coercitivo o violento che sia, o scarsamente rappresentativo degli interessi comuni del popolo di cui è fatto portavoce, è comunque legittimo e la forma peggiore di governo sarà comunque un male da tollerare in quanto migliore di uno stato di anarchia che si suppone asociale e necessariamente conflittuale. Un governo tirannico andrà magari sovvertito in vista di uno più democratico (Hobbes e Kant non contemplavano questa ipotesi, ma l’ha fatto la storia dell’istituzione statale, senza uscire dalle linee fondamentali del loro paradigma teorico), tuttavia il suo potere ordinatore e pacificatore sarà comunque considerato intoccabile ed indiscutibile. In effetti, le società statali occidentali non prevedono nell’ordine del loro discorso5 una riflessione sulla forma e le modalità del potere che metta in dubbio la forma statale, la quale si è trasformata in un corpo dotato di una eterna vita artificiale (come diceva Hobbes) e che non può e non deve mai morire.
Per comprendere meglio questo punto può essere utile esemplificare un atteggiamento opposto, quale quello rintracciabile nella storia di numerosi regni africani di epoca precoloniale, presso i quali era uso tracciare profondi solchi nella temporalità del potere, rendendola discontinua. Ciò era realizzato con l’apertura di una fase di interregno alla morte del sovrano in carica, il quale non veniva sostituito se non dopo una guerra fratricida tra i contendenti al potere, durante la quale la società cadeva nell’anarchia. Addirittura, la capitale del regno veniva abbandonata (o anche distrutta) e ricostruita in un luogo diverso, dove il potere si sarebbe instaurato nuovamente, ponendosi in discontinuità tanto spaziale quanto temporale rispetto alla fase di governo precedente. Contrariamente a quanto è considerato ovvio nella cultura statalista occidentale, secondo la filosofia politica rintracciabile nei regni dell’Africa equatoriale, sarebbe una contraddizione o un non senso l’operazione che invece è stata compiuta nell’Europa tra Medioevo e Rinascimento: ovvero, la concettualizzazione dello Stato come un “corpo” e la sua trasformazione ideologica in un corpo imperituro, che non conosce la morte.  […]
Nei regni dell’Africa equatoriale è individuabile una biologizzazione del potere: per quanto esso si astragga e cerchi di sottrarsi al tempo, il potere viene pur sempre ricondotto alle dimensioni e ai ritmi della vita, periodicamente inglobato nella società e nella natura. La biologizzazione del potere è una rappresentazione che prevede anche, periodicamente, l’ineluttabilità della sua scomparsa[6].

Questa lunga citazione permette di cogliere per contrasto come la nostra cultura abbia ereditato da Hobbes la teoria e la pratica del Leviatano come potere assoluto e imprescindibile. Ma che lo Stato sia un’istituzione neutrale con l’unico compito di rappresentare i cittadini (o sudditi), è un’ideologia che è stata messa in dubbio con serie ragioni da pensatori di diversa appartenenza politica. Per Rousseau e Spinoza soltanto la democrazia diretta realizzata in comunità di ristrette dimensioni potrebbe porre fine al dato coercitivo e violento del potere, che secondo Rousseau rappresenta ciò che non si può rappresentare e dunque inevitabilmente devia dall’esprimere la volontà del cittadino [7]. Per Marx e i marxisti la forma moderna di Stato non è altro che un prodotto della borghesia e, come tale, istituito a bella posta per l’espressione degli interessi particolari di questa classe (perciò lo Stato si sarebbe “dissolto” nella società comunista, dove nessun interesse particolare avrebbe dovuto prevalere su quelli comuni).
Ma, come accennavamo sopra, la concezione realista della natura umana, costituisce anche un terreno ideologico fertile per la società capitalistica. Se si suppone, infatti, che l’uomo sia per natura acquisitivo, individualista ed egoista, tutto teso a massimizzare il proprio interesse privato, la conseguenza logica sarà l’istituzione di una società capitalistica, la quale, così, potrà pure avere tutti i difetti che le si possono imputare, ma tuttavia sarà la migliore e infine anche l’unica possibile, perché rispondente alla natura dell’uomo.
Ci sembra che questa concezione della natura umana sia falsa, in quanto assume come naturale ciò che è invece un prodotto interamente culturale. Infatti sono le logiche di instaurazione e riproduzione del potere politico ed economico che plasmano gli individui in modo da renderli così come i realisti li descrivono, e non il contrario. La persona è portata a massimizzare il proprio interesse privato perché inserita in un contesto sociale in cui prevale la crematistica (criticata dai filosofi dell’antichità classica) o, in termini moderni, la logica del profitto capitalista. Che il contesto strutturale (in termini marxiani) sia determinante nei confronti delle soggettività e della loro elaborazione simbolica ci pare evidente dal momento che sia esempi storici che etnografici possono fornirci un dato valido contro le pretese universalistiche di questa impostazione di pensiero. Non tutte le società che nella storia e nel mondo sono esistite ed esistono vedono agire in esse individui malvagi ed egoisti, frenati nelle loro pulsioni distruttive soltanto dal potere istituito. Non è, infatti, un prodotto universale né lo stato centralizzato, né il capitalismo, che pure sembrano essere indispensabili a chi si ponga in questa prospettiva.
Come ha scritto MacIntyre, «a uno stadio particolare dello sviluppo storico di qualsiasi cultura particolare, la configurazione predominante di emozione, desiderio, soddisfazione e preferenza sarà compresa adeguatamente solo se questi saranno intesi come espressione di una particolare posizione morale e valutativa. Le psicologie intese in questo senso esprimono e presuppongono delle concezioni morali» [8]. In altre parole, se si suppone che certe inclinazioni siano “naturali”, in realtà si sta presupponendo che esse siano moralmente lecite, cosicché la morale precede sempre una teoria degli affetti e dunque non può basarsi su essa, se non in maniera ideologica.
La concezione realista della natura umana è, quindi, falsa, e tuttavia è la più diffusa. Questo non può essere spiegato che in termini di aderenza del discorso esposto alle logiche della riproduzione simbolica della cultura occidentale, la quale è in prevalenza legata ad un antiumanesimo crematistico, legato cioè a doppio filo con le logiche della massimizzazione dei profitti, che invertono mezzi e fini laddove l’economia diventa il fine dell’attività umana, e l’uomo è ridotto a mezzo di funzionamento del sistema. Luca Grecchi ha sostenuto in maniera convincente come questo antiumanesimo sia presente fin dalle origini della cultura occidentale, anche se inizialmente come atteggiamento minoritario (basti pensare che i più grandi filosofi dell’antichità erano ben distanti da posizioni simili, sostenute appunto dai sofisti), storicamente divenuto preminente fino ad assumere la quasi totalità della dimensione simbolica della nostra cultura odierna [9].

Il paradigma moderno
Vi è una seconda concezione che considera la natura umana come qualcosa di compiuto e reale, ma che si differenzia dalla precedente in quanto caratterizza l’umanità come dotata di caratteri essenzialmente positivi. La natura umana, in questa prospettiva, è qualcosa di realizzato in pienezza, ma ancora soltanto da una parte dell’umanità, che si trova in capo al treno della storia e del progresso. Inutile dire che questa minoranza del mondo è localizzata in Europa (o in Occidente) ed è caratterizzata dal trionfo della ragione sulla superstizione, della scienza sulla magia, dell’uomo sulla natura circostante, eccetera. Il resto del mondo è ancora intrappolato nei propri costumi arretrati, che si tratterebbe si spazzare via come un che di superfluo, in modo da far emergere finalmente la vera natura dell’uomo [10]. Fra gli innumerevoli esempi storici possibili, scegliamo quello di un filosofo tanto amato dagli illuministi e ancora oggi da molti filosofi di matrice analitica, cioè David Hume, il quale scrisse: «la grande superiorità degli europei inciviliti rispetto ai barbari indiani ci ha indotto ad immaginarci di essere, nei loro riguardi, allo stesso livello degli uomini rispetto agli animali e ci ha fatto buttar via tutti i freni della giustizia e perfino dell’umanità nei nostri rapporti con loro» [11].
La modernità illuminista elaborò una filosofia della storia essenzialmente ottimistica; formulata in maniera esplicita da Kant e soprattutto da Condorcet, essa divenne un dogma che, pur non accettato da tutti, rimase intatto fino al XX secolo, e vedeva nella modernità un’epoca di progresso sia nel campo della scienza che nel campo della morale e quindi della politica. Lo sviluppo della ragione umana avrebbe infatti portato ad una conoscenza scientifica sempre più dettagliata e onniesplicativa, ma avrebbe altresì garantito l’espulsione dal dominio dell’umano della barbarie morale che caratterizzava i tempi bui precedenti alla nova aetas. In questo modo la violenza ingiustificata dell’uomo sull’uomo sarebbe rimasta soltanto un ricordo lontano.
Analogo ottimismo sul futuro del genere umano mostrano tutte le grandi narrazioni di filosofia della storia elaborate nel secolo successivo: positivismo, hegelismo, marxismo. Il primo si gettava con cieca fiducia nelle mani della scienza, la quale sarebbe stata in grado, presto o tardi, non solo di dare ragione di ogni esistente, ma anche di estendere il dominio della società sull’uomo (in base alla conoscenza scientifica della natura umana si sarebbe infatti potuta costruire una società solida e fondata su dati certi) e sulla natura (conoscendola nei dettagli, la si sarebbe potuta sfruttare con il massimo profitto). «L’uomo, divenuto onnipotente, avrà soggiogato la natura utilizzandone le leggi per fare regnare su questa terra tutta la giustizia e libertà possibili. Non vi è scopo più nobile, più elevato, più grande. In esso consiste il nostro compito di esseri intelligenti: penetrare il come delle cose per dominarle e ridurle allo stato di meccanismi ubbidienti» [12]. L’hegelismo individuava nella storia il dispiegarsi dell’autocoscienza della libertà umana e pretendeva di individuare una forma statale entro la quale si sarebbe realizzata in sommo grado la libertà dell’uomo. Il marxismo, da canto suo, individuava un futuro regno della libertà che le leggi dialettiche intrinseche dello sviluppo delle forze produttive e dei mezzi di produzione avrebbero dovuto rendere prevedibile come esito certo della crisi del capitalismo industriale.
Che questa concezione della natura umana sia falsa è ovvio ormai anche per il senso comune. Da una parte, i progressi stessi della scienza hanno contribuito a metterne in crisi le pretese di onniesplicatività, di conoscenza e dominio (basti pensare al Principio di indeterminazione); dall’altra, la storia ha fatto riemergere, nel XX secolo, una barbarie e una violenza così sconvolgenti da rendere impensabile un ottimismo così ingenuo come a noi giustamente appare quello di certa filosofia moderna. La retorica postmoderna, del resto, ci ha abituati a ritenere che il Novecento abbia posto la parola fine a qualsiasi progetto della modernità, a qualsiasi possibilità di pensiero che domini la totalità del reale pretendendo di indicarne gli esiti futuri.
Se il paradigma moderno della natura umana è ormai inservibile, esso ha comunque avuto un’importanza storica fondamentale e non è del tutto scomparso, sotto certi aspetti, nemmeno oggi. L’individuazione dei caratteri della vera natura umana in ciò che la cultura occidentale aveva prodotto, ingenerava un sentimento di superiorità che portava a considerare l’Europa il luogo della civilizzazione e il resto del mondo vittima della barbarie, dell’inciviltà, dell’ignoranza, che sarebbe stato non solo lecito, ma anche giusto e buono per loro, conquistare e sottomettere, per impiantarvi i germi di una vera civiltà, di modo che tutto il mondo potesse assurgere allo splendore che l’Occidente vedeva nel suo specchio truccato (cioè l’ideologia, ancora una volta). La storia è nota: colonialismo, schiavismo, imperialismo, eccetera.
Naturalmente, abbiamo ancora una volta a che fare con un’ideologia di legittimazione non solo del potere politico, ma anche del capitalismo, il cui sviluppo necessita di un ampliamento costante dei propri spazi d’intervento, sempre e soltanto in nome della massimizzazione del profitto. È evidente, allora, che quest’ideologia non cessa di avere i suoi effetti nel mondo odierno, laddove si identifica l’Occidente con la Democrazia e si giustificano conflitti e mascherano interessi economici dietro la retorica democratica di quei governi che non si fanno problemi ad appoggiare dittatori quando questi sono ligi al dovere e che li abbattono quando diventano fastidiosi o pericolosi.
Se i filosofi postmoderni hanno perlopiù cessato di credere in qualsiasi valore universale e nelle metanarrazioni moderne, i potenti del mondo non hanno cessato di inzuppare di universalismo la loro retorica, attribuendo alla democrazia grosso modo lo stesso ruolo che aveva il comunismo nella teoria ortodossa marxista: un destino, la cui realizzazione deve essere favorita con ogni mezzo e il cui avvento porterà la libertà universale di tutti gli individui. I pensatori postmoderni non possono che prendere atto di questa realtà, ma si esimono dal darne una spiegazione coerente. Perché mai il progetto della modernità dovrebbe considerarsi fallito, quando ancora la maggioranza delle persone del mondo è succube di una retorica modernista e capitalista che ritiene ancora l’Occidente il modello a cui tutto il mondo dovrebbe guardare? La risposta di Lyotard è che l’universalismo cui fa riferimento la retorica politica è falso ed il progetto moderno è fallito proprio in quanto il capitalismo è portatore di un’universalità puramente ideologica [13], mentre qualsiasi alternativa ad esso sembra non poter avanzare alcuna pretesa, essendo peggiore del sistema attuale e pericolosamente totalitaria.
Ciò che qui si vuole sostenere è che il discorso politico odierno è, almeno in parte, assimilabile ad una metanarrazione di stampo illuministico, che vede nel corso della storia la possibilità di realizzare il modello occidentale su scala globale. Da questo punto di vista, il grand récit moderno è sempre stato fautore di un’universalità falsa ed ideologica e la retorica odierna non può esserne considerata il fallimento, bensì la naturale prosecuzione.
A parere di chi scrive, tuttavia, l’universalismo di per sé non costituisce un vizio della modernità da abbandonare in quanto ideologico o fallimentare. Si tratta di capire cosa si intende con universalismo, di modo da abbracciare con questo concetto qualcosa che non sia l’universalizzazione di un particolare (come nel caso della cosiddetta «occidentalizzazione del mondo», secondo un’espressione ormai celebre di Serge Latouche), bensì, se mi si passa il gioco di parole, una particolarizzazione dell’universale. Ma, su ciò, più diffusamente nel seguito.

Il paradigma edenico
Possiamo qui elencare una terza concezione della natura umana, che definiamo edenica, in quanto suppone che vi sia stato un uomo originario (ad esempio Adamo nella tradizione ebraica e cristiana) o un’umanità originaria (ad esempio i popoli primitivi, considerati paradigmi della buona naturalità dell’uomo, nella visione edulcorata che di essi avevano taluni intellettuali occidentali, come Rousseau) in cui erano presenti i caratteri della vera natura umana, i quali sono stati successivamente perduti, a causa del peccato o della corruzione dei costumi originari causata dalla cosiddetta civilizzazione.
Come ha notato Marshall Sahlins, si tratta, evidentemente, di un’inversione, rispetto al paradigma hobbesiano, del rapporto tra natura e cultura, tra physis e nomos, alle quali vengono assegnati qui valori assiologici opposti rispetto a quelli attribuiti da Hobbes e dai realisti. Ma le due concezioni si ricongiungono negli esiti, laddove viene considerata la natura umana corrotta degli edenisti in termini del tutto analoghi a quelli della natura umana originaria degli hobbesiani [14].
Va a finire, così, che anche il paradigma edenico diviene facilmente integrabile nel discorso di legittimazione del potere politico ed economico, il quale corrisponde a determinate caratteristiche umane. In questa prospettiva, tuttavia, la carica ideologica è meno pressante, in quanto, pur facendo propria una concezione realistica della natura conflittuale dell’uomo, non si suppone che questa sia originaria, e perciò si comprende come essa sia un prodotto culturale, contrario alla vera natura dell’uomo.
Il pensiero cattolico ritiene sì che gli uomini, discendenti di Adamo, portino sulle loro spalle il peso del peccato originale ed agiscano malvagiamente per l’inclinazione peccaminosa dei loro animi; tuttavia è sempre presente l’idea del riscatto. A differenza di certa teologia luterana e calvinista, che assume a propria base un rigido determinismo legato alla predestinazione di ciascuno alla vita eterna o alla perdizione, il pensiero cattolico ritiene pur sempre che la volontà umana, per merito della grazia divina, sia in grado di indirizzarsi verso il bene, in maniera tale da tendere ad una condizione adamitica di perfezione morale. È vero, dunque, che anche il pensiero politico cristiano vede nell’istituzione coercitiva una necessità, a causa della prevalente peccaminosità dell’uomo, ma lascia tuttavia aperto lo spiraglio della redenzione e l’ideale della comunità cristiana originaria o della «città di Dio» (Agostino) continua a valere come metro di paragone nei confronti della società esistente.
Per il pensiero roussoviano15 la civiltà ha compromesso definitivamente la naturalità spontanea e positiva dell’umanità originaria, la quale, allo stato odierno, è dunque costretta ad entrare in un sistema gerarchico ed istituzionalizzato che regoli la vita umana, divenuta nel frattempo di una tale complessità da non poter essere gestita dalle persone comuni. Ma anche Rousseau lascia aperta la via del riscatto, che passa attraverso la famiglia (La Nuova Eloisa), l’educazione (Emilio) e la politica (Il contratto sociale).
Pur essendo facilmente integrabile in un discorso di legittimazione del potere, il paradigma edenico mantiene una forza critica che va persa tanto nella concezione realista che in quella moderna della natura umana. Infatti, la condizione originaria (o anche il regno dei Cieli futuro, ove tutti sono uguali al cospetto di Dio) resta pur sempre un paradigma rispetto al quale si può valutare e giudicare la degenerazione del mondo odierno.

La natura umana tra biologia e cultura
Il paradigma riduzionista
Con lo sviluppo delle scienze biologiche, negli ultimi decenni è emersa una concezione della natura umana che intende identificare alcuni dati biologici universali, che si suppongono fondanti alcune caratteristiche tipiche dell’uomo rispetto ad altre specie animali. Queste caratteristiche possono essere positive (ad esempio il linguaggio, la creatività, l’altruismo) ovvero negative (l’egoismo, l’individualismo, l’utilitarismo).
Noam Chomsky è uno dei più prestigiosi teorici a sostenere l’esistenza di caratteristiche universali del comportamento umano determinate, almeno in parte, da meccanismi biologici. Egli sostiene infatti che esiste un insieme di schemi mentali innati, biologicamente determinati, che guidano il comportamento sociale e intellettuale degli individui, ed attribuisce a questi schemi proprio il concetto di «natura umana». In sintesi, si tratta di schemi di elaborazione che permettono al singolo di elaborare una risposta complessa a partire da un input di dati assai ristretto. Un esempio di questo meccanismo è il linguaggio: il bambino – sostiene Chomsky – ha un’esperienza linguistica «limitata e priva di ordine», che gli fornisce una quantità di dati «esigua» e di «bassa qualità». Per comprendere come sia possibile che il bambino, a partire da ciò, giunga ad una conoscenza «articolata, altamente sistematica e profondamente organizzata», è necessario supporre che esistano schemi innati che permettano l’elaborazione dei dati da parte del bambino, il quale fornisce un «contributo straordinario» alla creazione dell’output in termini di «creatività» [16]. Detto altrimenti, «le parole si apprendono, ma il linguaggio si sviluppa (come lo scheletro) più di quanto non s’impari» [17].
Com’è noto, Chomsky, oltre che ad essere un celebre linguista, è anche un militante e pensatore politico. Ancora una volta, dunque, la concezione della natura umana è strettamente legata ad una determinata visione della politica. Nella fattispecie, Chomsky, partendo dal dato della creatività intrinseca nei processi intellettuali umani, afferma che «una società più giusta dovrebbe massimizzare le possibilità di realizzare questa fondamentale caratteristica umana» [18] (cioè, appunto, la creatività).
Come si possa, da un dato biologico definito in maniera così generica, giungere con coerenza logica all’anarco-sindacalismo, non è del tutto chiaro. A parere di chi scrive, voler fondare una progettualità politica su un’astratta nozione di creatività, che si suppone determinata biologicamente, non è né efficace né coerente. È un tentativo che lascia insoddisfatti, per quanto si possa condividere la proposta politica di Chomsky, o il suo discorso sulle capacità innate nel soggetto umano; sono discorsi che restano separati e che possono avere una validità autonoma, ma sembra davvero difficile unirli in maniera convincente.
Possiamo considerare quello di Chomsky una forma di riduzionismo, in quanto riduce tutte le dimensioni dell’umano alla sola biologia, volendo fondare su di essa un cosmo sociale che implica il simbolico, il morale, il politico, ecc. In questo modo l’essere viene ricondotto «nell’angustia della semplice categoria della quantità», in linea con quella tradizione che principia grosso modo con Cartesio e che intende ridurre «il tutto dell’essere a ciò che la scienza ne può conoscere» [19]. Tuttavia, è lo stesso Chomsky a dover riconoscere che «è del tutto probabile che molte delle cose che ci piacerebbe comprendere,  […] come la natura umana o la natura di una società giusta o molto altro ancora, ricadano al di fuori dall’ambito di quel che la scienza può spiegare» [20].
Il riduzionismo biologico, d’altro canto, è utilizzato da alcuni per sostenere tesi sulla natura umana che, con l’apparenza di essere scientificamente fondate, sono opposte a quelle di Chomsky e in parte analoghe a quelle hobbesiane. Per usare le sintetiche parole di Sahlins, «l’idea che l’egoismo sia innato è stata recentemente rinforzata da un ondata di determinismo genetico che trova la sua espressione nel “gene dell’egoismo” dei sociobiologi e nel redivivo darwinismo sociale degli psicologi evoluzionisti» [21]. Ma non solo.
Nel XIX secolo alcuni scienziati positivisti tentarono di dimostrare come supposte differenze biologiche fossero delle barriere immutabili che impedivano lo sviluppo di una società più egualitaria. Il darwinismo ben presto si trasformò in «darwinismo sociale», utilizzato come metodo pseudoscientifico per giustificare le differenze economiche tra gli strati della società e tra le popolazioni in ambito coloniale. Nel XX secolo questa pseudobiologia è stata utilizzata per servire la causa della supremazia dell’uomo bianco o della razza ariana. Più recentemente, la psicologia evolutiva è diventata, nelle mani di qualcuno, una fonte per ammettere il patriarcato [22].
Queste teorie purtroppo non sono state abbandonate, hanno semmai cambiato faccia, e sono alla base delle presunte spiegazioni di qualsiasi tipo di comportamento umano, dall’omosessualità alla depressione, alla violenza, alla criminalità. Addirittura c’è chi millanta di aver individuato un gene per la condizione di senza tetto.
Esattamente come proposto dall’ambiziosa utopia positivista espressa da Zola ne Il romanzo sperimentale, le politiche della Rockefeller Foundation, in seno alla quale nacque negli anni Trenta quella disciplina che ha preso il nome di biologia molecolare, erano orientate – come ebbe a sostenere uno dei direttori della fondazione – «verso il problema generale del comportamento umano, con lo scopo di comprenderlo e quindi controllarlo.  […] La Scienza medica e le Scienze naturali propongono uno studio strettamente coordinato delle scienze che si occupano della comprensione della persona e del suo controllo» [23]. Il direttore della celebre rivista Science, alla domanda «perché dovremmo spendere soldi per il Progetto Genoma quando ci sono tante persone senza casa e senza lavoro?» rispose: «Il Progetto Genoma è più importante per quelle persone che per chiunque altro perché l’essere senza casa e senza lavoro sono una forma di handicap che sarà possibile curare una volta che si conosceranno a fondo i geni» [24].
La neurogenetica, una scienza “giovane”, nata dalla sintesi fra gli studi genetici e quelli neurologici, offre la prospettiva di identificare i geni che influiscono sulle funzioni cerebrali e quindi sul comportamento, ascrivendo loro un potere causale e alla fine modificandoli. La neurogenetica afferma di essere in grado di rispondere a questa domanda: in un mondo pieno di sofferenza individuale e di disordine sociale, dove dovremmo guardare non soltanto per spiegare, ma, ancor di più, per cambiare la nostra condizione?
La più naturale risposta ad una simile domanda, se priva delle premesse strettamente deterministiche che i neurogenetisti avanzano, sarebbe che la soluzione va ricercata in un affinamento delle leggi che regolano la vita sociale. Nel corso dei secoli il compito di risolvere questi problemi è stato affidato alla politica e alle scienze sociali, mentre oggi sembra che questa speranza non sia più sensata, anche perché non si è mai venuti, in nessuna epoca storica e in nessun contesto sociale, a capo di queste problematiche. La soluzione è dietro l’angolo, ed è solo questione di scienza. Del resto, se sono i geni a stabilire che cosa noi siamo e saremo, perché non dovrebbe darsi la possibilità di comprendere tutto solo in base ad essi?
Così, questo riduzionismo-determinismo riconduce il problema della natura umana ad una questione di genetica e la fondazione di una società politica alle scoperte della scienza. Ma sappiamo che queste ricerche sono ben lungi dall’essere neutrali, e identificano l’uomo con quell’atomo sociale utilitarista ed individualista che è l’idealtipo richiesto dal sistema capitalistico. Se infatti l’essenza dell’uomo va rintracciata unicamente nei suoi geni, l’identità di ciascuno sarà determinata in maniera endogena (indipendentemente dal contesto sociale) e gli eventuali comportamenti altruisti non saranno che il riflesso di una necessità biologica di riprodurre i propri geni (questa è la tesi di Richard Dawkins [25]). È facile constatare la somiglianza fra queste tesi e quelle che sostengono come il legame sociale derivi e si mantenga soltanto se i singoli ne derivano un’utilità individuale: tale è la verità per certo pensiero liberale, per il quale l’individualismo possessivo è sinonimo di libertà.
Ma il determinismo genetico è una posizione controversa all’interno della comunità scientifica ed ha ricevuto le sue fondate critiche. Come ha sottolineato in un’intervista Richard Lewontin, genetista di fama mondiale, «anche se avessi la sequenza completa del DNA di un organismo, se non conoscessi la sequenza degli ambienti in cui l’organismo si sviluppa, non potrei sapere quale aspetto avrebbe quell’organismo». Ma nemmeno l’ambiente [26] può servire da spiegazione sufficiente: la differenza, per esempio, tra le impronte digitali della mano destra e della mano sinistra non può essere spiegata né a livello genetico (i geni sono gli stessi per entrambe le mani), né a livello ambientale (l’ambiente in cui le due mani si sono sviluppate è lo stesso, cioè l’utero materno). Come si spiega allora una differenza come questa? Semplicemente non si spiega. Lewontin afferma che «durante lo sviluppo di un organismo probabilmente accade qualcosa a livello di movimenti evolutivi casuali, divisioni di cellule che si verificano per caso, su un lato piuttosto che sull’altro, e che non sono determinati né dai geni né dall’ambiente nell’accezione comune del termine, ma che incidono in maniera rilevante sull’aspetto finale dell’organismo» [27].
Quando si parla specificamente di esseri umani, che è la questione che maggiormente ci interessa, la questione si fa ancora più ardua, a causa dell’estrema complessità del nostro sistema nervoso: le connessioni sinaptiche si sviluppano in buona parte in maniera pressoché casuale, e ciò determina (in un certo senso) il nostro essere, senza nessuna influenza genetica.
Come ha sostenuto Clifford Geertz, le informazioni genetiche fornite dal nostro organismo non sono sufficienti a guidare il nostro comprtamento; per funzionare, lo stesso nostro cervello necessita di acquisire delle informazioni esterne, che sono tratte dal contesto culturale in cui l’individuo (e specialmente il bambino nella fase di formazione delle connessioni cerebrali) è inserito [28].
Alla base della vita sta dunque la complessità: l’espressione dei geni, l’ambiente cellulare ed extra-cellulare, nonché l’ambiente esterno all’organismo sono relazionati tra loro in una rete inestricabile: non vi è unidirezionalità causale; i livelli microscopici condizionano e sono condizionati dai livelli superiori.
Il riduzionismo dunque non è una strada percorribile per ottenere una risposta soddisfacente alle domande sulla natura umana e sulla società politica.

Il paradigma negazionista
Constatando l’inadeguatezza di tutte queste formulazioni del problema della natura umana e forti dei loro studi etnologici, alcuni antropologi hanno proposto di abbandonare l’idea, sostenendo che sia impossibile rintracciare un dato universale che caratterizzi la specie umana, siccome ogni diversa cultura porta a compimento forme diverse di umanità. Scrive Sahlins: «la natura umana è un divenire basato sulla facoltà di comprendere e mettere in atto lo schema culturale appropriato» [29]. La natura umana, secondo questa prospettiva, è qualcosa di non naturale, e viene a coincidere con la cultura; il che equivale a dire che una natura umana non esiste. Coma ha sintetizzato Francesco Remotti, secondo gli sviluppi più recenti dell’antropologia culturale si sostiene «l’irreperibilità dell’uomo al di là delle sue usanze, l’impossibilità di scoprirlo nudo nella sua ‘purezza’ originaria e preculturale» [30]. Essendo poi i costumi e le usanze sempre particolari e soggetti a mutamento, tale sarà allora anche l’idea di uomo, che non sarà più un concetto universale, ma sempre particolare e destinato anch’esso a mutare, in parallelo con il mutare dei costumi. In questo modo, la natura umana perde la sua stabilità e la sua unità, sicché «risulta ormai difficile parlare di ‘essenza’» [31] riferendosi all’uomo.
Il bambino nasce aperto a potenzialità pressoché illimitate (per fare un esempio, un bambino appena nato può potenzialmente apprendere qualsiasi lingua si trovi a sentire), le quali vengono gradualmente selezionate dalla cultura entro la quale si trova inserito, sicché da una parte la cultura si configura come un completamento di potenzialità che, selezionate, vengono attualizzate, e dall’altra come una rinuncia a potenzialità che vengono escluse. Ma la cultura non giunge mai a saturare completamente le possibilità di un individuo, sicché la si può caratterizzare anche come un processo che non giunge mai a compimento, perché l’uomo resta sempre aperto al mondo. L’incompletezza umana è, come ha scritto Remotti, «il presupposto  […] della capacità poietica e autopoietica che contraddistingue Homo sapiens» [32].
Se l’uomo è plasmato dal contesto culturale in cui è inserito, sarà allora impossibile parlare sia di uno stadio preculturale che di uno stadio prepolitico. Così è fatta cadere quella dicotomia fra individuo e società che il pensiero contrattualista dà per scontata e la dimensione sociale viene ad essere immediata, di modo che la caratterizzazione aristotelica dell’uomo come zoon politikon viene ad assumere un significato più preciso.
Tuttavia, questa prospettiva culturalistica, che nega qualunque contenuto alla natura umana, non è esente da rischi. Infatti, se l’uomo è determinato nelle sue scelte comportamentali in buona parte dalla cultura (pur essendo questa frutto di una convenzione sempre precaria ed esposta alla possibilità della revoca) e se di questa la dimensione simbolica è fondamentale per il controllo e la comprensione del comportamento umano, dovremo riconoscere che il potere ha larga parte nel plasmare le diverse forme di umanità. Il potere è infatti ciò che ordina il corpo sociale e ne organizza le forme della produzione e della riproduzione, che investono non soltanto – e nemmeno principalmente – la dimensione materiale, ma anche e soprattutto quella simbolica.
Tenendo conto del carattere gerarchico e coercitivo della maggioranza delle forme di potere diffuse al mondo, possiamo affermare che il potere gerarchizza il corpo sociale e in tal modo opera, all’interno di una stessa cultura, un’imposizione di diverse forme di umanità. L’equazione tra una cultura e una specifica forma di umanità, sostenuta da Geertz, ci sembra approssimativa. Il potere non è soltanto ciò che si differenzia dal resto della società e che opera una differenziazione tra la società da esso rappresentata e le altre [33]; esso è anche ciò che differenzia il corpo sociale. Inoltre al potere è ascrivibile l’organizzazione del discorso, che della cultura è un elemento fondamentale, coinvolgendo la dimensione del simbolico. È anzi mediante la produzione di regimi di discorso che il potere si legittima e in questo modo fonda e riproduce la gerarchia sociale che lo mantiene in vita dal punto di vista materiale.
Michel Foucault, nella lezione inaugurale che tenne al Collège de France il 2 dicembre 1970, individuò una serie di stratagemmi mediante i quali il potere organizza il discorso di una cultura. Quelle che ci paiono più importanti, nonché più diffuse, sono quelle che egli chiamò «procedure d’esclusione». Esse sono 1) l’interdetto; 2) la partizione; 3) l’opposizione del vero e del falso. Brevemente, l’interdetto consiste nell’esclusione di taluni argomenti da ciò che può essere detto: si concretizza in «tabù dell’oggetto, rituale della circostanza, diritto privilegiato del soggetto che parla» [34]. Come Foucalt sottolinea, gli ambiti in cui l’interdetto si applica maggiormente sono quelli della sessualità e della politica.
La partizione consiste nell’organizzare il discorso secondo opposizioni di termini il cui significato è socialmente e storicamente determinato. Ad esempio, l’opposizione tra ragione e follia, che va ben oltre il suo significato psichiatrico (anch’esso, comunque, secondo Foucault, non neutrale), e può essere utilizzato per screditare facilmente una posizione scomoda: un discorso critico radicale nei confronti del potere può essere facilmente tacciato di “follia” o di “utopismo”, termini che non sono poi così distanti.
L’opposizione del vero e del falso non riguarda ovviamente il livello logico della proposizione, ma ha a che fare con quella che Foucault chiama «volontà di verità» o «volontà di sapere», la quale è espressione del potere nelle varie forme che esso ha assunto nella storia. In questo senso, la volontà di verità è «storia dei piani d’oggetti da conoscere, storia degli investimenti materiali, tecnici, strumentali della conoscenza» [35]. Foucault descrive in tratti concisi ma estremamente efficaci quella volontà di verità che è emersa tra il XVI e il XVII secolo e che caratterizza ancora in buona parte la nostra cultura odierna: «una volontà di verità che imponeva al soggetto conoscente (e in certo modo prima di ogni esperienza) una certa posizione, un certo sguardo e una certa funzione (vedere più che leggere, verificare più che commentare); una volontà di sapere che prescriveva (e con modalità più generali di ogni strumento determinato) a che livello tecnico le conoscenze tecniche avrebbero dovuto investirsi per essere verificabili e utili» [36].
Può essere interessante, a questo punto, adottare le categorie elaborate da Ferruccio Rossi-Landi [37], secondo le quali, come il capitalista detiene i mezzi della produzione e della riproduzione materiale, così il potere politico detiene i mezzi della produzione e della riproduzione simbolica. In tal modo, il regime di discorso può essere paragonato al capitale costante di una determinata cultura, mentre ogni parlante può essere paragonato ad un “lavoratore linguistico” che, non detenendo i mezzi della produzione, non può modificarli, ma è costretto ad utilizzare materiale linguistico e comunicativo (generalizzando: simbolico) prestabilito. Si può dunque parlare di una vera e propria alienazione linguistica che, esattamente come l’alienazione del lavoratore nella teoria marxiana, può essere rotta soltanto con un atto rivoluzionario che sconvolga la cultura esistente.
Se si afferma che la cultura è la dimensione che realizza l’umano, non si può ignorare questa dimensione politica; ma se la si prende seriamente in considerazione, una prospettiva culturalistica che strumenti può offrire per un discorso valutativo che chiarisca quali forme di umanità (di cultura, di potere) sono accettabili e quali no? Ci sembra che l’idea che stiamo seguendo, che nega qualsiasi contenuto alla natura umana, non sia in grado di offrirne alcuno. Se non esiste un universale, infatti, non può esistere alcun valore, ed è soltanto in base a questi che si può sostenere con coerenza un discorso valutativo.
Alla base di questo negazionismo, possiamo individuare tre tesi filosofiche fondamentali: 1) non può essere affermata alcuna verità universale se si ritiene che l’uomo sia interamente plasmato dai costumi particolari; 2) ciascun essere particolare è in sé completo e vero: ogni cultura particolare è valida e giustificata secondo i parametri di giudizio da essa stessa elaborati; 3) supporre l’esistenza di una verità assoluta significa universalizzare un ‘noi’ culturale particolare, il quale si pone come superiore agli altri e come tale sempre potenzialmente violento. Com’è facile notare, queste tre tesi confluiscono in un evidente relativismo culturale. Geertz sostiene che il relativismo è una forma di sapere «coraggiosa», che destabilizza le rassicuranti certezze di chi vorrebbe attaccarsi ad una presunta verità. In realtà è il contrario: il relativismo è il frutto della paura della Verità, la quale – si sostiene – è violenta e totalitaria e porta con sé inevitabili derive, di cui gli orrori del XX secolo costituirebbero l’emblema.
Il relativismo è vecchio quanto il veritativismo, ma nella sua forma specificamente postmoderna esso (ri)nasce proprio dalla paura, come elaborazione di un lutto. Lyotard afferma esplicitamente (ne Il postmoderno spiegato ai bambini) che occorre negare validità alle pretese veritative delle grandi narrazioni perché esse hanno avuto come conseguenza – a suo dire – le guerre mondiali e le dittature del Novecento. È quindi una paura per la verità a far sostenere un facile relativismo, che, lungi dall’essere una posizione coraggiosa, è perfettamente inerente al discorso politically correct ed è una forma, nemmeno molto velata, di legittimazione dell’esistente. Si afferma che il relativismo mette al riparo dalla «paura per le differenze», ma lo fa semplicemente negando la possibilità della critica, tanto nei confronti del “noi” quanto dell’ “altro”.
Come insegna Alain Badiou [38], una Verità non può essere paurosa delle differenze, perché ad esse superiore. La Verità è sempre un universale che, come tale, considera, di fronte a se stesso, le differenze come non discriminanti; non già come inesistenti o da sopprimere, ma come un dato di fatto ineliminabile che tuttavia non può intaccare l’universalismo, che vale per chiunque. Anzi, la Verità si realizza solo tramite e grazie alle differenze, non già con una negazione di esse a favore di un Noi che si impone sugli Altri. In un certo senso, verità e universalismo vengono a coincidere, perché ogni verità non può che essere universale.
In tal modo si preserva la possibilità del discorso valutativo, dal momento che potremo considerare una cultura che, ad esempio, tolleri lo schiavismo, la discriminazione, lo sfruttamento, come non aderente al Vero, non già in quanto particolare (ogni cultura è infatti particolare), ma perché negatrice dell’universalismo ed esaltatrice delle differenze. Si noti, peraltro, che valutare non significa discriminare: come ha spiegato chiaramente Diego Marconi, nel considerare un valore che una cultura ritiene tale, noi possiamo benissimo sforzarci di comprenderlo e anche di scusarlo, ma ciò non significa che esso sia vero, per il semplice fatto che coloro che appartengono a quella cultura lo ritengono tale. Né voler riconoscere tutti i valori come equivalenti può sostenere davvero la possibilità di un dialogo interculturale, perché «i valori esigono di essere messi a confronto», sia per mettere alla prova la loro validità, sia per poter comprendere (anche se non giustificare) quelli propri o altrui che risultano falsi [39].
La critica dei relativisti contro la verità assoluta ha di mira un discorso ideologico che universalizza una verità particolare (e che, secondo la classificazione qui proposta, possiamo identificare con il paradigma moderno). In tal senso, la loro critica è indubbiamente corretta e filosoficamente valida. Tuttavia ci sembra che essi gettino via, per così dire, l’acqua sporca della verità così intesa con il bambino della verità tout court.
Seguendo il discorso di Badiou possiamo invece affermare che la Verità non è l’universalizzazione di un particolare, bensì una particolarizzazione dell’universale, nel senso che la speculazione filosofica ci ha insegnato: ogni concretizzazione di un concetto assoluto è storicamente (e geograficamente) determinata; nondimeno, essa corrisponde pur sempre all’Idea.
In tal modo, possiamo concludere che: 1) un’idea di Verità siffatta è perfettamente compatibile con la particolarità dei costumi; 2) non si può affermare che ogni cultura è valida secondo i suoi stessi criteri, ma, adottando il punto di vista dell’universale, si dovrà valutare se e quale cultura è eticamente e politicamente vera; 3) la Verità così intesa non è affatto prevaricatrice e violenta, ma si pone come un universale di fronte al quale le differenze non sono discriminanti.

Il paradigma aristotelico-umanista
Vi è un modo di intendere la natura umana che finora non abbiamo considerato, avendo deciso di porlo al fondo del nostro lavoro, quale conclusione positiva, dopo una serie di presentazioni in negativo di paradigmi che abbiamo ritenuto poco convincenti. Quest’ultima maniera di intendere la natura umana la considera come pura potenzialità, esattamente come il paradigma che abbiamo definito negazionista. A realizzare queste potenzialità (che includono certamente anche un dato biologico, ma che non possono essere limitate a questo, come fanno i riduzionisti), sarà ogni specifica e particolare cultura. A differenza del paradigma culturalista, tuttavia, il paradigma aristotelico-umanista considera tale potenzialità come indirizzata verso un telos determinato, che è la natura dell’uomo completa e realizzata, e che si realizza in una vita felice. Perciò questa prospettiva è insieme teleologica e eudemonistica, ciò che fa storcere il naso alla gran parte dei pensatori moderni e postmoderni, attaccati ai valori di una scienza sperimentale assolutamente non teleologica e ad un’etica che non considera più la felicità come una condizione stabile raggiungibile dall’uomo, ma semmai come momentanea soddisfazione di desideri sempre crescenti e alla fine insoddisfatti.
Siccome l’uomo non vive fuori dalla società, per definire la sua condizione di felicità occorrerà definire anche quale condizione sociale sarebbe la migliore per lo sviluppo delle sue potenzialità, cosa che ancora una volta è contraria al paradigma liberale e individualista, secondo il quale, se una felicità c’è, essa è un fatto individuale e dipende semmai da quanto il singolo è riuscito a sfruttare le occasioni che la società gli ha dato e non certo da una società eventualmente diversa e migliore dalla presente.
Per comprendere come si strutturi la teoria aristotelica (o di quei filosofi che si rifanno ad Aristotele), occorre leggere la sua famosa tesi secondo la quale «l’uomo è per natura un animale politico» [40] a partire dalla sua dottrina della potenza e dell’atto. Secondo quest’ultima, la potenza (dynamis) è capacità, movimento orientato ad un fine; l’atto (energheia) è la causa finale, il telos verso il quale tende qualsiasi dynamis. Per questo, «secondo la sostanza» esso «è anteriore» rispetto alla potenza: «tutto ciò che diviene procede verso un principio, ossia verso il fine: infatti, lo scopo (telos) costituisce un principio e il divenire ha luogo in funzione del fine. E il fine è l’atto (energheia)» [41]. Ogni cosa realizza pienamente la propria natura soltanto quando perviene all’attualizzazione, in quanto «l’atto è l’esistere della cosa» [42]. In base a questo principio possiamo dire che la politicità è l’essere-in-potenza dell’uomo, una dynamis che può realizzarsi soltanto nella comunità giusta. Il conflitto (il contrario della buona vita politica) e il vizio (il contrario della virtù), sono ciò che si frappone al raggiungimento dell’energheia. Infatti l’uomo è sì un essere naturale, ma soltanto le sue potenzialità fisiche e biologiche possono giungere all’atto «per virtù propria». La sue caratteristiche razionali, che fanno di lui uno zoon politikon logon echon, possono attualizzarsi soltanto «quando siano volute e non intervengano ostacoli dal di fuori» [43].
È chiaro, allora, come, nella definizione, «per natura» non significa che la politicità dell’uomo sottostia a regole naturali del tipo di quelle che regolano la fisica o la biologia. Così si potrebbe intendere se la socialità si risolvesse semplicemente nell’ambito dell’utile, in considerazione del fatto che l’uomo non può fisicamente e biologicamente sopravvivere da solo e perciò ha un bisogno naturale degli altri; ma per Aristotele la polis è molto di più:
la comunità cittadina non è costituita soltanto dall’identità del luogo, dall’astinenza dal danno reciproco e dalla garanzia dei rapporti commerciali, perché, sebbene queste cose siano imprescindibili per l’esistenza della città, tuttavia, anche se si realizzano tutte, non c’è ancora una città, ma questa è la comunità che garantisce la buona vita e alle famiglie e alle stirpi, e ha come fine una vita indipendente e perfetta [44].

Il termine greco per «natura» (physis) include nel proprio campo semantico un dinamismo, che Aristotele concettualizza appunto in termini di passaggio dalla potenza all’atto. Come si vede, secondo questa prospettiva, l’uomo realizza la propria natura soltanto quando vive in una comunità giusta (che secondo Aristotele significa che essa dà a ciascuno quanto gli spetta secondo il proprio merito, il quale va misurato a seconda di quanto il comportamento virtuoso del singolo abbia contribuito alla realizzazione del bene comune) e realizzi una vita «indipendente e perfetta». Come anche per Marx, infatti, l’uomo può realizzare la propria individualità soltanto in un contesto comunitario, il quale non è però oppressivo e totalitario, come sarebbe secondo una concezione meramente organicistica della comunità, ma è la condizione essenziale per il dispiegamento delle potenzialità dell’uomo «onnilaterale» [45].
Secondo la filosofia greca classica al concetto di uomo era immediatamente associata l’idea di ciò che lo rende pienamente e perfettamente tale. Alasdair MacIntyre ha notato come «uomo» sia, così inteso, un concetto funzionale. Esattamente come «il concetto di orologio non può essere definito indipendentemente dal concetto di buon orologio» e «il criterio che fa di qualcosa un orologio e il criterio che fa di qualcosa un buon orologio non sono indipendenti l’uno dall’altro», così l’uomo non può essere definito indipendentemente dall’idea della sua piena realizzazione. Un concetto funzionale può essere poi inserito in asserzioni del tipo ‘questo è un buon x’ (dove ‘x’ sta per un concetto funzionale) e tali asserzioni, che si concludono assiologicamente, saranno argomentazioni valide la cui premessa è basata su dati empirici (conoscendo la natura e la funzione di x potrò dire con certezza cosa è buono per x) [46].
Secondo Luca Grecchi, che interpreta la tradizione classica inserendosi positivamente nel suo solco, nell’uomo sono ritracciabili tre componenti: a) quella razionale, b) quella morale e c) quella simbolica. La a) non va intesa nel senso illuministico del termine (cioè come portatrice di progresso e di superiorità culturale dell’Occidente sulle altre culture), bensì nella sua accezione classica: essa riguarda «non tanto l’operatività sulle cose», quanto il significato che l’uomo attribuisce «ad ogni ente e relazione della vita» e quindi alla «trama complessiva di rapporti che unisce gli uomini fra loro ed al mondo» [47]. La componente b) va invece intesa, secondo Grecchi, come «cura che ogni uomo deve realizzare, per essere realmente uomo, nei confronti di ogni altro essere vivente e del mondo» [48], giacché soltanto in questo modo l’uomo può realizzare una comunità da cui sia espunto il conflitto e in cui la vita possa realizzarsi felicemente alla maniera aristotelica. Infine, la c) include la dimensione del sacro e di tutto ciò che assume un significato per l’uomo indipendentemente dalla sua utilità pratica: se quest’ultima presuppone l’attribuzione ad ogni cosa di un significato e una funzionalità specifica, lo spazio simbolico è ciò che resta aperto «alla ambivalenza dei contenuti» [49]. Il simbolico è forse la dimensione che maggiormente segna la differenza fra le culture, e tuttavia esso non va escluso in nome della verità, ma, proprio in base a questa, ha da essere valorizzato.
In questo modo non giungiamo a conclusioni così distanti da quelle cui giunge chi adotta il paradigma negazionista. Se questi ultimi possono assumere un atteggiamento critico nei confronti di un capitalismo che riduce la vivacità e la varietà culturale e che è in qualche modo percepito (correttamente) come indebita universalizzazione di un particolare, con caratteristiche di violenza e sopraffazione, ingiustizia e criminalità (seppur abilmente mascherate), noi possiamo adeguare la medesima critica al fondamento filosofico che proponiamo di assegnarle ed affermare che un tale sistema è deplorevole in quanto agisce contro la possibilità dell’uomo di realizzare le proprie potenzialità di vita felice e di giustizia. Ma, a differenza dei «negazionisti», non si intende qui destituire il capitalismo inteso come verità universale per valorizzare le differenze e negare la verità; al contrario, si afferma che il sistema che ci domina oggi è falso (in quanto non universale e discriminante le differenze) e che occorre affermare una Verità che confligga tanto con esso quanto con qualsiasi alternativa che debba essere destinata a restare un particolare, chiuso in se stesso e portatore di una verità parziale.

Note

1 Le citazioni seguenti sono tratte dal Leviatano, nella traduzione edita da Rizzoli, Milano, 2011.
2  P. P. Portinaro, Il realismo politico, Laterza, Roma-Bari, 1999, p. 26.
3 Leviatano, XXVIII.
4 I. Kant, Sul detto comune: questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la prassi, in Id., Scritti di storia, politica e diritto, Laterza, Roma-Bari, 20098, p. 146 e p. 150.
5 Uso qui un’ espressione desunta da Foucault, su cui tornerò in seguito.
6 F. Remotti, Centri di potere. Capitali e città nell’Africa precoloniale, Trauben, Torino, 2005, p. 156.
7 Rousseau e Spinoza consideravano questa democrazia difficilmente realizzabile e tuttavia ponevano con coerenza un problema che non può essere ignorato.
8 A. MacIntyre, Giustizia e razionalità. Vol. 1. Dai greci a Tommaso d’Aquino, Anabasi, Milano, 1995, p. 98.
9 Cfr. L. Grecchi, Occidente. Radici, essenza, futuro, Il Prato, Padova 2009.
10 Cfr. F. Remotti, Cultura. Dalla complessità all’impoverimento, Laterza, Roma-Bari, 2011, p. 14.
11 D. Hume, Ricerca sui principi della morale, Laterza, Roma-Bari, 1997, p. 41.
12 E. Zola, Il romanzo sperimentale, tr. it I. Zaffagnini, in G. Baldi et al., Dal testo alla storia dalla storia al testo, vol. E, Paravia, Torino, 2000, p. 157.
13 Cfr. J.-F. Lyotard, Il postmoderno spiegato ai bambini, Feltrinelli, Milano, 1987, p. 28: «la vittoria della tecnoscienza capitalistica sugli altri candidati alla finalità universale è un altro modo di distruggere il progetto moderno con l’aria di realizzarlo».
14 Cfr. M. Sahlins, Un grosso sbaglio. L’idea occidentale di natura umana, elèuthera, Milano, 2010, p. 41.
15 Sahlins ricorda come questo pensiero “nostalgico”, che vede nella storia un declino dalla condizione originaria, fosse già presente nella mitologia greca, in riferimento alla perduta età dell’oro di Crono; aggiunge inoltre che resoconti, in epoca moderna, di simili concezioni sono giunte anche dall’America o da Tahiti. Cfr. M. Sahlins, Un grosso sbaglio, op. cit., p. 44.
16 N. Chomsky, M. Foucault, Della natura umana. Invariante biologico e potere politico, DeriveApprodi, Roma, 2005, pp. 8-11.
17 D. Marconi, Il ritorno della natura umana, in N. Chomsky, M. Foucault, Della natura, op. cit., p. 95.
18 N. Chomsky, M. Foucault, Della natura umana …, op. cit., p. 47.
19 C. Vigna, L. Grecchi, Sulla verità e sul bene, Petite Plaisance, Pistoia, 2011, p. 67.
20 N. Chomsky, M. Foucault, Della natura umana …, op. cit., p. 36.
21 M. Sahlins, Un grosso sbaglio …, op. cit., p. 100.
22  B. Ehrenreich, J. McIntosh, The New Creationism, «The Nation», 9 giugno 1997.
23 Cit. in S. Rose, Linee di vita. La biologia oltre il determinismo, Garzanti, Milano, 2001, p. 314.
24 Cit. in R. Lewontin, Il mito del DNA: le false promesse del Progetto Genoma, intervista dell’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, 1 gennaio 1992, Rai Educational, http://www.emsf.rai.it/interviste/interviste.asp?d=445. Il Progetto Genoma Umano (HGP, Human Genome Project) è stato un progetto di ricerca finanziato per 3 miliardi di dollari da Stati Uniti e alcuni paesi europei, il cui scopo, raggiunto all’inizio del terzo millennio, era quello di mappare l’intero genoma umano. Di questo progetto Lewontin fu sempre oppositore. Si veda anche R. Lewontin, Il sogno del genoma umano e altre illusioni della scienza, Laterza, Roma-Bari, 2002.
25 Celebre è l’affermazione di questo scienziato secondo la quale «noi siamo macchine per la sopravvivenza, veicoli robotici ciecamente programmati per conservare molecole egoiste note come geni». Cfr. R. Dawkins, Il gene egoista, Arnoldo Mondadori, Milano, 1995, cit. in S. Rose, Linee di vita, op. cit., p. 15. Per una sintetica esposizione delle posizioni di Dawkins e un confronto con una posizione critica, si veda B. Goodwin, R. Dawkins, What i san organism? A discussion, in N. S. Thompson, ed., Perspective in Ethology, Volume II: Behavioral Design, Plenum Press, New York, 1995, pp. 47-60, disponibile su google books oppure all’indirizzo http://www.fortunecity.com/emachines/e11/86/organism.html.
26 Con questo termine si intende ciò che va dall’intracellulare all’extracorporeo.
27 R. Lewontin, Critica al riduzionismo genetico, intervista dell’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, 2 giugno 1992, Rai Educational, http://www.emsf.rai.it/interviste/interviste.asp?d=446#torna.
28 Cfr. C. Geertz, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna 1987; cit. in F. Remotti, Cultura, op. cit.,, p. 22. Cfr. anche gli scritti di G. Pezzano editi da Petite Plaisance in questi anni.
29 M Sahlins, Un grosso sbaglio …, op. cit., p. 122.
30  F. Remotti, Cultura …, op. cit., p. 15.
31  Ivi, p. 16.
32  Ivi, p. 155.
33  Cfr. F. Remotti, Luoghi e corpi. Antropologia dello spazio del tempo e del potere, Bollati Boringhieri, Torino 1993, p. 49.
34  M. Foucault, L’ordine del discorso e altri interventi, Einaudi, Torino, 2004, p. 5.
35  Ivi, p. 9.
36  Ibidem.
37  F. Rossi-Landi, Il linguaggio come lavoro e come mercato, Bompiani, Milano, 1968.
38  A. Badiou, San Paolo. La fondazione dell’universalismo, Cronopio, Napoli, 20102.
39  D. Marconi, Per la verità. Relativismo e filosofia, Einaudi, Torino, 2007, pp. 135-138.
40  Etica Nicomachea I, 5, 1097b 11; Politica I, 2, 1253a 2
41  Metafisica Θ, 8, 1050a 7-9.
42  Metafisica Θ 6, 1048a 32.
43  Metafisica Θ, 7, 1049a 5-17.
44  Politica III, 9, 1280 b 31-35.
45  Cfr. D. Fusaro, Marx pensatore della libera individualità, «Giornale Critico di Storia delle Idee», 2009, 1, http://www.giornalecritico.it/ (url visitato 14/11/12)
46  Cfr. A. MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Armando Editore, Roma, 2007 [1981], pp. 92-93.
47 L. Grecchi, Conoscenza della felicità, Petite Plaisance,  Pistoia, 2005, p. 41.
48  Ivi, p. 44.
49  Ivi, p. 47.

Costanzo Preve – Questioni di filosofia, di verità, di storia, di comunità. INTERVISTA A COSTANZO PREVE a cura di Saša Hrnjez

Paul Klee, Ritmi rosso, verde e viola giallo, 1920

La fine della filosofia, Heidegger, paradigma dello spazio e temporalità storica

SAŠA HRNJEZ: Comincerei da un tema abbastanza trattato nel corso del Novecento. È il tema della “fine della filosofia”. Basta pensare a Heidegger, ma non solo. Mi interessa come ti rapporti con questo problema. Ed inoltre pongo la questione della autocontraddizione dell’annuncio filosofico della fine della filosofia, in quanto questa stessa affermazione rimane ancora nell’orizzonte della filosofia. É la questione che lateralmente apre un altro problema: il problema dell’autoriflessione della filosofia stessa.
COSTANZO PREVE: In primo luogo io penso che Heidegger non possa essere ridotto all’annunciatore della fine della filosofia. Più esattamente lui è un annunciatore della fine della metafisica che egli ritiene risolta integralmente nella tecnica planetaria, perché il termine tedesco Gestell vuol dire dispositivo anonimo ed impersonale. Perciò, quello che Heidegger dice è una proposta di fine della metafisica. Questa proposta è autocontraddittoria, non c’è alcun dubbio, nel senso che per poter annunciare la fine della filosofia bisogna filosofare. La teoria della fine della filosofia o della fine della storia o della società è un’autoriflessione filosofica pessimistica dell’umanità su se stessa. E perciò io la respingo immediatamente. Piuttosto voglio riflettere sul fatto che l’annuncio della morte della metafisica è dovuto, secondo me, a due componenti fondamentali. In primo luogo una lettura errata, distorta dell’antichità greca. Siccome Heidegger non è in grado di compiere una deduzione sociale delle categorie della filosofia greca e della sua nascita come risposta della comunità di fronte al pericolo della sua dissoluzione a causa del denaro, del potere, della tirannia e della crematistica, allora, dato appunto che non è in grado di capire ciò, da solo poi si infila in un distinzione fittizia tra aletheia e orthotes intesa come corretto rispecchiamento, distinzione che secondo me è completamente sbagliata. Perché l’orthotes pitagorico-platonica era un modo dei greci antichi per arrivare al disvelamento, cioè all’aletheia. Perciò devo respingere completamente questa diagnosi di Heidegger.
Poi c’è un secondo aspetto: Heidegger registra nel sofisticato e rarefatto linguaggio della filosofia l’impressione di immodificabilità del mondo, che è evidentemente un’impressione che avviluppa molti filosofi intorno agli anni Trenta, Quaranta, Cinquanta, e Sessanta. In un certo senso Adorno, anche se è un filosofo molto diverso da Heidegger, dice le stesse cose in una forma di pessimismo radicale che lui esprime nel linguaggio della dialettica negativa. Gli stessi filosofi marxisti, come il gruppo iugoslavo di Praxis (di cui ho conoscituo Gajo Petrović e Mihajlo Marković), poi Bloch, Lukács, francesi come Althusser e così via, mantengono invece una sorta di speranza di trasformazione socialista del mondo. Ma la mantengono sullo sfondo, come se non ci credessero neanche loro molto. Lukács parla di prospettiva, Bloch parla di utopia, Karel Kosík parla di distruzione della pseudoconcretezza. Però è come se tutti loro – arrivati alla svolta degli anni Sessanta e Settanta (prima che ci fosse ancora il postmoderno, che ha in un certo senso consacrato l’idea dell’immodificabilità del mondo) – quasi avessero smesso di credere a questa modificabilità. Perciò il successo di Heidegger nelle comunità universitarie europee, a mio parere, non è altro che la trascrizione filosofica sofisticata di questo senso d’impotenza sociale generale.

S H: Infatti ciò a cui volevo arrivare con la mia domanda sulla fine della filosofia è proprio questo che hai indicato. A mio parere c’è una connessione più profonda tra l’affermazione della fine della filosofia, un’affermazione filosofica auto-negante, e un’altra affermazione, quella ideologica di Fukuyama sulla fine della storia. Interessante è notare che queste due posizioni teoriche emergano in un periodo dominato dal paradigma dello spazio (lo dice esplicitamente Foucault nel suo saggio Spazi altri, ma si trova anche in Deleuze-Guattari e recentemente in Sloterdijk, etc). Allora, da una parte lo spazio secondo Sloterdijk diventa saturato, senza distanza e privo di estensione e d’altra parte abbiamo un esaurimento della temporalità storica. Una diagnosi perspicace oppure un altro indicatore dell’impotenza politico-sociale?
PREVE: Il rapporto fra spazio e tempo sostanzialmente ha come origine moderna il 1700. Ma è noto che il problema dello spazio e del tempo non nasce nel 1700 ma percorre tutta l’antichità greca e il cristianesimo: lo spazio inteso come (diceva Newton) il sensorium Dei; o lo spazio per i greci (che non erano monoteisti) che era chiamato hora, cioè il luogo in cui semplicemente si organizzava la materia; oppure lo spazio inteso come creazione divina, e che dunque era il teatro della sua creazione. Nel 1700 le cose cambiano radicalmente: la borghesia capitalista in formazione deve intervenire simbolicamente sia nel tempo che nello spazio. Per quello che riguarda l’intervento nello spazio nasce il moderno materialismo che non ha nessun carattere proletario, operaio, socialista e scientifico, ma rappresenta un’unificazione simbolica dello spazio alto e basso all’interno del quale possa circolare la merce capitalistica, togliendo la divinità che stava in alto e qualunque sovranità sull’economia. Per quello che riguarda il tempo: il tempo è unificato sotto la categoria di progresso, e come tutti sanno è l’ideologia fondamentale del Settecento borghese destinata ad essere ereditata completamente dal marxismo, e non soltanto dal pensiero di Marx, ed anche di più dal marxismo successivo. Personalmente non sono sicuro che noi siamo di fronte a un problema di saturazione dello spazio, come diceva la scuola francese. Io sposterei un po’ il problema seguendo il marxista britannico David Harvey, ultimamente autore di un libro che si chiama The Enigma of Capital. Harvey sostiene che ci sia oggi una prevalenza dello spazio sul tempo, dovuto al fatto che da un lato il mondo borghese ha abbandonato completamente il mito del progresso, mantenendone soltanto una superficie tecnologica e retorica; e d’altro lato, la globalizzazione – che fa diventare l’intero mondo una sorta di territorio liscio per lo scorrimento della merce e dei capitali – porta automaticamente a una prevalenza dello spazio sul tempo. Propendo a ritenere valida una sorta di combinazione di due diagnosi, quella di Jameson e l’altra di Harvey. Jameson ha detto che il postmoderno è l’epoca della produzione flessibile e secondo me ha ragione. Harvey parla di dominio dello spazio sul tempo con lo sbaraccamento dell’ideologia del progresso e con l’enfasi sulla globalizzazione spaziale del mondo come luogo di possibilità infinite.

SH: E non è che il compito filosofico di oggi sarebbe proprio di re-introddure nella filosofia una concezione del tempo alternativa e una prospettiva della temporalità storica?
PREVE: Con questa domanda tu stesso hai suggerito il modo migliore per arrivare alla risposta, perché Hegel non è affatto un cane morto, ma è un autore ancora attuale, anzi, più che mai attuale. In Hegel infatti al centro del problema è il riconoscimento della coscienza, della presa di coscienza progressiva che diventa l’autocoscienza, che avviene ovviamente all’interno di uno spazio e di un tempo in cui il soggetto manifesta, diciamo così, le sue richieste, i suoi bisogni, i suoi progetti. Questo vuol dire innanzitutto escludere che in Hegel ci sia una teoria della fine della storia. È un equivoco, secondo me, espresso in buona fede dal francese Alexandre Kojeve, ma è errato, profondamente errato. E poi viene ripreso ridicolmente da Fukuyama come teoria apologetica del secolo americano. Ma Fukuyama è un funzionario del Dipartimento di Stato come quelli che fanno bombardamenti sull’Afghanistan. Non è una cosa seria. Io parlo di Kojeve che invece è una persona seria. Secondo me in Kojeve c’è un fraintendimento gravissimo, perché quella che era una diagnosi di Hegel è stata fatta nel 1820, una diagnosi situata, congiunturale. Hegel aveva maturato la opinione secondo cui il tempo storico che stava vivendo era un tempo ricco di possibilità, in cui lo spirito si era determinato. Il concetto di Bestimmung è qui fondamentale. Perché Hegel, come è noto, polemizza continuamente contro il cattivo infinito di Kant e contro l’idea di Fichte secondo cui noi staremmo vivendo nell’epoca della compiuta peccaminosità. Siccome Hegel non può accettare la diagnosi dell’epoca della compiuta peccaminosità, che poi viene ripresa dagli intellettuali marxisti del Novecento – ovviamente in forma diversa (Bloch, Lukács, Althusser …) –, egli vuole contrapporsi a quelli che lui chiama i vecchi conservatori di Metternich, all’economia politica inglese che lui chiama «uno stato civile senza metafisica», e si contrappone anche a Rousseau e a Robespierre in base a quello che lui chiama «furia del dileguare».
Come tu sai Hegel nega il contratto sociale, ma lo nega non perché neghi gli elementi progressivi del giusnaturalismo o del contrattualismo, ma perché pensa che la civiltà non sia nata da un contratto. Lui dice, nella Fenomenologia dello Spirito, che la civiltà nasce dalla violenza, come nelle prime sequenze del film di Kubrick, Space Odissey 2001. La civiltà nasce dalla violenza, nasce dalla paura del dominato del primo dominatore, e soltanto nel corso del tempo storico che si arricchisce d’autocoscienza la civiltà giunge a superare questa nascita violenta in direzione di un’autocoscienza. Questa proiezione hegeliana afferma che ci sono il tempo e lo spazio come luoghi di realizzazione …
SH: È chiaro perché Hegel critichi il contrattualismo. Semplicemente un’ontologia della società non si può basare sul contratto, proprio in quanto l’ontologia storica che va oltre l’accordo tra due volontà rimane ancora, diciamo così, a posteriori.
PREVE: Hegel dice molto chiaramente che il contratto riguarda soltanto il diritto privato e non accetta che lo Stato nasca da un contratto. In questo ambito del diritto astratto c’è il contratto, ma è un errore trasformare il contratto da questo suo ambito reale a un ambito statuale. Come è noto lo Stato in Hegel deve avere una fondazione etica (eticità), che io traduco “comunitaria” ma che certamente non è un comunitarismo comunista; però ritengo che questo sia uno degli aspetti di Hegel meno trattati. Dimenticando questa genesi comunitaria della filosofia hegeliana già presente dal 1803, Hegel viene trasformato erroneamente nel filosofo del dispotismo, del totalitarismo, dello statalismo: il che è un fraintendimento mortale.

Filosofia e politica, la deduzione sociale delle categorie filosofiche,
la filosofia di oggi e le facoltà di filosofia
SH: Su Hegel torneremo. Ma per arrivarci voglio passare attraverso un’altra questione. Nel testo Dialogo sulla filosofia a venire, che è un dialogo tra Roberto Esposito e Jean-Luc Nancy, dove tra l’altro si affrontano tutti questi problemi di fine della filosofia e di paradigma dello spazio etc., affiorano due definizioni di filosofia che trovo interessanti. L’una dice che «il dentro della filosofia è precisamente il suo fuori» e l’altra espressa dallo stesso Nancy dice più o meno questo: se filosofare significava in passato contemplare e fissare, oggi significa aprire gli occhi, occhi finora non ancora aperti. Allora, queste due definizioni mi conducono verso il rapporto tra filosofia e politica, andando ovviamente al di là del testo di partenza di Nancy e Esposito e cercando di dare un’altra interpretazione. Questo “fuori” della filosofia che è il suo più profondo dentro, secondo me, è il contesto politico-sociale a cui filosofia necessariamente risponde. Ed “aprire gli occhi” significherebbe aprirsi a questo fuori politico-sociale che è nient’altro che il nocciolo della filosofia stessa.
PREVE: Per usare la terminologia di Esposito e di Nancy, che non è la mia, il fatto che la filosofia abbia un rapporto di esternità e contemporaneamente d’internità con la politica per me è un’ovvietà. Non è un qualcosa di strano a cui arrivare attraverso percorsi complicati, ma è quasi, come direbbero i greci antichi, un postulato. Se Nancy dice che la filosofia è nata come contemplazione ed oggi non si tratta di contemplare, è semplicemente errato. La filosofia non è mai nata come contemplazione. Secondo me è un equivoco che nasce da una frase nobile ma errata di Aristotele che fa nascere la filosofia dalla meraviglia. Perché, sia nella antica Grecia sia nella Cina, nella valle del fiume giallo di Confucio, che erano due zone che non si conoscevano reciprocamente, la filosofia non è nata come contemplazione, ma come risposta concreta ai fenomeni di convivenza. Perciò io non riesco a prendere sul serio questa definizione di Nancy perché essa parte da un presupposto inesistente. Secondo me, la filosofia non è mai nata come contemplazione.

SH: All’inizio hai accennato che Heidegger non era in grado di fare una deduzione sociale delle categorie. Poi infatti la spiegazione dello spazio e del tempo che hai dato è un esempio di questa deduzione sociale. Ed anche questa riflessione sulla nascita sociale di filosofia è legata a una tale deduzione. Allora visto che molte riflessioni esposte da te si basano su questa operazione deduttiva, ci potresti spiegare il concetto?
PREVE: Quando si parla di deduzione sociale delle categorie, innanzitutto io intendo le categorie filosofiche e non soltanto quelle ideologiche. È assolutamente chiaro ed ovvio che l’ideologia ha un’origine sociale, perché la stessa parola ideologia rivela in quanto tale che l’ideologia viene prodotta socialmente per rispondere ai bisogni di legittimazione delle classi dominanti verso le classi dominate. Questo è evidente per l’ideologia, ma è meno evidente per la filosofia. Si vorrebbe far apparire la filosofia come se fosse nata al tempo dei greci non in modo sociale ma per un miracolo greco: improvvisamente i greci, popolo indoeuropeo geniale, avrebbe scoperto la filosofia. Lo stesso Aristotele parla di meraviglia. Questo vuol dire che le idee filosofiche cadono dal cielo. Io invece penso che non soltanto le categorie ideologiche ma anche le categorie filosofiche devono essere socialmente dedotte. Questo fatto ovviamente comporta il pericolo del riduzionismo sociologico e del relativismo nichilistico, cioè del ridurre le categorie filosofiche soltanto a un episodio puramente ideologico-storico, togliendogli ogni carattere veritativo. Questo problema può essere agevolmente superato distinguendo quello che si chiama in tedesco Genesis e Geltung, cioè il fatto che c’è una genesi particolare e una validità potenzialmente universale.
In realtà le principali categorie della filosofia greca antica, chiamata erroneamente presocratica, perché in fondo Socrate è al servizio ideale della polis esattamente come Talete, Anassimandro o Pitagora, nascono sulle basi comunitarie per rispondere ad esigenze di mantenimento della comunità contro la sua dissoluzione.

SH: Quando si teorizza una deduzione sociale delle categorie, uno dei primi riferimenti che emerge è Kant (almeno per quanto riguarda il termine deduzione). E dunque, se in Kant abbiamo una quid iuris, deduzione della legitimità e della validità dell’uso di concetti, la deduzione sociale potrebbe sembrare antikantiana in quanto esce fuori dal regno trascendentale del soggetto. Però se ci pensiamo un attimo, la deduzione sociale delle categorie come una sorta di quid iuris politicamente contestualizzato sviluppa e porta il trascendentalismo di Kant fino alle sue ultime conseguenze. Per di più, la deduzione sociale può spiegare anche la deduzione trascendentale di Kant dal punto di vista delle esigenze sociali dell’epoca.
PREVE: Direi che questa è una buona impostazione. Negli anni Venti e Trenta del Novecento il pensatore tedesco Alfred Sohn-Rethel fu il primo a proporre la deduzione sociale delle categorie suscitando l’entusiasmo di Adorno in una loro corrispondenza. Horkheiemer invece la respinse, perché vide in questo tentativo di Sohn-Rethel una sorta di caduta nel relativismo sociologico, e pertanto si oppose. In questo modo buttò via il bambino con l’acqua sporca. Secondo me quello che dici tu può essere inteso in due modi: noi possiamo contrapporre la deduzione sociale delle categorie a quella trascendentale di Kant e a quella fenomenologica di Husserl; in questo caso abbiamo una terza posizione contrapposta. Poi c’è un altro modo che secondo me è altrettanto legittimo: possiamo pensare che la deduzione sociale delle categorie non rompa con quella trascendentale di Kant e quella fenomenologica di Husserl, ma semplicemente ci sia una Aufhebung, un superamento e una contestualizzazione.
Detto questo, secondo me, l’Io penso kantiano è fondamentalmente destoricizzato e desocializzato. Ich denke perciò non è dedotto socialmente. E se mi si chiede se in Kant ci sia in un certo senso l’origine della deduzione sociale delle categorie, direi di no, perché Ich denke è come Ego cogito di Cartesio, completamente destoricizzato e desocializzato: viene posto fuori dello spazio e del tempo.

SH: Sì, ma il fatto che Kant non esegua una deduzione sociale delle categorie, non vuol dire che questa deduzione non sia applicabile allo stesso Kant. Anzi, sicuramente c’erano le esigenze sociali per impostare anche l’Ich denke trascendentale.
PREVE: In un certo senso, e parzialmente, lo stesso idealismo di Fichte e di Hegel è proprio questo. Perché lo stesso idealismo di Fichte e di Hegel parte dall’Ich denke di Kant cercando di storicizzarlo, attraverso l’insegnamento di Vico e attraverso l’impostazione di Spinoza che non separa le categorie dell’essere e le categorie del pensiero. In un certo senso il primo idealismo di Fichte e di Hegel rappresenta già un tentativo di concretizzare storicamente la deduzione trascendentale di Kant.

SH: Una delle mie domande precedenti, quella sul fuori/dentro filosofico, era mirata a una critica della tendenza attuale, cioè alla filosofia che si riduce alla storiografia filosofica autarchica, all’analitica logico-semantica, oppure ad una sorta del esistenzialismo dove filosofia diventa quasi un’esperienza mistico-personale. In tutte queste declinazioni non c’è quel “fuori” filosofico-politico, e perciò non c’è niente di sovversivo in queste filosofie.
PREVE: Su questo voglio dire la cosa che ritengo più importante. Bisogna distinguere con grande chiarezza il problema storico e teorico della filosofia come forma di vita occidentale poi globalizzatasi, vecchia ormai di 2000 anni, e un secondo problema che non ha nessun rapporto con il primo, che è l’organizzazione universitaria delle facoltà di filosofia, le quali oggi non hanno più nessun rapporto con la filosofia. Quando dico nessun rapporto, intendo dire nessuno. Non sto dicendo un rapporto debole, fragile … ma nessuno per motivi storici che si possono spiegare. Le moderne facoltà di filosofia sono nate alla fine del Settecento, all’inizio del Ottocento, nel tempo di Kant e Hegel. Ma nella seconda metà dell‘Ottocento hanno assunto in Europa un carattere sostanzialmente positivistico e neokantiano, concentrato sulla teoria della conoscenza. Le tecniche di cooptazione dei giovani filosofi sono tecniche, diciamo così, patriarcali perché il giovane filosofo è scelto dal cattedratico sulla base di simpatia/antipatia con la propria affinità. Per cui Kant verrebbe bocciato con la Critica della ragion pura, e Hegel verrebbe bocciato a un concorso con la Scienza della Logica, in quanto i concorsi di filosofia vengono fatti su base citatologica, cioè con una corretta citatologia, se possibile in greco antico o tedesco, ma fra poco soltanto in basic english. Questo è un fenomeno che si sta sviluppando e che secondo me deve essere interpretato in questo modo: l’ultimo periodo storico in cui c’è ancora stato rapporto fra filosofia universitaria e pratica politica generale della filosofia sono stati gli anni di metà Nocevento, dal 1920 al 1970-75, gli anni di Lukács, Bloch, Kosík, Marcuse, Petrović, Heidegger. Gli anni in cui filosofi erano nazisti, comunisti, socialisti, liberali etc.; ghli anni in cui i filosofi, oltre ad essere cattedratici, erano anche impegnati nelle grande ideologie del tempo. I comunisti Bloch e Lukács, il nazional-socialista Heidegger, il liberale Popper. In questi 50 anni il dibattito filosofico aveva ancora un rapporto con la riproduzione universitaria. Secondo me questo rapporto è finito negli anni Ottanta del Novecento, e per cui da circa 30 anni, in questa congiuntura storica, la filosofia non ha più nessun rapporto con l’università. Esistono certamente ancora alcuni professori universitari che praticano liberamente filosofia perché sono dotati etc., però l’organizzazione in quanto tale è …

SH: … è antifilosofica …
PREVE: Peggio. È una forma di criminalità se mi permetti, di criminalità bianca. La definirei così. Normalmente non è sanguinaria, le persone non vengono uccise …

SH: Ma non ne sono sicuro. Intellettualmente e simbolicamente alcune persone vengono anche” uccise”. O il tentativo almeno c’è.
PREVE: Ad esempio nell’ultimo romanzo poliziesco di Petros Markaris intitolato L’Esattore che ho letto in greco, il protagonista dice: «Lo Stato greco è l’unica mafia fallita». Lui dice che le mafie di solito non falliscono, si arricchiscono con il traffico di armi, droga, prostituzione etc., ma lo Stato greco inteso come clientelismo è l’unica mafia fallita.

SH: Vale anche per gli altri Stati?
PREVE: Meno. Nel senso che la classe politica greca ha fatto pagare prezzi giganteschi al popolo greco. Ora accade anche in Spagna, Portogallo, e io penso che l’Italia abbia ancora due-tre anni prima di sprofondare. Tu sai che gli orsi per andare in letargo devono avere del grasso, perché se l’orso andasse in letargo senza grasso, soltanto pelle e ossa, morirebbe. La Grecia e la Spagna sono gli orsi senza grasso, e l’Italia ha ancora due-tre anni di grasso.

L’attualità di Hegel, comunitarismo e capitalismo
SH: Anche su questo argomento torneremo, particolarmente su quello che sta succedendo nella Grecia. Ma ora ci aspetta Hegel. Oggi si nota una certa rinascita del pensiero hegeliano sull’orizzonte globale, si parla addirittura del Hegelian turn, nei quotidiani escono ad esempio gli articoli intitolati Hegel on Wall Street e così via. Comunque la questione è sempre in che modo si riprende Hegel. Tu sei uno dei pochi filosofi italiani che esprime e prende una posizione esplicitamente e chiaramente hegeliana. Quando si parla del ritorno a Hegel c’è sempre la questione: quale Hegel?. Tu vedi Hegel come un rimedio filosofico contro il neoliberismo capitalistico di oggi e perciò in questo sta la sua attualità
PREVE: Non soltanto in questo, ma anche in questo.

SH: Allora, alla domanda: Quale Hegel? Rispondiamo Hegel filosofo della comunità, Hegel comunitarista?
PREVE: Dunque, tu sai molto bene che un grande filosofo come Hegel, e questo vale anche per Platone, Kant, Spinoza, Aristotele, non può essere ridotto ad una sola dimensione. La ricchezza inesauribile di Hegel sta proprio nel fatto che non c’è soltanto un aspetto di Hegel. Quando leggiamo ad esempio l’Estetica di Hegel vediamo che le sue osservazioni sulla storia dell’arte, sull’arte greca e l’arte fiamminga non posso essere ridotte a l’Hegel politico. Vediamo anche che la sua ricostruzione storica della filosofia greca e moderna non può essere ridotta a l’Hegel politico; per cui facendo una permessa che Hegel è un pensatore multiversum, direi che la sua attualità consiste nel fatto che Hegel è completamente alternativo alla fondazione del neoliberismo, il quale per la sua fondazione trova Hume. In Inghilterra hanno fatto un concorso su quello che la gente considerava essere il più grande filosofo. È venuto fuori Marx. The Economist scese in campo per impedire che Marx vincesse – ma poi Marx ha vinto –, e ha proposto come alternativa Hume, mentre gli altri filosofi come Hegel hanno avuto score molto basso. Questa questione è molto significativa e molto importante, perché il liberalismo capitalistico, che è una forma di dittatura dell’economia finanziaria, non ha bisogno di nessuna fondazione filosofica. Dunque non ha bisogno né di Dio, né della religione che viene derubricata ad assistenza per drogati, poveracci e popolo infelice; non ha bisogno della filosofia, non ha bisogno della politica, perché si basa sulla premessa tipicamente humiana empirista dell’autofondazione del capitalismo su se stesso come attesa dello scambio di merci fra venditori e compratori, cioè la teoria humiana della natura umana dove la natura umana di per sé, essendo basata su una serie di attese ed aspettative del compratore-venditore, ha messo le basi per l’economia politica di Smith (anche lui amico di Hume). A questo punto che è successo? Che per 200 anni la borghesia ha ancora avuto una coscienza infelice, per usare linguaggio hegeliano. E la coscienza infelice della borghesia si chiama dialettica. Perciò abbiamo avuto 200 anni di Marx, Adorno, Lukacs, cioè 200 anni sia degli amici della dialettica sia dei nemici della dialettica (Althusser). Secondo me attualmente viviamo in un capitalismo largamente postborghese e postproletario – il che è il mio concetto fondamentale, per cui un capitalismo postborghese e postproletario continua ad essere capitalismo ma non è più caratterizzato né dalla coscienza infelice borghese, né della coscienza utopica proletaria. A questo punto le facoltà di filosofia perdono ogni significato politico per cui i discorsi di Esposito e simili mi sembrano del tutto privi di realismo perché richiamano semplicemente un fatto intorno a cui non vediamo nulla.

SH: Capitalismo postborghese. E la distinzione tra borghesia e capitalismo?
PREVE: In tutti i miei libri ho sempre lavorato sulla distinzione metodologica fra borghesia e capitalismo. In primo luogo Marx non dice mai la parola Kapitalismus che nasce con Sombart e con la socialdemocrazia tedesca. Marx dice sempre Produktionsweisen, i modi della produzione capitalista. E questa differenza non è puramente linguistica e sofistica, bensì strutturale. Per Marx il modo di produzione capitalistico è un meccanismo riproduttivo anonimo ed impersonale come il Gestell in Heidegger, che potrebbe essere definitivo capitalismo senza opposizione dialettica. La concezione heideggeriana di tecnica ricopre completamente la concezione marxiana di capitalismo togliendole però l’aspetto utopico dialettico coscienziale rivoluzionario. Se andiamo al di là della chiacchera su Heidegger come amante di Arendt o come nazista, e cerchiamo invece di entrare nella sua filosofia, noi vediamo che la sua filosofia tende a descrivere il dominio anonimo ed impersonale che lui chiama Gestell (dipositif in francese è la traduzione molto corretta perché dà l’idea di qualcosa di anonimo, qualcosa che è fuori controllo dell’umanesimo). L’antiumanesimo di Heidegger distinto da quello degli strutturalisti alla Althuser è un segnale di impotenza. Nella sua Lettera sull’Umanesimo rivolta a Sartre, lui fondamentalmente fa un diagnosi di impotenza. L’umanesimo, ci sia o non ci sia, è comunque impotente, e gira su se stesso. La filosofia di Heidegger è una diagnosi marxiana a cui viene tolta semplicemente la rivoluzione. Però è una cosa grossa.

SH: Secondo me il valore epocale di Hegel non sta soltanto nella sua nota differenza tra la società civile e lo Stato, ma nel fatto che già la società civile in Hegel provvede gli strumenti e le istituzioni contro una deviaziane potenziale (e qua non sarebbe sbagliato interpretare “potenziale” come dynamis) del principo soggettivo della particolarità liberata. Cioè, i momenti di amministrazione della giustizia, di polizia (che vuol dire anche assistenza sociale), di corporazione, etc., sono già i momenti fondativi per uno stato sociale. E se ne teniamo conto concludiamo che già al livello della bürgerliche Geselschaft abbiamo un Hegel che propone una sorta di welfare, la protezione sociale e il diritto al benessere.
PREVE: Sono completamente d’accordo con questa analisi, ed essere d’accordo al cento per cento capita molto raramente in filosofia. In Italia, ma anche altrove, c’è l’idea che bürgerliche Geselschaft sia la parola tedesca per dire civil society. É un errore enorme. Perchè civil society anglosassone è concepita come luogo di mercato delle merci e delle opinioni, e non come organizzazione statuale della comunità pur in presenza di un’economia dello scambio capitalistico. Penso che si tratti di un concetto che si può spiegare tranquillamente dopo appena un mese di corso su Hegel. Il fatto che ci sia tanta ignoranza su questo io lo spiego in maniera sociale: come vera e propria volontà di censurare un pensiero dialettico e sociale che intreccia economia e politica in favore di un pensiero che separa completamente economia e politica, e questa separazione è un vero problema del capitalismo. È chiaro allora che le facoltà di filosofia, che sono povere serve del capitalismo, lavorino per questo. Mentre le facoltà di economia offrono direttamente dei managers all’apparato capitalistico, le facoltà di filosofia diventano completamente inutili. Sono delle nicchie marginali che vengono mantenute come si mantengono certi animali rari nello zoo, tipo panda e così via … vengono mantenute purché non rompano le scatole. E il modo migliore affinché non rompano le scatole è togliergli ogni espressività politica, ogni espressività comunitaria e trasformarle in meccanismi di citatologia e di nicchie postmoderne.

SH: Andrei anche oltre partendo dalla mia riflessione precedente. Hegel anche ci dice che quello che nel linguaggio di oggi potremmo chiamare welfare, non basta. Il mito della socialdemocrazia non è sufficiente, e l’altra questione è se oggi è possibile. Hegel ci dice che, in modo dialettico, se vogliamo la protezione sociale e il diritto al benessere, Soziale Sorge e il bene comune, ci vuole un orizzonte più alto della comunità. E proprio quello bisogno contrassegna il passaggio dalla società civile allo stato. Questo è secondo me il punto di estremo rilievo. La società civile può funzionare giustamente purché ci sia un orizzonte del mutuo riconoscimento politico-sociale, un orizzonte di Noi – l’idea dello Stato in Hegel.
PREVE: Sono ancora pienamente d’accordo con quello che dici. Sono cose che si sentono dire molto poco mentre invece è basilare dirle. Il passaggio dalla società civile allo stato non deve essere interpretato come una forma di burocrazia statalista, ma deve essere interpretato come un inveramento etico-comunitario, in mancanza del quale uno Stato non può funzionare unicamente come Sorge socialdemocratica o comunista nel senso del comunismo storico novecentesco, che si è sviluppato come una sorta di socialdemocrazia povera che garantiva in maniera dispotica la piena occupazione e le cure mediche gratuite (in Russia, Polonia, ovviamente il caso di Iugoslavia era un po’ diverso). Tuttavia c’era ugualmente l’antipatia e l’avversione da parte della stragrande maggioranza della popolazione. Questo fenomeno apparentemente incomprensibile viene spiegato generalmente o con la mancanza dei beni di consumo, per cui Polacchi e Ungheresi volevano passare dalla Trabant alla vera automobile Mercedes, oppure come dispotismo burocratico nella spiegazione trotzkista del fato che i burocrati rubavano, mangiavano, saccheggiavano e nominavano i loro amici, parenti, amanti etc. … Tutte queste spiegazioni colgono soltanto parzialmente il fatto fondamentale, cioè che lo Stato comunista non è mai riuscito ad esser percepito dalla maggioranza della popolazione come realizzazione di una Sittlichkeit, cioè di una eticità soddisfacente.
Stessa cosa oggi con la socialdemocrazia. Noi abbiamo il SPD in Germania, Holland in Francia, in Italia neanche questo perché la degradazione del vecchio PCI è stata distruttiva, nel senso che l’Italia è attualmente il paese che ha meno sinistra. Non so come è da te?
SH: Anche nella Serbia è così, ma per altri motivi.
PREVE: Ecco, lì si tratta di una elaborazione e di un superamento del lutto e dell’odio. Per ancora molti anni in Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia, Romania e Serbia non si potrà parlare del socialismo. Questo fatto è molto triste perché impedisce quello che psicologi chiamano l’elaborazione del lutto e l’elaborazione della coscienza. Tu non puoi a lungo espellere la prospettiva anti-capitalista per il fatto che essa è stata a suo tempo inquinata ed infangata dal sistema despotico del socialismo reale, che io attribuisco alla fondamentale incapacità d’egemonia della classe operaia proletaria, con tutto il rispetto per gli operai di fabbrica, per i contadini poveri e i lavoratori manuali (io ho grande disprezzo per gli atteggiamenti intellettualistici verso il lavoro manuale di chi pensa che, sapendo tedesco ed inglese, deve essere superiore); però dobbiamo constatare – usando il linguaggio di Gramsci – che i ceti popolari non sono mai riusciti ad avere un’egemonia sulla società, per cui hanno dovuto sostituire l’egemonia con il despotismo burocratico-militare. E questo fatto è imprevedibile in Hegel e Marx. Fermandosi alla lettera di Fichte, di Hegel e di Marx non può essere previsto, perché è un fenomeno che si fa strada alla fine del Ottocento e nei primi del Novecento, perché nei tempi di Hegel, ma secondo me anche di Marx, non c’era ancora una presenza sociologica dominante della classe operaia proletaria. C’era già la massa dei poveri contadini, che però non era visibile agli occhi del filosofo.

SH: Ritengo importantissima una interpretazione del fallimento del comunismo storico novecentesco a partire dal concetto di Sittlichkeit. Però tornando a Hegel (ribadendo di nuovo un “Ritorno a Hegel) secondo me è importante tenere un piano di lettura di Hegel su cui insisti anche tu, cioè la sintesi tra il piano trascendentale logico-ontologico e la prospettiva storica. Perché se diamo uno sguardo agli studiosi di Hegel, negli ultimi 150 anni sembra che si dividano in due gruppi: quelli che leggono la Fenomenologia dello Spirito senza la Logica, e quelli che leggono la Scienza della Logica senza Fenomenologia, mentre si tratta di leggerli insieme. Ed aggiungerei anche: leggere la Filosofia del diritto insieme alla Scienza della Logica.
PREVE: Ed ancora una volta sono totalmente d’accordo con questa impostazione. Se tu leggi Hegel senza Scienza della logica Hegel diventa uno storicista, e lo storicismo è l’anticamera del relativismo. Se invece tu leggi la Scienza della logica unicamente come sintesi di ontologia e logica, tu leggi Hegel in modo spinoziano come chi ha costruito una cattedrale puramente astratta che non ha nessun rapporto con il mondo reale, e sta in un mondo platonico-celeste. In realtà Hegel va letto insieme, sia come pensatore del processo storico di autocoscienza attraverso le figure della negazione, sia come pensatore che ha un robusto ancoraggio ontologico, come gli antichi greci e come Spinoza, diverso certamente, perché è dialettico e strutturato nella differenza tra essere, essenza e concetto. A questo punto Marx non è stato letto in maniera correttamente hegeliana, perché se si leggesse Marx in maniera hegeliana la produzione generale corrisponderebbe alla logica dell’essere, il capitalismo come la sua negazione alla logica dell’essenza, e l’autocoscienza comunista, intesa come autocoscienza etica della libertà, alla logica del concetto. In questa maniera Marx non fu letto neppure da Lenin, che pure si dichiarava ammiratore della Logica di Hegel, ma trascurava completamente l’aspetto idealistico, perché secondo me Lenin non capiva che il materialismo di Marx era metaforico, che il fondamento della filosofia di Marx non era la materia, ma la storia intesa come idea unificata del tempo.

SH: Ho dimenticato di dire che la tua “iniziazione” al pensiero hegeliano era avvenuta attraverso i corsi di Hyppolite che hai seguito a Parigi negli anni Sessanta.
PREVE: Io ho sempre pensato che Hyppolite avesse ragione. Solo che purtroppo in quel momento storico Hyppolite era un grande professore, ma non aveva nessuna influenza politica. Mentre invece Althusser, che secondo me capiva molto meno di Hegel ed aveva di Hegel una concezione completamente sbagliata, è riuscito ad intercettare il momento storico militante, il grande lavoro di Hyppolite tradotto in molte lingue è rimasto isolato.

Le figure antropologiche di Nietzsche: l’Übermensch e l’ultimo uomo
SH: Nietzsche è un altro filosofo cruciale per capire le contraddizioni e i limiti della Modernità. Nietzsche è spesso posto agli antipodi di Hegel, dove quest’ultimo rappresenta il culmine di una tradizione razionalista e idealista, mentre Nietzsche sarebbe l’inizio di una filosofia anti-metafisica che porta al postmoderno. Ma è davvero Nietzsche così opposto a Hegel, oppure questi due pensatori qualche volta sembrano molto più vicini di quanto si pensi?
PREVE: Allora, per poter rispondere a questa domanda bisogna vedere se per caso il problema a cui cercano di rispondere sia Hegel che Nietzsche sia un problema identico, o se non identico almeno omologo, oppure comparabile. Onestamente mi sembra di no. Perché mi sembra che Hegel affronti, in modo a mio parere corretto, i limiti dell’illuminismo e della filosofia kantiana senza respingerli completamente, e cerchi di assumere l’eredità greca interpretandola correttamente a partire da Platone ed Aristotele. Secondo me in Hegel c’è una corretta interpretazione sia dell’eredità greca, che in lui passa attraverso il filtro del cristianesimo (a differenza di Nietzsche che pensa che essa sia una decadenza), sia dell’illuminismo nella forma del suo elemento positivo di lotta contro il dispotismo dei gesuiti. Tra l’altro io non sono d’accordo con Hegel quando dice che c’è soltanto la filosofia greca, e respinge la filosofia cinese e indiana. Secondo me è un errore comprensibile nel 1820 ma oggi assolutamente intollerabile.
Nietzsche basa la sua diagnosi su alcuni equivoci fondamentali. In primo luogo vede Socrate come l’inizio della decadenza greca. E non dimentichiamo mai che Nietzsche non vede soltanto il cristianesimo come decadenza, come protesta dei poveri e malriusciti, come sublimazione dell’invidia. Questo dice apertamente e continuamente. E questo impedisce di avere del cristianesimo una visione dialettica, perché anche uno che non è credente come me, come filosofo cerca di interpretare l’evento cristiano in termini storico-dialettici, e non semplicemente come caduta nella decadenza.
Perciò Nietzsche respinge l’intera filosofia greca classica evocando una fondamentale sapienza greca, dionisiaca ed apollinea, che avrebbe preceduto il vero ruolo della filosofia, cosa che parzialmente fa Heidegger. Ora, questo è un mito d’origine, cioè un mito secondo il quale prima della filosofia greca che è già decadenza, ci sarebbe stato un momento precedente non decadente; secondo me tutto questo è completamente falso. Se poi pensiamo alla critica di Nietzsche della società borghese del suo tempo, essa è in buona parte profonda e riveltarice. Anche se non esagererei il carattere di originalità. La concezione del soggetto di Nietzsche c’era già in Hume come fascio di sensazioni e come polemica contro l’unità del soggetto che è il presupposto della filosofia di Cartesio, di Kant e di Hegel. Perciò la grande moda di Nietzsche, contrapposta a Hegel ed anche a Marx, rappresenta storicamente –a partire dagli anni Sessanta e Settanta del Novecento – un episodio di stanchezza degli intellettuali europei nei confronti dello storicismo ottimistico-marxista che essi avevano coltivato spesso contro voglia per 20-30 anni, e in cui hanno smesso di credere. È la loro delusione nei confronti della loro precedente illusione. Perché l’illusione diventa delusione e porta alla collusione, cioè la collusione con il potere. Spero che ciò sia traducibile in serbo.
SH: Però c’è un’altra figura nietzscheana che è quella dello Uebermensch. Mi interessa a questo punto la linea interpretativa Hegel-Marx-Nietzsche. E tra l’altro un abbinamento tra Hegel e Nietzsche si trova in Vattimo, almeno nel suo libro Il soggetto e la maschera, che comunque lui poi ha riveduto dicendo che era troppo aperto al pensiero dialettico. E in questo testo di Vattimo si trova l’idea che lo spirito assoluto si realizza con l’oltreuomo, cioè, l’oltreuomo nietzscheano sarebbe una sorta di figura antropologica che corrisponde per certi versi all’ontologia di Hegel. Perché entrambe le figure, antropologica in Nietzsche e ontologica in Hegel, secondo Vattimo rappresentano un punto finale di risoluzione del conflitto tra l’esistenza e il senso, che poi non è niente altro che quel conflitto che costituisce la coscienza infelice in Hegel.
PREVE: In primo luogo il termine tedesco Übermensch non può essere tradotto in italiano. È assolutamente intraducibile. Sia tradurlo come oltreuomo sia come superuomo è arbitrario. Nel momento in cui la parola tedesca Über può voler dire sia “sopra” che “oltre”, ogni traduzione è arbitraria. La cosa migliore è non tradurlo, segnalare e lasciare la parola in originale. Non so com’è in lingua serba, ma per l’italiano la penso così. Poi passando all’Übermensch, io credo che Nietzsche volesse dare un disegno antropologico della situazione contemporanea che deve essere paragonata a quello che lui chiama l’eremita, l’uomo superiore e l’ultimo uomo. Nel Così parlò Zarathustra Nietzsche fa una sorta di cartina, di mappa antropologica in cui sostiene il rapporto tra l’informazione e la morte di Dio. L’eremita è colui che abitando nelle montagne non è ancora informato della morte di Dio e pensa che Dio ci sia ancora. L’ultimo uomo è un uomo informatissimo della morte di Dio e che ne trae come conclusione e conseguenza che tutto è possibile. Allora, io credo che Nietzsche in un certo senso abbia presagito l’equivoco che poteva nascere nel Così parlò Zarathustra. E tutte le figure del nano, del serpente, danno luogo ad una sua consapevolezza dell’equivocità di quello che stava dicendo. Ed io ritengo che l’evocazione della figura dell’Übermensch fosse in certo senso una risposta preventiva ai fraintendimenti dell’Übermensch in termini di ultimo uomo.
Per quello che riguarda invece Hegel, io non sono convinto che in Hegel ci sia una fine antropologica della storia con inveramento del superamento integrale della coscienza infelice. Mi rendo conto che questa è soltanto una mia interpretazione. E non dimentico mai che la Scienza della Logica di Hegel non può mai realizzarsi una volta per tutte nella storia temporale, in quanto non c’è mai una sovrapposizione completa fra logica e storia. Così io vedo Hegel. Se ci fosse una sovrapposizione integrale fra logica e storia avremmo anche la fine della storia come un coperchio sopra una pentola. A questo punto potremmo interpretare l’ultimo capitolo della Fenomenologia come coronamento antropologico delle vicende della coscienza infelice, e lo spirito assoluto come luogo del coronamento antropologico. Io non sono affatto d’accordo.

SH: Sì, certo che non c’è un coronamento antropologico, ma sicuramente è una realizzazione ontologica, che poi non vuol dire necessariamente la chiusura, come spesso si interpreta.
PREVE: È tutt’un’altra storia. Secondo me lo spirito assoluto apre la storia. Sia nella forma dell’arte che della religione che della filosofia, lo spirito assoluto significa un rifiuto di chiudere il sistema. È il punto fondamentale. Se noi prendiamo il sistema di Hegel e lo chiudiamo, cadiamo in un equivoco grottesco che va contro lo spirito di Hegel. L’equivoco linguistico che Hegel ha lasciato quando morì è dovuto al suo eccesso di polemica contro Kant e Fichte, con il fatto che lui voleva ad ogni costo rompere con l’idea dell’epoca della compiuta peccaminosità fichtiana e rompere con quello che lui chiama la cattiva infinità in Kant. Secondo me Hegel fa bene a rompere con Kant, ma esagera un po’.
Poi, si è parlato molto di giovane Hegel alla fine degli anni Novanta nelle su varie fasi religiose, cristiane, anche la fase schelingiana, etc. Però, secondo la mia opinione, c’è una sopravalutazione del giovane Hegel. Il giovane Hegel secondo me non è molto interessante. Hegel comincia ad essere interessante nel 1803 con la sua rottura con Schelling e diventa veramente interessante con la Fenomenologia. Fatta questa premessa, che Hegel è veramente interessante dopo i 33 anni mentre il giovane Hegel è oggetto di tesi di laurea e di erudizione filosofico-biografica, ma secondo me non presenta un particolare interesse, darei un’interpretazione dell’interesse esagerato per il giovane Hegel. Tutta la corrente di pensiero alla Löwith vuole dire che Hegel non fa altro che secolarizzare l’escatologia cristiana. Allora, per poter sostenere questa tesi folle e per ridurre Hegel fondamentalmente a un burattino, bisogna ridurlo a quando aveva 26 anni, a quando era ancora invischiato fra l’interesse verso la grecità, l’interesse verso il cristianesimo: il che è vero, ma lo ha superato nel momento in cui individua nella filosofia il luogo di ricomposizione dell’intero scisso, dell’intero sociale spezzato. Soltanto quando Hegel capisce – e lo capisce intorno ai 33 anni – che la filosofia è il luogo privilegiato di ricomposizione dell’intero sociale, della comunità spezzata, e che il criticismo di Kant non è sufficiente perché è una metafisica di Verstand, Hegel diventa interessante.
Per tornare a Nietzsche, io credo che Nietzsche voglia una nuova antropologia. Sia il modo in cui considera i greci, sia il modo in cui considera i moderni mostra che egli è alla ricerca di un’antropologia dello Übermensch. Ora, il problema di Hegel non è antropologico, ma filosofico: il problema è quello della autocoscienza. L’ontologia correttamente intesa dà luogo automaticamante a una ricaduta che poi di fatto è anche antropologica, ma è sempre comunitaria. Nella misura in cui Nietzsche è un pensatore radicalmente anticomunitario e individualistico, finisce con l’arrivare alle stesse conclusioni di Locke e di Hume semplicemente in un linguaggio tragico. E per questo piace agli intellettuali postmoderni, perché dà loro una medicina per poter rompere con Hegel, Marx e la dialettica.

SH: Questa considerazione su Nietzsche come pensatore radicalmente individualista e come critico dei valori borghese-cristiani mi fa pensare all’ orizzonte culturale del Sessantotto. E non per caso dagli anni Settanta del Novecento abbiamo una rinascita dell’interesse per Nietzsche (Deleuze, Foucault in Francia, Vattimo e Cacciari in Italia etc.)
PREVE: Il Sessantotto è stato fondamentalmente una riforma radicale del costume antiborghese che si è pensato con falsa coscienza necessaria come anticapitalistico. Si creò un equivoco. I residui del pensiero borghese (tipo la famiglia) che erano quelli che sorreggevano la coscienza infelice nella sua ultima forma – che era la Scuola di Francoforte – furono completamente distrutti. Il Sessantotto non ha ucciso soltanto Lukács e Bloch, ma anche Adorno. È stata, diciamo così, un’apoteosi, una festa dell’individualismo, sebbene nella forma nuova. Non è più vecchio individualismo borghese razionalistico e positivistico, ma è l’immaginazione al potere, lo scatenamento del desiderio. Questo spiega perché la scuola di Deleuze, Guattari e Negri mette al posto del bisogno il desiderio. Invece Hegel è un filosofo del bisogno.

SH: Per dire il vero c’è anche la figura del desiderio nella Fenomenologia dello spirito come la prima figura dell’autocoscienza…
PREVE: É un’altra cosa. Il desiderio (Begierde) hegeliano è un momento dell’autocoscienza, il momento in cui essa si sviluppa. Il desiderio puro in quanto tale deve essere aufgehoben. Perciò non c’entra per nulla con il desiderio di Deleuze.

SH: Certo. Perché è la questione del soggetto ad essere in gioco. Il desiderio hegeliano è il momento costitutivo della soggettività, mentre negli autori francesi il desiderio è proprio quello che fa parte della dissoluzione del soggetto autoriflessivo.
PREVE: Direi che è questo e lo sottoscrivo.

Marx – pensatore epocale,
comunismo storico e comunismo come giudizio riflettente
SH: Perché Marx inattuale, citando il titolo di un tuo libro? Cosa è ancora vivo in Marx e cosa è invece ciò che bisogna rivedere, ripensare e ricostruire?
PREVE: Il titolo Marx inattuale non è un mio titolo, ma fu suggerito dalla casa editrice Bollati Boringhieri che voleva usare il termine nietzscheano “inattuale” per dire più che attuale. Secondo me questo è una sofisticazione intellettuale, e io avrei preferito un titolo più noioso, ma diverso. Fatto questo chiarimento, direi che Marx è un pensatore epocale. In quanto pensatore epocale lui è sempre attuale e sempre inattuale. Marx è entrato in quella sfera di pochissimi pensatori occidentali, tipo Platone, Aristotele, Spinoza etc. che non superano cinque-dieci. E perciò Marx sarà attuale anche fra 500 anni. Perché Marx è un pensatore dentro il quale si intrecciano due cose: si intreccia una filosofia idealistica della storia come luogo dell’emancipazione e del superamento dell’alienazione, ed una scienza sociale dei modi di produzione, la quale offre alla storia del passato e del presente uno schema interpretativo basato su alcuni concetti (modi di produzione, rapporti di produzione, forze produttive, ideologia etc.), paragonabile allo schema di Weber o di Durkheim, ma secondo me migliore. Marx è un pensatore che non ha mai smesso di essere attuale. Quando è crollato il socialismo reale sia in Russia che in Iugoslavia, e in Cina si è trasformato in modo confuciano in un capitalismo dirigistico di Stato, gli intellettuali hanno rotto con Marx dichiarando che Marx è morto. Ma gli intellettuali essendo una categoria parassitaria ogni vent’anni dichiarano i morti. E questo fa parte della riproduzione del gruppo intellettuale come tale. Io personalmente per quello che riguarda gli intellettuali sono d’accordo con Pierre Bourdieu che li considera un gruppo dominato della classe dominante, per cui fanno parte della classe dominante avendo un capitale intellettuale da vendere, ma all’interno di essa sono un gruppo dominato dal capitale finanziario e dai capitalisti. E pertanto sono un gruppo sociale. E che sia chiaro che quando parlo degli intellettuali non parlo della singola persona che utilizza il proprio intelletto. Gli intellettuali come gruppo sociale moderno nascono con l’Illuminismo. Prima del Settecento non esistevano. E come gruppo politico nascono alla fine Ottocento con il caso Dreyfus. Io non mi considero un intellettuale. Sono uno studioso che parla 6 lingue e ha scritto 30 libri, però personalmente non appartengo a questo gruppo sociale. In Italia questo gruppo si definisce prima di tutto dall’adesione alla dicotomia sinistra-destra, poi si definisce in base al codice d’accesso al politicamente corretto.
Dunque, Marx è un pensatore epocale e gli intellettuali europei in preda al complesso di colpa per avere sostenuto l’utopia comunista di fronte al suo crollo apparso negli anni Ottanta, hanno rifiutato Marx riscoprendo Nietzsche, Heidegger, Hume, Popper e così via. Pochi intellettuali si sono opposti. Ad esempio, Žižek. Che non è l’unico, ma comunque non fa ancora massa critica, cioè una massa sufficiente per poter spostare veramente le cose.
Poi, c’è un’esperienza importante degli anni Sessanta: io, negli anni Sessanta, come molti ragazzi francesi ed italiani avevo le fidanzatine nei paesi socialisti. E andavo in questi paesi. Per essere simpatico dicevo sempre “I am a communist” provocando le reazioni di sospetto e di disgusto. Perché nella mia intenzione comunismo voleva dire l’utopia hegeliano-marxiana, ma per loro voleva dire la spia della polizia e il burocrate. Poi dopo un po’ mi sono accorto che bisogna dire “I am Italian”, e improvvisamente si aprivano tutte le porte.

SH: Devo ammettere che questo codice per aprire le porte vale anche oggi, anche se non c’è più il comunismo all’Est. È sopravvissuto alle ideologie. Noi nella rivista avremmo anche una sezione dedicata ai testi contemporanei che riattualizzano l’idea di comunismo. I molti libri recenti, le conferenze i dibattiti pubblici indicano un risveglio dell’interesse per il pensiero comunista (il fenomeno è abbastanza comprensibile data la crisi del capitalismo). Ti chiedo che ne pensi e potrei aggiungere anche un’altra domanda che è il titolo di un testo di A. Negri: «é possibile essere comunisti senza Marx»?
PREVE: Risponderò prima all’ultima domanda e poi farò il mio bilancio storico del comunismo in quanto cittadino di un paese che non ha mai avuto il comunismo, ma soltanto una simulazione onirica del comunismo per cui erano chiamate comuniste le cooperative emiliane dell’Emilia-Romagna.
Si può essere comunisti senza Marx? È una domanda epocale. Io oserei dire di sì, ma è meglio essere comunisti con Marx perché Marx ci ha consegnato gli strumenti filosofici e scientifici di grande valore ancora attuali. Ma se proprio mi fai questa domanda in maniera brutale, risponderei di sì. È sufficiente la filosofia greca e lo spirito comunitario della filosofia greca. È chiaro che i greci non erano comunisti, però secondo me la filosofia greca classica nella variante di Platone e di Aristotele, e soprattutto dei presocratici che erano legislatori sociali, è sufficiente per il comunismo. Se poi il comunismo viene ridefinito attraverso la concezione hegeliana del comunitarismo, trascurando però l’analisi del plus-valore, pianificazione economica, etc., risponderei sì alla tua domanda. Ma è tuttavia meglio essere con Marx perché ci ha consegnato degli strumenti filosofici e scientifici inestimabili.
Poi, un conto è l’idea di comunismo e un conto è quello che io chiamo comunismo storico novecentesco. Il comunismo storico novecentesco è come la tomba con la data di nascita e di morte. È un fenomeno vissuto per 64 anni, nato nel 1917 e finito nel 1989 e di cui ancora resistono alcuni residui storici a Cuba, perché non c’è più né in Cina, né in Vietnam, né altrove. Come fenomeno finito ha espresso secondo me la volontà di liberazione di due classi povere, classe operaia di fabbrica e classe dei contadini poveri, che erano giustificati nel rivendicare il loro riconoscimento, per usare linguaggio hegeliano, ma che erano completamente incapaci d’egemonia e che hanno sostituito l’egemonia attraverso le figure dei capi carismatici come Tito, Stalin, Mao Tsetung e altri. Comunque figure temporanee come quella di Tito: la figura temporanea di antifascista, perché la legittimità della Iugoslavia si è basata quasi unicamente sull’antifascismo, e quando l’antifascismo è finito, improvvisamente Serbi, Croati, Sloveni e Macedoni hanno scoperto che sono diversi. Io continuo a pensare che la Iugoslavia era la soluzione migliore, cioè la meno peggiore, perché io considero le soluzioni migliori degli Stati multinazionali in cui le nazionalità sono intrecciate. Nei casi dove c’è la frontiera sicura come tra Francia e Italia, è facile fare una separazione, un divorzio, ma se popoli sono intrecciati come erano Serbi e Croati qualunque modo di separarvi era traumatico. Anche in Kosovo erano intrecciati Albanesi e Serbi. Poi, quando la Nato decise di bombardare la Serbia non lo fece per ragioni di giustizia, ma per ragioni geopolitiche, per insediare le basi americane. I serbi furono trasformati nel popolo balcanico selvaggio attraverso una campagna mediatica. Certo che c’erano i crimini della guerra, però non esistono i popoli malvagi. E questa è una vergogna dell’Occidente.
Per quanto riguarda l’idea di comunismo, io interpreto il comunismo in un modo che Marx ed Engels e Lenin avrebbero rifiutato, cioè il comunismo come un’ideale regolativo della ragion pura pratica, oppure il comunismo come giudizio riflettente e non determinante. Questo però verrebbe rifiutato da tutti i marxisti ufficiali del Novecento, sia quelli aderenti al materialismo dialettico sia quelli aderenti allo hegelo-marxismo di tipo lukacsiano. Un’altra opinione che io ho è che fra poco la gente sarà costretta a porsi il problema di comunismo, che non sarà più una questione di option. Penso che questo capitalismo finanziario sia talmente distruttivo anche se in questo momento non si vede ancora. Come dico l’orso ha ancora del grasso, e siccome ancora ha del grasso può andare in letargo, ma il letargo finisce quando il grasso finisce.

SH: Ad esempio, Slavoj Žižek dice che “comunismo” è piuttosto il nome di un problema, quando come oggi il bene comune sparisce nella privatizzazione totale.
PREVE: Non ho mai conosciuto Žižek, non l’ho mai visto, e personalmente non so qual è il motivo del suo successo: è una cosa a cui non so rispondere. Perché in generale tutti i pensatori anti-sistema vengono respinti dal mondo mediatico. Come sia possibile essere fuori sistema ed essere una star mediatica? Anche Chomsky lo è. E questa non è una critica. Se Žižek ha avuto questa fortuna ne sono contento, almeno dice cose importanti dentro lo spazio mediatico. Così noi abbiamo alcuni pensatori anticapitalisti che sono star. Non so perché, penso che alla nicchia del 2% di persone colte si possono lasciare Chomsky e Žižek. Mi ricordo di una frase di Althusser prima di morire: «Io sono famoso per la mia notorietà».

Althusser, Gramsci e il capitalismo aleatorio
SH: Siamo arrivati ad Althusser. Il tuo libro appena uscito, Lettera sull’Umanesimo, è dedicato ad Althusser. Potresti riassumere la tua posizione nei confronti di questo pensatore che tu hai conosciuto, diciamo così, alla nascita del suo pensiero negli anni Sessanta frequentando il circolo althusseriano?
PREVE: Dunque, io ero studente all’Università di Parigi negli anni Sessanta. Althusser non era professore ma bibliotecario all’École normale supérieure. Non ero suo allievo direttamente, ma sono stato amico di molti dei suoi allievi diretti, come E. Balibar, con cui siamo stati in rapporti di amicizia molto stretta. E poi, quando Althusser morì, ho partecipato al primo convegno fatto in lingua francese a Parigi dopo la sua morte che si chiamava Politique et theorie. Negli anni Sessanta ero indeciso fra Althusser e Hyppolite: cioè mi trovavo nella situazione dell’asino di Buridano tra due mucchi di fieno. Chiaramente questo è un paradosso e posso dirlo a distanza di 50 anni. Io ero attratto contemporaneamente dalla rivalutazione di Hegel fatta da Hyppolite (non dimentichiamo che i famosi saggi su Marx e Hegel furono pubblicati nel 1965 e sono contemporanei di Per Marx e Come leggere il Capitale), ed anche ero attratto dalla scientificità di Althusser e dalla critica della metafisica del soggetto. Ad un certo punto l’asino di Buridano ha dovuto decidere da quale parte andare. Il momento di verità per me è arrivato con la lettura di Lukács, della sua Ontologia dell’essere sociale, che nonostante non condivida in toto mi ha convinto fondamentalmente del rapporto organico tra Hegel e Marx. A questo punto ho smesso di essere althusseriano, ma smettere di esserlo non vuol dire buttare via tutti gli elementi razionali contenuti in Althusser.
Dunque, io ho scelto Hegel contro Althusser soltanto negli anni Ottanta. Ci sono arrivato a risolvere il mio problema soltanto negli anni Ottanta, quando mi è sembrato di capire che Althusser continuava ad avere una funzione storica molto positiva, perché secondo me la sua critica alla metafisica del soggetto, origine e fine continua ad essere intelligente, per cui non voglio buttarlo via completamente. Ma il suo rifiuto della dialettica e di Hegel secondo me è da respingere. Althusser definì quello di Hegel un Processo senza Soggetto. È una follia perché il soggetto in Hegel c’è, è l’Idea che diventa Spirito. Intanto Hegel rimprovera a Spinoza che non aveva pensato radicalmente la sostanza come soggetto. La mia impressione è che Althusser non sapesse quasi niente.

SH: Di Hegel …
PREVE: No, quasi niente di niente. Ma attenzione, non lo dico con disprezzo. Kant non sapeva quasi niente, leggeva solo i manuali. Kant conosceva Hume e Cartesio. Auguste Comte si vantava di non aver mai letto né Kant né Hegel. Per me per essere un filosofo creativo è utile ma non è necessario conoscere tutta la storia della filosofia, si può anche non conoscerla, fraintenderla ed essere creativi. Althusser non sapeva quasi niente. Non so cosa avesse letto. Ha letto Kojeve. Il suo Hegel passava attraverso Kojeve.
Da giovane Althusser era cattolico, fece anche dei pellegrinaggi cattolici a Roma nel 1948-49. E questo è molto importante; una delle cose che gli althusseriani nascondono di più. Esiste un libro di un certo Salvatore Azzaro che si chiama Althusser e la critica, che parla della gioventù cattolica di Althusser. E questo libro parla del fatto che Althusser fu prigioniero di guerra dal 1940-45, cominciò a mostrare in questo periodo alcuni sintomi di nevrosi, ad esempio accumulava tutta la mondizia sotto il lettino della camerata del campo di lavoro. Poi fu riportato in Francia, negli anni Quaranta era cattolico e faceva i pellegrinaggi a Roma. E solo negli anni Cinquanta diventò comunista. Secondo me questa origine cattolica sempre censurata spiega anche un certo stile teologico di Althusser. Quello che lui chiama l’intervento politico in filosofia è secondo me un intervento teologico in filosofia. Poi, la setta althusseriana attualmente è una setta universitaria priva di qualunque espressività politica. Cioè l’althusserismo politico è morto prima che Althusser morisse, già alla fine degli anni Settanta. Io ho letto i verbali dell’ultima conferenza che Althusser ha fatto in pubblico prima di strangolare la moglie, nella città di Terni. Anche essa rimossa dagli althusseriani. La voglio raccontare perché è fondamentale. Althusser arriva, si siede davanti a tutti gli intellettuali di sinistra che aspettavano il verbo del profeta, sposta tutti i libri dicendo «bisogna suonare senza spartiti»; poi si alza, va alla finestra dove nel cortile c’erano i ragazzini che giocavano a pallone felicissimi e dice: «Il socialismo è merda. Il comunismo è questo», indicando i bambini che giocavano. Dopo la merda avremo l’anarchismo sociale – ha detto così. Il mio libro su Althusser intitolato Lettera sull’Umanesimo, titolo che ho scelto apposta perché è un titolo di Heidegger, è una critica educata di Althusser in cui definisco il mio concetto filosofia-scienza-ideologia prima, e poi faccio una critica al materialismo aleatorio e all’ultimo Althusser. Una critica molto dura. E questo lo considero il mio congedo definitivo e completo dall’althusserismo. In questo libro io affermo che Althusser era arrivato al taoismo ed a una concezione puramente anarchica. E questo è interessante, perché poco prima della uccisione della moglie andò a trovare Althusser il filosofo italiano Lucio Colletti (prima marxista e poi berlusconiano), che fece un’intervista in cui dice: povero Althusser, è pazzo. Già questo è poco educato. «Mi sono accorto che era pazzo perché mi invitò in un piccolo ristorante vietnamita e mi disse: il più grande marxista del mondo è Toni Negri – dice Althusser», ma sempre secondo Colletti, non abbiamo un altro testimone. Io ho fatto molta attenzione sia all’intervista di Colletti che al discorso di Terni. Quando Althusser uccise la moglie scrisse una sua autobiografia che si chiama Il futuro dura a lungo. È un’autobiografia interessantissima, piena di menzogne, dove lui racconta che ha conosciuto De Gaulle, che non è vero. Tutta fantasia che rivela le sue angosce.
L’althusserismo come setta universitaria è finito; esistono ancora alcuni althusseriani, per esempio in Grecia dove ho alcuni amici althusseriani. Però la domanda che faccio io a te è cosa vuol dire oggi essere althusseriani. Negli anni Sessanta era chiaro cosa voleva dire: voleva dire contrapporsi all’umanesimo interclassista di Garaudy in favore di una radicalizzazione classista del marxismo. Chiunque ha vissuto quegli anni lo sa. Però visto che tutto ciò è finito 40 anni fa mi chiedo che cosa vuol dire oggi essere althusseriani, che significato abbia. Se il significato è “eliminazione del soggetto”, è frutto di fraintendimento. È vero che la sorte di un filosofo morto è di essere frainteso, perché quando il filosofo è morto non può più rispondere, per cui Kant non può polemizzare con i neokantiani e Marx non può polemizzare con Lenin e Stalin. Siccome ho vissuto quegli anni, so che il vero problema di Althusser non era criticare il soggetto ma criticare la Metafisica del soggetto, cioè criticare la metafisica del soggetto proletario inteso come sviluppo di un origine verso un fine. Al di fuori di questo contesto politico la critica della trilogia soggetto-origine-fine, la critica del soggetto non ha senso, diventa semplicemente un’altra cosa. Per criticare il soggetto occorre andare da Hume, Deleuze, etc., ma non da Althusser, che non c’entra niente.

SH: Se riprendiamo l’idea di Althusser su Marx come scopritore di un nuovo continente, potremmo dire che il compito del marxismo è teorizzare sul come abitare questo continente, come renderlo vivibile? E che questo lavoro non è ancora finito …?
PREVE: Non sono d’accordo con la metafora dello scopritore del continente Storia. Questa metafora è tratta da Cristoforo Colombo che è partito per andare in India e poi scoprì l’America senza sapere che c’era. La metafora di Marx come scopritore di un continente Storia è errata e scientistica.

SH: E tra l’altro appartiene al paradigma dello spazio da cui è partita la nostra conversazione.
PREVE: Non soltanto questo, ma c’è una ragione più profonda. La storia non è una scienza nel senso delle scienze della natura come chimica o fisica. E pertanto la storia è una disciplina per cui la parola scienza può soltanto essere usata metaforicamente. La conoscenza della storia vuol dire la conoscenza del passato, del presente e del futuro (dove il futuro rimane inconoscibile). E Marx pensava che fosse conoscibile attraverso il concetto di legge storica, cosa che oggi sappiamo che non è così. Per cui semplicemente respingo la metafora della scoperta di un continente, perché considero la storia una disciplina in cui sono intrecciati due elementi: filosofia della storia, di cui Marx non è scopritore ma sono scopritori Vico, Fichte e Hegel, e la scienza della storia dove l’apparato scientifico di Marx è un apparato provvisorio, utile, ma non è affatto detto che abbia scoperto un nuovo continente.

SH: E quando dici che il capitalismo è un incidente aleatorio, non è questo un “residuo althusseriano” nel tuo pensiero?
PREVE: La questione della nascita aleatoria del capitalismo io l’ho tratta non da Althusser ma da Robert Brenner. Brenner dice che a metà Settecento le condizioni che resero possibile il decollo (take off) capitalistico dell’Inghilterra di quei tempi, da non confondere con gli elementi borghesi già presenti prima nel Cinquecento e nel Seicento, furono largamente aleatorie, cioè il fatto che ci fosse una combinazione del commercio triangolare e del passaggio dell’agricoltura alla forma dello sfruttamento capitalistico (la teoria di Sweezy e di Dobb). Il capitalismo rappresenta nella storia umana non uno sbocco inevitabile di questa storia, ma un fenomeno largamente aleatorio che per certi versi è paragonabile al fatto che gli uomini abbiano vinto contro i neanderthal. Perciò, così come lo sviluppo dell’uomo sulla terra è un fenomeno largamente aleatorio, nello stesso modo lo sviluppo del capitalismo è largamente aleatorio.

SH: E questa tesi come si inserisce nel quadro del marxismo, avendo presente l’idea di necessità storica che era dominante?
PREVE: Quello che viene chiamato spesso marxismo non c’entra con Marx, perché è una formazione ideologica nata fra il 1875 e il 1895, di cui furono fondatori Kautsky e Engels. Essa è in realtà una forma di positivismo di sinistra che ha una teoria neokantiana della conoscenza, per cui se qualcuno mi chiedesse quale è il pensiero di Marx, direi: è un pensiero idealista non coerentizzato. Perciò c’è una filosofia della storia idealistica che è a fianco di una teoria sociale di modi di produzione che in quanto tale non è né materialista né idealista, ma è una teoria sociologica. Quello che viene chiamato Marxismo è una scena primaria come direbbe Freud. Secondo me la scena primaria del marxismo, che il marxismo non ha mai abbandonato, nasce in quel ventennio dal 1875 al 1895 e nasce per opera di Engels e Kautsky e io lo definirei come un positivismo di sinistra unito a una teoria gnoseologica del rispecchiamento prodotta di Friedrich Lange nella Storia del materialismo del 1866.
Ora, il marxismo non si è mai separato da questa scena primaria, ma l’ha mantenuta per 130 anni. Quando questa scena primaria è caduta con la fine dell’Urss e dei paesi socialisti, la comunità dei marxisti non ha avuto il coraggio di rompere con essa. Ad esempio, mantenere il materialismo come teoria del rispecchiamento, mantenere la teoria dei cinque stadi (che è una secolarizzazione marxista positivista della teoria borghese del progresso. È, come direbbe Lukács, “una storia spogliata dalla forma storica”, cioè una pseudo-storia). Tutto questo fondamentalmente nel linguaggio di Kuhn vuol dire che il vecchio paradigma scientifico non è abbandonato, ma si cerca soltanto di fare le aggiunte ad hoc e le eccezioni senza fare la rivoluzione scientifica. Ora, a mio parere, il marxismo tutt’ora non ha ancora avuto una rivoluzione scientifica a causa del conservatorismo dei gruppi universitari marxisti e dei gruppi militanti marxisti, però per ragioni diverse. Sia i gruppi universitari che hanno le principali riviste Historical materialism, Actuel Marx etc., sia i gruppi militanti (trozkisti, staliniani, maoisti e così via), non hanno osato fare un rivoluzione scientifica. Allora il primo passo di una rivoluzione scientifica è di dire che il capitalismo è nato in modo aleatorio. Non è l’unico ma è uno dei passi.
Per quanto riguarda “il residuo althusseriano” il fatto è questo: Althusser prima di morire ha scritto una storia della filosofia su base aleotoria, in cui lui parla di tradizione materialistica in filosofia, in cui mette dentro Heidegger, Rousseau, Epicuro, Machiavelli. Io la respingo completamente. Però considero intelligente la teoria dell’aleatorietà.

SH: A tal proposito mi vengono due riflessioni. La prima riguarda il modo in cui la tesi sull’aleatorietà e non necessità del capitalismo ci indica oggi di superarlo. Perché se un fenomeno è nato contingente, allora anche la sua vita non è necessaria e la sua morte diventa contingente. La seconda riflessione si basa sul fatto che la contingenza non deve escludere necessariamente la necessità, purché quest’ultima non si consideri come la necessità predestinata che deve per forza realizzarsi come se ci fosse un fato ineluttabile. In questo modo, prendendo l’esempio hegeliano, anche quando Cesare attraversava il Rubicone non è che lui era portato da una necessità superiore chiamata l’astuzia della ragione, ma il suo atto storico era contingente e la necessità viene dopo, retroattivamente; perché la necessità qua è piuttosto pensata come l’autoriflessione della contingenza stessa.
PREVE: Sono completamente d’accordo con questa definizione di necessità. Facciamo un esempio: se io studio come è nato il modo di produzione schiavistico in Grecia vedo che esso è nato in modo aleatorio e contingente, dovuto al fatto che nel Regno di Lidia, quello di Creso, davanti all’isola di Chio, cominciarono a fare delle monete (prima la Grecia non aveva le monete). A questo punto le monete passarono all’isola di Chio e poi all’isola Egina davanti ad Atene. E nel giro di 50 o 100 anni si creò una classe dei proprietari schiavistici. Fu infatti contro questa classe che Solone fece le sue leggi per impedire la messa in schiavitù per i motivi di debito. Questo è un tipico esempio di come il modo di produzione schiavistico, nato in modo completamente aleatorio e casuale, ha dato poi luogo a un fenomeno di necessità successiva. Per esempio, il feudalesimo europeo è nato in maniera completamente aleatoria per l’incontro fra Gefolhschaft dei Germani (il seguito militare armato del re) con il latifondo romano; l’incontro fra questi due elementi, aleatorio, ha dato luogo al modo di produzione feudale, che una volta messo in piedi è durato poi mille anni. Stessa cosa per il capitalismo. Il capitalismo è nato in modo aleatorio a metà Settecento, ma una volta innescato ha dato luogo a delle regolarità. Perciò la formulazione che hai dato tu, che la necessità è un’autoriflessione dialettica della contingenza, è assolutamente corretta.

SH: Più volte nelle tue risposte hai usato il linguaggio gramsciano. Allora, la mia impressione che può essere sbagliata e può sembrare sciocca perché fatta da uno straniero, è che il pensiero di Gramsci non è ancora affrontato giustamente. A parte tantissimi lavori, studi e articoli su Gramsci in Italia, mi sembra che la sua attualità oggi non sia riconosciuta sufficientemente. Possiamo dire alla Hegel che Gramsci è noto ma non conosciuto?
PREVE: Io personalmente sono ammiratore della figura di Gramsci e della sua filosofia mai sistematizzata e mai coerentizzata. Gramsci è stato usato e manipolato come ideologo di legittimazione del vecchio PC dal 1946 al 1990. Perciò si sono scritti migliaia dei libri su Gramsci soltanto per motivi opportunistici. Gramsci nel mondo anglosassone è diventato un teorico di quello che loro chiamano cultural studies, cioè uno studioso della cultura, e perciò alle università anglosassoni Gramsci non è più un intellettuale comunista, ma è semplicemente un grande teorico di cultura.

SH: Ma questo è un lavaggio ideologico di Gramsci e la sua riduzione.
PREVE: Certamente lo è. Ma c’è un motivo per cui Gramsci è stato censurato. Perché lui è filosoficamente un neoidealista, come erano anche Gentile e Croce, però comunista politicamente, per cui la cultura italiana che è una cultura drogata dalla politica centro-sinistra-destra, non è arrivata neppure a capire una cosa elementare: che uno può essere neoidelista hegeliano pur essendo fascista (Gentile), liberale (Croce) o comunista (Gramsci). Questa cosa è completamente incomprensibile per un intellettuale italiano medio drogato dalla politica.
Gramsci è scoperto, letto e tradotto in molte lingue, Gramsci è molto presente nell’America Latina (Argentina per esempio) e per quanto riguarda Italia devo dire, ma mi dispiace dirlo a uno straniero: l’Italia è un paese malato, è stato malato per 40 anni della contrapposizione Partito Comunista – Democrazia cristiana, e poi è stato malato per 20 anni della simulazione teatrale berlusconismo – antiberlusconismo, per cui sembrava che fare politica fosse soltanto lo svelare le puttane di Berlusconi oppure difendere la libertà contro gli orribili comunisti, nel frattempo spariti.

Italia di Berlusconi, Syriza in Grecia e gli orsi in letargo
SH: Sembra che nell’Italia sia più visibile quello che è una tendenza globale del capitalismo. É interessante che molti filosofi e teorici prendano l’esempio dell’Italia come un terreno per rintracciare i processi del capitalismo, cioè quello che può succedere anche negli altri paesi.
PREVE: Ad esempio Roberto Esposito

SH: Sì, ma già negli anni Ottanta e Novanta Baudrillard scriveva che l’Italia è un paese della simulazione gioiosa e della connivenza ironica dove non ci sono le leggi, ma le regole del gioco. Oggi Žižek dice che l’Italia è l’immagine del nostro futuro sinistro. Il suo messaggio è più o meno questo: se volete vedere il futuro autoritario del capitalismo, guardate l’Italia di Berlusconi.
PREVE: Secondo me è una sciocchezza. Tu chiedi questa cosa non ad un italiano, ma ad un italiano che si chiama Costanzo Preve. Io non sono portavoce di un’entità metafisica chiamata Italia, come tu non sei portavoce di un’entità chiamata Serbia. E nessuno lo è. La mia opinione è che gli intellettuali stranieri non conoscono l’Italia. Non conoscono l’Italia perché prima erano illusi ed ora sono tragici. Dunque, prima, negli anni Sessanta-Settanta, il PC italiano ha fatto una campagna propagandistica verso gli intellettuali europei dicendo “siamo i comunisti migliori del mondo” e “non abbiamo niente in comune con Russi, Cinesi etc. …”. Ma è una campagna totalmente illusoria, perché erano più corrotti degli altri. Basta vedere D’Alema, ex-comunista che ha fatto la guerra in Kosovo nel 1999. Gli intellettuali stranieri generalmente hanno dell’Italia un’immagine pittoresca: commedia dell’arte, la vita giocosa, Benigni, spaghetti, San Remo e così via. Questo stereotipo che io ho conosciuto molto in Francia e in Germania, è completamente falso, è una porcheria indegna. Per di più, gli Italiani amano pensare se stessi come un popolo buono, ma gli Italiani hanno fatto in Etiopia, Libia, Iugoslavia, Grecia stermini terribili, ma non vogliono saperlo e vogliono pensare di essere buoni a differenza dei Francesi e Inglesi che sono cattivi.
Gli intellettuali hanno creduto che l’arrivo di Berlusconi fosse l’arrivo di una forma del totalitarismo soft e una nuova forma del fascismo. Non è vero. Sono ovviamente contro Berlusconi. La vittoria di Berlusconi è stata la vittoria del vecchio bacino elettorale anti-PC che in Italia ha sempre avuto dal 50 al 60 per cento dei voti. Nel momento in cui i magistrati di Mani Pulite – che fu un colpo di Stato giudiziario ed extra-parlamentare – hanno arrestato l’intera classe politica del partito socialista, democristiano e così via, era rimasta unicamente la classe politica del PC pronta a prendere il potere regalato dai magistrati. Berlusconi, con i soldi e le televisioni, poteva concentrare i voti su se stesso. Però per 20 anni secondo me Berlusconi non è stato l’espressione di una nuova forma del fascismo mediatico e del populismo autoritario. Queste sono stupidaggini di chi non ha mai vissuto in Italia e di chi pensa che la Grecia è il Partenone e la Serbia è la slivovitza e basta. Il livello è questo. Cosa diresti se uno ti dicesse «Ah, i serbi sono quelli che bevono slivovitza»? Diresti che è un po’ più complicato. Berlusconi è una persona certamente abietta, ma non rappresenta a mio parere un nuovo populismo mediatico. In questo momento il governo Monti ha fatto quello che Berlusconi non avrebbe mai potuto fare. Oggi “il fascismo” in Italia è Monti. Se Berlusconi avesse detto: prolungo l’età pensionabile di 5 anni, taglio gli stipendi, licenziamenti etc… .avremmo avuto forse le manifestazioni come in Spagna. Invece, Berlusconi è stato messo in disparte perché non poteva farlo. Ecco il vero problema.

SH: Vuoi dire che il Governo Monti realizza tutto quello in cui Berlusconi forse non sarebbe stato efficace e avrebbe fallito.
PREVE: Sì, questa formulazione la accetto, ma non quella di prima.

SH: L’ultima volta quando abbiamo parlato si aspettavano le elezioni nella Grecia. E molte speranze erano rivolte al nuovo movimento-partito Syriza che tu hai apertamente appoggiato. Secondo me nella Grecia succedono cose di estrema importanza, e Syriza potrebbe essere un soggetto politico-modello anche per gli altri paesi.
PREVE: Io ho vissuto a lungo in Grecia, parlo perfettamente la lingua greca, per cui – pur essendo italiano – non sono del tutto straniero alla cultura greca. Per questa ragione la crisi della società greca e il suo impoverimento mi hanno colpito particolarmente. Ora, se io fossi stato greco avrei certamente votato Syriza senza alcun dubbio. Non avrei votato Partito Comunista greco, il quale ha messo come parola d’ordine: non credete in Syriza; è una cosa terribile. Però, fatto questo, il popolo greco ha trovato in Syriza secondo me un’illusione, cioè l’illusione di poter ricontrattare il suo rapporto con l’EU senza essere ridotto alla fame. Secondo me, questa è un’illusione. Syriza ha propugnato una via di mezzo: siamo nell’Euro, non usciamo dall’Euro, ma contrattiamo il nostro rapporto con la Germania e la Francia in modo che ci possano condonare o l’intero debito o una parte. Il popolo greco ha scelto Syriza giustamente. Non è un caso che gli intellettuali europei come Žižek e Balibar hanno appoggiato Syriza e Tsipras. Per cui gli intellettuali europei hanno trovato una speranza in Syriza perché non dice no alla Europa, ma sì però sulle altre basi.
I greci hanno paura di uscire dall’Euro perché la drahma ricorda ai greci la miseria e povertà. La soluzione del ritorno alla drahma non era popolare in Grecia. Ma Syriza è un’illusione che anch’io avrei votato…

SH: Ma non è l’orizzonte di speranza che possa esistere una società diversa proprio quello che bisogna mantenere come punto di partenza? Poi sul resto sicuramente possiamo discutere se è una soluzione o no …
PREVE: Se si vuole la speranza, allora Syriza è la speranza. Secondo me la crisi della Grecia è appena cominciata. E non è un caso che in Grecia si sia formato un partito nazista del 7%, Alba dorata, con dei teppisti in divisa, le mazze da baseball, che picchiano e massacrano gli immigrati. Ripeto, la Grecia è un orso senza grasso. E i giorni cattivi della Grecia ancora devono arrivare.

Torino, il 21 luglio 2012.

Già comparso sulla rivista Koiné   – Anno XIX  –  NN° 1-4  –  Gennaio-Dicembre 2012

Il testo di questa intervista è stato pubblicato anche in lingua serba nel terzo numero della rivista filosofica “Stvar” (Thing – Journal for Theoretical Practices) che esce a Novi Sad come pubblicazione del circolo filosofico “Gerusija” (http://gerusija.neru9.com/, http://tinyurl.com/74tdy37)

L’immagine:
Paul Klee, Ritmi rosso, verde e viola giallo, 1920.

Paul Klee, Ritmi rosso, verde e viola giallo, 1920

Alessandro Monchietto, Andrea Bulgarelli – RIVOLUZIONE NEOLIBERALE. PER UNA CRITICA CONSAPEVOLE

Tratti generali ed originali della prassi neoliberale
ed esempio tedesco

El Lisickij, Senza titolo (1919-1920)

Questo saggio è già stato pubblicato

sulla rivista «Indipendenza»

Logo_Indipendenza_modificaton. 37, luglio/agosto 2014

Tra le tante verità con cui la crisi ci costringe a fare i conti, una delle principali riguarda la forza delle idee, o meglio dell’ideologia.

La capacità di resistenza dell’ideologia dominante, la tenuta del “pensiero unico” si sono dimostrate tali che, persino entro la peggiore crisi del capitalismo dagli anni Trenta a oggi, tutti i luoghi comuni caratteristici di quella ideologia hanno continuato ad operare, fuori tempo massimo. La “razionalità dei mercati”, lo Stato “che deve dimagrire”, la “necessità” delle privatizzazioni, le liberalizzazioni come “toccasana per la crescita”, la “deregolamentazione del mercato del lavoro” come ingrediente essenziale contro la disoccupazione: praticamente nessuno di quei luoghi comuni, che proprio la crisi scoppiata nel 2007 si è incaricata di smentire clamorosamente, ci viene risparmiato.

Di slogan in slogan, di frase fatta in frase fatta, il distacco dalla realtà è aumentato sino a diventare patologico. Sino a far suggerire, come terapia per i nostri problemi economici, un potenziamento delle stesse misure che li avevano creati.

Il medico che ha peggiorato le condizioni del paziente incolpa il paziente dell’inefficacia della cura, e gli prescrive una dose maggiore. Mentre è evidente che il problema consiste in quelle misure e non in una loro maggiore o minore implementazione. Ovviamente, la soluzione sarebbe cambiare terapia. Ma per far questo ci si dovrebbe affrancare dal ricettario liberista.

L’attenzione rivolta alla sola ideologia del laissez faire ha distolto l’ordinaria critica antisistema dall’esame delle pratiche e dei dispositivi incoraggiati, o esercitati direttamente, dai governi. È stata la dimensione strategica delle politiche neoliberiste ad essere paradossalmente trascurata nella critica antiliberista standard, nella misura in cui tale dimensione strategica è inclusa in una “razionalità globale” che è passata inosservata.

Se infatti il liberismo classico faceva riferimento alla necessità per la politica di praticare nient’altro che un’astensione volta a favorire la spontaneità intrinseca ai processi economici, il neoliberalismo chiede alla politica (all’intera società) non tanto di star ferma, quanto di costruire artificialmente e attivamente le condizioni di possibilità affinché la dinamica economica possa fare il suo «corso naturale».

Non ci troviamo di fronte ad una semplice ritirata dello Stato, ma ad un rinnovato impegno politico dello Stato, fondato su nuove basi, nuovi metodi e nuovi obiettivi. Il politico pertanto, lungi dallo sparire sopraffatto dall’economico, diventa la posta in palio, il terreno di gioco della razionalità neoliberale.

 

Il segreto dell’arte del potere –diceva Bentham– è fare in modo che l’individuo persegua il proprio interesse come se fosse il suo dovere e viceversa. La strategia neoliberista – fedele a tale principio – consiste nel creare il numero maggiore possibile di situazioni di mercato, nell’organizzare tramite privatizzazioni, messa in concorrenza dei servizi pubblici, “mercatizzazione” di scuole, ospedali, ecc. l’“obbligo di scegliere”, affinché gli individui accettino la situazione di mercato come “realtà”, come unica “regola del gioco”.

La “libertà di scelta” si identifica con l’obbligo di obbedire a una condotta massimizzatrice, in un quadro legale, istituzionale, relazionale, che è costruito in modo tale che l’individuo scelga “in piena libertà” ciò che deve necessariamente scegliere nel proprio interesse.

Ogni soggetto è portato a considerarsi e a comportarsi in tutte le dimensioni della sua esistenza come un portatore di capitale da valorizzare: studi universitari a pagamento, costituzione di un fondo pensione individuale, acquisto dell’abitazione, investimenti a lungo termine in titoli di Borsa, sono tutti aspetti che hanno lentamente eroso le logiche della solidarietà.

Ciò che è stata chiamata “deregolamentazione”, un termine equivoco che potrebbe far pensare che il capitalismo non abbia più alcuna regolamentazione, non è in realtà altro che un nuovo ordinamento delle attività economiche, dei rapporti sociali e dei comportamenti. L’idea centrale di questo orientamento è che la libertà concessa agli attori privati che beneficiano di una maggiore conoscenza dello stato degli affari e del proprio interesse, sia sempre più efficace dell’intervento diretto e della regolazione pubblica.

Gli Stati hanno abbondantemente contribuito alla creazione di un ordine che li ha sottomessi a nuovi vincoli, che li ha portati a comprimere salari e spesa pubblica, a ridurre i “diritti acquisiti” giudicati troppo costosi, a indebolire i meccanismi di solidarietà, eccetera.

Il calo delle imposte sui redditi più elevati e sulle imprese è presentato come un modo di incentivare l’arricchimento e l’investimento. Riuscendo a far dimenticare che il calo dei prelievi obbligatori per gli uni aveva necessariamente una contropartita per gli altri, i governi neoliberisti hanno strumentalizzato i “buchi” scavati nei budget per denunciare il costo “esorbitante” e “insostenibile” della previdenza sociale e dei servizi pubblici. Il bilancio statale diviene così uno strumento di disciplina dei comportamenti.

Questo vincolo è stato impiegato come disciplina sociale e politica per scoraggiare, a causa dell’inflessibilità delle regole stabilite, qualsiasi politica che cercasse di dare la priorità all’occupazione, che volesse soddisfare le rivendicazioni salariali o rilanciare l’economia e la spesa pubblica.

Il meccanismo è semplice: i governi abbassano la tassazione e poi prendono in prestito da coloro che decidono di non tassare. Gli interessi sul debito rendono così possibile un trasferimento di ricchezza a vantaggio dei detentori dei titoli di debito.

 

Un gran numero di ricerche, rapporti, saggi, ecc. –finanziati da think tank di stampo liberal-conservatore– cercarono nel corso degli anni di effettuare un bilancio dei costi e dei vantaggi dello Stato, per concludere con un verdetto inappellabile: le indennità di disoccupazione e i redditi minimi sono responsabili della disoccupazione, il welfare sanitario approfondisce il deficit e provoca l’inflazione dei costi, la gratuità degli studi ne intacca la serietà e porta al nomadismo degli studenti, le politiche di redistribuzione del reddito non riducono le diseguaglianze ma scoraggiano gli sforzi, le politiche urbane non hanno messo fine alla segregazione ma hanno appesantito la fiscalità locale.

Si tratta di porre in tutti i campi il quesito dell’utilità dell’interferenza statale nell’ordine del mercato, e di dimostrare che, nella gran parte dei casi, le soluzioni apportate dallo Stato creano più problemi di quanti non ne risolvono.

Ma la questione del costo dello stato sociale non si limita affatto alla sola dimensione contabile. Secondo molti polemisti, è sul terreno morale che l’azione pubblica può avere gli effetti peggiori. Lo Stato previdenziale ha deresponsabilizzato gli individui e li ha dissuasi dal cercare lavoro, dal terminare gli studi, dal prendersi cura dei propri figli, dal premunirsi contro le malattie dovute a pratiche nocive. Il rimedio consiste dunque nel mettere in moto meccanismi del calcolo economico individuale in tutti i campi e a tutti i livelli, ed il bilancio statale diviene uno strumento di disciplina dei comportamenti.

Il fatto è che l’intervento dello Stato previdenziale si basa su una concezione dell’individuo come “creazione dell’ambiente [ed esso non deve di conseguenza] essere ritenut[o] responsabile per il [suo] comportamento”(1). Si deve rovesciare questa rappresentazione e considerare l’individuo come pienamente responsabile.

Se l’individuo è il solo responsabile della propria sorte, la società non gli deve nulla. La vita è una costante “gestione dei rischi” che richiede una rigorosa astensione dalle pratiche pericolose, il controllo permanente di sé, una regolazione dei propri comportamenti che combini ascetismo e flessibilità.

La parola d’ordine della società del rischio è “autoregolazione”. Si devono sensibilizzare i malati, gli scolari e le loro famiglie, gli studenti, gli individui in cerca di occupazione, sobbarcandoli di una parte sempre crescente del “costo” che rappresentano.

La vita si presenta unicamente come risultato di scelte individuali. L’obeso, il delinquente o il cattivo scolaro sono responsabili della propria sorte. La malattia, la disoccupazione, il fallimento scolastico e l’esclusione sono considerati conseguenze di “calcoli sbagliati”.

Tali problematiche confluiscono in una visione contabile dei capitali che ognuno accumulerebbe e gestirebbe per tutto il corso della vita. Le difficoltà dell’esistenza, l’infelicità, la malattia e la miseria sono fallimenti di questa gestione, per difetto di lungimiranza, prudenza, risolutezza di fronte ai rischi.

Da qui il lavoro di “pedagogia” che va intrapreso perché ciascuno si consideri in possesso di un “capitale umano” da far fruttificare; da qui la messa in atto di dispositivi destinati ad “attivare” gli individui obbligandoli a prendersi cura di sé, a educarsi, a trovare un lavoro.

La caratteristica del neoliberismo è proprio quella di pensare il modello della razionalità economica come solo parametro possibile con cui interpretare tutte le dimensioni dell’esistenza umana. Gary Becker –Chicago boy divenuto Nobel per l’economia nel 1992– fu premiato precisamente per aver esteso l’analisi della microeconomia anche a quegli ambiti di comportamento che non rientrano nella logica di mercato (al non-economico potremmo dire).

Costui scrive: «Ogni condotta che accetta la realtà, è soggetta alla razionalità economica»2. Ogni condotta che accetta la realtà vuol dire ogni condotta che non sia follia: in altri termini, se non siete matti, la logica dei vostri atti rientra –e deve rientrare– nella razionalità economica.

 

La strategia neoliberista è consistita e consiste tuttora nell’orientare sistematicamente la condotta degli individui come se fossero sempre e dappertutto impegnati in relazioni di transazione e concorrenza su un mercato. Le misure di “responsabilizzazione” dei soggetti non sono tuttavia state esclusivo appannaggio dei governi conservatori o dei partigiani della “libertà dei mercati” alla Friedman-Becker. Hanno trovato alcuni dei migliori difensori nella sinistra europea, come prova la famigerata Agenda 2010 del cancelliere tedesco Gerhard Schroeder.

Per fare un esempio, la politica occupazionale portata avanti dall’allora ministro socialista Peter Hartz stabilì che l’aiuto dello Stato ai richiedenti impiego è strettamente condizionato alla loro docilità nell’accettare i lavori proposti. Secondo tale prospettiva la disoccupazione non sarebbe altro che un’inclinazione dell’agente economico all’ozio quando quest’ultimo è sovvenzionato dalla collettività, e sarebbe dunque “volontaria”.

L’indennizzo dei disoccupati non farebbe altro che creare “trappole del welfare”. La soluzione proposta non fu tuttavia sopprimere qualsiasi assistenza ai disoccupati, ma di fare in modo che l’aiuto conducesse ad una maggiore docilità dei lavoratori privi d’impiego.

Tali politiche mirano ad “attivare” il mercato del lavoro (penalizzando il lavoratore disoccupato) affinché costui sia incoraggiato a ritrovare un lavoro il più presto possibile, senza potersi accontentare troppo a lungo degli aiuti ricevuti.

 

L’individuo “in cerca di impiego” deve diventare soggetto-attore della propria impiegabilità, un self-entreprising che si prende carico di se stesso, ed i diritti alla previdenza divengono sempre più subordinati a dispositivi d’incentivazione e di penalizzazione (3).

Non si tratta più, come nel welfarismo, di ridistribuire i beni secondo un certo regime di diritti universali alla vita, ovvero sanità, istruzione, integrazione sociale e partecipazione politica. La lotta alle disuguaglianze, che era centrale nel vecchio progetto socialdemocratico, è stata rimpiazzata dalla “lotta alla povertà”, secondo un’ideologia dell’“equità” e della “responsabilità individuale” teorizzata ad esempio da alcuni intellettuali della “nuova sinistra” europea capeggiati dal blairiano Anthony Giddens.

Il programma politico neoliberista di Margaret Thatcher e Ronald Reagan all’inizio si presentò come un insieme di risposte ad una situazione giudicata “ingestibile”. Questa dimensione è perfettamente evidente nel rapporto della Commissione Trilaterale intitolato The Crisis of Democracy (4), un documento chiave che testimonia la coscienza dell’“ingovernabilità” delle democrazie.

La caratteristica prima del blairismo fu la ripresa dell’eredità thatcheriana, considerata non come una politica da invertire, ma come un fatto acquisito.

La missione che si attribuì il New labour fu portare risposte di centro-sinistra nel nuovo quadro imposto dal neoliberismo, considerato come un dato irreversibile. La parola chiave di tale linea politica era l’adattamento degli individui alla nuova realtà, piuttosto che la loro protezione contro gli azzardi di un capitalismo mondializzato e finanziarizzato. La politica della sinistra moderna dovrebbe aiutare gli individui ad aiutarsi da sé, ovvero a “cavarsela” in una competizione generale che non è mai messa in discussione in quanto tale.

 

Il neoliberismo, dal momento che ispira politiche concrete, nega di essere ideologia perché è la ragione stessa. È così che politiche molto simili fra loro possono adattarsi al modello delle retoriche più disparate, manifestando in questo modo la loro estrema elasticità. Vediamo così una delle cause del completo crollo dottrinale della sinistra nel corso degli ultimi anni. Se si ammette che i dispositivi pratici della gestione neoliberista siano i soli efficaci, se non i soli praticabili (e in ogni caso gli unici che si possono immaginare), si capisce come risulti impossibile opporsi ai princìpi che ne costituiscono il fondamento, o mettere effettivamente in discussione i risultati a cui conducono.

Non resta che la logica della persuasione retorica, ovvero denunciare a voce alta quello che a bassa voce si accetta.

 

Se le cose stanno così, come si spiega l’assenza di movimenti di protesta significativi? Il motivo dell’assenza di reazione, come recitava un articolo del Financial Times di qualche anno fa, va ricercata nel fatto che «il tenore di vita delle persone con redditi medio-bassi ha cominciato ad essere almeno in parte sganciato dall’andamento del reddito da lavoro» (5). Il risultato era la quadratura del cerchio, il sogno di ogni capitalista: un lavoratore che vede diminuire il proprio salario, ma che nonostante questo consuma come (e a volte più) di prima.

Per decenni, la risposta al pericolo della stagnazione economica è stata rappresentata dalla crescita del debito e della finanza. L’esplosione della finanza e del credito ha infatti svolto una triplice funzione:

1) mitigare le conseguenze della riduzione dei redditi da lavoro sui consumi;

2) puntellare i settori industriali afflitti da un eccesso di capacità produttiva;

3) fornire alternative più redditizie rispetto agli investimenti nel settore manifatturiero (6).

Da questo punto di vista, la finanza non è la malattia, ma il sintomo della malattia e al tempo stesso la droga che ha permesso di non avvertirla (e che quindi l’ha cronicizzata).

 

Tutte le politiche economiche e sociali hanno integrato come dimensione principale quest’adattamento alla globalizzazione, cercando di aumentare la reattività delle imprese, di diminuire la pressione fiscale sui redditi da capitale e sui gruppi privilegiati, di disciplinare la manodopera, di abbassare il costo del lavoro ed aumentare la produttività.

I dirigenti dei governi e degli organismi internazionali potranno così sostenere che la globalizzazione è “fatale” pur aprendosi continuamente alla creazione di questa presunta fatalità.

Si assiste così ad un ribaltamento completo della critica sociale: se fino agli anni Settanta la disoccupazione, le diseguaglianze sociali, l’inflazione, l’alienazione, tutte le “patologie sociali” erano messe in relazione con il capitalismo, dagli anni Ottanta sono ormai attribuite sistematicamente allo Stato.

Al contempo attori e oggetti della concorrenza mondiale, gli Stati sono sempre più soggetti alla ferrea legge di una dinamica della globalizzazione che in larga parte sfugge al loro controllo. La lotta contro l’inflazione diviene così la priorità delle politiche, mentre il tasso di disoccupazione si trasforma in semplice “variabile di aggiustamento”. Qualunque lotta per la piena occupazione viene perfino sospettata d’essere un fattore passeggero di inflazione.

La teoria friedmaniana del “tasso di disoccupazione naturale” viene largamente accettata dai responsabili politici di ogni colore.

 

Per chiarire la natura originale e rivoluzionaria del neoliberismo è utile analizzare un concreto caso, particolarmente significativo sia per la sua “purezza” paradigmatica che per la sua attualità: l’economia sociale di mercato. Questa espressione ricorre frequentemente nel dibattito politico odierno, di solito senza nessuna contestualizzazione storica e ideologica.

Spesso infatti la si utilizza in senso generico, per designare un ipotetico modello sociale a metà strada tra laissez-faire liberista e interventismo statalistico. Insomma, una “buona via di mezzo” che salvaguarda sia i meccanismi virtuosi del mercato sia le garanzie sociali del tradizionale Welfare State. Da questo punto di vista schierarsi a favore dell’economia sociale di mercato sembrerebbe quasi una questione di buon senso, cui sarebbero estranei solo i fondamentalisti del liberismo più anarchico e quelli della pianificazione spinta.

Ecco allora che una formula apparentemente vaga e “neutra” finisce addirittura nel Trattato di Lisbona, secondo il quale «lo sviluppo sostenibile dell’Europa» deve essere «basato (…) su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva» (7). Dal canto loro numerosi politici di tutti gli schieramenti hanno espresso la loro preferenza per questo modello; ad esempio Mario Monti è noto per esserne un convinto sostenitore, come ha avuto modo di ribadire in più occasioni (8).

 

In realtà le cose non sono così semplici. «Economia sociale di mercato» è un’espressione tecnica molto precisa, che designa le politiche neoliberiste varate in Germania a partire dall’immediato dopoguerra. A renderla celebre è infatti Ludwig Erhart, ministro dell’economia tedesco dal 1949 al 1963 nonché cancelliere dal 1960 al 1963 ed artefice, vero o presunto, del “miracolo economico tedesco” nella Repubblica federale di questi anni. Tuttavia, come vedremo, essa non è comparsa magicamente dal nulla, ma nasce nel contesto di una specifica corrente di pensiero, il cosiddetto ordoliberalismo.

Sorto intorno alla rivista Ordo nella Germania degli anni Trenta, l’ordoliberalismo è spesso usato come sinonimo di “Scuola di Friburgo”, la fucina del pensiero neoliberale tedesco. Sono inclusi in questa tendenza culturale economisti e filosofi quali Walter Eucken, Franz Böhm, Leonhard Miksch, Hans Großmann-Doerth e Wilhelm Röpke. Röpke e Eucken furono anche consiglieri personali di Ludwig Erhart, il quale rimase profondamente influenzato dal loro pensiero, tanto da essere a volte annoverato lui stesso tra gli ordoliberali.

Dunque è possibile parlare di una dottrina neoliberista tedesca, sebbene il neoliberismo sia tradizionalmente associato alla Scuola di Chicago e a quella di Vienna. Anzi, secondo il Michel Foucault delle splendide lezioni poi confluite nel volume Nascita della biopolitica (vedi bibliografia), l’ordoliberalismo esprime le caratteristiche peculiari del neoliberalismo ancor meglio del suo corrispettivo anglosassone, che per ragioni storiche conserva molti tratti del liberalismo classico. In ogni caso le due correnti si sono influenzate a vicenda, e si attribuisce a Friedrich von Hayek e a Ludwig von Mises il merito di avere agito da “ponte”. La teoria ordoliberale ha avuto in impatto decisivo sulle politiche economiche del dopoguerra, cedendo però il passo di fronte al fascino dello Stato “keynesiano” negli anni Sessanta. È solo con la svolta degli anni Ottanta che il neoliberalismo tedesco ha recuperato il suo antico prestigio, tanto da far parlare alcuni commentatori di “ombra lunga” dell’ordoliberalismo sulla gestione della crisi dell’eurozona da parte della Germania.

Nonostante la varietà di posizioni espresse dagli ordoliberali, possiamo individuare un nocciolo duro ricorrente, che per comodità sintetizziamo in tre punti:

1) Riduzione di tutti i possibili modelli socio-economici a due paradigmi fondamentali, quello basato sulla libera concorrenza e quello basato sulla pianificazione.

2) Necessità di preservare il regime di libera concorrenza attraverso opportune “politiche di cornice” da parte dello Stato.

3) Centralità della responsabilità individuale e dell’azienda nello sviluppo armonico della società.

Di seguito analizzeremo ognuno di questi tre punti.

La riflessione degli ordoliberali prende le mosse dalla storia recente del loro Paese e dell’Occidente in generale. Pur essendo inflessibili sostenitori del libero mercato quale unico ordinamento economico razionale, i neoliberali tedeschi degli anni Trenta devono prendere atto che la linea liberale non ha riscosso molto successo, soprattutto in Germania. A partire dalla seconda metà del XIX secolo si sono susseguiti una serie di modelli economici fondati sull’ingerenza sistematica dell’apparato statale nella sfera economica: il “socialismo” di Stato bismarkiano, l’economia centralizzata di guerra nel periodo 1914-1918, la social-democrazia e infine la dittatura nazional-socialista. Come se non bastasse, con il passare del tempo nei Paesi limitrofi alla Germania hanno preso volto due nuovi nemici: il comunismo sovietico e lo Stato assistenziale “keynesiano”.

Secondo gli ordoliberali esiste una costante che accomuna tutte le forme politico-sociali elencate: la pianificazione, ovvero l’intervento dello Stato nell’economia. Gli esiti nefasti di una simile “invasione di campo” sono la fissazione arbitraria dei prezzi, l’inflazione, la sottomissione della libera attività economica ai capricci di un apparato burocratico soffocante, la trasformazione del cittadino in suddito e così via; in una parola, la pianificazione uccide la vita materiale e spirituale della società, e per questo si configura come una vera e propria forma di totalitarismo. Si badi bene, questa diagnosi si applica a tutte le forme di pianificazione, tanto allo Stato democratico assistenziale quanto allo Stato-partito nazista o comunista. Le rispettive differenze sono secondarie. La radicalità di questa lettura arriva al paradosso di identificare i provvedimenti di Welfare del piano Beveridge con l’anticamera dell’autoritarismo e perfino del nazismo [9], dal momento che secondo gli ordoliberali il totalitarismo hitleriano è stato un effetto delle precedenti politiche “socialiste” della guerra 1914-1918 e della Repubblica di Weimar [10].

Fin qui, la “statofobia” ordoliberale non sembra scostarsi molto da quella comune a tutta la tradizione liberale. In realtà i dottrinari tedeschi giungono a conclusioni originali.

Innanzitutto sganciano la categoria di libero mercato da quella di capitalismo. Il libero mercato di per sé coincide con i meccanismi della concorrenza e non con un particolare tipo di società. Ispirandosi al pensiero di Max Weber gli ordoliberali sottolineano l’influenza determinante dell’“ambiente” culturale, politico, sociale sui meccanismi economici. Se l’“ambiente” non è adeguato, i meccanismi del libero mercato finiscono per essere distorti o neutralizzati. Questo non vale solo per per il “totalitarismo” della pianificazione, ma perfino per il “capitalismo”, che nella particolare accezione ordoliberale non è il marxiano “modo di produzione capitalistico”, ma solo una società di mercato degenerata. Il «capitalismo non è altro che quella forma guasta e arrugginita che l’economia di mercato ha assunto nella storia economica degli ultimi cent’anni» [11]. I suoi tratti fondamentali sono la formazione di monopoli privati in stretta alleanza con la burocrazia statale, la standardizzazione del consumo e della produzione, la “massificazione”, l’assorbimento del libero individuo in gigantesche compagini anonime, tutte caratteristiche che non a caso richiamano le società pianificate. Per inciso un simile “anti-capitalismo” neoliberista non è privo di importanti conseguenze ideologiche.

La degenerazione della società di mercato non va però attribuita ai meccanismi economici della libera concorrenza, che di per sé sono oggettivi, neutrali e quindi privi di contraddizioni di qualsiasi tipo. La colpa va attribuita piuttosto alla mancanza di adeguate politiche che intervengano sul contesto sociale in cui il libero mercato è incastonato.

Ecco allora in cosa risiede la peculiarità dell’ordoliberalismo, ed in generale del neoliberalismo, rispetto al liberalismo classico: la presa di coscienza che, senza un intervento attivo dello Stato, la logica della concorrenza e del mercato non può plasmare la società a propria immagine e somiglianza. L’efficacia del semplice laissez-faire è stata smentita dalla storia recente dell’Europa e riproporlo sarebbe una ingenuità. Questo perché le leggi della concorrenza non sono un “dato di fatto” che basterebbe assecondare, bensì un principio formale “ideale” che bisogna sforzarsi di raggiungere, sebbene non sia possibile realizzarlo nella sua purezza. In che modo?

 

La nozione di “politica di cornice” è una diretta conseguenza del rapporto che si instaura tra economia e “cornice” sociale. Infatti è proprio attraverso questo concetto che esso intende superare la contraddizione tra “statofobia” e consapevolezza che senza l’apporto attivo dello Stato ogni progetto liberale è destinato a fallire. Ecco allora che lo Stato liberale non dovrà adottare politiche qualsiasi, ma solo quelle che intervengono sul “quadro” della società senza alterare i meccanismi della concorrenza, che sono il vero fulcro del libero mercato, molto più dello scambio mercantile.

Quale è la differenza tra un intervento “buono” (di cornice) e uno “cattivo” (di pianificazione economica)? Come spiega Hayek [12] (ancora una volta in completa sintonia con i neoliberali tedeschi), un piano economico ha una finalità, ad esempio la potenza nazionale, il soddisfacimento di determinati bisogni ritenuti essenziali, eccetera; al contrario una politica liberale si limiterà a definire un quadro puramente formale, all’interno del quale gli attori della competizione economica possono muoversi liberamente, decidendo in autonomia quale priorità vogliono porsi o quali bisogni vogliono soddisfare.

Quando auspicano un simile ordinamento sociale, gli ordoliberali si situano nella tradizione tedesca del Rechtsstaat, che potremmo tradurre con “Stato di diritto”, in contrapposizione al Polizeistaat, lo “Stato di polizia”. In senso stretto lo Stato di diritto è quell’ordinamento istituzionale che prevede la separazione tra intervento legislativo e intervento amministrativo, dove cioè esiste una differenza tra le leggi, che sono universalmente valide, e le decisioni particolari della potenza pubblica, che invece sono legittime solo se si inscrivono nel quadro formale delle leggi. Gli ordoliberali si propongono di applicare il concetto di Rechtsstaat all’economia, stabilendo che gli interventi statali nell’economia potranno consistere solo nell’introduzione di princìpi formali. In una simile visione la dimensione giuridica assume un ruolo fondamentale e infatti Röpke scrive che «è opportuno fare dei tribunali (…) gli organi dell’economia» [13].

Gli interventi statali quindi dovranno necessariamente prendere la forma di leggi e non dovranno porsi altri fini se non l’adeguamento del quadro sociale al principio della concorrenza, che a sua volta è un principio formale e non un contenuto. Concretamente questi interventi di cornice alternano obiettivi cari alla tradizione liberale classica (ad esempio la stabilità monetaria) e misure che da allora sono diventate il “cavallo di battaglia” del neoliberalismo tedesco, in particolare la lotta ai monopoli e ai cartelli, ed in generale la regolazione della concorrenza. Un altro esempio molto importante, la previdenza sociale, sarà trattato nel prossimo punto.

Il taglio giuridico adottato dall’ordoliberalismo rischia di creare due malintesi. Il primo porterebbe a pensare che il “Rechtsstaat economico” sia sostanzialmente uno Stato che “interviene poco” in contrapposizione ad uno Stato che “interviene troppo”. In realtà la differenza tra ordinamento neoliberale e pianificazione è di carattere qualitativo e non quantitativo. Anzi, a conti fatti, lo Stato liberale potrebbe rivelarsi perfino più interventista di quello “totalitario”. Questo perché «più la legge lascerà gli individui liberi di comportarsi come vogliono (…) più, nello stesso tempo, le superfici di frizione tra queste diverse unità si moltiplicheranno (…) e più aumenteranno le occasioni di conflitto. (…) Di conseguenza, quanto più i soggetti economici saranno liberi (…) tanto più si moltiplicheranno inevitabilmente i giudici» [14]. Man mano che la logica concorrenziale si estende a tutti gli ambiti della società, lo Stato dovrà aumentare il suo intervento regolativo.

In secondo luogo non bisogna pensare che il progetto ordoliberale sia “neutro”, puramente formale. Al contrario esso punta a stabilire un preciso tipo di società, che trova nella centralità dell’individuo e nell’impresa la sua ragione d’essere.

 

In accordo con la tradizione liberale classica, l’ordoliberalismo individua nell’autonomia dell’individuo la sorgente e la meta di ogni politica responsabile ed avversa ogni forma di assistenzialismo proprio in quanto sostituirebbe la sua responsabilità con la mano di uno Stato-provvidenza. L’argomento è già stato affrontato esaustivamente nei paragrafi 7 e 8, e qui si vuole solo sottolineare in che modo si inserisce nel progetto complessivo del neoliberalismo tedesco.

In Germania la previdenza sociale è un tema caldo già negli anni Cinquanta, quando il notevole livello di benessere raggiunto fa domandare a molti se non sia possibile costruire un sistema di protezioni esteso a tutti i cittadini. Gli ordoliberali, con in testa Ludwig Erhard [15] (allora ministro dell’economia), si opposero fermamente a questa ipotesi, ammettendo però contemporaneamente che un certo livello di protezione era necessario. La loro posizione è sintetizzata nella formula di “politica sociale individuale”.

Se si parte dal presupposto che ogni cittadino è chiamato ad essere un imprenditore, anzi una vera e propria azienda, allora è chiaro che lo Stato non può sostituirsi al cittadino-impresa nella gestione della sua vita e dei relativi rischi (infortuni, malattia, vecchiaia…). Tuttavia non si può ignorare che l’attività economica comporta una serie di incognite (prime tra tutte il licenziamento o il fallimento) verso le quali anche l’individuo più lungimirante potrebbe non essere tutelato. Il timore verso queste incognite minaccia di scoraggiare i cittadini comuni, non dotati di capitali o risorse eccezionali, a partecipare al gioco economico, a essere loro stessi “aziende” sul mercato; al limite il sistema della libera concorrenza potrebbe perfino incepparsi per mancanza di partecipanti. Quindi lo Stato è chiamato a soccorrere l’individuo-azienda, non per garantire il suo benessere, compito questo che non gli spetta, ma unicamente per spingerlo a rientrare nell’arena della concorrenza il prima possibile. In altre parole il fattore “sociale” è rigorosamente subordinato ad obiettivi economici: siamo sempre nell’ambito della “politica di cornice”.

Al contrario delle forme più unilaterali di liberalismo, i pensatori della Scuola di Friburgo si sono sforzati di valorizzare la dimensione comunitaria della natura umana, ritenendola compatibile con la loro visione generale della società. Gli ordoliberali attaccano l’atomizzazione egoistica come sintomo del “capitalismo” (ovvero della società di mercato degenerata) ed auspicano una società organica, dove lo spazio tra l’individuo e il mercato e lo Stato sia occupato da una serie di corpi intermedi: la famiglia, il quartiere, la regione e, soprattutto, l’azienda. Infatti l’individuo trova la sua realizzazione proprio nell’azienda, l’istituzione che meglio di ogni altra condivide i suoi valori e le sue finalità: autonomia, intraprendenza, libera iniziativa.

La società ideale degli ordoliberali è caratterizzata da una imprenditorialità diffusa a tutti i livelli, senza che l’onnipresente principio della concorrenza ne vada ad intaccare l’armonia. Le loro simpatie vanno all’azienda di dimensioni medio-piccole piuttosto che ai “colossi” del capitalismo degenerato, ai centri urbani decentrati piuttosto che alle megalopoli terreno di coltura del socialismo e delle “classi pericolose”, alle autonomie locali invece che alle amministrazioni centralizzate.

Questo progetto è perfettamente compatibile con un umanismo dai lineamenti incerti (Röpke definisce il proprio pensiero «umanesimo economico»), spesso di matrice cattolica (quasi tutti gli ordoliberali erano vicini al cosiddetto cristianesimo democratico del Zentrum e della CDU). La retorica della “dignità della persona”, della società “a misura d’uomo”, dei diritti umani ricorre continuamente, senza che la sua compatibilità con i princìpi economici liberisti venga messa mai in discussione. Viceversa si osserva una curiosa e spesso virulenta ostilità nei confronti del razionalismo, in particolare quello della Rivoluzione francese. L’idea di modificare la realtà in base ai princìpi astratti della ragione (giustizia, uguaglianza, trasparenza dei rapporti sociali) ripugna agli ordoliberali. Anche questa parte del pensiero neoliberale, che è probabilmente la meno interessante, non è però priva di importanti conseguenze ideologiche.

 

Ritornando alla formula «economia sociale di mercato», abbiamo imparato che essa è meno generica di quanto non appaia a prima vista. L’attributo “sociale” non va inteso nella sua accezione comune, che indica politiche tese a favorire il benessere della popolazione, di solito “risarcendola” dei danni che una economia capitalistica inevitabilmente provoca (insicurezza del posto di lavoro) o prevenendoli (erogazione dei servizi fondamentali da parte dello Stato). Invece le politiche “sociali” dei neoliberali tedeschi sono semplicemente interventi sull’ambiente sociale per renderlo compatibile con la massima diffusione del principio di concorrenza.

In secondo luogo il peculiare “anti-capitalismo”(16) ordoliberale ci insegna che la critica di aspetti superficiali (e non sempre attuali) del capitalismo spesso, come la massificazione, il consumismo, i monopoli (oggi diremmo “multinazionali”), la standardizzazione della produzione, di per sé non esclude l’adesione entusiasta al capitalismo stesso. Non a caso la demonizzazione della burocrazia statale, percepita come un leviatano ingombrante e corrotto tout court, lo slogan “piccolo è bello”, il “decentramento” amministrativo, sono tutti cavalli di battaglia delle sinistre ex-socialdemocratiche ed ex-comuniste riciclate in apparati neoliberisti e, a volte, perfino delle loro stampelle elettorali “radicali”.

In conclusione possiamo affermare che il neoliberismo, lungi dall’essere un semplice proseguimento del liberalismo del XIX secolo, presenta tratti originali, che spesso sfuggono anche a chi si pone in un’autentica ottica anti-capitalistica. Per questo è assolutamente necessaria una revisione di tutte le analisi datate e fuorvianti, poiché senza una adeguata “bussola” teorica anche la prassi politica più benintenzionata rischia di porsi falsi problemi, o di scagliarsi contro muri già da tempo abbattuti dallo stesso capitalismo.

Il neoliberalismo ambisce a rappresentare la nuova ragione del mondo, di fronte alla quale qualsiasi critica è, ancor prima che inutile, impensabile, irrazionale. Il progetto neoliberale consiste in una serie di strategie che hanno come scopo la riconfigurazione della società, la sua trasformazione radicale. Se le cose stanno così, è inutile contrapporre ad un astratto laisser-faire liberista un altrettanto astratto interventismo statale, come se il problema fosse di natura prettamente quantitativa (intervenire tanto o intervenire poco?).

Al contrario chi ritiene che il capitalismo non sia l’ultima parola nella storia umana ha il compito di mettere al centro proprio la dimensione strategica, decisionale e, in una parola, politica. Anche una (auspicabile) rivalutazione della pianificazione e delle alternative al sistema della merce non può eludere questo nodo cruciale.

 

Alessandro Monchietto,
Andrea Bulgarelli

 

 

Bibliografia essenziale

Becker Gary, The Economic Approach to Human Behavior, University of Chicago Press, 1976.

Boltanski Luc; Chiapello Eve, Le nouvel esprit du capitalisme, Gallimard, 1999 (tr. it. di prossima pubblicazione per le edizioni Mimesis).

Crozier Michel; Huntington Samuel; Watanuki Joji, The Crisis of Democracy: Report on the Governability of Democracies to the Trilateral Commission, New York University Press, 1975.

Dardot Pierre, Laval Christian, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, 2013.

Donaggio Enrico (a cura di), C’è ben altro. Criticare il capitalismo oggi, Mimesis ed, 2014.

Erhard Ludwig, La politica economica della Germania, Garzanti, 1962.

Friedman Milton e Rose, La tirannia dello status quo, Longanesi, 1984.

Foucault Michel, Nascita della biopolitica, Feltrinelli, 2005.

Giacché Vladimiro, Titanic Europa. La crisi che non ci hanno raccontato, Roma 2012.

Giddens Anthony, La terza via. Manifesto per la rifondazione della socialdemocrazia, il Saggiatore, 1999.

Leghissa Giovanni, Neoliberalismo. Un’introduzione critica, Mimesis ed., 2012.

Michéa Jean-Claude, Il vicolo cieco dell’economia. Sull’impossibilità di sorpassare a sinistra il capitalismo, Elèuthera, 2004

Röpke Wilhem, Democrazia ed economia, Il Mulino, 2004.

 

 Note

1) M. Friedman, R. Friedman, La tirannia dello status quo, p. 138.

2) G. Becker, The Economic Approach to Human Behavior, p. 167.

3) Nel 2005 in Francia è stato istituito un sistema di penalizzazione che abbassa l’indennità di disoccupazione del 20% al primo rifiuto di una proposta di impiego, del 50% al secondo e del 100% al terzo.

4) I tre relatori della Commissione Trilaterale, Michael Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki, lamentano l’«eccesso di democrazia» comparso negli anni 60, ovvero a partire dalla crescita delle rivendicazioni egualitarie e del desiderio di partecipazione politica attiva delle classi più povere e marginalizzate. Ai loro occhi la democrazia politica può funzionare normalmente solo con un certo grado «di apatia e disimpegno da parte di certi individui e gruppi». Abbracciando i temi classici dei primi teorici neoliberisti, arrivavano a reclamare che si riconoscesse che «ci sono pure i limiti potenzialmente auspicabili all’ampliamento indefinito della democrazia politica» [cfr. M. Crozier, S. Huntington, J.Watanuki, The Crisis of Democracy].

5) J. Plender, Mind the gap. Why business may face a crisis of legitimacy, Financial Times, 8 aprile 2008.

6) «La finanza ha offerto un’ultima via di fuga alle imprese con problemi di redditività: consentendo loro di fare profitti non più con le attività tradizionali, ma attraverso operazioni finanziarie, ossia attraverso attività speculative. […] Se si esamina l’andamento dei profitti negli Stati Uniti si osserva che negli ultimi decenni la proporzione dei profitti derivanti da attività finanziarie è progressivamente cresciuta, sino a raggiungere il 40% del totale nel 2007, alla vigilia della crisi» [V. Giacché, Titanic Europa, pp. 34-35].

7) Trattato di Lisbona, Articolo 2, Paragrafo 3, Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea.

8) Particolarmente significativa è l’intervista per il Sole 24 Ore del 22 Agosto 2008. L’ex-premier osserva lucidamente che «oggi, il richiamo all’economia sociale di mercato, in particolare in Italia, dà a volte l’impressione di essere pronunciato con un’ispirazione opposta. Si è un po’ insofferenti verso la disciplina imposta dalle regole del bilancio pubblico o da quelle del mercato, e allora si “rivendica”, in contrapposizione alla prova non buona data di recente dal modello americano (…), la legittimità, anzi la necessità, di maggiori dosi di socialità e di discrezionalità politica». In queste poche frasi è racchiuso il senso profondo dell’economia sociale di mercato e della sua contrapposizione a qualsiasi assistenzialismo, per quanto moderato. Altro che “terza via” tra liberismo e socialismo!

9) Cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica, pp. 157-158. Scrive Hayek, in sintonia con la diagnosi ordoliberale: «Stiamo correndo il rischio di fare la stessa fine della Germania [nazista, nota mia]» (cit. da Foucault). Beveridge come alter ego di Goering!

10) In realtà oggi l’equazione tra “statolatria” e nazismo appare un pregiudizio. Al proposito possiamo trovare interessanti riflessioni in H. Marcuse, Ragione e rivoluzione. Notevole è la formulazione dello storico Kershaw, che ha parlato di «anarchia feudale» in riferimento all’hitlerismo.

11) W. Röpke, Democrazia ed economia, p. 82.

12) Cfr. Nascita della biopolitica, pp. 145-146.

13) Cit. in Nascita della biopolitica, p. 149.

14) Ivi, pp. 148-149.

15) Cfr. L. Erhard, Previdenza individuale per i rischi sociali, in La politica economica della Germania.

16) È interessante notare come molti neoliberisti possano vantare un discreto curriculum “anti-capitalista”. Ad esempio Hayek fu per un breve periodo membro del movimento fabiano (che nonostante le posizioni moderate era pur sempre di ispirazione marxista).

Andrea Bulgarelli, Alessandro Monchietto – SINISTRA E IDEOLOGIA DEL PROGRESSO

Vincent van Gogh, Contadini che piantano patate,

Vincent van Gogh, Contadini che piantano patate, 1884.

Questo saggio è già stato pubblicato

sulla rivista «Indipendenza»

Logo_Indipendenza_modificatoN. 38, novembre/dicembre 2015

Per oltre un secolo la sinistra si è pensata come lo spazio politico che per eccellenza incarnava l’idea di progresso e gli interessi del popolo. Il matrimonio tra una sinistra rivoluzionaria o riformista e l’ideologia del progresso è durato così a lungo perché si fondava su una particolare interpretazione della storia e del presente. Quali erano i suoi assunti? In un’epoca dominata da mutamenti senza precedenti, da una nuova concezione dell’individuo, del lavoro e della società stessa, il binomio progresso-emancipazione appariva solido e la lotta tra forze della conservazione e forze del progresso strutturava il dibattito politico e culturale. Nella misura in cui i nemici del “progresso” erano interessati non solo a ostacolare questi mutamenti ma anche a mantenere le classi popolari in uno stato di ignoranza e di miseria, l’esistenza di un “partito del progresso e del popolo” sembrava perfettamente legittima. La nostra tesi è che tale equazione, assai discutibile già in partenza, oggi sia totalmente insostenibile, e tra la causa della lotta contro l’oppressione e l’ideologia del progresso si sia scavato un fossato incolmabile, di cui bisogna prendere atto.

In questa occasione non ci interessa dare una definizione di “progresso”. Desideriamo solo offrire qualche spunto di riflessione per rendere la complessità di un concetto contraddittorio e scivoloso. Tuttavia, se dare una definizione “obiettiva” del concetto di progresso è una impresa forse impossibile, molto più fecondo è un esame della sua genesi storica. Ricostruzioni di questo tipo sono di solito appannaggio dei critici dell’ideologia del progresso, dal momento che per i suoi sostenitori l’immagine di un cammino che procede gradatamente dall’oscurità dell’ignoranza e del passato alla luce della ragione è più un dato di fatto che qualcosa da decostruire. Le interpretazioni più diffuse sono sostanzialmente due, anche se spesso si presentano mescolate e con numerose “variazioni sul tema”. La prima pone l’accento sulla tecno-scienza[1], e collega l’ideologia del progresso con la capacità sempre maggiore dell’uomo di manipolare la natura, con un aumento prodigioso della produzione di beni, nonché della soddisfazione (e creazione) di una gamma sempre più vasta di bisogni. In un contesto simile, che corrisponde grossomodo alla rivoluzione industriale, si può comprendere la nascita di una vera e propria fede nel miglioramento ineluttabile delle condizioni di vita dell’umanità, che però negli ultimi decenni si scontra con i limiti oggettivi dell’ecosistema terrestre, rendendola quantomeno discutibile. La seconda si concentra sulla cosiddetta secolarizzazione dell’escatologia cristiana e sulla sua visione della storia, che progredisce secondo un disegno divino dalla caduta del peccato originale alla gloria del Regno di Dio. Una volta perso il suo riferimento trascendente la tradizione escatologica avrebbe dato vita all’utopismo moderno (comunismo in testa) e al suo sogno di un “lieto fine” pre-determinato della storia, nei confronti del quale ogni epoca rappresenterebbe un gradino ascendente. Entrambe le interpretazioni sono a nostro avviso insoddisfacenti. La prima critica una visione meccanica e determinista del progresso industriale, stabilendo però un nesso causale altrettanto meccanico e determinista tra lo sviluppo tecnologico e la capacità dell’umanità di padroneggiarlo e di neutralizzarne gli aspetti distruttivi. Questo tipo di argomentazione spesso sembra accettare, rovesciandolo, proprio lo scenario che desidera negare, ovvero quello di una determinazione della storia ad opera delle forze impersonali della tecnica, di fronte alla quale l’uomo non è che un burattino inerme. Ciò non toglie, ovviamente, che oggi i rischi di una catastrofe ambientale siano reali e non immaginari; non si spiega però quale sia il nesso necessario tra l’ideologia del progresso, che nasce in un contesto storico preciso, e la natura sempre potenzialmente “ecofaga” e distruttiva dell’uomo[2]. Allo stesso modo la seconda non mostra in che modo un’unica dottrina religiosa, quella cristiana, non più “escatologica” di molte altre (da importanti branche del buddismo all’Islam, soprattutto sh’ita, all’ebraismo), abbia portato allo sviluppo dell’ideologia del progresso dopo quasi duemila anni, un arco di tempo così vasto da indebolire qualsiasi ricostruzione di “catene” causali. Senza contare che l’escatologia cristiana prevede non un miglioramento indefinito dello status morale dell’umanità, ma un suo graduale deterioramento, che rende necessario l’intervento divino diretto e il Giudizio finale.

Una terza vulgata ha elaborato una soluzione radicalmente diversa al problema. Ben lungi dall’essere l’inevitabile portato nefasto della tecno-scienza o della teologia cristiana, l’ideologia del progresso affonda le sue radici in un contesto storico ben preciso, quello della borghesia europea del Settecento, la classe che per prima volle emanciparsi dagli “errori” delle precedenti generazioni e soprattutto dai loro pregiudizi. Le tradizioni classica, cristiana e umanistico-repubblicana, per il resto così diverse, condividevano una concezione tragica della storia, dominata dalla consapevolezza della decadenza che attende ogni civiltà e dal prezzo che ogni miglioramento inevitabilmente richiede. «L’idea di progresso non ha mai fatto perno sulla promessa di una società ideale»[3] sostiene Christopher Lasch, che al tema ha dedicato un’importante opera, Il paradiso in terra. Il progresso e la sua critica. La sua autentica cifra sarebbe piuttosto “l’aspettativa di un miglioramento indefinito e illimitato”, secondo la quale tutto è incerto, tranne la certezza che il futuro sarà in qualche modo migliore del passato. La fiducia nel futuro rende obsoleta l’enfasi tradizionalmente posta dalla cultura europea (e non solo) sull’autocontrollo, sul senso del limite, sulla dignità della cultura e sull’arte, intese come luoghi privilegiati della riflessione sui problemi ultimi dell’esistenza e non come passatempi o divertimenti. «Il suo fascino originale e la sua duratura credibilità derivano dallo specifico assunto che gli appetiti insaziabili, in precedenza condannati come fonte di instabilità sociale e di infelicità personale, potessero trainare la macchina economica»[4]. Il capolavoro di Georges Sorel Le illusioni del progresso si concentra proprio sul passaggio dalla cultura “alta” del Seicento francese dei giansenisti, di Bossuet e di Pascal, dominata in modo ossessivo dal senso del peccato ma anche dal senso di serietà dell’attività letteraria e scientifica, alla società neo-aristocratica del Settecento, desiderosa soprattutto di svagarsi senza dover riconoscere la propria responsabilità nei confronti delle generazioni passate e di quelle future. Sorel affronta l’enigma del progresso partendo da un incipit apparentemente astruso, cioè “la disputa degli antichi e dei moderni”, un dibattito occorso nei primi decenni del XVII tra gli eruditi sostenitori della tradizione classica e chi invece propugnava la superiorità della letteratura moderna su quella antica. Secondo Sorel, originale interprete del metodo di Marx, dietro questa relativamente oscura diatriba si nasconde l’ascesa dell’assolutismo reale francese e il notevole miglioramento delle condizioni generali della società francese dell’epoca. I francesi dell’epoca «erano soprattutto colpiti dal vedere fino a che punto la maestà regale aveva potuto elevarsi al di sopra degli eventi contingenti» (p. 455) e si erano convinti che tale progressivo miglioramento non sarebbe mai finito, dispensando gli uomini e le donne dal pagare un tributo simbolico al passato. Per la prima volta si afferma l’idea che era legittimo «abbandonarsi alla felicità senza cercare di giustificare la propria condotta». Idea che per Sorel non avrebbe più abbandonato la cultura occidentale nei secoli successivi alla Querelle des Ancientes et des Modernes, insieme con la certezza della superiorità del futuro sul passato e l’insofferenza verso qualsiasi limite posto all’arbitrio individuale.

L’ipotesi capitalista non è che una delle molteplici varianti della metafisica del Progresso, così come sopra delineata. Alla stregua delle altre varianti, pretende anch’essa che la Storia abbia un senso e che il percorso prescritto agli uomini li porti inesorabilmente – per usare il vocabolario di Saint-Simon e di Comte – dallo stato teologico-militare allo stato scientifico-industriale. Quel che costituisce la differenza specifica dell’ipotesi capitalista è unicamente l’idea che il principio determinante della Storia sia, in ultima istanza, la dinamica dell’economia e, di conseguenza, il progresso tecnologico, in quanto condizione materiale fondamentale di tale dinamica.
Tutto ciò che intralcia la spinta in avanti di una società attraverso il movimento modernizzatore dell’economia, deve inevitabilmente essere percepito come un arcaismo inaccettabile, al quale ci si può aggrappare solo se si ha la sfortuna di essere uno spirito “conservatore”, o peggio ancora, “reazionario” (nel linguaggio saint-simonista, “retrogrado”).

A differenza dei liberali, i primi socialisti non avevano alcuna intenzione di abolire tutte le forme di solidarietà popolare tradizionale, né di attaccare le fondamenta del “legame sociale”. Il progetto socialista è infatti orientato, fin dalla nascita, dal desiderio che hanno i primi lavoratori moderni di proteggere – contro gli effetti disegualitari e disumanizzanti del liberalismo industriale – un certo numero di forme di esistenza comunitaria che essi intuiscono essere l’orizzonte culturale indispensabile di qualsiasi vita umana degna di questo nome.

Possiamo farci un’idea di un simile stato d’animo leggendo il monumentale studio di E. P. Thompson “Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra”. Secondo lo storico inglese, all’alba della rivoluzione industriale, i lavoratori manuali «avevano il senso di una posizione sociale perduta, correlata al perdurare di ricordi della “età dell’oro” [pre-industriale, nota mia]» (p. 297). Lunghi dall’essere assimilato con una visione reazionaria, esso era caratterizzato da un «profondo senso di egualitarismo» legato a «nozioni elementari di condotta umana e di solidarietà cameratesca». Il ricordo del “tempo perduto” della “Vecchia Inghilterra” (senza dubbio almeno in parte idealizzata) in cui era possibile guadagnarsi tranquillamente da vivere con il sudore della fronte, senza passare attraverso le tortuose mediazioni del capitale e la disciplina di fabbrica, conviveva però con un grande interesse per la cultura moderna. Thompson documenta con efficace e a tratti commovente dovizia di particolari la cultura parallela delle classi operaie, dove accanto al lavoro al telaio fiorivano lo studio delle scienze della natura, della matematica, della meccanica, oltre che dell’attualità politica. Questa convivenza di nostalgia – o perlomeno di rivendicazione – del passato e di passione per il presente minaccia al cuore il teorema del progressismo, basato sulla contrapposizione rigida tra passato e futuro.

Nel 1833 compare per la prima volta la parola «socialismo» in un articolo intitolato De l’individualisme et du socialisme, in cui il teorico socialista Pierre Leroux precisa: «…ci si è abituati a chiamare socialisti tutti i pensatori che si occupano di riforme sociali, tutti coloro che criticano e disapprovano l’individualismo, tutti quelli che parlano, in diversi termini, di provvidenza sociale e di solidarietà che riunisce non solo i membri di uno Stato ma l’intera Specie umana». Leroux afferma non soltanto che «la società non è il risultato di un contratto», ma che, «lungi dall’essere indipendente da ogni società e da ogni tradizione, l’uomo trae la sua vita dalla tradizione e dalla società».

Se questi pensatori si oppongono all’ideologia liberale, è soprattutto perché quest’ultima si fonda su una concezione della libertà individuale che conduce necessariamente, ai loro occhi, a dissolvere l’idea di una “vita comune”[5].

Questo sguardo sul passato non contraddiceva affatto l’internazionalismo o il senso dell’universale. I primi socialisti erano perfettamente coscienti che è sempre a partire da una tradizione culturale particolare che appare possibile accedere a valori veramente universali e che l’universale non può mai essere costruito sulla rovina dei radicamenti particolari. Per dirla con lo scrittore portoghese Miguel Torga, essi pensavano che «l’universale è il locale, meno le mura». «Dal momento che solo chi è effettivamente legato alla sua comunità d’origine – alla sua geografia, alla sua storia, alla sua cultura, ai suoi modi di vivere – è realmente in grado di comprendere coloro che provano un sentimento paragonabile nei confronti della propria comunità», scrive a riguardo Jean-Claude Michéa, «possiamo concluderne che il vero sentimento nazionale (di cui l’amore della lingua è una componente essenziale) non soltanto non contraddice ma, al contrario, tende generalmente a favorire quello sviluppo dello spirito internazionalista che è sempre stato uno dei motori principali del progetto socialista».

Il socialismo operaio si configura pertanto fin dall’origine come un rapporto eminentemente critico verso la modernità e soprattutto verso il suo individualismo devastante e rappresenta prima di tutto la traduzione in idee filosofiche delle prime proteste popolari contro i disastrosi effetti sugli uomini e sulla natura della modernizzazione liberale. Esso, così come il comunismo, non coincide dunque con la cultura della sinistra progressista, anche se storicamente ci sono state sovrapposizioni e convergenze a livello sia di dottrina politica che di blocchi sociali impegnati nella contesa politica. Lo studio di questo filone sotterraneo della storia europea (e non) può essere un prezioso antidoto non solo verso l’ideologia del progresso, ma anche verso interpretazioni che rovesciano il teorema progressista e idealizzano in blocco il passato, irrigidendolo in una sorta di utopia retrospettiva, senza peraltro chiarire a quale dei molti “passati” al plurale ci si debba conformare. La nostra proposta è radicalmente diversa. Essa parte non dall’idealizzazione di un passato veramente “tradizionale”, cui sarebbe doveroso tornare, contrapposto agli ultimi secoli di “modernità”. Come Lasch argomenta correttamente, il giusto approccio al passato non è quello della convenzione tradizionalistica, che si circonda di una «quieta atmosfera di venerazione», bensì quella della memoria, che «si circonda di oratoria, di dialettica, di dispute» (p. 121). Per noi si tratta quindi di mettere al centro la nozione di vita comune e le virtù (nel senso elementare e non moralistico di “capacità”) che la rendono possibile. In una simile ottica il passato non è un calderone indistinto da respingere o da accettare in blocco, ma una posta in gioco, un serbatoio di esperienze, di intuizioni e di forme di vita potenzialmente universali, germi di autentica “vita comune”. Significa anche essere coscienti che questi germi, lungi dall’essersi realizzati compiutamente nel passato o di essere scomparsi in epoca “moderna”, al contrario hanno continuato a svilupparsi, pur in mezzo a mille contraddizioni. Nel bellissimo 45° pensiero dei Minima moralia Adorno nota come nella dialettica di Hegel sopravvivesse qualcosa del «sano spirito di contraddizione» e «della testardaggine del contadino che ha appreso per secoli a resistere alla caccia e ai tributi dei potenti feudatari». Allo stesso modo noi riteniamo che molti degli ideali di libertà, uguaglianza e fratellanza degli ultimi secoli siano debitori di quel passato che per l’ideologia del progresso non è altro che oscurità e ignoranza.

 

Andrea Bulgarelli, Alessandro Monchietto

 

 

Note

[1]   Evitiamo di usare il termine “tecnica”, filosoficamente più denso.

[2]  Ricordiamo che numerose catastrofi ambientali sono state causate dall’uomo molto prima della rivoluzione industriale. Ad esempio l’arrivo degli antenati degli attuali abitanti della Polinesia 8.000 anni fa sembra abbia portato all’estinzione di circa metà delle specie indigene. Allo stesso modo le popolazioni mesoamericane ricorrevano a pratiche agricole talmente impattanti da minare la sopravvivenza stessa delle loro civiltà. Chiaramente gli sviluppi tecnologici successivi mettono nelle nostre mani strumenti più potenti e quindi più pericolosi di quelli a disposizione dei nostri predecessori.

[3]  C. Lasch, Il paradiso in terra. Il progresso e la sua critica, Feltrinelli 1992, p. 42.

[4]  Ibidem, p. 46.

[5] Questo perché per un liberale «tutte le forme di appartenenza o d’identità che non sono state liberamente scelte da un soggetto, sono potenzialmente oppressive e discriminanti» (Benjamin Constant); così anche la nozione di famiglia, di lingua materna o di paese d’origine.

Enrico Berti – Per una nuova società politica

Enrico Bert

I
Credo che il periodo con cui è giusto porre a confronto il momento attuale, per stabilire che cosa è cambiato e che cosa non lo è, sia il quinquennio 1945-1950, perché in esso prese corpo l’insieme di realtà – un tempo si sarebbe detto il «sistema» – che ha caratterizzato, con lievi variazioni, la vita politica e sociale italiana degli ultimi cinquant’anni. Tre sono, mi sembra, i grandi avvenimenti che si sono verificati in quel periodo, cioè il nuovo assetto costituzionale repubblicano, la divisione del mondo in due blocchi ideologico-militari contrapposti, l’avvìo del processo che ha portato l’Italia ad essere uno dei paesi più industrializzati del mondo.
Di questi tre avvenimenti specialmente i primi due hanno stimolato l’impegno politico degli uomini di cultura. Larga è stata la partecipazione degli intellettuali, specialmente cattolico-democratici e laici, al processo costituente e notevole è stata la loro incidenza. Basti fare i nomi di uomini come La Pira, Dossetti, Fanfani, Mortati, Lazzati, Calamandrei, Basso ed altri ancora, i quali dentro o fuori l’Assemblea costituente hanno elaborato e fatto recepire le idee che stanno alla base della Costituzione italiana. Ugualmente larga è stata la partecipazione degli intellettuali, specialmente marxisti, alla lotta ideologica con cui la sinistra, in mancanza del necessario consenso politico, ha tentato – secondo il disegno di Gramsci, abilmente sviluppato da Togliatti prima e poi da Berlinguer – di conquistare l’egemonia sulla società civile italiana attraverso la cultura (editoria, cinema, arte e spettacolo in genere). Del processo di industrializzazione, opera degli imprenditori, dei lavoratori e della classe di governo, cioè del potere economico, sindacale e politico, gli intellettuali si sono curati poco, rivolgendo tutt’al più il proprio interesse all’aspetto di esso che più direttamente li toccava, cioè lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa e in generale dell’informazione.
Che cosa è cambiato, oggi, rispetto ad allora? Si fa presto a dirlo. Anzitutto sono crollati i regimi comunisti in Europa, sanzionando anche con la fine del pericolo militare quel processo di crisi delle ideologie, in particolare del marxismo, che già era incominciato nel corso degli anni ottanta e che ha prodotto, almeno in apparenza, la diaspora attuale della cultura marxista. Oggi quasi nessun intellettuale italiano si dichiara più marxista, anche se è difficile sapere che cosa accadrebbe nel caso di un forte spostamento a sinistra dell’asse politico del paese. La conseguenza diretta della fine del comunismo è stata la fine dell’unità politica – e, secondo me, anche culturale – dei cattolici italiani, che a sua volta è venuta a sanzionare un processo di secolarizzazione (intesa, dal punto di vista della fede, in senso sia positivo che negativo) in corso ormai da secoli e culminato, per la Chiesa cattolica, nel Concilio Vaticano II. Ma anche la cultura laica ha subìto un processo di «indebolimento», o almeno di de-ideologizzazione, col passaggio dallo storicismo e dal neopositivismo all’ermeneutica. Oggi nessuno più crede a verità assolute, e se qualcuno ancora ci crede – come dovrebbe essere il caso dei cattolici – si guarda bene dal porle alla base di un progetto politico.
Tutto ciò ha finito, innegabilmente, col demotivare l’impegno politico degli intellettuali, anche se, è giusto riconoscerlo, è nata una nuova ragione di impegno per gli uomini di cultura, specialmente per i filosofi, cioè la scoperta dell’etica da parte del mondo della scienza, dell’informazione e della politica. Essa è conseguente ai nuovi problemi posti dallo sviluppo delle tecnologie, specialmente genetiche, ma anche dagli effetti imprevisti prodotti dall’impatto dell’industrializzazione con l’ambiente e dalle dimensioni planetarie assunte dai fenomeni economici (flussi migratori, ecc.). Come ho avuto occasione di sostenere altrove, non solo la medicina ha salvato la vita all’etica (S. Toulmin), ma l’etica ha salvato la vita alla filosofia. È accaduto, infatti, che l’uomo è venuto a trovarsi a corto di ethos, cioè di etica vissuta, proprio nel momento in cui ha raggiunto, in tutta la sua storia, il massimo potere sulla natura e su se stesso, e ciò ha fatto nascere una potente domanda di etica almeno teorica, cioè filosofica, come aiuto per affrontare le nuove emergenze.
Il secondo grande cambiamento verificatosi negli ultimi cinquant’anni, in Italia come altrove, ma nel nostro paese con particolare intensità, è il declino dello Stato moderno, inteso come istituzione sovrana, centralizzata, burocratica ed onnipresente. Il segno più evidente di tale declino è la perdita, da parte dello Stato, del suo attributo più classico, cioè la sovranità, perdita che oggi è in atto sia ad extra che ad intra. Nei rapporti con l’esterno gli Stati – tutti gli Stati, tranne forse gli U.S.A. – hanno perduto l’autosufficienza, sia economica che militare e scientifico-tecnologica. In Europa in particolare è in atto un processo, lento ma inesorabile, di integrazione economica, militare e politica (quella culturale è sempre esistita), che limita progressivamente la sovranità dei singoli Stati. Nei rapporti interni lo Stato si è rivelato sostanzialmente inefficiente, cioè incapace di soddisfare le esigenze di una società articolata, pluralistica, estremamente complessa, ed ha dovuto quindi lasciare spazio a forme di autonomia locale e a rivendicazioni particolaristiche sempre più forti.
Come ha scritto Bobbio, al posto dello Stato sovrano è nato lo «Stato poliarchico» ed è venuta meno la secolare identificazione tra sfera dello Stato (come centro del potere sovrano) e sfera della politica: quest’ultima si è allargata alla società civile, rendendo sempre più incerti i confini tra il «politico» ed il non-«politico»2. Oppure, come ha scritto Matteucci, stiamo passando dallo Stato moderno allo «Stato post-moderno», il quale più che uno Stato è un «sistema», dove tutto è interdipendente e non ci sono più spazi autonomi, ma non c’è nemmeno più un potere sovrano, né un comune punto di riferimento3. Ma ciò era stato previsto sin dal 1951 da Maritain, che nella raccolta di conferenze americane su L’uomo e lo Stato aveva segnalato la crisi della sovranità e il processo di integrazione degli Stati in società politiche transnazionali, destinate a diventare mondiali.4
Parallelamente alla crisi dello Stato si è determinata la crisi dei partiti politici nazionali come strumenti privilegiati di partecipazione alla vita politica. I partiti tradizionali non solo hanno perduto qualsiasi base ideologica, ma hanno anche cessato di essere espressioni di altrettante culture e pertanto hanno cessato di attirare l’attenzione dei giovani, degli intellettuali, del mondo della cultura in genere. Essi sono rimasti strumenti di potere per politici di professione, interessati alla cultura solo nelle – peraltro frequenti – scadenze elettorali, ma in forma del tutto strumentale, senza alcuna progettualità specifica, pronti nella maggior parte dei casi ad approvare tutto e il contrario di tutto, secondo le contingenti presunte convenienze.
Un terzo grande cambiamento verificatosi negli ultimi cinquant’anni è l’accresciuta importanza dei mezzi di comunicazione di massa, specialmente della televisione, che ha completamente sostituito il cinema come strumento di persuasione e di orientamento dell’opinione pubblica, non propugnando progetti politici particolari, ma proponendo stili di vita e quindi modi di pensare immediati, inconsci, diffusi a livello di massa. Hanno conservato una certa importanza i tradizionali mezzi stampati, più i quotidiani e i periodici che i libri, a cui si sono aggiunti strumenti nuovi quali videocassette, compact disks e simili, ed a cui è prevedibile che si aggiungeranno nuovi potenti mezzi basati sulle tecnologie informatiche, del tipo Internet. Ciò crea nuovi importanti centri di potere, di carattere editoriale, indispensabili per la promozione e la diffusione della cultura a livello industriale.
A tutto ciò si aggiunga una crisi economica strisciante, diffusa soprattutto nei paesi più sviluppati, la cui espressione più drammatica è l’aumento continuo del tasso di disoccupazione, specialmente giovanile, dovuta in parte al progresso della tecnologia, che rende sempre meno indispensabile la manodopera, in parte all’immigrazione della forza-lavoro dai paesi meno sviluppati ed in parte, probabilmente, ad altri fattori. Tra le tante cose, invece, che non sono cambiate, e che sarebbe stato necessario cambiare, spicca almeno in Italia il sistema formativo scolastico-universitario, che si è semplicemente dilatato, assumendo dimensioni di scuola di massa, senza tuttavia aggiornare la sua struttura, i suoi contenuti, i suoi effetti sul mondo del lavoro e della produzione, per non parlare del suo livello culturale.

II
Benché siano venute meno, a causa dei cambiamenti sopra ricordati, quasi tutte le motivazioni tradizionali dell’impegno politico degli intellettuali, esiste oggi tuttavia un ampio spazio di intervento, per non dire una forte domanda da parte della società, nei confronti dell’impegno politico degli intellettuali, purché esso si manifesti nelle forme che sono proprie della cultura e che garantiscono a questa la maggiore incidenza sulla vita sociale. Gli intellettuali oggi non sono più chiamati a sostenere una determinata parte politica, a contribuire alla conquista di un’egemonia o ad opporsi alla minaccia di un pericolo incombente. La figura dell’intellettuale organico ad un partito, di gramsciana memoria, è – si spera – definitivamente tramontata. Gli intellettuali oggi sono più liberi, non sono tenuti a rispettare nessuna ortodossia, non devono più temere scomuniche né ecclesiastiche né laiche (salvo, forse, i teologi, quando però sono a carico di un’istituzione privata come una chiesa).
Gli spazi di intervento che si aprono agli uomini di cultura, in particolare dei filosofi, nei quali talvolta la loro presenza è addirittura invocata, sono molteplici. Ho già ricordato la scoperta dell’etica, nell’ambito della quale però andrebbe finalmente superata la tradizionale e vetusta contrapposizione fra cattolici e laici e dovrebbero essere cercate delle basi comuni, indispensabili per concordare quelle discipline di carattere legislativo delle nuove pratiche tecnologiche, che tutti auspicano e che hanno comunque bisogno di un largo consenso. A questo proposito non mi stancherò mai di segnalare la possibilità di assumere come premesse le dichiarazioni dei diritti, contenute nelle carte costituzionali dei vari Stati e nei documenti delle organizzazioni internazionali, e di svolgerne coerentemente le implicazioni di carattere applicativo, in ordine a temi come la vita, l’identità personale, la libertà, l’uguaglianza.5
Anche il settore della formazione, sia scolastica che universitaria, può essere un settore di intervento incisivo da parte degli uomini di cultura, a condizione che sappiano trovare le forme più idonee ad ottenere ascolto dai responsabili delle riforme. Esistono, ad esempio, associazioni professionali o disciplinari che in qualche momento della vita politica italiana hanno trovato ascolto presso le istituzioni e che dovrebbero essere il terreno ideale per l’impegno dei professionisti della cultura. Credo, ad esempio, che l’Unione dei matematici italiani (UMI), la Società Italiana di Fisica e la Società Filosofica Italiana abbiano avuto l’occasione di influire positivamente nell’elaborazione dei nuovi programmi della scuola secondaria superiore, all’interno della cosiddetta Commissione Brocca. E, se mi è consentito dagli amici direttori di questa rivista un riferimento di carattere personale, devo lamentare lo scarso interesse dei filosofi italiani di apparteneneza universitaria per un lavoro di collaborazione con i colleghi della scuola secondaria, che porti ad una profonda trasformazione del sistema formativo nello specifico ambito disciplinare.
Prima di affrontare quello che considero il terzo, e più importante, settore di intervento per gli uomini di cultura sensibili all’impegno politico, desidero però accennare ad un compito specifico degli intellettuali che svolgono la loro professione nell’università. L’insegnamento universitario, data l’età e la composizione sociale dei suoi destinatari, è un’occasione privilegiata e forse unica di testimonianza civile. Spesso i movimenti culturali più innovatori e impegnati anche politicamente nascono proprio dalle università: così è accaduto nel risorgimento, nella resistenza ed anche in quanto di positivo ha offerto la contestazione del Sessantotto e dintorni. Ma quasi sempre l’iniziativa è stata esclusivamente degli studenti, con i docenti in posizione di attesa, pronti a cavalcare la tigre della rivoluzione studentesca nel caso in cui questa avesse successo, o ad atteggiarsi a vittime degli studenti nel caso in cui fossero da questi contestati.
Pochi sono stati, purtroppo, gli esempi di coraggio, di difesa delle libertà, di denuncia delle violenze, offerti da docenti e da intellettuali impegnati. Eppure la testimonianza quotidiana di senso civico, di sollecitudine per la libertà e la serietà degli studi, di attaccamento alle istituzioni democratiche, la cui occasione viene offerta da quella meravigliosa possibilità di vivere in mezzo ai giovani che solo il docente universitario possiede, potrebbe costituire il momento più efficace di un impegno civile e politico, quale che sia la specialità disciplinare nella quale si esercita l’insegnamento e la ricerca, ma a maggior ragione soprattutto quando si insegnano e si praticano discipline filosofiche, cioè quando si parla ogni giorno di idee, di valori, di movimenti ideali, di rivoluzioni culturali e scientifiche.
Ma veniamo al punto più importante, cioè quello connesso al declino dello Stato moderno in generale ed alle particolari caratteristiche che questo fenomeno ha assunto in Italia. È opinione diffusa che, fermi restando i grandi princìpi enunciati nella prima parte della Costituzione – di cui tutti dovrebbero essere grati agli uomini di cultura impegnati nella stagione costituente del 1946-’47 –, sia giunto il momento, per il nostro paese, di ridisegnare la forma dello Stato, non solo per quanto riguarda gli organi di governo, ma anche e soprattutto per quanto riguarda la sua articolazione nella società. Il gran parlare che si fa di federalismo e l’inopinata, anche se sicuramente anacronistica, velleitaristica e probabilmente ipocrita, proposta di rottura dell’unità politica del paese da parte di alcune forze politiche, non sono che l’aspetto più superficiale di una crisi dello Stato che significa essenzialmente inefficienza, impotenza, disorganizzazione, sperpero.
Osservava Bobbio nello scritto sopra citato che la perdita della sovranità da parte dello Stato ha allargato la sfera del «politico» oltre i limiti dello Stato medesimo, fino ad investire la stessa società civile. Ora, è appunto assiomatico che, col progressivo venir meno dello Stato inteso come il luogo in cui si concentrava l’intera vita politica – il monopolio, per dirla con Weber, dell’uso legittimo della forza – venga meno anche la cosiddetta società civile, intesa come la sfera dei rapporti privati («privati», voce del verbo «privare», appunto del potere politico), che è sorta all’inizio dell’età moderna contemporaneamente allo Stato, che si è posta per alcuni secoli in opposizione dialettica con quest’ultimo – Hegel e Marx insegnano ­–, e che è destinata a scomparire con la scomparsa dello Stato moderno.
Nel luogo, ed al posto, dello Stato e della società civile rimane la vera e propria «società politica» (koinonìa politikè, come dice Aristotele), cioè la polis, che non è lo Stato, come spesso a torto si crede, bensì l’insieme di tutte quelle persone che, volenti o nolenti, devono convivere e collaborare alla realizzazione di fini comuni (e quindi non particolari, non economici, ma politici). Ma questa società politica, nel momento della crisi dello Stato moderno, deve darsi nuove forme di organizzazione, deve inventare istituzioni meno sclerotiche, meno burocratiche, meno centralizzate, più articolate, più pluralistiche, più conformi al «principio di sussidiarietà», quello per cui è non solo ingiusto, ma anche dannoso, affidare a istanze superiori e più lontane dai destinatari le decisioni che possono essere utilmente prese da istanze inferiori, cioè più vicine ai destinatari stessi.
Si tratta, insomma, di dar vita a una «nuova società politica», ad una nuova forma di polis adatta all’età dell’informatica, delle interdipendenze planetarie, ed insieme della frammentazione, del particolarismo, del trionfo della soggettività, in cui si superi la contrapposizione di pubblico e privato, di «statale» e «locale». Non sono, come è noto, un politologo – anche se mi appassiona la filosofia della politica6 –, ma credo che una struttura di tipo federale, cioè fortemente articolata al proprio interno in molteplici poteri autonomi, integrata in forme di comunità sovranazionali a loro volta organizzate in senso federativo, possa essere il tipo di organizzazione valido, se non per i prossimi secoli, almeno per un buon numero di prossimi decenni.
Non credo, invece, al potere magico di presidenzialismi o semipresidenzialismi, che moltiplicherebbero inutilmente le espressioni della volontà popolare, già augurabilmente organizzate in molteplici e diversi livelli, e non avrebbero più la presunta giustificazione della difesa di un’unità nazionale del tutto superflua e superata da più complesse strutture federate e integrate. Credo, invece, alla perdurante validità dell’istituto della rappresentanza, anch’essa articolata in una molteplicità di organi collegiali particolari e culminante in un parlamento federale, ed in un governo che di esso sia espressione diretta, dotato di quel minimo indispensabile di poteri che non possono essere affidati con successo alle molteplici istanze locali.
Una simile società politica non potrebbe essere qualificata da nessun aggettivo particolare: non potrebbe essere né una società cristiana (lo dico ad alcuni miei compagni di fede), perché dovrebbe essere il luogo di piena realizzazione anche dei musulmani, degli ebrei e dei non credenti; non potrebbe essere una società socialista, perché le differenze di classe, già in via di attenuazione, dovrebbero prima o poi scomparire completamente (ed in questo mi ritrovo con Marx); ma non potrebbe essere nemmeno una società liberale, nel senso tradizionale del termine, cioè capitalistica, per la stessa ragione (socialismo e capitalismo vanno infatti a braccetto, come Stato e società civile). Lo spazio dell’iniziativa economica privata, come quello dell’iniziativa economica pubblica (non più statale, ma dei poteri autonomi) si andrà progressivamente restringendo, mano a mano che verrà meno la contrapposizione fra pubblico e privato, cioè fra Stato e società civile, mentre crescerà progressivamente lo spazio di quello che è oggi il cosiddetto «terzo settore», cioè il settore delle iniziative economiche «non-profit», vale a dire della cooperazione sociale, del volontariato, della solidarietà, anche verso i paesi dell’attuale «terzo mondo», non per altruismo, ma per un’elementare necessità di sopravvivenza.
Se si dovesse qualificare con un aggettivo la nuova società politica – ma non è necessario –, si dovrebbe ricorrere al più generale e svincolato da ogni ideologia, cioè chiamarla semplicemente società più umana o, come soleva dire Giuseppe Lazzati, «città dell’uomo», cioè una società avente per fine il bene comune, inteso come possibilità di piena realizzazione per ciascuno, e quindi implicante come suoi momenti fondamentali la libertà e la giustizia. Ma ci si potrebbe richiamare anche a fonti più «laiche», quali la Arendt di Vita activa e l’ultimo Habermas. Credo che la configurazione più determinata e lo studio delle condizioni di fattibilità di un simile progetto abbiano motivo di interessare i filosofi e possano quindi giustificare un loro rinnovato impegno politico.

III
Nella descrizione dei suddetti settori di intervento è già contenuta l’indicazione di quella che dovrebbe essere, oggi, la forma in cui l’impegno politico degli intellettuali potrebbe prendere corpo. Se ci rifacciamo ai due grandi modelli classici di impegno politico dei filosofi, quello platonico e quello aristotelico, vediamo che essi divergono in un punto essenziale.
Per Platone, come è noto, la polis non sarà mai giusta, fino a quando i filosofi non prenderanno il potere, cioè non andranno direttamente al governo, o i governanti non diventeranno filosofi, ipotesi entrambe alquanto pericolose per una società complessa come quella contemporanea, perché non fondate sull’istituto democratico della rappresentanza. Per Aristotele invece l’azione politica diretta, cioè il governo, è affare non dei filosofi, quantunque pratici, ma degli uomini politici «saggi» (phrònimoi), e la realizzazione di una buona società politica, tramite una buona «costituzione», è compito soprattutto dei saggi legislatori. Nei confronti di costoro i filosofi hanno il compito di illustrare le diverse costituzioni possibili e di indicarne la migliore, o la più adatta alle diverse circostanze, o la più facilmente realizzabile tra quelle sopportabili.
Oggi il modello platonico di impegno politico può essere realizzato, nel rispetto dell’istituto della rappresentanza, in due modi: mediante l’elezione dei filosofi al parlamento o mediante la nomina di filosofi in un governo che abbia la fiducia del parlamento. Confesso di essere piuttosto scettico circa la possibilità di reale incidenza sulla politica del paese da parte di un parlamentare eletto in quanto filosofo, cioè non in quanto dirigente di partito o politico di professione. Mi è stata più volte offerta tale possibilità, ma ho sempre rifiutato, nella convinzione di poter fare di più nel piccolo ambito della mia professione di docente universitario, scrivendo libri e articoli, o formando studenti e nuovi docenti, piuttosto che all’interno di un gruppo parlamentare o di una commissione condizionati da esigenze e problemi ben diversi da quelli di mia competenza.
Ho anche notato, pur avendo militato in partiti più nobili di quelli coinvolti in «tangentopoli», cioè nella Democrazia cristiana dei tempi di Moro e Zaccagnini e nell’attuale Partito popolare italiano, che l’apertura delle proprie liste elettorali agli uomini di cultura è spesso strumentale, cioè dovuta solo alla speranza – spesso infondata – di raccogliere più voti, e che l’eventuale elezione si scontra subito con la gelosia, manifesta o latente, dei professionisti della politica, i quali si sentono in un certo senso derubati del mestiere, se non addirittura del «posto». Ma, naturalmente, posso sbagliarmi e non escludo che altri colleghi, più bravi o più fortunati di me, possano riuscire là dove io certamente non sarei riuscito.
Non credo di sbagliarmi, invece, nel ritenere che la politica, come ha detto Weber, sia necessariamente una vera e propria professione, la quale esige una dedizione a tempo pieno. Questo non è un bene, perché la politica come professione porta l’uomo politico a sovrapporre inevitabilmente ai fini politici, cioè universali, per la cui realizzazione è impegnato, gli interessi personali, cioè particolari, alla conservazione del potere, della carriera, del «posto». Però credo che sia una necessità insuperabile, dato il carattere estremamente complesso dell’attuale vita politica e il bisogno che il politico ha di un’enorme quantità di tempo per informarsi, documentarsi, curare i necessari rapporti con gli elettori, con i colleghi, con la stampa, senza i quali non può avere alcuna incidenza.
Credo inoltre altrettanto fermamente, sempre con Weber, che sia una professione non solo la politica, ma anche la «scienza», cioè la ricerca, la vita intellettuale, e che anch’essa abbia le sue esigenze, di tempo, di energie, di impegno, il cui mancato rispetto conduce inevitabilmente ad una perdita di quell’incidenza che è propria della scienza, cioè il contribuire in maniera originale al progresso degli studi, la capacità di richiamare l’attenzione degli specialisti sui propri lavori, il lasciare un traccia nella letteratura relativa agli argomenti di cui ci si occupa. Inoltre, in conformità col doppio significato del termine weberiano Beruf, cioè professione e vocazione, penso che tanto la politica quanto la ricerca siano anche una vocazione, cioè un’attitudine ed al tempo stesso una passione, e che sia difficile avere contemporaneamente due vocazioni.
Più efficace, ma anche più difficile da attuare, mi sembra il secondo modo in cui può essere realizzato il modello platonico di impegno politico, cioè l’assunzione diretta da parte di un filosofo di una responsabilità di governo, per esempio come ministro, o come assessore, oppure – secondo alcuni illustri esempi che vediamo oggi – come sindaco di un’importante città. In questi casi infatti è più probabile che egli venga scelto anche per le sue specifiche competenze, ed ha sicuramente più poteri di un parlamentare o di un semplice consigliere. Più facile è che venga scelto un manager, o un economista, o un giurista, cioè quello che si chiama comunemente un «tecnico», ma in tal caso gran parte del carattere platonico della scelta va perduto, perché viene meno proprio quella visione sinottica, cioè non specialistica, non tecnica, dei problemi che per Platone giustifica la coincidenza tra governante e filosofo.
Il modello aristotelico non comporta un’assunzione diretta di responsabilità di governo, né nel potere legislativo né in quello esecutivo, ma un’opera di informazione e, nel migliore dei casi, anche di formazione, esercitata dal filosofo nei confronti dell’opinione pubblica e talvolta anche della classe politica. Essa si realizza attraverso la pubblicazione di articoli nei quotidiani, la concessione di interviste per la radio e la televisione, lo svolgimento di conferenze, la partecipazione a convegni, l’intervento in «tavole rotonde», ma anche l’elaborazione di veri e propri trattati scientifici o, meglio, filosofici, che siano capaci di richiamare qualche attenzione e quindi di lasciare un segno. Una simile forma di impegno non è incompatibile con una certa militanza politica, che va dalla partecipazione ad associazioni di cultura politica – per quanto mi riguarda, ho presenti «Città dell’uomo» fondata da Lazzati e «Carta ‘93» – all’adesione a veri e propri partiti politici, ma sempre senza responsabilità dirette di guida, di organizzazione, di decisione, per le suddette ragioni di tempo e di competenza.
Questo mi sembra il tipo di impegno politico oggi auspicabile per un filosofo, soprattutto in relazione ai suddetti settori dell’etica, della formazione e delle riforme costituzionali; perciò non apprezzo, pur rispettandolo, il totale disimpegno di molti colleghi che considerano la filosofia una turris eburnea in cui rinchiudersi, per dedicarsi esclusivamente alle proprie personali speculazioni. Credo, con i grandi filosofi greci, ma anche con Kant, ed oggi con Apel, Habermas, Davidson, Putnam, Toulmin e molti altri, che la filosofia sia essenzialmente comunicazione, discussione, argomentazione, e che pertanto il luogo di essa non sia il «tempio», ma la «piazza» (l’agorà di Socrate). Del resto anche i filosofi più disimpegnati desiderano molto di pubblicare – almeno quelli di cui per questa ragione è nota l’esistenza –, il che significa che annettono qualche importanza alla comunicazione.
Le metafore della visione e dell’ascolto, che spesso sono state usate nella storia per qualificare la filosofia, non mi persuadono completamente. Penso che la visione, naturalmente come metafora, quindi l’intuizione, il coglimento diretto, sia un atto più proprio dell’arte che della filosofia, anche dell’arte poetica e musicale, e che in filosofia si giunga a «vedere» – se mai vi si giunge – solo dopo essere passati, per dirla con Platone, spesso invocato dai fautori della visione, «attraverso tutte le confutazioni» (dià pànton elènchon). Quanto all’ascolto, che non sia semplicemente ascolto delle voci degli uomini, ma sia ascolto dell’essere, della natura, della storia, di Dio, del nulla, o di qualsivoglia altra voce non umana, penso che non sia affare della filosofia, ma piuttosto della religione o di altre forme di sapienza.
La metafora che esprime meglio l’attività del filosofare è quella del dialogo, inteso non come semplice conversazione, ma nel senso forte di discussione, in cui si formula un problema, si prospettano tutte le possibili soluzioni e si cerca di confutarle una per una, per vedere se ce n’è qualcuna che resiste alla confutazione, e per quanto tempo vi resiste, ed a quali condizioni. In ciò mi sento vicino a Popper, anche se Popper limitava tale metodo alla scienza, non ammettendo altra forma di razionalità. Questo atteggiamento fa della filosofia qualcosa di molto simile alla politica, almeno ad una politica che non sia solo decisione immediata, ma deliberazione a ragion veduta, presa dopo che sono state soppesate le ragioni a favore e contro. Perciò vedo del tutto naturale l’impegno politico conforme al modello aristotelico per quanti concepiscono la filosofia come argomentazione, cioè come procedura razionale. Del resto esso è stato anche la forma di impegno politico dei filosofi più frequente lungo il corso della storia, almeno in Occidente.
Certo, credo che in determinati momenti gli uomini di cultura debbano essere disponibili anche per un impegno maggiore, di tipo «platonico», e credo che si debba essere grati, ad esempio, a quegli intellettuali ed a quei «professori» che hanno fatto la Costituzione italiana. Se gli uomini di cultura, in quel momento, non avessero risposto all’appello della politica, la costituzione sarebbe stata opera di politicanti di professione o di persone elette spesso in modi abbastanza casuali. Personalmente sono anche grato ad un uomo come Romano Prodi, che un bel giorno ha chiuso con la professione di scienziato per dedicarsi a quella di politico, perché senza questa sua decisione non so come avrebbe potuto formarsi una coalizione alternativa a quella conservatrice (questa non è la captatio benevolentiae servile dell’intellettuale nei confronti del potente, perché non so se al momento della pubblicazione di questo articolo Prodi sarà ancora presidente del Consiglio e in ogni caso non mi sembra molto potente).
Ma la sola disponibilità dell’uomo di cultura non basta, se non c’è anche una strategia, un’organizzazione, un collegamento organico con alcune forze politiche, e soprattutto una grande disponibilità di tempo, di energie, di passione, che si configura appunto come una nuova vocazione. Per fortuna, direi, alcuni uomini di cultura talvolta hanno questa vocazione, per fortuna (o sfortuna, secondo i punti di vista) nostra, non certo per fortuna loro, perché credo che vengano a trovarsi in situazioni tutt’altro che invidiabili. Chi non sente questa vocazione, può rendersi ugualmente utile facendo bene il proprio mestiere e magari impegnandosi anche a contribuire, con un apporto di idee, di obiezioni, di argomentazioni, alla realizzazione di quella nuova società politica di cui ho parlato sopra, la quale mi sembra una necessità a cui non si può rinunciare.

Pierangelo Sequeri – Agorà / Oltre il dialogo. Sfida congiunta alle passioni tristi: seguirei la stella, non il satellite

Pierangelo Sequeri

Pierangelo Sequeri

Dialogare è bene, ma lavorare è meglio. Parlare e ragionare delle cose in cui ne va di noi e dei nostri affetti più sacri e più cari, grazie a Dio, sono cose possibili – e rimangono necessarie – anche al di fuori degli schemi previsti dalle funzioni strumentali di determinati rituali dialogici: giuridici, psicologici, diplomatici, accademici, e via discorrendo.
Le raccomandazioni e le istruzioni a riguardo del dialogo non lo sostituiscono, del resto, se non c’è. Il dialogo è un valore naturalmente: tutto, pur di scongiurare la guerra. Quando sono ridotte al dialogo, però, la cultura e la politica finiscono per mandare in scena due spettacolini ripetitivi, seppur con diversa ambizione: il dibattito metodologico (interdisciplinare, multidisciplinare, o come si vuole) e il dibattito televisivo (con tutti i suoi omologhi politicamente ed ecclesiasticamente corretti). Troppo spesso, in entrambi i casi, solo chiacchiere e distintivo.
La retorica del dialogo, che finisce per sostituire interamente il lavoro del pensiero, e si nutre di svagata indifferenza per la verità nelle cose, soffoca anche il dialogo fra credenti e non credenti (o diversamente credenti, o pensanti, o come volete voi). Nel dialogo fra ragione e fede, infatti, qualunque cosa significhi, tutti gli esseri umani sono semplicemente implicati in qualcosa in cui è in gioco – e a rischio – semplicemente l’umano. Per quanto diversamente – e oppositivamente – si posizionino, in tutta coscienza e libertà (e nemmeno questo è scontato), gli umani hanno sempre a che fare con entrambe. È lì che viviamo, moriamo, e siamo. Questa è la storia dell’uomo. E così continua ad essere. Non c’è nulla di più interessante. Al di fuori di questo nesso – così intricato, così eccitante – nessun argomento ha sapore e attrazione all’altezza dell’umano. Nemmeno il cibo, nemmeno il sesso. Neppure oggi. Lo stesso esperimento della secolarizzazione a-teistica, non riesce ad affondare la società degli umani soltanto fino a che tiene alta la sua dialettica con le parole e i gesti della religione: della cui potenza simbolica, magari surrettiziamente, si nutre inequivocabilmente. Persino dibattiti altrimenti futili – o disperati – intorno alla qualità della vita, sono nobilitati dal fatto di essere innervati da quella dialettica. Diversamente, saremmo già ridotti all’ossessione predatoria per il dominio, alla lotta per le pozze d’acqua, all’eliminazione del più debole (lo so: c’è chi ci sta lavorando, ma non disperiamo di neutralizzarlo). Dell’umanesimo, scomparirebbe la passione e persino il linguaggio.

La mia idea sarebbe quella di fare un appello all’oltrepassamento del dialogo, per passare alla cooperazione. E chi c’è, c’è. Incominciamo dagli intellettuali, che ci hanno decostruito abbastanza. Siamo a pezzi. La vacanza del pensiero è finita e l’occidentale politicamente corretto è un po’ inebetito. Le nuove generazioni incominciano a domandarsi dov’era il trucco, e intanto si agitano alla rinfusa. Dove capita, decostruiscono anche loro, a loro modo. La colpa è nostra.
C’è del lavoro urgente da fare, a parte il dialogo: riguarda beni di prima necessità per l’ominizzazione, che il mercato ha dismesso. La ripresa di iniziativa culturale del cristianesimo chiede, d’altro canto, disincanto del mondo, cultura impeccabile e passione per la cosa. Non siamo nel peggiore dei mondi possibili: sempre nella creazione di Dio, abitiamo. Devoti ossessivi e sbeffeggiatori impudenti ricavano energie parassitarie dalla nostra radiazione malinconica di fondo, che ormai si diffonde “globalmente”. E le investono su opposti estremismi, in nome della fede o della ragione, confondendo molti. In un mondo che perde logos, la reazione a catena del polemos (della guerra, della violenza, dell’aggressività di tutti contro tutti) guadagna terreno e si fa incontrollabile.
In un mondo che rimane senza l’audace e creativa testimonianza della sua comune destinazione cristologica, il politeismo degli dèi razzisti e corporativi occupa la scena. Il tentativo di annichilire il cristianesimo lavora certamente per il nichilismo – dovunque accada. Lo svuotamento dell’incarnazione di Dio fa regredire la religione e l’ominizzazione: indisgiungibilmente. Per questo, noi per primi ci dobbiamo purificare col fuoco, pur di restituire all’evangelo il suo onore. Non solo la sua verità. L’Occidente, del resto, ha covato a lungo il suo uovo di serpente. Puntuale, arriva la sua morìa dei primogeniti. L’autorealizzazione narcisistica (ce n’è un’altra?) rende infelici. L’infelicità può reggere alla penuria di benessere: ma non all’incredulità nei confronti della differenza del bene e del male, o all’indifferenza della vita e della morte. È così fin dall’inizio.
Mi espongo all’azzardo. Il banco di prova che misura la serietà intellettuale della cooperazione di religione e pensiero si può condensare in quattro idoli da sfidare in campo aperto, come Elia, che non guarda in faccia alla sfrontatezza dei sacerdoti di Baal, né alla vigliaccheria di Acab, che vi espone il popolo di Dio. Non sono semplicemente temi da sviluppare, fra gli altri. Sono bastioni da abbattere, luoghi comuni da disinnescare con perfetta ironia del logos: senza “se” e senza “ma”. Pura deontologia dell’onestà intellettuale, con soave letizia dell’annuncio evangelico e della testimonianza contraria. Li enuncio sinteticamente.

Il primo idolo è l’esistenza separata di un mondo giovanile: con logiche proprie, desideri propri, organizzazione propria, irresponsabilità propria. In pochi decenni, questa invenzione (essenzialmente mercantile) ha generato, per contraccolpo, l’universo tignoso della competizione senile: incorporazione di un’adolescenza infinita, scarso interesse per il lavoro della generazione, ricerca di complicità nel godimento e difesa corporativa del potere. I giovani non hanno guadagnato nulla da questa scomposizione, in un primo momento oggetto degli ammiccamenti compiaciuti di una classe intellettuale frustrata dalle sue rivoluzioni mancate. I giovani hanno incominciato a rendersene conto. L’ammiccamento del mercato, almeno, adesso è più scoperto. È l’ora della desublimazione: l’ultima frontiera del freudismo alla rovescia. Essere giovani significa poter godere sessualmente, in qualsiasi forma: senza cura per la generazione e senza fatica della dissimulazione. Essere se stessi, come si dice, senza orpelli ideologici. Caspita. Un piccolo passo per un giovane, un grande balzo per l’umanità. Sulla soglia di questa regressione, per “rimanere giovani” a loro volta, si affollano pateticamente gli adulti (anche quelli apparentemente più pensosi). L’ultimo atto di questo abbandono dell’uomo senza età al mito dell’orda primitiva, è l’incorporazione del concepimento fra le variabili del desiderio di godimento (a certe condizioni “si rimane giovani” e ci si sente “adolescenti onnipotenti”, anche “facendo” un figlio). Di fatto, abbiamo incominciato a perdere il senso delle stagioni e dell’unità della vita: anzi della storia e della sua destinazione. E perdiamo il senso più pieno della libertà: mai così potente come quando si distacca da sé per incorporarsi irreversibilmente in un altro, destinato a non essere parte di me.

Il secondo idolo è il vincolo condizionale dell’economia utilitaristica. Quello secondo il quale si deve crescere sempre, a prescindere. Quello secondo il quale senza risorse finanziarie non si produce neppure cultura, o democrazia, perché tutto ha un costo. Quello secondo il quale l’essere umano è una macchina biologica del godimento predatore e del desiderio autoriferito. Non voglio nemmeno discutere, qui, di capitalismo o di mercato: l’intrascendibilità del fondamento economico-libidico della storia dell’uomo è un credo che unisce tutt’ora il capitalismo e i suoi oppositori. Parlo della potenza simbolica – religiosa, quasi teologale – accordata alla presunta ovvietà di questo strumento che si è fatto fondamento. E della gerarchia che i sussiegosi officianti dei suoi riti distribuiscono come inevitabile, sbeffeggiando gli ingenui che ne dubitano. Battaglia dura: inutile girarci intorno, bisogna mettersi di traverso. È questo che corrode la mente e svuota l’anima. Ora – è evidente – non siamo più neppure in grado di sacrificare vita e creature per la Bestia che promette di tenerci in vita. Siamo straccetti. E non possiamo reggere il gioco. E ci dicono pure che siamo noi che sbagliamo a consumare. Pezzi di interi continenti, con uomini e donne sopra, affondano di questo. Non per caso Gesù dice ai suoi che la sovranità di Cesare, a certe condizioni, può essere riconosciuta. Quella di Mammona, mai.

Il terzo idolo la struttura essenzialmente comunicativa del sapere. L’ossessione informativa, funzionale, strumentale del sapere, ha imposto la credenza nella sua giustificazione strettamente utilitaristica. Non è per la verità, è per la notizia: dopodiché (come dice l’assessore) sono fatti vostri. In uno spazio così angusto, che si dilata solo orizzontalmente, non c’è posto per nessuna profondità, nessuna grandezza d’animo, nessuna verità dell’arte, nessun realismo per la differenza dello spirito, nessuna potenza dell’affezione che allarga la mente, creando libertà e sfidando la morte. Esibizionismo linguistico, tutto fa spettacolo. Perdiamo metà del mondo e quasi tutto il suo cielo. Gli umani si parlano per essere più umani, non solo per comunicare meglio. Il pensiero e il linguaggio avvolgono spessori dell’essere-umano – e anche dell’essere mondano – che si arricchiscono di mille sfumature, dispiegano potenze nascoste, inturgidano la vita di grandezze incomparabili e imperdibili dell’anima. La parola del pensiero – anche quella silenziosa – crea spazi di eternità per la vita a disposizione dell’anima: è per la circolazione extra-corporea dell’anima, che arricchisce di colori caldi il pianeta uomo. Il godimento immediato è sempre un godimento mancato. L’espressione spontanea di sé rimane sempre vagito. Sempre più individui, giovani e sani, grugniscono e firmano con la x. La mente e l’anima chiedono cura. E invenzione e sintassi, circolazione di esperienze e affinamento del linguaggio, abilità nella modulazione delle sintonie e passione per l’attitudine a nuove composizioni che allargano i sensi, fino a renderli capaci di presa sull’eterno. La bellezza dell’anima è la nostra casa comune. Non per niente la qualità della musica è la spia perfetta della civiltà dei sensi spirituali che corrisponde alla formazione dell’umano in noi. I ragazzi, a scuola, anche quelli con l’anello al naso, aspettano solo testimoni competenti, impeccabili, appassionati di questo. Muoiono di rachitismo spirituale, le creature, prima che di violenza e di dosi eccessive.

Il quarto idolo è il carattere privato della nominazione di Dio. Nella cultura occidentale si è sviluppato un consistente pregiudizio a riguardo del senso comune della nominazione di Dio: sarebbe l’indicatore principale della superstizione, dell’inganno, della violenza. Di fatto, nella convinzione di doverla anzitutto sottrarre alla religione, la regolazione della nominazione di Dio è passata alla politica, poi alla scienza. Pur dichiarandosene incompetenti, la politica e la scienza non fanno che parlarne. A vanvera. Manca invece una seria cultura della teo-logia, che è certamente di interesse pubblico, in virtù della sua originaria disposizione alla mediazione del logos. Il cristianesimo dovrà essere, a sua volta, meno timoroso e più generoso: e adoperarsi perché la teo-logia diventi una rispettabile funzione del sapere critico e autocritico di pubblico interesse, non un gergo di mera appartenenza. Nella realtà, la disumanizzazione della nominazione di Dio, rimpicciolito alla misura del privato sentire delle politiche di parte o di etnìa, incoraggia una vera legione di piccoli padreterni. Piccoli, ma non innocui. “Dio” è meglio lasciarlo misteriosamente oltre il limite dei nostri desideri e dei nostri godimenti, piuttosto che riempirlo rozzamente o svuotarlo stupidamente di realtà. Il delirio di onnipotenza è il trascendentale della stupidità, non dell’autorealizzazione: e fa danni, persino in nome di Dio. Di certo, la privatizzazione del nome di Dio, che lo separa dall’universale rispetto per la verità che deve essere restituita alla giustizia – e non possiamo, noi – non ha prodotto nulla di buono. Nulla.

Troppo difficile? Per quel che vale, a questo punto, vi dico la mia opinione anche su questo. Pochi passi dietro la linea del talk show, ci sono fior di menti – che persino i teologi ignorano, a vantaggio dei più nominati in classifica – che non ne possono più dei quattro idoli che ci affogano le creature. Un soprassalto creativo che riapre il mondo ci serve, non la conta delle lenticchie che ci uniscono e ci dividono. Siamo in ostaggio, con tutta la carovana, di passioni tristi: autorefenziali e scettiche, in egual misura, nei confronti della verità che non patteggia con la morte e del desiderio di non abitare la terra invano. Mettere il cuore nell’intelligenza delle cose più vere e degli affetti più sacri, che ci tengono insieme per l’eterno (la generazione, l’amicizia, la grandezza dell’animo, il rispetto del mistero nascosto in Dio), è passione lieta, capace di creare comunanza e slancio, in grado di rimettere in moto la storia.
La bellezza attuale del cristianesimo, per come la vedo io, deve apparire in questo: con tutti i difetti e le incongruenze che porta, questa figura religiosa del Logos è l’unica in grado di proclamare, in nome di Dio, che la verità di Dio è riscatto e salvezza per l’ostinazione di essere umani. La nuova frontiera del dialogo è questa. Per la nuova evangelizzazione, seguirei la stella, non il satellite.

Pierangelo Sequeri

Già pubblicato in Koinè, Anno XVIII  –  NN° 1-3  –   Gennaio-Giugno 2011

Alessandro Monchietto – «L’euro come metodo di governo. Il ciclo di Frenkel, le ragioni degli squilibri dell’eurozona e la mezzogiornificazione delle periferie europee»

Euro come metodo di governo

 

Euro come metodo di governo

 

1. Nella produzione di un ordine del discorso dominante, le notizie vengono selezionate, accorpate, differenziate: alcuni casi di cronaca vengono messi in risalto, altri lasciati in ombra o taciuti. Tutto si muove all’interno di una dinamica che sta a noi comprendere e districare, per non farci travolgere da un’ingiusta lettura del presente. C’è oggi nel mondo un discorso dominante, o che piuttosto si avvia a diventare dominante, relativo all’attuale crisi. Nella sostanza esso sostiene che l’odierna condizione di precarietà economica che caratterizza il continente europeo dipenda dai debiti pubblici, dalla loro quantità troppo elevata, dall’eccessivo rapporto fra debito e Pil. Il problema viene presentato come “crisi dei debiti sovrani”, in particolare di alcuni membri (i cosiddetti PIIGS) ordinariamente descritti come incapaci di controllare l’eccesso di spesa pubblica e la conseguente spirale debitoria; questo dato spaventerebbe gli investitori, determinando una diminuzione della fiducia del mercato azionario che – per questo motivo – comincerebbe a richiedere interessi sempre più alti. Per “tranquillizzare i mercati” occorrerebbero dunque drastiche scelte che migliorino il bilancio pubblico: aumento delle tasse e riduzione delle uscite (ergo tagli alla spesa sociale), privatizzazione dei beni e dei servizi pubblici, e una riforma del mercato del lavoro che introduca maggiore flessibilità, diminuzione delle tutele sindacali, facilità di licenziamento, in modo da favorire la riduzione del rischio d’impresa e l’aumento della produttività. La forza di questi ragionamenti sta nel senso di mortificazione che stimolano negli individui, e nello sfondo di “naturalezza” che danno a qualsiasi avvenimento negativo. In questo breve testo cercheremo di gettare luce su alcuni meccanismi del discorso dominante, nel tentativo di proporre un cambio di prospettiva.

2. Occorre innanzitutto mettere a fuoco cosa accade quando si riuniscono Paesi diversi in una unione monetaria. Questo tipo di analisi è stata egregiamente svolta da Roberto Frenkel e Martin Rapetti, due economisti argentini che hanno preso in esame vari episodi di crisi economico-finanziaria (dal Cile della fine degli anni ‘70, alla crisi asiatiche della seconda parte degli anni ‘90, sino alla crisi Argentina dell’inizio degli anni 2000), e ne hanno estratto uno schema comune. Sostanzialmente la vicenda ha due protagonisti: un paese sviluppato (il “centro”), con una forte base finanziaria e industriale, e un paese, o un gruppo di paesi, relativamente arretrato (la “periferia”). Il centro “suggerisce” alla periferia la liberalizzazione dei movimenti di capitale e l’adozione di un tasso di cambio fisso. In tal modo ottiene due vantaggi: in periferia i tassi di interesse sono più alti che in patria[1], e il centro può prestarle i propri capitali (i movimenti di capitali sono stati infatti liberalizzati) lucrando la differenza senza patire rischio di cambio (il cambio è fisso); inoltre, drogando coi propri capitali la crescita dei redditi della periferia, il centro si assicura un mercato di sbocco per i propri beni. Le economie periferiche perdono competitività rispetto a quelle del Centro, e questo si traduce in un peggioramento della bilancia commerciale: nella competizione con i paesi più forti, che presentano inflazione più bassa, gli Stati periferici vedono ridursi le esportazioni e aumentare le importazioni. La periferia si gonfia così come una bolla: l’accesso al credito facile fa salire l’inflazione, e se all’inizio ci si rivolgeva all’estero essenzialmente per comprare beni di lusso, col tempo i prodotti esteri diventano competitivi anche sulle fasce più basse, il deficit commerciale si approfondisce, e occorrono nuovi capitali esteri per finanziarlo. Questo fa sì che l’economia, nonostante la crescita, diventi più fragile. A un certo punto per un motivo X(ad esempio lo scoppio di una recessione) il centro comincia a dubitare della capacità della periferia di rimborsarlo: esige il pagamento di interessi più alti a copertura del rischio, lo spreaddecolla, e i paesi periferici vedono le proprie economie crollare e precipitare verso una spirale distruttiva da cui faticano sempre più a uscire[2].

3. All’interno di un’unione monetaria ci sono infatti degli elementi che impediscono il normale riequilibrio delle situazioni di crisi. Facciamo un esempio pratico, per chiarire: immaginiamo che Italia e Germania abbiano le loro monete nazionali, e che in un dato momento il cambio lira-marco sia uno a uno (un marco per una lira). Immaginiamo poi che, pian piano, la Germania accresca la sua competitività e quindi le sue merci vengano richieste maggiormente. Assieme alle merci verranno richiesti anche i marchi per pagarle, e quindi aumenterà anche la domanda di moneta tedesca. La valuta è infatti una merce, e in quanto tale è sottoposta alla legge della domanda e dell’offerta: attraversi tale meccanismo si determinerà dunque un aggiustamento del cambio, cioè un apprezzamento del marco e/o una svalutazione della lira. Ora vediamo cosa accade all’interno dell’euro. Italia e Germania hanno la stessa moneta, e quindi il cambio è sempre uno a uno (un euro per un euro). Nonostante i divari di inflazione e di competitività, il cambio resta fisso, anche quando, in realtà, la moneta italiana dovrebbe perdere valore rispetto a quella tedesca. Se il rapporto di cambio corretto, dati gli sbilanci commerciali, sarebbe due a uno (due lire per un marco), allora restare nell’euro (mantenendo un rapporto di cambio uno a uno) significa frenare l’apprezzamento del marco, e mantenere la divisa tedesca al di sotto del valore che dovrebbe avere, aumentandone la competitività[3]. Questa – come vedremo – è la logica del “regime di accumulazione” sulla quale si basa l’UE.

4. Il discorso dell’attuale crisi – dominante nei media come nell’accademia – sembrerebbe suggerire la tesi secondo cui il successo della Germania sia essenzialmente dovuto alla sua “capacità di innovare”, che le permetterebbe di vincere la “sfida della globalizzazione”. I dati tuttavia raccontano una storia diversa. Dal 1999 al 2007 la Germania ha avuto un deficit crescente verso i paesi emergenti e in particolare nei confronti dei BRIC (quello verso la Cina è ad esempio aumentato di circa 20 miliardi di dollari), mentre i 239 miliardi di aumento del surplus tedesco da inizio secolo sono spiegati per due terzi dagli scambi con i paesi europei[4]. L’innovazione c’entra ben poco: queste dinamiche sono spiegate dalla competitività di prezzo. E la dinamica favorevole dei prezzi in Germania è dovuta soprattutto al fatto che – negli ultimi dieci anni – gli aumenti di produttività non sono finiti nelle tasche dei lavoratori. In sostanza il segreto della “locomotiva tedesca” è una politica di moderazione/deflazione salariale, per cui a produttività crescente corrispondono salari reali calanti[5]. Non è dunque un problema di paesi “virtuosi” contro paesi “”cattivi”, come i tutori dell’ordine simbolico cercano ideologicamente di contrabbandare. La Germania ha infatti realizzato politiche del lavoro che hanno tenuto relativamente bassa la propria inflazione[6], e grazie a ciò è riuscita a impedire l’aumento dei propri prezzi, aumentando tuttavia a dismisura i problemi dei partner più deboli. La Germania ha pertanto immensamente squilibrato l’eurozona con la sua politica di depressione della domanda interna[7]. Di qui discende la necessità di una politica di compressione salariale in tutti i PIIGS: se non si copia quello che ha fatto la Germania, si continuano ad accumulare deficit commerciali, finanziati con afflussi di capitali (cioè con debiti), e si tratta di una situazione chiaramente insostenibile. [8]

5. Ha però senso accettare tali sacrifici? La nostra risposta è un secco NO. Una politica d’austerità e moderazione salariale generalizzata a tutta l’Europa farebbe cadere l’intero continente nella stagnazione, a causa dell’indebolimento della domanda. Se tutti paesi dell’eurozona adottassero le stesse politiche depressive, chi potrebbe infatti comprare le loro merci[9]? L’austerità non appare più dunque come un passaggio necessario per superare la crisi, ma si palesa come un meccanismo mirato a scaricare i costi della crisi sui soggetti deboli, siano essi i ceti popolari europei (che si vedono privati di diritti conquistati decenni addietro e che mano a mano si avvezzano alla nuova realtà di impoverimento diffuso) o i “capitalismi deboli” dei PIIGS. L’indebolimento causato dalle politiche di austerità potrà infatti rivelarsi la premessa per una politica di acquisizioni da parte dei soggetti forti del continente. Si è a proposito parlato di vera e propria «Mezzogiornificazione» europea[10]. Secondo questa ipotesi i PIIGS sono destinati a diventare zone depresse, così come avvenne paradigmaticamente al sud Italia nel corso del XIX e XX secolo: le leve di comando del capitale si concentreranno sempre più nelle aree centrali dell’unione, le periferie saranno colpite da fenomeni di desertificazione produttiva e migrazione di massa e le loro economie si conserveranno esclusivamente in funzione degli interessi e dei fini dei paesi forti del Nord.

6. Queste osservazioni permettono di rispondere a una possibile obiezione: si potrebbe infatti pensare che la Germania – con l’imposizione delle sopracitate politiche di austerità – stia segando il ramo sul quale è seduta, poiché in tal modo starebbe inevitabilmente restringendo la capacità di assorbimento delle merci alemanne da parte dei propri mercati di sbocco. È tuttavia ragionevole ritenere che essa abbia intrapreso questo percorso proprio perché tali politiche di austerità renderanno sempre più facile la conquista economica dell’euro-periferia da parte dei paesi centrali. Queste dinamiche, certamente ben note ai ceti dirigenti tedeschi, probabilmente rappresentano uno degli elementi su cui essi contano: la possibilità di investire acquisendo imprese locali a costi di saldo potendo operare con lavoratori privati di tutele e diritti, al fine di ridurre l’intera periferia del continente a una specie di “Cina dell’Europa”.

7.1 Cerchiamo ora di sintetizzare. Come si è visto, l’Ue è stata creata per imporre la massima apertura degli Stati alla libera circolazione di merci e capitali e per impedire ogni intervento statale che ostacoli la concorrenza e protegga le economie interne. È la decisione di aprire l’economia alla libera circolazione di merci, servizi e capitali che determina la necessità di regimi a cambi fissi, o ancor meglio di unioni monetarie. Senza di essi gli investimenti internazionali a medio-lungo termine sarebbero stati scoraggiati dal rischio di cambio[11], fattore assai limitante e inviso ai propugnatori del principio ideologico della “libera circolazione”.

7.2 L’unione europea non è che una realtà giuridica nata da circa un paio di decenni grazie all’adesione di alcuni Stati a determinati trattati internazionali. Sono questi documenti specifici (dal trattato di Maastricht – il cui spirito costitutivo e costituzionale è chiaro: meno Stato, ergo più mercato – al recentissimo Fiscal Compact) a definire cosa è l’Ue. Le politiche antipopolari, neoliberiste e iper-capitalistiche sono pertanto iscritte nei trattati stessi che definiscono l’Unione europea. Questi aspetti non sono linee di politica economica scelte da una maggioranza politica, che possono quindi cambiare in base al diverso colore politico dei governi. Essi sono il fondamento stesso dei trattati che definiscono l’Ue, ne permeano ogni pagina, e rappresentano l’intima essenza dell’Unione, delle sue istituzioni, della sua ragion d’essere. Decidendo di entrare a far parte della Ue (o di non uscirne), è alla teoria politico-economica liberista che si aderisce. Non c’è infatti nessuna possibilità all’interno del suo quadro istituzionale – interamente intriso dell’ideologia liberista – di realizzare politiche di segno diverso[12].

7.3 L’offerta di prestiti da parte di banche desiderose di collocare eccedenze finanziarie (risultato come visto dei surplus commerciali drogati dall’euro) ha indiscutibilmente favorito la “domanda” delle merci del centro. Banche che – consapevoli dell’esistenza di un rischio di insolvenza – hanno comunque indotto i cittadini e le imprese dei PIIGS a indebitarsi. Non sono stati dunque i cittadini greci, spagnoli o portoghesi a vivere al di sopra dei propri mezzi. Sono state le banche tedesche a farlo. Non sono stati i cittadini greci, spagnoli, portoghesi o italiani a pensare che qualcuno avrebbe pagato per loro: sono state le banche tedesche a sapere che qualcuno avrebbe comunque pagato per loro.

7.4 L’euro ha creato le condizioni di un afflusso di capitali che ha portato ad un forte indebitamento privato. Il fattore causale della crisi non è dunque la politica fiscale dello Stato, ma il peggioramento dei rapporti economici con l’estero[13]. Le misure di austerità non risolveranno pertanto nulla, dato che non determinano nessun miglioramento rispetto ai problemi strutturali dell’eurozona.

8. La nostra tesi è che l’uscita dall’euro sia condizione necessaria per impostare politiche economiche di giustizia sociale e sostenibilità ecologica. Non intendiamo tuttavia asserire che essa sia condizione sufficiente: non vogliamo cioè sostenere che l’uscita dall’euro comporti, di per sé, una maggiore giustizia sociale o l’inversione delle tendenze distruttive che il capitalismo sta mostrando. Sosteniamo però che tali problemi sono impossibili da risolvere, ed anzi sono certamente destinati ad aggravarsi di continuo, se si rimane nell’euro[14].

Note

[1] «Nella periferia normalmente i tassi di interesse sono più alti e questo per un dato fisiologico dell’economia, perché un’economia che è un po’ più arretrata, se vogliamo, offre delle importanti opportunità di investimento. Insomma, se in un’economia ci sono le autostrade, tutti i porti, tutte le strutture, le fabbriche, eccetera, e in un’altra ancora non ci sono, è chiaro che il capitale si dirigerà verso dove ancora non ci sono perché lì sarà più produttivo. Questo è un po’ la situazione così come te la racconterebbe un economista di estrema ortodossia» [A. Bagnai, Ce lo chiede l’Europa. Intervista a Alberto Bagnai a cura di Claudio Messora, http://www.byoblu.com/post/2012/07/06/alberto-bagnai-ce-lo-chiede-leuropa.aspx].

[2] Cfr. a riguardo http://goofynomics.blogspot.it/2012/11/il-romanzo-di-centro-e-di-periferia.html.

[3] «Da tutto ciò si evince che è la struttura dell’euro a rappresentare, essa sì, una svalutazione competitiva: la svalutazione competitiva della Germania contro i paesi più deboli di lei, contro i PIIGS e la Francia. […] la nostra proposta non è finalizzata a rilanciare le svalutazioni competitive, bensì a difendere il nostro paese dalla svalutazione competitiva operata dalla Germania grazie all’euro» [M.Badiale, F.Tringali, La trappola dell’euro. La crisi, le cause, le conseguenze, la via d’uscita, Asterios,Trieste 2012, p. 106].

[4] http://goofynomics.blogspot.it/2011/11/i-salvataggi-che-non-ci-salveranno.html

[5] In una cornice di coordinamento e collaborazione tra i paesi europei, la maggiore domanda a favore dei beni e del lavoro dell’industria tedesca avrebbe dovuto condurre a corrispondenti aumenti salariali. Questi si sarebbero trasferiti agli altri comparti che non hanno sperimentato rialzi di efficienza, determinando un’accelerazione delle dinamiche inflazionistiche rispetto a quelle dei partner: il rialzo delle retribuzioni, arrivato dal settore beneficiario del boom di produttività, sarebbe stato il motore del riequilibrio complessivo. Le cose, in Germania, sono andate in senso esattamente opposto. Il salario industriale, lungi dall’aumentare con la produttività, è bensì sceso: del 14,5 per cento in rapporto al valore del prodotto medio del lavoro tra il 2002 e il 2007. cfr. http://archivio.lavoce.info/articoli/-europa/pagina1001966.html; http://goofynomics.blogspot.it/2012/08/i-salari-reali-alamanni-sono-scesi-del-6.html.

[6] Sul rapporto tra moneta, inflazione e conflitto sull’attribuzione delle risorse cfr. http://www.youtube.com/watch?v=hhwtFGuvmvs

[7] Il punto decisivo non è il livello dei prezzi e dei salari, ma la loro variazione. I costi unitari della manodopera (ossia i salari rettificati in base alla produttività) sono aumentati del 35% nell’Europa meridionale, contro un aumento del 9% in Germania. Il nucleo si è alimentato così a spese della periferia, causandone il dissesto finanziario, e accumulando crediti esteri per oltre 1000 miliardi di dollari dal 1999 al 2009. Il problema di fondo del eurozona è pertanto quello della competizione interna, con la Germania e i paesi forti del Nord che accumulano surplus commerciali nei confronti di quelli del sud. Cfr. http://www.voxeu.org/article/should-we-believe-german-labour-market-miracle ; http://orizzonte48.blogspot.it/2012/12/per-chinon-guardasse-solo-google-e.html .

[8] La teoria delle aree valutari ottimali insegna che per evitare problemi, l’abbandono della flessibilità del cambio deve essere compensato introducendo altre flessibilità, come una maggiore mobilità dei fattori di produzione, una maggiore flessibilità dei salari e una maggiore diversificazione produttiva (che aiuta a superare difficoltà specifiche in un determinato settore). Occorre inoltre che i tassi di inflazione fra i paesi membri convergano, e se questo non si riesce ad ottenere diviene necessario progettare istituzioni per ovviare “a valle” a tali squilibri. Questo obiettivo si può raggiungere innanzitutto apportando un sistema di trasferimento di risorse dalle zone in espansione a quelle in recessione (integrazione fiscale) e inducendo a politiche espansive chi accumulato risorse tramite surplus, affinché agisca da locomotiva per il resto dell’unione (il cosiddetto coordinamento delle politiche fiscali). Non si può infatti essere in surplus se nessuno in deficit, e ai tagli nei paesi in deficit deve accompagnarsi un’espansione della domanda nei paesi in surplus. Su questi temi e sulla proposta avanzata da E. Brancaccio riguardo uno “standard retributivo europeo” per ridurre lo sbilanciamento tra paesi in surplus e paesi in deficit commerciale si veda http://csdle.lex.unict.it/archive/uploads/up_680855042.pdf

[9] Una Europa “germanizzata” non potrebbe generare al proprio interno la domanda a sostegno della produzione, mentre – almeno nel medio termine – non ci si può aspettare che tale domanda provenga dall’esterno.

[10] Cfr. E. Brancaccio e M. Passarella, L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa, Il Saggiatore, Milano 2012, pp. 89 ss.; http://www.emilianobrancaccio.it/2012/11/30/dalla-crisi-della-moneta-unica-alla-critica-del-liberoscambismo-europeo-brevi-note-sulla-mmt/

[11] Cfr. http://goofynomics.blogspot.it/2012/11/il-romanzo-di-centro-e-di-periferia.html ; http://goofynomics.blogspot.it/2013/06/postfazione-europa-kaputt-di-am-rinaldi.html

[12] «L’Ue è l’unione degli Stati europei definita dai trattati di Maastricht e di Lisbona, di cui il “fiscal compact” del 2012 è la naturale evoluzione. Chi vi aderisce accetta quella “Europa”. Pensare di aderire ad essa e contemporaneamente chiederne il rivolgimento sarebbe come aderire ad un’associazione di tiro con l’arco e poi chiedere di buttare via archi e frecce per dedicarsi agli scacchi. È ovvia l’insensatezza. Chi desidera giocare a scacchi farà bene a entrare in una associazione di scacchisti» [M.Badiale, F.Tringali, La trappola dell’euro, cit., p. 111].

[13] «Se il problema fosse il debito pubblico, dal 2008 la crisi avrebbe colpito prima la Grecia (debito al 110% del Pil), e poi l’Italia (106%), Belgio (89%), Francia (67%) e Germania (66%). Gli altri paesi dell’eurozona avevano debiti pubblici inferiori. Ma la crisi è esplosa prima in Irlanda (debito pubblico al 44% del Pil), Spagna (40%), Portogallo (65%), e solo dopo Grecia e Italia. Cosa accomuna questi paesi? Non il debito pubblico (minimo nei primi paesi colpiti, altissimo negli ultimi), ma l’inflazione» e l’indebitamento privato [cfr. http://goofynomics.blogspot.it/2011/11/luscita-delleuro-redux-la-realpolitik.html].

[14] «L’approccio “neo-mercantilista” tedesco sfrutta la moneta unica e la maggiore competitività delle proprie industrie per rubare quote di mercato agli altri paesi, non è così diverso dalla politica inglese dell’ottocento, che sfruttando la superiorità della propria produzione meccanizzata, si faceva alfiere del libero scambio (che permetteva alle sue merci di arrivare dappertutto) e del “gold standard” (che assicurava stabilità ai cambi) perché in quelle condizioni essi rappresentavano dei vantaggi per l’industria inglese. Ma il predominio dell’industria inglese rendeva difficile lo sviluppo industriale di paesi ad essa legati. In questo modo il predominio economico britannico durante l’ottocento ha contribuito alla creazione di ciò che più tardi si è chiamato “Terzo Mondo”.  Non è un caso che gli Stati Uniti abbiano adottato, per tutto o quasi l’ottocento, politiche di tipo protezionistico, proprio per proteggere la propria nascente industria dalla concorrenza inglese. Gli storici dell’economia hanno coniato, per la politica inglese ottocentesca nei confronti dei paesi sotto la propria influenza, ma non controllati politicamente in modo diretto, l’espressione “imperialismo del libero scambio» [M.Badiale, F.Tringali, La trappola dell’euro, cit., p. 53].

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