Paul Gille – L’uomo è un essere pensante, dotato di coscienza e di ragione, capace di concepire e di volere il giusto. Avere un ideale, un’idea sintetica di giustezza e di giustizia, ecco quel che costituisce la nobiltà e la superiorità umana. Vivere solo per se stessi è contro natura, l’indipendenza cinica è un’aberrazione. Tutto si sorregge a vicenda in questo grande organismo che è l’universo; e la solidarietà è un fatto prima d’essere un principio.

Salvatore Bravo

A proposito di Paul Gille

 

Sì, l’uomo è un animale, e, come tale, sottomesso, lo sappiamo anche troppo, a tutte le esigenze, a tutte le necessità fisiologiche della vita animale; ma è anche un essere pensante, un essere dotato di coscienza e di ragione, capace di concepire e di volere Il giusto, in tutti i campi, in tutta l’estensione del termine. Avere un ideale — un’idea astratta, un’idea sintetica di giustezza e di giustizia – ecco quel che costituisce la nobiltà e la superiorità umana.

Vivere solo per se stessi è contro natura, una chimera irrealizzabile e malsana; l’indipendenza cinica è un’aberrazione. È tanto impossibile vivere solo per sé, quanto il vivere soltanto da sé; poiché mille legami visibili e invisibili ci riattaccano al di fuori, irradiano attorno a noi e vanno dall’ambiente a noi e da noi all’ambiente. Tutto si sorregge a vicenda in questo grande organismo che è l’universo; e la solidarietà è un fatto prima d’essere un principio.

Paul Gille

 

L’introduzione di Saverio Francesco Merlino al testo di Paul Gille

Gli ultimi anni di Saverio Francesco Merlino sono poco conosciuti, non si hanno molte notizie in merito. Ciò malgrado, nel 1925 scrive la prefazione al testo dell’amico Paul Gille Abbozzo di una filosofia della dignità umana, edito in Italia nel 1926. La prefazione è doppiamente importante, in quanto è un omaggio ad un amico di lotta, di cui condivide concetti e plessi teorici quali: l’anti-economicismo, il capitalismo come monopolio e la libertà come potenzialità umana da concretizzare con la rivoluzione anarchica. Contro ogni pessimismo e nichilismo Merlino afferma nella prefazione che se l’essere umano fosse una creatura guidata da “sentimenti primitivi” la comunità non sarebbe possibile. Lo sarebbe a condizione di un apparato di difesa esteso che dovrebbe difendere ogni cittadino dall’aggressione altrui. Ma così non è: la comunità esiste malgrado le contraddizioni e testimonia che non è riducibile al pessimismo antropologico liberista. Vi è in ogni essere umano un embrione di dignità personale e rispetto dell’altro che si potenzia con l’educazione e con la prassi paideutica. L’essere umano è un essere sociale e politico, ma tali prerogative umane necessitano di condizioni politiche adeguate, affinché possano attuarsi. La libertà è autonomia e capacità di fondare la propria esistenza su comuni fondamenta comunitarie. La “libertà liberista” è, invece, sopraffazione, mentre la libertà socialista ed anarchica è il riconoscimento consapevole della pari dignità di ogni uomo. Nessuna esistenza può essere scissa dalla fratellanza riconosciuta e consapevole. Merlino riconosce un embrione di giustizia e comunità in ogni essere umano, la società è a misura di essere umano se pone le condizioni per la sua umanizzazione:

 

«Infine, se l’uomo non fosse dotato di questo sentimento primitivo di dignità a difesa personale, che è l’embrione della giustizia, la convivenza non sarebbe stata e non sarebbe possibile: ammenoché ogni individuo non fosse costantemente accompagnato passo per passo da un carabiniere, che lo proteggesse dalle altrui violenze, e da un giudice pronto a dirimere tutte le contese e beghe, in cui egli si può trovare impigliato col suo prossimo: nel qual caso, poi sorgerebbe più arduo e assillante che mai il problema: chi ci protegge da’ nostri protettori? come salvaguardare la nostra libertà, il nostro diritto, la nostra personalità, dagli abusi e dagli arbitrii dell’autorità, a cui ci troviamo sottomessi?».[1]

 

L’egoismo personale può essere sublimato in solidarietà con una attenta educazione. La dignità personale coesiste e trova il suo senso nella dignità collettiva. Non si tratta di solidarietà astratta, ma di prassi, e dunque la solidarietà diviene il fondamento metafisico che guida la vita sociale ed economica. Si impara ad essere solidali con l’affinamento della natura umana nella storia. Merlino, nell’opera di Gille, contempla se stesso e la sua azione politica mai scissa da un implicita metafisica. Aggiunge infatti nell’introduzione:

 

«I vincoli di parentela, i rapporti di amicizia e di vicinato, gli affetti vari e il sorgere d’interessi collettivi (comuni a un dato aggregato) producono la formazione di sentimenti, di costumi ecc., che mutano il sentimento primitivo di dignità individuale, che potrebbe essere anche puro egoismo, in un sentimento ego-altruistico di dignità collettiva (solidarietà nazionale, spirito di campanile ecc.), e contribuiscono anche essi a cementare la società, che può perciò reggersi in gran parte, come si regge, per il libero gioco delle volontà, delle energie, de’ bisogni degl’individui, e per virtù de’ sentimenti affettivi che mantengono uniti gli uomini più e meglio che non possano fare le leggi, la forza organizzata gerarchicamente e disciplinata, e le varie coazioni economiche, militari e poliziesche! Così il sentimento individuale della dignità personale si viene approfondendo e raffinando nell’animo umano, e si estende dall’individuo al gruppo e all’aggregato politico (nazione o Stato), da’ rapporti privati e rapporti tra le classi e tra governati e governanti, e tra popoli e popoli, e da ultimo da sentimento particolare (individuale, regionale o nazionale) si trasforma nel sentimento universale della dignità umana, ossia comune a tutti gli uomini, che ciascuno sente per sé e per gli altri, e che comprende in sé, e riassume, valorizzandoli, i sentimenti di libertà e di responsabilità, di reciprocanza, di solidarietà, di umanità e di giustizia. Questo, mi pare, il concetto fondamentale dell’opera del Gille, ricca di osservazioni acute e argute, e atta a sollevare gli animi dalla morta gora della società presente alla contemplazione di un avvenire migliore, che noi tutti dobbiamo affrettare coi voti e con le opere».

 

Paul Gille[2] e l’anarchia

Vi sono modelli di anarchia e libertà, il momento storico attuale utilizza il termine anarchia in modo improprio ed ideologico: l’anarchia sarebbe scissione da ogni vincolo etico e politico. La versione liberista dell’anarchia è usata per affermare l’individualismo astratto e tracotante, funzionale all’aggressività liberista. L’anarchia nel sistema liberista è il disconoscimento di ogni comune fondamento umano; si perseguirebbero solo interessi privati. Paul Gille nel 1926 guarda invece con gli occhi del pensatore l’anomia anarchica liberista e la distingue dalla anarchia autentica, la quale è solidale ed anti-individualista. L’anarchia, nell’ottica di Paul Gille, deve porre le condizioni per la prassi della libertà umana. Non vi può essere individualità che nella comunità liberata dall’autoritarismo verticistico :

 

«Ma questa an-archia razionale è l’antitesi dell’anarchia individualista e particolarista in seno alla quale viviamo. Tra l’una e l’altra c’è antinomia, c’è contrasto e opposizione di principio. Qui l’assolutismo, l’egoismo individuale e collettivo, e ipocrita o brutale, la violenza autoritaria sotto tutte le sue forme; là, la ragione impersonale, universale, e il diritto umano: la libertà nella giustizia. È una sofisticazione sacrilega, un sofisma verbale, un gioco di parole, quello con cui ci si presentano troppo spesso come atti innovatori, esemplari e “rivoluzionari”, dei gesti di pura violenza impulsiva e cieca, degli atti di autoritarismo brutale che non escono dalle consuetudini della vita attuale».[3]

L’età della sofisticazione assimila i concetti rivoluzionari per curvarli ai bisogni del capitale. La forza perversa del capitalismo è nel suo vuoto metafisico: non vi è fondazione veritativa, pertanto tutto si trasforma in un gioco verbale per la propaganda in funzione del valore di scambio e del dominio muscolare.

 

Oltre i semplicismi

Il semplicismo marxista è pensato e oggetto di critica radicale: l’essere umano non è passivamente in attesa delle leggi della storia, ne è condizionato, ma non determinato. Le circostanze economiche devono essere mediate dal soggetto mediante astrazione e concettualizzazione con cui ridisegnare le prospettive storiche future e trasformare in atto ciò che è in potenza:

 

«Il semplicismo economico, il semplicismo materialista di Marx, è tanto falso, tanto assurdo quanto il semplicismo degli idealisti puri. Negando la causalità della coscienza e della volontà, esso disconosce questa verità biologica elementare che l’uomo, essere vivente, non è puramente passivo, che è dotato d’attività, di movimento proprio, d’iniziativa; esso disconosce questa verità psicologica, che ogni azione cosciente è un fatto complesso, in cui interviene, come sorgente, come fattore efficiente, il fattore personale, il fattore psichico; esso disconosce infine questa verità sociologica, che la vita sociale riposa sulla psicologia collettiva, dalla quale emana, per così dire, come un fiore dal suo stelo».[4]

 

L’automatismo economicistico riduce l’essere umano a semplice animale sottoposto alle leggi fisiologiche. Un certo marxismo fa delle leggi economiche la struttura fisiologica che determina la storia. L’anti-umanesimo di tale economicismo è contestato dall’anarchico Paul Gille, in quanto l’essere umano ha coscienza di sé ed è un essere pensante. I condizionamenti non possono eliminare la natura solidale e pensante dell’essere umano, il pensiero è verticalità metafisica, poiché con esso il soggetto si eleva dai semplici calcoli egoistici per incontrare gli ideali di giustizia. Paul Gille interpreta la natura tutta come un movimento energetico che tende all’aggregazione, dall’atomo all’essere umano vi è una traiettoria che di grado in grado, di salto in salto, conduce alla libertà consapevole dell’essere umano che non nega il soggetto ma lo afferma. Si è liberi nel riconoscimento della reciproca condizione umana. Ogni individualismo autoritario nega la specificità umana e offende la dignità umana. La coscienza pensante è incontro con l’altro che lo eleva gradualmente dalla singolarità alla comunità solidale:

 

“Sì, l’uomo è un animale, e, come tale, sottomesso, lo sappiamo anche troppo, a tutte le esigenze, a tutte le necessità fisiologiche della vita animale; ma è anche un essere pensante, un essere dotato di coscienza e di ragione, capace di concepire e di volere Il giusto, in tutti i campi, in tutta l’estensione del termine. Avere un ideale — un’idea astratta, un’idea sintetica di giustezza e di giustizia – ecco quel che costituisce la nobiltà e la superiorità umana».[5]

 

L’egoismo e l’individualismo sono irrazionali, in quanto l’essere umano è intrinsecamente legato –mediante un’infinita serie di fili invisibili – alla comunità, la quale è il centro da cui emerge la singolarità nella relazione sincretica con l’ambiente, il quale non è un contenitore, ma realtà relazionale e plastica. Nell’ordito delle intenzionalità il soggetto si riconosce e si differenzia, ma non può prescindere da essi, altrimenti sarebbe un puro nulla. L’individualismo economicistico è irrazionalità mascherata dalla razionalità del calcolo:

«Vivere solo per se stessi è, quindi, un’utopia contro natura, una chimera irrealizzabile e malsana; l’indipendenza cinica è un’aberrazione. È tanto impossibile vivere solo per sé, quanto il vivere soltanto da sé; poiché mille legami visibili e invisibili ci riattaccano al di fuori, irradiano attorno a noi e vanno dall’ambiente a noi e da noi all’ambiente. Tutto si sorregge a vicenda in questo grande organismo che è l’universo; e la solidarietà è un fatto prima d’essere un principio».[6]

 

 Critica al concetto di causalità

Paul Gille utilizza la deduzione sociale delle categorie per smontare criticamente l’organicità dello scientismo e dell’economicismo al sistema liberista ed autoritario. Il concetto di causalità è la traduzione in campo economico e scientifico dell’autoritarismo agente, la causalità è in forma astratta ed impersonale l’autorità che guida e determina i destini del mondo. Tagliare la testa al re significa eliminare il semplicismo autoritario che si cela dietro il concetto di causalità lineare:

“Determinismo non vuol dire fatalismo, — ecco la conclusione a cui noi giungiamo. La vecchia concezione autoritaria della causalità cade, per far posto a un’eziologia dei fenomeni che non vede dappertutto che dei complessi di complessi, delle risultanti, delle interferenze di fattori intrecciati all’infinito, intus et extra. E se niente si crea e nihilo, è pur vero che non esiste alcuna equazione da causa ad effetto, che un effetto non si deduce da una causa, che ogni effetto ha molte cause, come ogni causa molti effetti, e che ciascuna componente, ciascun centro autonomo di forza, ha, secondo il principio di Galileo, la sua funzione indipendente e il suo potere d’azione, e serba, inalienabile, irriducibile, inesorabile, nel suo dinamismo intimo, la spontaneità della vita».[7]

 

Al semplicismo causale bisogna opporre la complessità delle cause che interagiscono, e mediate dal pensiero umano creano il nuovo. Non si tratta di una libertà assoluta, ma condizionata, l’essere umano crea la sua libertà con l’esercizio del pensiero complesso che si genera all’interno di condizionamenti, i quali non passivizzano il pensiero:

 

“È così che la coscienza, autonoma, crea progressivamente la libertà. Sperimentalmente, a poco a poco, essa accumula le astrazioni, i dati, le verità, sempre più sintetiche, sempre più generali, per elevarsi finalmente, nell’umanità, sino alle verità universali che danno all’uomo la chiave dei fenomeni e il potere scientifico».[8]

 

La libertà è comunitaria, le soggettività nello scambio pensato dei dati spingono spontaneamente la loro coscienza oltre i pregiudizi e le sudditanze preconcette per costruire collettivamente percorsi di consapevolezza sempre rivedibili:

«Evidentemente, lo sappiamo, nelle determinazioni più spontanee e più volontarie, c’è una parte di influenza esteriore, ma se l’azione dell’ambiente è certa (checché ne pensi l’Evoluzionismo mistico), l’ambiente non è tutto; l’energia increata dell’essere vivente — increata e, perciò, irreducibile all’ambiente — ha anch’essa la sua funzione; e l’autonomia che ne risulta va crescendo collo sviluppo della coscienza, della lucidità e del sapere, per giungere alla sua pienezza attraverso la conoscenza scientifica del mondo, fine di tutte le illusioni autoritarie e liberazione da ogni assolutismo».[9]

Paul Gille e Saverio Merlino condividono una visione moderatamente ottimista della natura umana, per entrambi la natura comunitaria è ciò che specificatamente connota l’essere umano. La natura umana può essere deviata e condizionata da vecchie e nuove forme di autoritarismo, ma essa è indistruttibile, perché senza di essa l’essere umano non sarebbe tale. Libertà è lavoro dello spirito, che si esplica nella storia e nelle istituzioni. Il pessimismo antropologico attuale è ideologico, in quanto vorrebbe tacitare il messaggio filosofico che giunge a noi, quale dono eterno che invita ad una razionale ribellione contro l’ordine liberista presente.

 

Salvatore Bravo

 

Note

[1] Paul Gille, Abbozzo di una filosofia della dignità umana, traduzione di L. Fabbri, prefazione di F.S. Merlino, Linotipia Ferruccio Ghidoni, Milano 1926.

[2] Paul Gille professore a l’Insitut des hautes études de Belgique.

[3] Paul Gille, Abbozzo di una filosofia della dignità umana, cit., pag. 37.

[4] Ibidem, p. 8.

[5] Ibidem, p. 9.

[6] Ibidem, p. 25.

[7] Ibidem, p. 19.

[8] Ibidem, pp. 21-22.

[9] Ibidem, p. 43.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – La critica all’economicismo non può essere disgiunta dalla chiarezza sulla natura umana. Solo in tal modo appare nella sua tragica realtà la violenza della crematistica, che recide i sentieri tra il passato e il presente occultando il pensiero dei “divergenti”.

Salvatore Bravo

La critica all’economicismo non può essere disgiunta dalla chiarezza sulla natura umana.
Solo in tal modo appare nella sua tragica realtà la violenza della crematistica,
che recide i sentieri tra il passato e il presente occultando il pensiero dei “divergenti”.

Rimettere in circolo le idee di pensatori che non solo hanno pensato l’opposizione al capitale,
ma l’hanno vissuta: per esempio F. Saverio Merlino

 

 

La natura umana è una. I bisogni diventano disuguali quando si allontanano dalla natura, e diventano fittizii. Il bisogno del ricco è di strapotere come il bisogno del potente è di straricchire. Questi bisogni, che consistono non nella conservazione e nel perfezionamento del proprio essere, ma nell’oppressione e nella soppressione dell’essere e de’ bisogni altrui, sono contro natura. I bisogni veri e progressivi degli uomini lungi dall’essere in conflitto fra loro, armonizzano e si esaltano, per così dire, nell’associazione.

F.S. Merlino

 

Economisti organici

In un’epoca mediocre, in cui la mediocrazia ideologica è divenuta il fondamento del capitalismo nella sua fase distruttiva dell’essere umano e del suo ambiente, è necessario comprendere il nostro tempo storico per poter deviare dal realismo ideologico con cui i trombettieri del capitale dichiarano l’impossibilità di ogni alternativa. Il realismo ideologico deve appellarsi alla scienza neutra ed oggettiva organica al capitale: l’economia. In assenza di fondamento metafisico il capitalismo per giustificarsi deve appellarsi all’economia con un movimento di autofecondazione di se stesso che è stato ed è il suo trionfo, ma prepara anche il suo dissolvimento. L’autoreferenzialità del capitale lo rende totalitario, lo costituisce come il nuovo totalitarismo che con i suoi postulati impera e sussume. Le contraddizioni e le tragedie del capitale sono rimosse dagli atei devoti che officiano le loro sacre lezioni di economia. L’autoreferenzialità spinge le contraddizioni verso intensità sempre più estreme, gli stessi sudditi possono non concettualizzarle, ma le vivono quotidianamente. L’acuirsi delle ingiustizie sociali ed internazionali non potrà che favorire il passaggio dalla cupa rassegnazione alla formazione di un’opposizione politicamente organizzata e plurale. In questo contesto è possibile trarre energia plastica dagli autori che nel passato hanno denunciato la deriva ideologica del capitale con i suoi abili occultamenti. Il capitale ha lasciato cadere su di loro la mannaia del tempo, sono stati espunti dalla storia del pensiero e ostracizzati. L’opposizione prima a tale stato di cose è rimettere in circolo il pensiero fecondo e vero di pensatori che non solo hanno pensato l’opposizione al capitale, ma l’hanno vissuta. In un’epoca di mediocrità strutturale voluta le testimonianze di coloro che hanno deviato il percorso dal conformismo dimostra al nostro presente che l’opposizione radicale è sempre una potenzialità dell’umano che si può esplicare e rinnovare nel presente. Francesco Saverio Merlino[1] è stato anarchico e socialista libertario nei suoi scritti denuncia la verità prima del sistema ideologico del capitale: l’economia e gli economisti sono gli intellettuali organici al sistema per eccellenza. Gli economisti si fanno promotori di soluzioni alle contraddizioni del capitale con “ricette” che rispondono agli interessi dei capitalisti. Il lavoro è descritto come attività di produzione finalizzata al consumo, non risponde alla soddisfazione dei bisogni materiali e della persona, ma è attività meccanica disumanizzata. La disumanizzazione del lavoro si completa con la gerarchia padronale. I lavoratori sono corpi in attività che non pensano, devono obbedire alla mente che appartiene al padrone e ai suoi sgherri. La divisione ideologica delle funzioni di un essere umano è riprodotta nella gerarchia sociale per rendere indiscutibile e naturale la verticalizzazione dell’ordine sociale:

 

“Gli economisti hanno falsato i concetti del lavoro, della rimunerazione e della consumazione. Per essi lavoro è la servitù del proletario che presta l’opera sua, spesso vende la sua esistenza, per una mercede che procura a lui il necessario affinché egli procuri al capitalista e necessario e surperfluo. Per noi lavoro è ogni attività utile alla società e che apre l’adito, come tale, alla soddisfazione de’ bisogni[2]”.

 

In questa ricostruzione ideologica dell’ordine sociale gli economisti risolvono le crisi a cui periodicamente il capitalismo va incontro con proposte che soddisfano i padroni del capitale e dei mezzi di produzione: il taglio dei salari dei lavoratori. Il potere resta indiscusso e indiscutibile e, allora, come oggi, la crisi è pagata dai lavoratori:

 

Gli economisti dal canto loro non se ne stanno con le mani alla cintola: ma studiano, indagano e dànno responsi. La crisi è l’effetto della concorrenza straniera: no, dell’eccesso di produzione: neppur di questo, ma dell’elevatezza de’ salari. Sicuro, se gli operai del paese non fossero così ingordi da pretendere una paga superiore a quella de’ coolies cinesi e degli schiavi africani, quale capitalista al mondo penserebbe di sospendere la produzione? Il capitalista — gli economisti proclamano ad alta voce — è ben nel suo dritto di non voler sapere di produzione, se egli non tocca il suo ordinario profitto: spetta all’operaio a metter senno e contentarsi, per paura di peggio, di lavorare a stomaco digiuno, come se si dovesse prendere la santa comunione[3]”.

 

La metafora dello Stato padronale

Francesco Saverio Merlino usa una breve metafora per smascherare la favola dello Stato super partes. Lo Stato è parte in causa nella logica del dominio e della sussunzione, è schierato con i più forti, perché è l’agile strumento istituzionale con cui i più forti dominano mascherandosi e facendo appello ad una uguaglianza giuridica e quindi solo formale. Lo Stato nell’immaginario letterario e politico di Severino è uno scimmione, non è umano, assomiglia all’essere umano, ma in realtà agisce bestialmente e secondo la legge della giungla: approfitta e divora la fatica dei più deboli. Li turlupina al punto che l’unico modo che i sussunti hanno per difendere ciò che hanno guadagnato è disertare dalla giustizia del scimmione:

 “C’erano due gatti, che convennero di uscire a foraggiare insieme e di dividersi la preda in parti uguali. Presero ciascuno un pezzo di formaggio; ma il pezzo d’uno era più grosso di quello dell’altro. Si recarono dallo Scimione, che era giudice; il quale per eguagliare le parti, cominciò a morsicare prima il pezzo più grosso, che presto divenne più piccino, poi l’altro, poi di nuovo il primo. I gatti videro la mala parata, s’adocchiarono e, raccolto quel che restava, andarono a goderselo in pace. I due gatti sono gli operai manuali, intellettuali ed altrimenti distinti d’oggi. I due pezzi di formaggio sono i prodotti del loro lavoro associato, co’ quali devono soddisfare i loro bisogni. — Lo Scimione è il Governo con quel che segue. La morale della favola tiratela voi[4]”.

Per poter resistere e trasformare in prassi la consapevolezza che i sudditi hanno appreso dalla realtà storica è necessario ricongiungere ciò che il capitale ha separato: la natura umana. Senza rifondazione metafisica il capitale non può essere abbattuto. Se la natura umana è una, il capitale per ipostatizzarsi interviene per dividerla e immettere fratture, in tal modo nella lotta che pervade ogni strato sociale e ogni relazione umana si disperde la possibilità del sovvertimento di un ordine innaturale che nega la comune natura umana:

“Anche qui lo scienziato ed il manovale sono eguali: ambedue vivono ad un dipresso la stessa vita. La natura umana è una. I bisogni diventano disuguali quando si allontanano dalla natura, e diventano fittizii. Il bisogno del ricco è di strapotere come il bisogno del potente è di straricchire. Questi bisogni, che consistono non nella conservazione e nel perfezionamento del proprio essere, ma nell’oppressione e nella soppressione dell’essere e de’ bisogni altrui, sono contro natura. I bisogni veri e progressivi degli uomini lungi dall’essere in conflitto fra loro, armonizzano e si esaltano, per così dire, nell’associazione[5]”.

 

Associazionismo e natura umana

La soluzione è l’associazionismo con cui l’essere umano si riappropria della sua natura comunitaria ed esce dalle relazioni di dominio e violenza. L’alienazione non è eterna, ma essa può essere trascesa con un movimento storico che abbia la chiarezza dell’obiettivo finale: l’economia per l’essere umano e non contro gli umani:

“L’uomo, che lavora per sé, produce quello che gli bisogna e consuma quello che produce. Egli trova la misura al suo lavoro nei suoi bisogni, e trova la misura de’ suoi bisogni nella sua capacità e forza di lavorare. Egli non sacrifica la sua salute in un lavoro eccessivo, né trascura per ingordigia di ricchezze la coltura della sua mente. Solo costretto per fame, l’uomo lavora eccessivamente a prezzo della vita, per soddisfare non i suoi, ma gli altrui bisogni[6]”.

 

Associazionismo e pieno possesso dei mezzi di produzione ribaltano l’innaturale ordine del capitale. La critica all’economicismo non può essere disgiunta dalla chiarezza sulla natura umana. Solo in tal modo appare nella sua tragica realtà la violenza della crematistica che, per eternizzarsi, cerca di occupare lo spazio e il tempo di ogni essere umano occultando la sua violenza.

Per ricominciare a pensare in modo libero può essere proficuo riallacciare i sentieri interrotti tra il passato e il presente che il capitale ha “ideologicamente” reciso.

Salvatore Bravo

[1] Francesco Saverio Merlino (Napoli, 15 settembre 1856– Roma, 30 giugno 1930) 

[2] Francesco Saverio Merlino, Manualetto di scienza economica, Vasai editore, Firenze, 1888, pag. 10.

[3] Ibidem, pag. 49.

[4] Ibidem, pag. 11.

[5] Ibidem, pag. 10.

[6] Ibidem, pag. 10.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Carmelo Vigna – «La compassione vera». Un essere “per altri” in cui non si è “per altri” in quanto si ha bisogno d’altri, ma si è “per altri” in quanto ad altri ci si offre come il loro bene o come un aiuto. La compassione è l’accadere della purezza del dono di sé ad altri, ancor prima che altri chieda.

Carmelo Vigna, Didascalie filosofiche, Orthotes, Nocera Inferiore, 2022.

Descrizione

Una didascalia, come si sa, è una breve spiegazione che di solito accompagna una immagine, un testo o qualcosa di simile. In questo libro, che raccoglie una serie di saggi scritti in varie occasioni e in tempi diversi, la didascalia accompagna piuttosto una parola (o più parole) che compare nei titoli dei capitoli della parte prima e della parte seconda del volume. Così si tenta di dilucidare in modo piano alcune cifre di attualità culturale (parte prima) o classiche nel linguaggio filosofico (parte seconda). La parte terza del volume è riservata a un gruppo di scritti (per lo più recenti), che hanno un intento didascalico più lato, e sono propriamente scampoli di ricerca teorica. Il proposito didascalico è, dunque, quello dominante in queste pagine: una sorta di omaggio dedicato al lettore meno interessato a esposizioni specialistiche. Un lettore prezioso, perché è un interlocutore che costringe spesso a rendere semplici e lineari i contenuti complicati della filosofia e così a mettere questi contenuti al servizio del (buon) senso comune.

Carmelo Vigna

Filosofo

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La compassione vera

September 15, 2022

Che vuol dire “compassione”? Vuol dire, in generale, avere un cuore che prova pietà per chi è in difficoltà, per chi dolora, per chi è emarginato, ferito dalla vita e quindi bisognoso di aiuto.

Ma perché “aver compassione” è cosa buona? Si può rispondere che lo è, perché l’ha detto il Cristo. Ma questa risposta, propria dell’uomo di fede cristiana, non è, certo, diversa da quella di fede ebraica, tratta dal Vecchio Testamento. Inutile qui ricordare quante volte lì tutto questo ricorra. E bisogna subito aggiungere che anche altre religioni invitano alla compassione. Lo fa il buddismo, per esempio. Pure la fede musulmana continuamente appella Dio come il compassionevole e prescrive la compassione per i poveri e i deboli. Il confucianesimo non è da meno. Persino le religioni antiche esortavano alla compassione, a modo loro: avevano ad es. il culto dell’ospitalità, che è poi compassione per lo straniero. Come mai questo convergere sulla compassione, mentre la storia umana è spesso senza compassione, ossia è crudele – a volte specialmente con gli indifesi?

La compassione in molti casi è qualcosa di spontaneo. Ma stranamente appare anche come qualcosa di spontaneo l’opposto della compassione, cioè poi l’odio nelle sue molte forme. Già questo cenno all’odio, come opposto della compassione, fa capire che la compassione è in realtà uno dei nomi dell’essere “per altri”, anzi che essere “contro gli altri”. E in effetti, l’essere “per altri” è prescritto non solo dal cristianesimo, ma anche dalle altre religioni. Almeno da quelle che ho prima evocato. Ebbene, in che si radica questo “amore” per gli altri? Rispondo: anzitutto in una inconscia percezione del nostro aver bisogno degli altri. Noi istintivamente amiamo gli altri, prima di tutto perché “sentiamo” che senza gli altri non potremmo vivere. Questo è evidente nei bambini, che hanno, appunto, bisogno dei genitori, questo è altrettanto evidente nella vita adulta, quando si ha bisogno di far coppia e si ha pure bisogno degli amici e di tutti quelli che ci rendono la vita più vivibile. Questo è evidente nell’ultima parte della nostra esistenza, quando l’impotenza o le malattie della vecchiaia ci fanno bisognosi di cure. Gli altri sono – in qualche modo – il nostro “bene”, ossia l’oggetto che nutre il nostro desiderio di vita. 

Certo, non è solo questo desiderio a spingerci verso gli altri. C’è pure una relazione più nobile, che, a un certo punto e a certe condizioni, si fa avanti, ossia l’apprezzamento e quindi l’amore per gli altri “disinteressato”: voglio bene all’altro indipendentemente dall’utilità che egli può procurarmi. Voglio il “suo” bene e non il “mio”. In questo caso, rovesciando il precedente dinamismo, sono io che mi rendo in qualche modo un bene per altri. E anche questo movimento vanta una certa sua spontaneità, specialmente nel rapporto umano maturo. Ma è da aggiungere che questo modo di essere “per altri” (cioè “disinteressato”) sorge solitamente durante o dopo l’avvertimento che l’altro mi vuole bene, cioè che si offre come un “bene” per me.

Ora, la compassione sembra proprio questo tipo di essere “per altri” in cui non si è “per altri” in quanto si ha bisogno d’altri, ma si è “per altri” in quanto ad altri ci si offre come il loro bene o come un aiuto. Questo salta subito all’occhio. E’ meno evidente però un elemento aggiuntivo – di particolare importanza – che fa essere veramente compassionevoli e che ora va sottolineato. E l’elemento aggiuntivo è questo: nella vera compassione, la compassione non è frutto della percezione mia di una qualche elezione da parte dell’altro. In altri termini, l’altro, come oggetto di compassione non è uno che mi ha previamente “scelto”; è, piuttosto, uno di cui molto spesso non so nulla e soprattutto è uno che non è neppure in grado di offrirmisi come un “bene per me”. Insomma, è uno che non mi ha mai dato niente e che non ha niente da darmi.

Diciamolo in altro modo. Noi, quando siamo veramente compassionevoli, ci offriamo come aiuto e sostegno ad altri senza attenderci o esigere alcun ricambio: né un ricambio a seguire, né un ricambio anticipatorio (come a volte accade quando si implora pietà e poi la si ottiene). La vera compassione prescinde da una qualsiasi condizione di reciprocità. Semmai, dà inizio alla reciprocità. Perciò si può dire che la compassione è l’accadere della purezza del dono di sé ad altri, ancor prima che altri chieda. Credo sia questo il motivo per cui la compassione viene, più o meno spontaneamente, associata al divino. Solo Dio, infatti, può essere sempre così. Ne viene che, quando noi lo siamo, diventiamo in qualche modo simili a Lui.

Carmelo Vigna, Didascalie filosofiche, Orthotes, Nocera Inferiore, 2022, pp. 21-23.


Tra i libri

di

Carmelo Vigna

Prima le copertine in galleria,
poi ogni singolo titolo con le copertine in sequenza cronologia.


La dialettica gentiliana,
in “Giornale critico della filosofia italiana”, 1964, fasc. III, pp. 362-392.


Religione e filosofia nel pensiero di Giovanni Gentile,
in “Giornale critico della filosofia italiana, fasc. II, pp. 260-281, 1967.


Ragione e religione, CELUC, 1971


Filosofia e Marxismo, CELUC, 1974


Gentile interprete di Marx,
in AA.VV., Enciclopedia 76-77. Il pensiero di Giovanni Gentile,
Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. II, pp. 885-899, 1977


Le origini del marxismo teorico in Italia.
Il dibattito tra Labriola, Croce, Gentile e Sorel sui rapporti tra marxismo e filosofia,
Città Nuova, 1977


Antonio Gramsci. Il pensiero teorico e politico. La “questione leninista”,
con V. Melchiorre e G. De Rosa,
Città Nuova, 1979


La ragione e la dialettica.
Studi su Marx e Della Volpe,
Marsilio, 1980


Teorie della felicità II,
con D. Goldoni, I. Sciuto, P. Vidali,
Aldo Francisci Editore, 1986


La qualità dell’uomo.
Filosofi e psicologi a confronto,
on G. Trentini,
Franco A,geli, 1988


 Invito al pensiero di Aristotele,
Mursia, 1992


Dio e la ragione.
Anselmo d’Aosta, l’argomento ontologico e la filosofia,
Marietti, 1993


 L’etica e il suo altro,
Franco Angeli, 1994


Sostanza e relazione. Una aporetica della persona,
in L’idea di persona, a cura di V. Melchiorre,
Vita e pensiero, 1996


Strutture del sapere filosofico,
con E. Berti, A. Masullo, L. Ruggiu, E. Severino,
Il Cardo, 1997


La libertà del bene,
Vita e pensiero, 1998

La modernità ha perduto, lungo la sua parabola, la percezione profonda del legame originario tra la libertà e il bene. Eppure, solo questo legame è in grado di allontanare dalla storia dei singoli e dei popoli i mostri partoriti dall’arbitrio brutale della forza. Sappiamo che la forza è brutale quando è cieca, ossia quando è priva di uno scopo e di uno scopo giusto, quando non ha nulla in vista che non sia il ripiegamento su se medesima, in una sorta di delirio di onnipotenza, onnipotenza che sembra risiedere nella facoltà di oscillare infinitamente tra il bene e il male, come se in questo consistesse un reale dominio e del bene e del male. Ma ciò produce piuttosto il deserto della rescissione dei legami con le cose buone della vita. Per nostra fortuna, oltre alla libertà di compiere il bene o il male, v’è la libertà di compiere il bene anziché il male, cioè la libertà del bene. Una libertà da riscoprire. I saggi del presente volume tracciano una mappa essenziale della parabola di questa libertà. Antichi, medievali e moderni sono stati interrogati a fondo, così da offrire al dibattito contemporaneo e al lettore attento i riferimenti storici e teorici irrinunciabili per porre in modo nuovo la questione. A capo della raccolta appare, e per la prima volta, un saggio su “La libertà e il male” di Paul Ricoeur, una delle voci più autorevoli e più ascoltate della filosofia contemporanea.


La politica e la speranza,
con Virgilio Melchiorre,
dizioni Lavoro, 1999


L’enigma del desiderio,
con L. Ancona e P.A. Sequesri,
Edizioni San Paolo, 1999.

Non è difficile raccontare il desiderio. È difficile riconoscerne le radici e accettarne la compagnia; cercare di capire da dove viene e dove vuole farci arrivare. In una parola, accreditarlo come interlocutore autorevole e sensato della nostra vita. Sono molteplici le forme attraverso le quali esso insorge e s’afferma, assumendo i volti ambivalenti, spesso indecifrabili, di una forza salutare e inquietante, confidenziale e imprevedibile.


Essere giusti con l’altro,
Rosenberg & Sellier, 2000


Il frammento e l’intero.
Indagini sul senso dell’essere e sulla stabilità del sapere,
Vita e Pensiero, 2000


Introduzione all’etica,
Vita e Pensiero, 2001


Sul trascendentale come intersoggettività originaria,
in Le avventure del trascendentale,
a cura di A. Rigobello,
Rosenberg & Sellier, 2001


 Etica trascendentale e intersoggettività,
Vita e Pensiero, 2002


La persona e i nomi dell’essere.
Scritti di filosofia in onore di di Virgilio Melchiorre,
con F. Boturi, F. Totaro,
Vita e Pensiero, 2002


Multiculturalismo e identità,
con S. Zamagni,
Vita e Pensiero, 2002

La vecchia Europa vive una nuova stagione, come epicentro amato e odiato di una profonda migrazione di popoli che convengono soprattutto dall’oriente e dal sud del mondo, in cerca di una vita migliore o semplicemente per sfuggire alla fame, al dolore e alla morte. In non pochi casi, anche per ritrovare una dignità di vita. Come è accaduto e continua ad accadere per la vita sociale (e politica) americana, anche per noi europei v’è il problema di stabilire il giusto rapporto fra la necessità di reperire un codice comune di convivenza e l’istanza della molteplicità etnico-culturale. La letteratura sull’argomento oscilla tra due estremi, non facilmente componibili: da un lato, si cerca la soluzione per sottrazione, e si bada al reperimento di alcune costanti dell’umano che dovrebbero da tutti essere riconosciute per via della loro universalità; dall’altro lato si nega che un tale compito possa essere eseguito e si ricorre a una soluzione per addizione. Il molteplice culturale dovrebbe essere semplicemente registrato e tutte le differenze essere coltivate. La fragilità di entrambe le soluzioni, che pure contengono una loro verità, è diventata fin troppo evidente. Bisognava, dunque, volgere lo sguardo altrove. Bisognava dare indicazioni intorno a una universalità concreta degli umani, che onorasse tanto ciò che li accomuna quanto ciò che li fa differire


Etiche e politiche della post-modernità,
Vita e Pensiero, 2003


Libertà, giustizia e bene in una società plurale,
Vita e Pensiero, 2003


Affetti e legami,
con F. Botturi,
Vita e Pensiero, 2004

Il primo volume dell’Annuario di Etica è concepito come inedito luogo di incontro e di elaborazione teorica, come proposta e confronto sui grandi temi dell’etica, a partire dall’attualità dell’esperienza morale. Esso coltiva una linea che pone a confronto alcune grandi tesi, nella convinzione che è ancora possibile la determinazione della verità e del bene, a fronte di una situazione presente rassegnata ad una pratica indifferenza reciproca dei diversi saperi e credenze, incline alla privatezza della verità e del bene e alla retorica del frammento.


Etica del plurale. Giustizia, riconoscimento, responsabilità,
con E. Bonan,
Vita e Pensiero, 2004

Per nostra fortuna, da qualche parte le forme di alleanza tra gli umani risorgono incessantemente. Non può essere diversamente, perché sono la nostra prima radice. Risorgono tutte le volte che qualcuno invita vicini e lontani a condividere la verità e il bene. Allora giustizia, riconoscimento e responsabilità diventano parole d’ordine degne della nostra attenzione. Questo libro a più mani è un piccolo invito a esercitare questa attenzione essenziale….


La regola d’oro come etica universale,
con S. Zanardo,

Vita e Pensiero, 2004

La Regola d’oro (“Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te” o, in positivo, “Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te”) merita oggi un’attenzione filosofica particolare, anche se si tratta di un’intuizione sapienziale, innanzi tutto, e non di un principio teorico, più o meno raffinato nella sua formulazione. L’intuizione sapienziale ha in questo caso il grande vantaggio di esprimersi genialmente intorno al rapporto giusto tra esseri umani. Non ad “un” rapporto giusto, ma proprio “al” rapporto giusto. Ciò significa che la Regola d’oro contiene virtualmente in sé tutte le forme di comando per altri, poiché essa dice della “qualità” della relazione tra noi indipendentemente dal gesto singolare che dovesse incarnarla.


Annuario di Etica,
Di un altro genere, genere femminile,
con P. Ricci Sindoni,
vol. 5, Vita e Pensiero, 2008

L’attuale dibattito teorico del femminismo europeo e americano sembra ormai definitivamente assestato su posizioni antiessenzialiste e antinaturaliste, secondo cui la differenza sessuale – usualmente accettata nelle due forme di maschile e di femminile – va al contrario ricondotta alle sue configurazioni sociali e storiche e, dunque, raccolta dentro un’indistinta uniformità di genere. Il sesso non è più un elemento distintivo di una marcatura ontologica duale, ma un orientamento soggettivo segnato dalla libertà del singolo. La negazione dell’identità sessuale, insomma, posta al servizio di una ridefinizione ‘neutra’ della natura umana, eleva il ‘genere’ a nuovo paradigma culturale, ormai sempre di più accettato e promosso dalle politiche mondialiste dell’ONU e dell’UE. Questo volume, che si avvale dei contributi delle più acute pensatrici italiane, intende affrontare i nodi ancora irrisolti della questione femminile nelle sue declinazioni storiche, culturali e politiche, alla ricerca di un’antropologia duale, ontologicamente fondata ed eticamente produttiva, per raggiungere la trama intersoggettiva della differenza, dove equilibrare pathos e logos, esperienza emotiva ed esperienza cognitiva, passione e dovere, concretezza del vivere e universalità della condizione umana, complessità dei legami intersoggettivi e responsabilità morale.


Bontadini e la metafisica,
Vita e Pensiero, 2008

Gustavo Bontadini (1903-1990) è uno dei grandi nomi della filosofia italiana del Novecento. Molti protagonisti dell’attuale dibattito filosofico sono stati alla sua Scuola. Basti citare – per tutti – il nome di Emanuele SeverinoQuesto libro è una sorta di corposo up-date sulla figura di Bontadini e, nel contempo, una coraggiosa messa alla prova della sua eredità speculativa. Qui si confrontano in modo appassionato ben tre generazioni di studiosi, in gran parte suoi allievi. Il pensiero bontadiniano è scrutato in profondità e anche discusso con grande e affettuosa libertà di spirito. A tema è soprattutto l’ontologia metafisica del Maestro e l’esplorazione storiografica preparatoria. Ma anche la sua formazione giovanile viene scandagliata con ricchezza di particolari. Perché Bontadini è uno di quei pensatori che vengono da lontano: è nato all’interno di una grande Scuola e ha fatto a sua volta Scuola come pochi altri in Italia e altrove.

Chi legge questo libro, poi, ha in mano anche uno spaccato della filosofia italiana del Novecento: non un resoconto di superficie, ma una indagine di struttura, simile a quella che Bontadini aveva tante volte coltivato in vita sua, per far vedere come la metafisica rappresenti non solo il luogo dell’antica verità, che i Greci per primi avvistarono, ma anche il luogo del riscatto dialettico dell’intera modernità. In funzione del tempo presente. La metafisica di Bontadini è un ‘discorso breve’. Quasi un punto speculativo. Ma su questo punto sta, come sul vertice di un cono rovesciato, il senso dell’essere di memoria parmenidea. L’essere di Parmenide nella sua purezza, cioè nella sua assoluta e sovrana libertà dal negativo, sta oltre l’orizzonte dell’unità dell’esperienza. Questo il guadagno della metafisica, che Bontadini rigorizzò con impareggiabile acume, dedicando al grande compito l’energia di una vita intera. Questo anche il suo lascito fondamentale. Il libro che il lettore ha tra mano intende onorarlo al meglio.

Interventi di: Carlo Arata, Aldo Bergamaschi, Enrico Berti, Lucio Cortella, Giulio Goggi, Luca Grion, Virgilio Melchiorre, Leonardo Messinese, Paolo Pagani, Mario Ruggenini, Dario Sacchi, Angelo Scola, Emanuele Severino, Enzo Sisti, Davide Spanio, Antonio Tessarin, Francesco Totaro, Fabrizio Turoldo, Carmelo Vigna.


Etica di frontiera.
Nuove forme del bene e del male,
con S. Zanardo,
Vita e Pensiero, 2008

L’etica è una delle teorie più legate alla fluidità della vita umana, perché è mirata al governo dell’agire, che è sempre singolare; dunque determinato dalle coordinate dell’empiria (lo spazio e il tempo; cioè poi il molteplice e il divenire). Essa orienta in tal modo la vita. Ma, se deve seguire della vita le volute, deve pure, nel contempo, ritrarsene. Come ogni teoria. Una teoria, anzitutto e per lo più, risulta dalla comprensione dei fenomeni. L’etica deve coniugare il singolare con l’universale, cioè stare al singolare con uno sguardo universale, per rendere universale il singolare. L’etica, allora, non è una teoria come tutte le altre. Se comprende il singolare per orientarlo all’universale, deve stare in certo modo sempre alla frontiera, cioè deve sempre scrutare la realtà del nuovo che avanza, se vuol dargli la forma trascendentale dell’oggetto conveniente con il buon uso della libertà. La frontiera è una cifra simbolica piena di fascino, perché sembra alludere nel linguaggio comune alla possibilità di straordinarie avventure. Tace, però, quasi sempre intorno ai rischi che tutto questo porta con sé. Quando qualcosa viene a noi, non sempre è per noi. Anzi, non di rado è contro di noi, fino a minacciarci di morte. Per questo le frontiere sono state sempre, in realtà, vigilate. Essere alla frontiera è lo stesso che vigilare sulla frontiera. In faccia al nemico, perché il nemico non sorprenda. Essere alla frontiera è proteggere dal male e custodire il bene.


Metafisica e violenza,
con P. Bettineschi,
Vita e Pensiero, 2008

Che la metafisica sia violenta è diventata oramai una ‘vecchia storia’. Nondimeno essa circola sempre sotto nuove spoglie. Oggi la metafisica sembra accusata di violenza, soprattutto perché ostacolerebbe la percezione della ‘finitezza’. Come se si potesse determinare la ‘finitezza’, senza dare significato (fosse pure semplicemente negativo) anche a ciò che ad essa assolutamente si oppone, ossia all’infinità. Paradossalmente, è proprio la storia della metafisica a contenere nel proprio patrimonio teorico la messa a tema della determinazione del ‘finito’. Ogni buon metafisico sa, infatti, che la posizione di ciò che oltrepassa il finito implica necessariamente la posizione del finito come tale. Anzi, questa è per lui la maggiore ‘fatica del concetto’. La metafisica, in sé e per sé, non c’entra nulla con la violenza, perché è una realtà di un altro ordine. La metafisica è un teoria, la violenza è una pratica. E si possono usare le teorie più vere per le pratiche più aberranti. Provvede un essere umano, nella sua libertà, a far da tramite. La metafisica è solo il guadagno di questa fondamentale e semplice convinzione, che lo strato infinito dell’essere, che necessariamente si dà (Parmenide), trascende infinitamente il finito. Proprio questa convinzione può rendere ineseguibile la ‘cortocircuitazione’ della soggettività e del senso dell’Intero, che è la vera radice della umana violenza.


Giorgio La Pira.
Un San Francesco nel Novecento,
con E. Zambruno,
AVE, 2008


Multiculturalismo e interculturalità.
L’etica in questione,
con E. Bonan,
Vita e Pensiero, 2011

Si parla sempre più di interculturalita, sempre meno di multiculturalismo. In effetti, la molteplicità culturale non è certo una novità. C’è sempre stata nella storia umana. E tutto questo potrebbe dirsi anche dell’interculturalità. Perché allora queste realtà sociopolitiche sono diventate problema? Semplice: perché nessuno tollera più culture egemoni. Ogni cultura rivendica una qualche parità ed esige rispetto: chiede di poter partecipare alla vita comune sulla terra senza anatemi. A volte anche senza restrizioni. Ma questo è davvero possibile? E soprattutto: questo è giusto? Sembra proprio di no. Senza alcune restrizioni, a volte no: dice l’etica. Anche le realtà culturali, come tutte le realtà di questo mondo, devono essere attraversate e illuminate dalla domanda intorno al bene e al male. Il fatto è che nessuna cultura è, in sé e per sé, buona o cattiva: va interrogata nelle sue forme e nelle sue pretese, perché potrebbe portare con sé elementi che giocano contro la comune umanità (per esempio, certi casi di mutilazione del corpo). Ogni cultura va rispettata e onorata, certo, ma a misura che essa, a sua volta, rispetti e onori l’umanità comune. Il principio del riconoscimento, che è il punto di riferimento regolativo di tutto il libro e che è l’ispiratore, più o meno celato, del recente passaggio dalla cifra fattuale del multiculturalismo alla cifra prescrittiva dell’interculturalità, deve poter dispiegare la sua universalità anche riguardo alle differenti identità culturali.


Sulla verità e sul bene,
con L. Grecchi,
Petite Plaisance, 2011

Con questo volume Luca Grecchi continua la serie meritoria dei suoi dialoghi con filosofi italiani, aggiungendo un nuovo numero ai precedenti colloqui con Umberto Galimberti e con chi scrive. Come i lettori noteranno, non si tratta di interviste, ma di vere e proprie discussioni a due voci, anche se l’iniziativa è in genere di Grecchi, che pone le domande e in tal modo sceglie di volta in volta gli argomenti su cui discutere.

Nel caso di questo dialogo con Carmelo Vigna, egregio rappresentante di una specie divenuta ormai rara, quella dei fautori della metafisica classica, la conversazione assume ancora di più che nei casi precedenti il carattere di una vera e propria discussione filosofica, genere anche questo divenuto – ahimè – alquanto raro. Vigna infatti non solo risponde alle domande di Grecchi, ma lo sollecita a sua volta a prendere posizione e poi lo critica, assumendo in tal modo lui stesso il ruolo che nelle discussioni dialettiche antiche era quello dell’interrogante, svolto ad esempio da Socrate nei dialoghi platonici. Si assiste quindi ad un coinvolgente scambio di ruoli, che ricorda appunto, per le sue modalità e i suoi contenuti, le pratiche dell’antica dialettica, ormai quasi completamente abbandonate dai filosofi di oggi.

Si delineano così due posizioni che si fronteggiano su di un piano di parità, anche se quella di Vigna presenta uno spessore teoretico maggiore per esperienza e maturità. Carmelo Vigna è infatti uno dei pochi rappresentanti rimasti della gloriosa scuola di Gustavo Bontadini, fedele al suo maestro nonostante la “secessione” determinata da Emanuele Severino e il conseguente esodo di filosofi dall’Università Cattolica di Milano all’Università di Venezia. Anche Vigna è docente a Venezia, ma tra i “veneziani”, pur riconoscendo il suo debito verso Severino, è ancora il più “bontadiniano”. Vigna tuttavia non è solo questo: è anche un filosofo teoretico, che ha approfondito e sviluppato la posizione di Bontadini soprattutto nel libro Il frammento e l’intero (Milano 2000), ed è un filosofo morale tra i più importanti in Italia, che dirige il Centro Interuniversitario di studi sull’etica ed è alla testa di una scuola fiorente per quantità e qualità di allievi e di iniziative.

Luca Grecchi è un giovane filosofo non accademico, quindi “autodidatta” nel senso migliore del termine, poiché si è formato da sé attraverso una serie impressionante di letture, è autore di una serie notevole di pubblicazioni ed è dotato di una passione senza uguali per la filosofia. Anche Grecchi è per la metafisica, ma per una metafisica “umanistica”, che identifica l’intero con la totalità sociale e che si ispira in una certa misura – oltre che a Platone ed Aristotele – a Marx, venendo in tal modo anch’egli a rappresentare una specie divenuta ormai rara, quella dei filosofi di ispirazione marxista che non hanno rinnegato Marx, nonostante da tempo egli non sia più di moda. 

I temi scelti da Grecchi per la discussione sono numerosi e variati, perché vanno dalla filosofia antica (Platone, Aristotele, lo Stoicismo, il Neoplatonismo) alla filosofia moderna (Descartes, Spinoza, Kant, Fichte, Hegel, Nietzsche) e a quella contemporanea (Weber, Heidegger, Arendt, Habermas, Rorty), dall’epistemologia al comunismo, al capitalismo (da lui ricondotto alla “crematistica”), al senso della vita, alla filosofia della storia, con incursioni nell’antico Oriente, e con un’attenzione sempre fissa – e questa è una delle cose che maggiormente apprezzo in lui – per gli antichi Greci. Egli è a volte giovanilmente “intemperante” nei suoi giudizi, spesso molto duri soprattutto verso i filosofi contemporanei, ma è anche a volte capace di intuizioni illuminanti, come a proposito della “svergognatezza” degli Stoici, dell’accostamento di Kant a Smith, del debito di Marx verso i Greci, della filosofia della storia nell’antichità.

Su tutti questi temi Vigna ha qualcosa di importante da dire, con giudizi in genere più equilibrati, ma poi vi aggiunge dal canto suo altri temi, altri problemi, come quello dell’importanza di Leibniz e Vico, quello dello sviluppo dell’idealismo gentiliano in Bontadini, quello della critica alla riduzione dell’intero, quello della differenza tra la metafisica di scuola milanese e la metafisica di scuola padovana, quello fondamentale del rapporto fra teoria e prassi, e non si risparmia a sua volta critiche a filosofi italiani contemporanei, come Colletti e Pera, o stranieri, come Levinas, e a tendenze politiche come il berlusconismo.

Ne risulta così una serie di discussioni oltremodo interessanti tra due filosofi che sono divisi da due diverse, anzi opposte, concezioni della metafisica, ma sono accomunati dalla considerazione per la filosofia classica e soprattutto da un grande amore per la filosofia in sé stessa, divenuta invece oggi oggetto di scherno per sedicenti filosofi che non hanno più nulla da dire e, invece di incolpare se stessi, incolpano l’oggetto di cui dovrebbero parlare. Ovviamente avrei anch’io da dire alcune cose su alcuni dei temi affrontati da Grecchi e Vigna, ma non posso trasformare un dialogo a due voci in un dialogo a tre, avendo già fatto la mia parte in un volume precedente. Potrebbe essere interessante trovare un’occasione per discutere tutti insieme, magari con l’aggiunta di un’altra voce di ispirazione marxista, che potrebbe essere quella di Mario Vegetti, in alcuni passi citato da Grecchi. Se non altro, ci prenderemmo tutti insieme l’accusa di avere resuscitato il “catto-comunismo”. Scherzi a parte, mi auguro che discussioni come questa continuino, e ringrazio Luca Grecchi per il fatto di averle promosse.


Life and the Sacred,
con R. Alvira,
Olms, 2012

One of the concepts which deserves particular attention by philosophers of the 21th century is that of life and, more specifically, that of human life. Because life on Earth is limited, mankind has historically relied on religion for its promise of salvation and an afterlife.Yet, recently, people have been relying on alternative institutions, such as the state or market, for answers to their questions about the limited nature of human life. With the rise of dependence on such instituions comes the rise of new questions: are the state and market responsible for defining the meaning of life and for providing adequate answers to the suffering and death that afflict humankind? Can the state make use of technology and scientific knowledge in order to regulate population according to its objectives? Is there any ethical limit to the experimentation with the different phases of human life? Is it possible to preserve a sacral sphere for human life? This book provides extensive reflection and possible solutions to these perplexities.


La vita spettacolare.
Questioni di etica,
con Riccardo Fanciullacci,
Orthotes, 2013

Pasolini, di fronte alle trasformazioni che il capitalismo neoliberista imprime alla forma di civiltà, non esita a parlare di “mutazione antropologica” e arriva a dire: “La tragedia è che non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono l’una contro l’altra”. Queste “macchine” hanno solo un debole legame con gli esseri umani che ancora crediamo di essere e che diverse istituzioni, come quelle della democrazia, presuppongono che siamo: la vita spettacolare ci avvolge e ci seduce. I saggi di questo volume interrogano questa configurazione della vita con radicalità. Ma proprio per questo arrivano a riconoscere come essa non occupi e non possa occupare l’intero spazio dell’esistenza e come il desiderio, seppur plasmato da quei modelli, non vi si adegui mai del tutto: conserva in sé le tracce di una verità etica che attende l’invenzione di nuove forme di legame attraverso cui possa orientare una vita più giusta e più felice. Saggi di: Francesco Callegaro, Carlo Chiurco, Adriano Fabris, Riccardo Fanciullacci, Giacomo Ghidelli, Peppino Ortoleva, Antonio Petagine, Maddalena Pezzato, Teresa Scantamburlo, Giovanni Ventimiglia, Carmelo Vigna.


Etica del desiderio come etica del riconoscimento,
Orthotes, 2015

L’Occidente – e non solo – è malato nel suo desiderio. Riusciamo a difenderci molto più di prima dagli attacchi che vengono dalle cose a noi ‘esterne’, che ci fanno ammalare nel corpo; riusciamo a difenderci molto meno di prima dagli attacchi che vengono dalle cose a noi ‘interne’, che sono cose di desiderio e che ci fanno ammalare nell’anima. Storditi dalla facile disponibilità di beni materiali, crediamo ingenuamente che anche i beni dello spirito siano subito a portata di mano. Ma la felicità, la gioia di vivere, la benevolenza, la sobrietà, l’ordine degli affetti, la solidità dei legami e cose simili non si possono comprare al supermercato. Sono, piuttosto, modi di incontrare gli altri e il mondo, cioè ‘disposizioni’ permanenti, frutto di scelte mirate e a lungo ripetute. Una volta queste disposizioni si chiamavano ‘virtù’ e l’insieme organico di queste virtù si chiamava saggezza’. La ricerca secondo verità intorno alle virtù e intorno alla saggezza è poi quella che, ancora oggi, si chiama ‘etica’. Un’etica del desiderio è l’oggetto fondamentale di questo libro. Che mira, quindi, a istruire il senso delle virtù e della saggezza.


Il frammento e l’intero.
Indagini sul senso dell’essere e sulla stabilità del sapere,
Orthotes, 2015, 2 voll., 708 pp.

Ma è poi vero che l’ultima cifra del senso dell’essere è il frammento che siamo? No, è subito da rispondere; non è per nulla vero. Questo libro ha avuto e ha ancora la modesta pretesa di far vedere (cioè di dimostrare) l’impossibilità che il frammento che siamo, cioè poi il finito, sia l’ultima parola intorno al senso dell’essere; e ha avuto e ha ancora la modesta pretesa di far vedere (dimostrare) che ciò che finito non è, sta ontologicamente oltre il finito. Ne è il fondamento di senso e ne è il fondamento d’essere. In altri termini, il frammento che siamo implica necessariamente l’Intero o la totalità dell’essere, ma come altro da sé.


Etica dell’economia.
Idee per una critica del riduzionismo economico,
con A. Biasini,
Orthotes, 2016


Sostanza e relazione.
Indagini di struttura sull’umano che ci è comune. Ediz. integrale,
Orthotes, 2016

L’umano che ci accomuna è da proteggere: questo è il compito fondamentale del nostro tempo, dopo le tragedie immani del secolo scorso e quelle che si annunciano già agli inizi di questo secolo. Qualsiasi forma di protezione è in ogni caso un che di pratico: è una forma della cura. Ogni cura, poi, e ogni protezione hanno una mira determinata. Una mira determinata è certo già la protezione dell’umanità che ci accomuna. Ma che cosa propriamente ci accomuna? Che cosa dell’umano storico dobbiamo tenere custodito senza tentennamenti e che cosa invece possiamo lasciar fluttuare nel tempo o anche dismettere? Non si può rispondere a queste domande senza tornare a interrogarsi – con rigore speculativo – sul senso della persona umana. Il senso di qualcosa è, in primo luogo, ciò che di qualcosa permane nel variare delle circostanze. E ciò che permane nel variare delle circostanze è quel che si usa da gran tempo indicare come l’universale. Nel nostro caso, come l’universale umano. Ebbene, l’universale umano è ciò su cui queste pagine indagano, senza indulgere alla chiacchiera filosofica, spesso oggi contrabbandata nelle vesti di un cattivante vestito prêt à porter.


Differenza di genere e differenza sessuale.
Un problema di etica di frontiera,
Orthotes, 2017

Nella cultura contemporanea, anche in quella più vulgata, differenza di genere e differenza sessuale tendono oramai a significare due “opzioni antropologiche” divaricate. La prima espressione allude sempre di più al differire come a una costruzione semplicemente culturale, la seconda invece al differire come a una condizione naturale (biologica) e nel contempo simbolica. La divaricazione è il risultato di una stagione complessa, e piuttosto recente, legata ai “Gender Studies” di matrice angloamericana. È soprattutto da questa matrice, infatti, che la differenza sessuale è stata messa radicalmente in questione: i ruoli del maschio e della femmina umani sarebbero degli stereotipi socialmente e politicamente accreditati per rendere stabile la sottomissione violenta delle donne agli uomini. E la “liquefazione” o “dissoluzione” della differenza sarebbe il rimedio più efficace per stroncare tutte le discriminazioni su quella differenza fondate. Ma le cose stanno proprio così?


 Il dovere dell’ospitalità,
Orthotes, 2018

L’ospitalità è dovuta a ogni essere umano che la richieda e che abita la faccia della terra. Non è, l’ospitalità, una sorta di opzione da buonismo ma, appunto, uno dei fondamentali doveri del nostro vivere insieme. Questo, del resto, si è sempre in molti modi pensato e praticato nei secoli in Occidente. E questo viene qui indagato, secondo molti lati, da una serie di contributi autorevoli. I quali rendono conto anche dei limiti inevitabili secondo cui l’ospitalità può essere offerta nella vita quotidiana. Limiti già codificati ? sul piano giuridico ? nella nostra Carta costituzionale. Ma tali limiti non possono essere invocati a giustificazione delle pulsioni xenofobe e razziste che serpeggiano nelle società industrializzate, pulsioni malamente mascherate spesso da ragioni di sicurezza o addirittura di supremazia bianca. Questo viene qui energicamente sottolineato. E questo viene pure qui denunciato attraverso una disamina severa di quel che veramente accade in Italia nella nostra (cosiddetta) attività di accoglienza a livello istituzionale.


 Introduzione generale e logica.
Corso di filosofia tomista,
R. Verneaux autore, C. Vigna traduttore,
Claudiana, 2019

Il lavoro di Roger Verneaux funge da volume introduttivo al «Corso di Filosofia Tomista» edito negli anni 60 dai professori dell’Institut Catholique di Parigi. Il volumetto si distingue per la chiarezza e la scioltezza del dettato, ma soprattutto per la sempre vigile attenzione alle domande della cultura filosofica contemporanea, discusse nelle pagine iniziali dell’opera. La parte preponderante è dedicata alla logica, che viene illustrata e spiegata in tutte le sue parti, dalla nozione di logica in generale, ai termini, la proposizione, l’argomentazione, il sillogismo, il sillogismo ipotetico e l’induzione, fino alla dimostrazione, i suoi intenti, i suoi elementi, i suoi principi.


Studi gentiliani,
Orthotes, 2019

Giovanni Gentile, il maggior filosofo italiano del primo Novecento, è da dimenticare, come taluni vorrebbero? Per nulla, bisognerebbe rispondere. L’apparato categoriale da lui costruito genialmente, nonostante la sua (relativa) semplicità speculativa, è forse la maggiore leva di forza per intendere ancora il nostro tempo. Anche quello della Rete e dei “social network”, dove trionfa un contenuto sterminato che Gentile avrebbe sicuramente relegato nel ruolo di “pensiero pensato”. Il fatto è che Gentile, ostracizzato per i suoi legami con il fascismo, tutto sommato estrinseci, ci appare oggi, una volta smaltite le nebbiose e spesso ingiuste polemiche nel dopoguerra intorno alla sua eredità intellettuale, come il Maestro insuperato della grandezza del “pensiero pensante”. E anche come colui che offre ancora le ragioni più profonde per intendere appieno la natura inviolabile della nostra umana dignità. Questo libro, soprattutto dedicato alla logica e alla religione di Gentile, non è tuttavia un’apologia dell’attualismo; ché anzi l’attualismo sottopone ad una analisi serrata e senza sconti di sorta, per indicarne “ciò che è vivo e ciò che è morto”.


Studi marxiani,
Orthotes, 2019.

Se si volesse racchiudere in una breve indicazione il risultato del lavoro di analisi riversato in questi “Studi marxiani”, non si andrebbe lontano dal vero se si dicesse che si è qui tentato di “spaiare” in Marx e nel marxismo italiano la cifra (economico-politica) del “plusvalore” dalla cifra (veritativo-speculativa) del “materialismo storico”. Perché la prima pare ancora molto utile per leggere il presente neocapitalistico, mentre la seconda pare non solo sbagliata, ma anche molto datata. E in effetti, si tratta di una cifra ottocentesca, che la storia filosofica e culturale del Novecento ha, di fatto e in molti modi, archiviato. Avere offerto argomenti per l’operazione di “spaiamento”, quando – negli anni settanta – tutti ne osannavano la saldatura è (forse e ancora) il merito di queste pagine. E del resto un’operazione siffatta, inevitabile su qualunque sapere “regionale” che si presenti con la pretesa di essere la forma del sapere assoluto dell’Intero del senso, resta sempre di utilità speculativa per chi ama la filosofia, perché invita a riflettere su certe mosse radicali che una partita teorica così alta pone necessariamente in campo.


Storia e verità.
Medioevo e Novecento,
Orthotes, 2020

I saggi di storia della filosofia raccolti in questo libro sono dedicati alla grande Scolastica medievale (parte prima) e al Novecento (parte seconda), specialmente italiano (parte terza e quarta). La ricostruzione storica non è stata dettata solo da naturali preoccupazioni narrative, ma anche da altrettanto naturali (benché spesso dagli storici della filosofia trascurate) preoccupazioni teoriche. Ad avviso dell’autore, infatti, non si può ripercorrere la storia del pensiero, quale che essa sia, senza presentarla a un lettore non solo curioso dei risultati della ricerca, ma anche curioso della solidità veritativa dei risultati della ricerca. Questo ci hanno insegnato i grandi Maestri di filosofia che si sono occupati anche di storia della filosofia (da Aristotele a Hegel, almeno). Questo è giusto non dimenticare e, nei limiti delle proprie forze, praticare. Ed è ciò che in questo libro si è cercato di tenere sempre a mente: storia e verità.


Studi aristotelici,
Orthotes, 2020

Aristotele non è solo un insuperato Maestro di metodo. Egli insegna anche che la comune esperienza umana del mondo (ta physikà) chiede d’essere oltrepassata. Oltrepassata, se letta secondo un sapere stabile o incontrovertibile (episteme). È infatti questo sapere che costringe a porre uno strato dell’essere che è metà ta physikà. Tanto i libri aristotelici di Metafisica quanto quelli di Fisica convergono su questo stesso risultato, preparato da una lunga ricerca che ha l’Accademia di Platone come luogo privilegiato di formazione intellettuale. Purtroppo, episteme e metafisica sono anche le due grandi cifre aristoteliche che la letteratura critica del secolo scorso ha spesso sottovalutato o ignorato o ridotto a convinzioni giovanili del loro Autore. Queste cifre vengono invece qui riproposte nella loro centralità, sullo sfondo della dottrina dell’analogia dell’essere, geniale congedo di Aristotele dal platonismo.


Pensieri cristiani,
Orthotes, 2021

“Questo libro raccoglie un gruppo di scritti da me dedicati a temi di “filosofia cristiana”. La filosofia in quanto tale non è cristiana. È opus rationis, semplicemente. E tuttavia, lo può in qualche modo diventare, quando aiuta la riflessione di un cristiano che vuole intendere, meglio che gli riesca, il senso della propria fede in Gesù di Nazareth come nel Figlio Eterno. Allora, l’apparato categoriale proprio del mestiere del filosofo si mette al servizio dei contenuti della Rivelazione, ma senza mai abdicare allo statuto che gli è proprio. Diventa, la filosofia, ancilla. D’accordo. Non però della teologia, ma della fides quae creditur. E così aiuta il credente cristiano a capire, ma aiuta pure o può aiutare chi al credente cristiano chiede conto della propria fede. Dalla teologia, perciò, in certo modo differisce, perché il sapere filosofico qui non è un utile strumento di facile sostituzione, a seconda delle mode culturali, ma una fonte veritativa, la cui formalità speculativa supera (lo dice Tommaso d’Aquino) quella della fede. Che offre, a sua volta e di suo, soccorso all’esistenza nostra, perché venga salvata. La filosofia fa luce. Ma non può salvare”.


Didascalie filosofiche,
Orthotes, 2022

Una didascalia, come si sa, è una breve spiegazione che di solito accompagna una immagine, un testo o qualcosa di simile. In questo libro, che raccoglie una serie di saggi scritti in varie occasioni e in tempi diversi, la didascalia accompagna piuttosto una parola (o più parole) che compare nei titoli dei capitoli della parte prima e della parte seconda del volume. Così si tenta di dilucidare in modo piano alcune cifre di attualità culturale (parte prima) o classiche nel linguaggio filosofico (parte seconda). La parte terza del volume è riservata a un gruppo di scritti (per lo più recenti), che hanno un intento didascalico più lato, e sono propriamente scampoli di ricerca teorica. Il proposito didascalico è, dunque, quello dominante in queste pagine: una sorta di omaggio dedicato al lettore meno interessato a esposizioni specialistiche. Un lettore prezioso, perché è un interlocutore che costringe spesso a rendere semplici e lineari i contenuti complicati della filosofia e così a mettere questi contenuti al servizio del (buon) senso comune.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Zenone di Elea – «Frammenti e testimonianze». Prima edizione integrale a cura di Lucia Palpacelli.

Risvolto di copertina

Questo volume offre la prima edizione integrale dei frammenti e delle testimonianze su Zenone di Elea, grande filosofo presocratico, allievo di Parmenide e padre della dialettica. La traduzione, con testo greco a fronte, e l’ampio commento consentono di ricostruire l’immagine dell’Eleate, celebre per i suoi argomenti contro il movimento e la molteplicità. Emerge la figura di un filosofo consapevole che l’esistenza è una continua tensione tra l’unità realizzata dalla ragione (logos) e la molteplicità degli eventi offerti dall’esperienza, i quali vanno affrontati nella loro problematicità e anche contraddittorietà. Egli opera un attacco possente e complessivo alla realtà fenomenica, insegnando all’Occidente a misurarsi con le aporie, tanto che i suoi paradossi sono ancora al centro della filosofia, della fisica e della matematica contemporanee.


Avvertenza

Un lavoro di raccolta e selezione delle testimonianze e dei frammenti di Zenone di Elea appare attuale e necessario nel panorama degli studi intorno all’Eleate. Esistono infatti diverse edizioni e traduzioni delle testimonianze e dei frammenti di Zenone, ma si riscontrano differenze significative nella selezione e nel taglio delle varie testimonianze, nel loro smembramento o nel riassemblaggio così come nel numero delle testimonianze accolte.

Per ovvi motivi, l’edizione che risulta più incompleta è proprio quella “classica” di riferimento di Diels-Kranz (= DK: Diels H.-Kranz Von W., Die Fragmente der Vorsokratiker, Griechisch und Deutsch von H. Diels 6 verbess. Auft. Herausg. Von W Kranz, Berlin 1951; traduzione italiana: G. Reale (a cura di), I Presocratici, Bompiani, Milano 2006). Questa edizione è integrata da Untersteiner con otto testi (Zenone. Testimonianze e frammenti, introduzione, traduzione e commento a cura di M. Untersteiner, La Nuova Italia, Firenze 1963; ristampato in Eleati. Parmenide-Zenone-Melisso. Testimonianze e frammenti, Bompiani, Milano 2011): sette testimonianze e un frammento; ancora più completa è poi l’edizione del Lee (H.D.P. Lee, Zello of Elea, A text with translation and notes, Cambridge University Press, Cambridge, 1936, rist. anast. 2014), che integra diciotto testi di Temistio e Filopono, ma accoglie solo testimonianze di contenuto teoretico. Differenze rispetto all’edizione di Untersteiner si riscontrano anche in Pasquinelli (A. Pasquinelli, I Presocratici. Frammenti e testimonianze, a cura di A. Pasquinelli, Einaudi Editore, Torino 1958) e Albertelli (P. Albertelli, Gli Eleati. Testimonianze e frammenti, a cura di P. Albertelli, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2014), che propongono un testo in sola traduzione italiana.

La sezione dedicata a Zenone nella raccolta di Kirk-Raven (The Presocratic Philosophers, Cambridge 1957) comprende una scelta delle testimonianze raccolte in DK, per un totale di ventuno testimonianze e tre frammenti che, però, nella numerazione, non vengono distinti dalle testimonianze. L’aggiornamento del lavoro (Kirk-Raven-Schofield, The Presocratic Philosophers, Cambridge 1983:) propone una nuova numerazione delle testimonianze ma, rispetto alla scelta dei brani, risulta confrontabile con la prima edizione. La raccolta proposta da Alberto Bernabé (Fragmentos presocráticos de Tales a Democrito, Introducción, traducción y notas de Alberto Bernabé, Alianza Editorial, Madrid 1998, 20102) comprende i soli frammenti e sei testimonianze; l’edizione dei Presocratici a cura di Gemelli Marciano (M. L. Gemelli Marciano, (Hrsg.), Bd. l., Griechisch-lateinisch-deutsch. Auswahl der Fragmente und Zeugnisse. Übersetzung und Erläuterungen. Thales, Anaximander, Anaximenes, Pythagoras und die Pythagoreer: Xenophanes, Heraklit, Düsseldorf Artemis & Winkler 2007; Bd. 2. Griechisch-lateinisch-deusch. Auswahl der Fragmente und Zeugllisse, Übersetzung und Erläuterungen, Parmenides, Zenon, Empedokles, Düsseldorf, Altemis & Winkler 2009: Die Vorsokratiker: Bd. 3. Griechisch-lateinisch-deusch. Auswahl der Fragmente und Zeugllisse, Übersetzung und Erläuterungen, Anaxagoras, Melissos, Diogenes von Apollonia. Die antiken Atomisten: Leukipp und Demokrit, Mannheim: Artemis & Winkler, 2010) nella sezione riguardante Zenone accoglie alcune testimonianze non presenti in DK, ma conta diciotto passi e non distingue tra testimonianze indirette e frammenti; anche D. W. Graham (The Texts of Early Greek Philosophy, vol. I, Cambridge University Press, Cambridge 2010) – che accoglie 30 testimonianze, alcune delle quali non presenti in DK – non opera la distinzione tra testimonianze e frammenti. Mansfeld-Primavesi (Die Vorsokratiker, Reclam, Stuttgart 2012) raccoglie trentatré testimonianze, accogliendo anche passi non presenti in DK e non distingue tra testimonianze e frammenti; la raccolta di Laks-Most (Early Greek philosophy, V, Loeb Classical Library, Cambridge MS 2016) è forse la più ricca tra le edizioni recenti: raccoglie le testimonianze organizzandole tematicamente e amplia molto rispetto al DK accogliendo anche passi che non compaiono in precedenti raccolte.

La presente edizione si pone l’obiettivo di offrire uno strumento il più possibile completo e che risulti di semplice fruizione. A questo fine, si è cercato di raccogliere tutte le testimonianze disponibili, anche quelle assenti dalle edizioni correnti, ma comunque presenti nel dibattito filosofico; l’intento della completezza spiega scelte “di rottura” come quella di accogliere anche una testimonianza generalmente attribuita a Parmenide (DK 28A28= t. 59), ma in cui è ravvisabile uno scambio di attribuzione tra maestro e discepolo e che risulta, in base al contenuto, attribuibile a Zenone. I testi sono stati tagliati a volte in modo più ampio di quanto sia stato fatto in altre edizioni, perché sia chiaro il contesto in cui si pone la testimonianza stessa: si è cercato di conservare, per quanto possibile, la consequenzialità e l’integrità dei testi pervenuti e, per questo, si è scelto di attribuire un numero a ogni testimonianza, seguendo una numerazione continua e organizzando la raccolta in varie sezioni tematiche, attraverso un sistema di titoli che ha l’obiettivo di rendere chiaro il percorso biografico e teorico che tracciano la chiusura di ogni sezione tematica la voce “riferimenti incrociati” riporta il riferimento ad altre testimonianze attinenti a quella sezione, ma che sono state collocate altrove per ragioni teoriche e/o di contenuto). Com’è facile intuire, questa scelta ha reso necessario svincolarsi dalla numerazione del DK, che è però sempre annotata accanto a quella nuova e, in alcuni casi, è affiancata anche dalla numerazione del Lee, per consentire un più immediato orientamento. Le corrispondenze con le edizioni maggiori sono poi riproposte in un’apposita tabella comparativa.

Attraverso una numerazione distinta e non consecutiva, si è mantenuta la distinzione tra le testimonianze indirette e quelle che, invece, contengono, per opinione comune degli studiosi, veri e propri frammenti di tradizione diretta. Si tratta, infatti, di un discrimine imprescindibile dal punto di vista filologico, anche se in alcuni casi il confine appare molto labile. Tuttavia, dato che i frammenti, dal punto di vista contenutistico, testimoniano alcuni argomenti zenoniani, si è scelto di proporli anche nelle sezioni tematiche delle testimonianze, numerandoli con un rimando, per fornire al lettore un commento completo e non frammentato.

Il testo è organizzato in due parti: nella prima sono raccolte tematicamente le testimonianze e i frammenti in traduzione con testo a fronte (corredati da note di carattere filologico e testuale o finalizzate a collocare i brani citati nel loro contesto storico e/o filosofico); per quanto riguarda le fonti arabe e alcuni testi in ebraico, si è preferito offrire il testo nella sola traduzione italiana. A ogni sezione tematica dei testi segue un commentario ragionato delle testimonianze stesse. Nella seconda parte si riattraversa con un approccio di sintesi l’analisi proposta nella prima con l’intento di cogliere e sottolineare i nodi teorici più rilevanti e tentare di ridisegnare la figura di Zenone di Elea.

Il libro è infine corredato da diversi indici (l’indice alfabetico dei nomi antichi e moderni; le tabelle di riferimento delle numerazioni attribuite ai testi dai vari editori) utili per la consultazione del testo stesso.

Zenone di Elea, «Frammenti e testimonianze». Prima edizione integrale a cura di Lucia Palpacelli, Morcelliana, Brescia 2022.


Estratto dall’Introduzione


Intervista a Lucia Palpacelli

Il testo completo dell’intervista cliccando a Letture.org.




M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Platone – Dice Socrate: «Caro Fedro, questo è un bel luogo per fermarci a leggere e discutere di filosofia. Il platano è molto frondoso e alto; l’agnocasto è alto, la sua ombra bellissima, e, nel pieno della fioritura com’è, rende il luogo profumatissimo».


Fedro: «Dove vuoi, o Socrate, che ci mettiamo a sedere per leggere?

Socrate : «Giriamo di qui e andiamo lungo l’Ilisso, poi, dove ci sembrerà un posto tranquillo, ci metteremo a sedere. […] Allora, fa’ da guida …».

Fedro: «Vedi quel platano altissimo? […] Là c’è ombra e un venticello giusto, e anche erba per metterci a sedere, o, se vogliamo, per distenderci».

Socrate: «[…] Bel luogo per fermarci! Questo platano è molto frondoso e alto; l’agnocasto1 è alto e la sua ombra bellissima, e, nel pieno della fioritura com’è, rende il luogo profumatissimo. E poi scorre sotto il platano una fonte graziosissima, con acqua molto fresca, come si può sentire con il piede. […] E se vuoi altro ancora, senti come è gradevole e molto dolce il venticello del luogo. Un dolce mormorio estivo risponde al coro delle cicale. Ma la cosa più piacevole di tutte è quest’erba che, disposta in dolce declivio, sembra cresciuta per uno che si distenda sopra, in modo da appoggiare perfettamente la testa. […] Ma ora che siamo giunti qui, intendo sdraiarmi; e tu vedi quale sia la posizione che ritieni più comoda per poter leggere, sceglila e poi leggi!».

Platone, Fedro, 228 d – 229 b; 230 b-e, trad. di G. Reale, in Platone, Tutti gli scritti, Bompiani, Milano 2000, pp. 540-542.

1 L’agnocasto è un arbusto a foglia decidua che può raggiungere fino a tre metri. Mette le foglie a primavera inoltrata e fiorisce in piena estate con spighe di color viola scuro, molto profumati.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Konstantinos Petrou Kavafis – Passioni e Virtù nella Casa dell’Anima.

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Maya Angelou – Puoi svalutarmi nella storia con le tue contorte bugie … Volevi vedermi distrutta? Con la testa china ed occhi bassi? Io mi sollevo. Con la certezza delle maree, proprio come le speranze che si librano alte, ancora mi solleverò. Ci deliziamo nella bellezza della farfalla, ma raramente ammettiamo i cambiamenti a cui ha dovuto sottostare per raggiungere quella bellezza.

Ancora mi sollevo

Puoi svalutarmi nella storia
Con le tue amare, contorte bugie;
Puoi schiacciarmi a fondo nello sporco
Ma ancora, come la polvere, mi solleverò

La mia presunzione ti infastidisce?
Perché sei così coperto di oscurità?
Perché io cammino come se avessi pozzi di petrolio
Che pompano nel mio soggiorno

Proprio come le lune e come i soli,
Con la certezza delle maree,
Proprio come le speranze che si librano alte,
Ancora mi solleverò

Volevi vedermi distrutta?
Testa china ed occhi bassi?
Con le spalle che cadono come lacrime,
Indebolita dai miei pianti di dolore?

La mia arroganza ti offende?
Non prenderla troppo male
Perché io rido come se avessi miniere d’oro
Scavate nel mio giardino

Puoi spararmi con le tue parole,
Puoi tagliarmi coi tuoi occhi,
Puoi uccidermi con il tuo odio,
Ma ancora, come l’aria, mi solleverò.

La mia sensualità ti disturba?
Ti giunge come una sorpresa
Che io balli come se avessi diamanti
Al congiungersi delle mie cosce?

Fuori dalle capanne della vergogna della storia
Io mi sollevo
In alto, da un passato che ha radici nel dolore
Io mi sollevo
Io sono un oceano nero, agitato ed ampio,
Sgorgando e crescendo io genero  nella marea.

Lasciando dietro notti di terrore e paura
Io mi sollevo
In un nuovo giorno che è meravigliosamente limpido
Io mi sollevo
Portando i doni giunti dai miei antenati,
Io sono il sogno e la speranza dello schiavo.
Io mi sollevo
Io mi sollevo
Io mi sollevo

(Still I Rise – da  “And Still I Rise” di Maya Angelou)



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Giacomo Leopardi – Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici

All’uomo sensibile e immaginoso, che viva come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione.

Giacomo Leopardi, Zibaldone, pensiero del 30 novembre 1828.


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Andrea Pedrinelli – Roba minima (mica tanto). Tutte le canzoni di Enzo Jannacci, che diceva: «Ricordati, non si traffica con la coscienza. Mai. Se si rinuncia alla dignità una volta, la si è persa per sempre».


«Ricordati, non si traffica con la coscienza. Mai. Se si rinuncia alla dignità una volta, la si è persa per sempre».
E. Jannacci

 

La vita e l’opera del grandissimo cantautore milanese ripercorsa tramite un’accurata e completa disamina che procede dettagliatamente anno per anno, disco per disco, canzone per canzone; e che è integrata da approfondimenti sulle mille attività extramusicali del Dottore, dalla medicina al cinema al cabaret. Roba minima (Mica tanto) è l’unico volume esistente su Jannacci ad aver avuto l’approvazione dell’Artista ancora in vita e l’apprezzamento pubblico della Sua famiglia “perché qui Enzo c’è davvero e c’è tutto”. Con un inserto a colori contenente foto rare e storiche copertine di dischi.

 

«L’esistenza è uno spazio che ci hanno regalato e che dobbiamo riempire
di senso, sempre e comunque».
E. Jannacci


Descrizione

È nel marzo del 1964 che Jannacci Vincenzo diventa Enzo Jannacci: o il Saltimbanco, come amava definirsi dando una forte valenza etica al proprio lavoro di cantautore e autore teatrale nonché televisivo. La canzone che rende Jannacci noto a tutti si intitola “El portava i scarp del tennis” e narra della gente comune, che sarà sempre il vero obiettivo di un’arte senza snobismi. Il “barbon” del brano muore nell’indifferenza, ma i valori che come ogni uomo egli ha in sé non sono “roba minima”, malgrado Jannacci così canti, con pudore. Perché non è “roba minima” la vita di un signore diviso tra la medicina del corpo e quella dell’anima, capace di resistere alle tante censure e banalizzazioni di chi ancora oggi lo definisce “un clown” per cantare emarginazione, razzismo, lavoro minorile, droga, malasanità, mafia, malapolitica, TV senza morale. E soprattutto non è “roba minima” l’eredità umana di un artista che amava dire: “Ricordati, non si traffica con la coscienza. Mai. Se si rinuncia alla dignità una volta, la si è persa per sempre”.


Andrea Pedrinelli

Giornalista di musica e teatro, collabora con Avvenire e altre testate e ha scritto libri dedicati a Gaber, Baglioni, Ron. Ha curato l’opera omnia video di Giorgio Gaber e la prima raccolta critica di filmati della cinquantennale storia dei Pooh. Per Giunti ha pubblicato “Roba minima (mica tanto)”, il libro più completo mai scritto sulle canzoni di Enzo Jannacci, “Universo Zero”, biografia di Renato Zero, “Vasco Rossi”.

 


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Gravidanza e dono. La legge sulla «gravidanza solidale» tra donne in Parlamento. Si codifica che la maternità non è dono, ma diritto. Ma il dono della maternità è vita che nasce nel corpo vissuto, è desiderio dell’altro che viene a noi nella sua meraviglia panica. Si genera nella mente prima che nel corpo: la vita è intenzionalità donativa e non acquisitiva.

Salvatore Bravo
Gravidanza e dono

La legge sulla «gravidanza solidale» tra donne in Parlamento.
Si codifica che la maternità non è dono, ma diritto.
Ma il dono della maternità è vita che nasce nel corpo vissuto,
è desiderio dell’altro che viene a noi nella sua meraviglia panica.
Si genera nella mente prima che nel corpo:
la vita è intenzionalità donativa e non acquisitiva.



In Parlamento è stata depositata una proposta di legge per regolamentare la così detta e codificata «gravidanza solidale» tra donne. Il ministero orwelliano della verità è continuamente operante: non solo si mutila la storia delle verità disorganiche al sistema, ma anche le parole sono orientate al relativismo semantico.
Il semanticidio è l’ultima frontiera del dominio. Le parole sono curvate ai bisogni delle nuove classi dirigenti globali. Non più madre surrogata: l’ordine del discorso liberista governa con le parole l’immaginario critico dei singoli e dei popoli per neutralizzarlo, si deve dire «madre solidale». Quest’ultima ospita il feto, “senza scopo di lucro”, sviluppato secondo le tecniche della fecondazione in vitreo. In tal modo coppie di ogni orientamento acquisiscono il diritto alla maternità-paternità.
La maternità è, in tal modo, oggetto di giurisprudenza: si codifica il diritto alla maternità e alla paternità. Non più dono, ma diritto!
Il dono della maternità è vita che nasce nel corpo vissuto, è desiderio dell’altro che viene a noi nella sua meraviglia panica. Si genera nella mente prima che nel corpo, nel sentire l’assenza dell’alterità verso cui ci si dispone in modo integrale: la vita è intenzionalità donativa e non acquisitiva. Il bisogno di incontrarsi per completarsi pone il senso ontologico dell’esistenza di ogni essere umano. Il dono codificato nella gabbia della legge è negato nella sua verità ontologica per essere merce a disposizione del compratore. Si riproduce la logica dell’azienda: la giurisprudenza codifica i doveri e i diritti del compratore e del venditore. La madre incubatrice, il cui ruolo è ideologicamente edulcorato dal termine “solidale”, vende il “nuovo prodotto” alla madre che lo acquisisce. L’esperienza della maternità/paternità è trasformata in “aziendalizzazione della vita sin sul nascere”.
Il capitalismo non può tollerare il dono autenticamente tale, deve monetizzare ogni respiro, gesto e scelta dell’esistenza. La nascita di un nuovo essere (e dunque la maternità donativa) quale dono che offre allora un nuovo sguardo con cui contemplare la vita, non può essere tollerata dal modo di produzione capitalistico: il dono è uno scandalo dove regna solo il profitto, per cui è soffocato sul nascere.
La «gravidanza solidale» – con annessa menzogna semantica – è esperienza assoluta del capitale. Se la maternità da dono diviene un contratto che stabilisce i compensi e gli obblighi delle protagoniste, si cancella l’idea stessa di dono dall’orizzonte percettivo, immaginativo e concettuale dei popoli e dei singoli. Si cancella l’amore donativo e disinteressato di cui la maternità è l’archetipo. L’interesse personale e la tracotanza del denaro divengono le uniche leggi che devono governare la vita.
In maniera analoga a quanto accade per la scelta degli studi fino alle relazioni affettive, tutto dev’essere regolamentato dall’unica legge dell’interesse privato, in cui a prevalere è il diritto del più forte. L’autentica maternità solidale ritrova la sua verità nelle relazioni che rifuggano dalla quantificazione. La maternità solidale tra donne è, d’altronde, un’esperienza antica. Non era raro in passato nelle famiglie allargate meridionali, che una madre consentisse ad un’altra madre che non poteva avere figli di crescere il proprio figlio. Ciò accadeva su un fondo di solidarietà, in cui le due donne non si contendevano il figlio, ma ciascuna contribuiva alla sua crescita secondo modalità diverse. I padri non erano esclusi, ma si inserivano in tali scelte all’interno di convenzioni e valori non codificati. L’unione non era e non dev’essere nella legalità del contratto, ma dev’essere condizione etica orientata al bene che si autoregola.

Monetizzazione della vita
Il sistema globale con le sue oligarchie nichilistiche produce diritti universali sempre in funzione dei diritti individuali e, in particolare delle classi più abbienti: il diritto è in astratto universale, nei fatti è un privilegio di classe. Siamo innanzi ad un episodio della lotta di classe: coppie benestanti si rivolgeranno a donne precarie e bisognose di denaro per usare il loro corpo come incubatrice, in cambio di denaro, da corrispondere in svariate modalità non rintracciabili.
In un contesto generale nel quale l’interesse privato e il profitto sono la legge aurea che tutto guida l’uso del termina “solidale” si svela nella sua ipocrisia manipolatrice. Si manipolano le parole per determinare il modo di pensare e di agire dei subalterni che le impiegano nel loro dire quotidiano. Una donna ricca può comprare il corpo di un’altra donna per soddisfare un proprio desiderio, una “voglia” di maternità (possessiva), senza dover vivere il rischio della gravidanza che “deforma” il corpo femminile conformato su canoni estetizzanti (la gravidanza mette in gioco molteplici aspetti nella persona e nel corpo della donna che dovrà accogliere dentro di sé l’alterità di un altro corpo, altro da sé, e per lunghi nove mesi, per non parlare della maternità che si esprimerà nel periodo dell’allattamento). Oppure pone rimedio alla sua biologica impossibilità di generare (sterilità) col potere che le deriva dal censo. La predazione, legge del modo di produzione capitalistico, affonda i suoi denti vampireschi nella maternità riducendola ad un affare.
La solidarietà diviene nuovo business, ammantato di stucchevole “buonismo”. Il sistema produce menzogne con la patina delle belle parole per vincere le ultime resistenze etiche. Dietro il paravento della gravidanza solidale non è difficile pensare che giovani donne migranti e precarie disperate possano trovare un mezzo per sopravvivere vendendo non solo il loro corpo, ma soprattutto il significato profondo di questa esperienza nella vita di donna e di madre.
La “gravidanza solidale”, inoltre, permetterebbe a donne in carriera che hanno scelto la professione quale obiettivo primo di pianificare la gravidanza usando il corpo delle perdenti della globalizzazione. La maternità diviene un obiettivo individualistico: non più vita che esce alla luce spontaneamente e liberamente.
Altro punto doloroso: la gravidanza è gestita solo da donne. Siamo all’eliminazione della paternità. La gravidanza diviene un affare tra donne, gli uomini sono solo un dettaglio biologico. Si sperimenta una nuova formula della procreazione: la gravidanza tra sole donne.

Femminismo liberista
I parlamentari che hanno proposto la legge sono in linea con il nuovo femminismo liberista che inneggia all’inclusione nel mercato, ma che in realtà produce esclusione sociale. La “maternità solidale” esclude e ridimensiona il ruolo della paternità. La logica implicita in tale proposta di legge è l’individualismo proprietario, per cui il bambino appartiene alle donne, in quanto hanno la potenzialità di produrlo – come fosse merce – per soddisfare un desiderio codificato e legittimato dalla cultura astratta del diritto.
Il femminismo fa un nuovo salto di qualità, si orienta verso la volontà di potenza e di dominio. Se la tecnica consente di rendere il ruolo degli uomini secondario, la gestione della vita e della comunità politica passa al nuovo femminismo in salsa transumana.
Si prepara con parole “buone” e con gradualità una rivoluzione antropologica, in cui il maschio è solo biologia: il resto è un affare tra donne. Il diritto alla maternità tra donne valuta i bisogni della sola madre: il bambino, con il suo naturale diritto ad una identità, è secondario. Non ci si pone dalla parte del bambino, il più debole in queste relazioni di potere. Cosa potrà provare nel sapere da adulto che è il risultato di una tecnica e di un contratto nessuno lo sa e nessuno si pone tale problema.
Non vi è immaginazione empatica, ma solo desiderio di acquisto e conquista.
In ultimo una società atomizzata e senza capacità spirituali non è nelle condizioni culturali di comprendere che la maternità non è solo una condizione del corpo, ma è un atto emotivo e mentale. Si dovrebbe favorire la cultura del dono e del volontariato, in quanto ogni adulto può vivere maternità o paternità nella cura senza possesso delle persone che incontra sul proprio cammino di vita.
La maternità e la paternità sono al plurale nelle loro espressioni, così come è la vita stessa. Naturalmente tale possibilità è colpevolmente ignorata, taciuta, poiché lo scopo è sempre il possesso individualistico e il business.
I “progressisti” arcobaleno continuano nella loro opera di disintegrazione della comunità, e si fanno braccio armato legislativo del relativismo liberista che tutto riduce a tecnica e a possesso personale. In Inghilterra una madre surrogata può richiedere legalmente fino a 15.000 sterline di rimborso spese, ovvero lo stipendio medio di un anno di una donna a basso reddito. Pertanto il denaro e la tecnica sono le palesi chiavi di lettura della “gravidanza solidale” sotto l’arcobaleno del “progressismo” liberista. L’egoismo e lo sfruttamento della vita sono l’unica legge a cui risponde il liberismo arcobaleno, la nuda vita della maternità è ridotta ad ovaie, embrioni e spermatozoi rigorosamente perfetti, e solo per chi se lo può permettere

… In attesa di tempi più umani rileggiamo la poesia Maternità di Tagore:

«Da dove sono venuto?
Dove mi hai trovato?
Domandò il bambino a sua madre.
Ed ella pianse e rise allo stesso tempo
e stringendolo al petto gli rispose:
tu eri nascosto nel mio cuore, bambino mio,
tu eri il suo desiderio.
Tu eri nelle bambole della mia infanzia,
in tutte le mie speranze,
in tutti i miei amori, nella mia vita,
nella vita di mia madre,
tu hai vissuto.
Lo Spirito immortale che presiede nella nostra casa
ti ha cullato nel Suo seno in ogni tempo,
e mentre contemplo il tuo viso,
l’onda del mistero mi sommerge
perché tu che appartieni a tutti,
tu mi sei stato donato.
E per paura che tu fugga via
ti tengo stretto nel mio cuore.
Quale magia ha dunque affidato
il tesoro del mondo nelle mie esili braccia?».


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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