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Mario Liverani – Paradiso e dintorni. Il paesaggio rurale dell’antico Oriente. “Torre di Babele” come metafora per la città e “Giardino dell’Eden” come metafora per la campagna. città orientale caratterizzata dai “luoghi del potere”. Città ellenistica (con i suoi elementi di derivazione greca) che dà spazio ai “luoghi della cittadinanza”.

Mario Liverani

La ‘Torre di Babele’ come metafora per la città e il ‘Giardino dell’Eden’ come metafora per la campagna. Entrambi erano caratterizzati da un elemento di crisi e di collasso: la torre di Babele era rimasta incompiuta e abbandonata, il giardino dell’Eden era stato chiuso all’uomo, costretto a migrare verso ambienti meno ospitali.

La città orientale era caratterizzata dai “luoghi del potere”, mentre quella ellenistica (con i suoi elementi di derivazione greca) diede altrettanto spazio ai “luoghi della cittadinanza” – le caratteristiche urbanistiche riflettendo quelle socio-politiche. Per “luoghi del potere” s’intendono le strutture difensive (mura e porte urbiche), gli edifici palatini, i palazzi, ma anche gli arsenali, le stalle, gli opifici militari), gli edifici templari (moltiplicati dalla struttura politeistica, ma culminanti nel tempio del dio cittadino), mentre a certe esigenze già presenti (specie lo scambio sia locale sia a distanza) vengono dedicati dei “non-luoghi” di funzionalità secondaria o intermittente: la porta urbica, lo spazio antistante al tempio, la via regia che attraversa la città. I “luoghi della cittadinanza” sono quelli dedicati alle riunioni politico-amministrative, allo scambio, allo svago: il foro (o agorà), i porticati che spesso lo circondano, il mercato, il teatro, le terme (o più banalmente i bagni pubblici). Per riprendere una distinzione resa celebra dal Guicciardini, al Palazzo si aggiunge e si contrappone la Piazza.

 


Negli anni Trenta del secolo scorso, il grande Marc Bloch concepì un nuovo paradigma di ricerca storica, nel quale riservò un ruolo privilegiato alla ricostruzione del paesaggio agrario. Questa scelta strategica – indicativa delle concezioni storiche tipiche della scuola delle Anna/es – si rivelò saggia, ed ebbe successo: sia perché bilanciava il peso della città con quello delle campagne, sia perché ottimamente si adattava a sottolineare gli elementi della “lunga durata” contro le strettoie della “storia evenemenziale”. Al seguito di Bloch, lo studio del paesaggio agrario è diventato un ovvio ed importante punto di partenza per la comprensione di ogni ambito storico quale scenario degli avvenimenti politici e delle tendenze socio-economiche, ma anche quale esito fisico di quegli avvenimenti e di quelle tendenze (in Italia si segnalò l’opera di Emilio Sereni). Il paesaggio, modificato dall’uomo attraverso il tempo, costituisce di per sé una fonte e uno strumento per la corretta valutazione della struttura sociale. L’organizzazione dello spazio regionale (comprendente sia gli insediamenti sia le campagne) è una sorta di immagine, impressa nel terreno, del modo di produzione e della struttura sociale che l’hanno prodotta.
Questo approccio è stato efficace nella storia medievale e moderna, non solo per una maggiore consapevolezza e un avanzamento metodologico, ma anche per una maggiore disponibilità e diversificazione di dati: registri catastali e archivi notarili, immagini iconografiche e gli stessi resti fisici dell’ antico paesaggio ancora a vista. Per la storia antica (e segnatamente per quella antico-orientale) il compito si è rivelato più difficile. A parte un’evidente arretratezza metodologica, connessa alla priorità assegnata all’edizione dei testi e alla competenza filologica, problemi aggiuntivi derivano dalla scarsità documentaria: i testi catastali sono limitati a poche zone e periodi, e i paesaggi antichi giacciono sepolti sotto la continua sedimentazione delle piane alluvionali, oppure distrutti da successivi interventi umani.
In alcune zone, tuttavia, l’archeologia ha contribuito a ricostruire le linee generali dello sfruttamento agricolo. E questo vale non solo per la Grecia classica o per l’Italia romana o per l’Europa preistorica e protostorica, ma anche per alcune parti del Vicino Oriente antico (pp. 6-7).

L’attuale copertura vegetale del Vicino Oriente è ben diversa da quella originaria, che possiamo non solo postulare ma concretamente ricostruire sulla base dei dati paleobotanici. Per condizioni “originarie” intendiamo qui quelle presenti all’inizio del Neolitico, prescindendo sia da quelle più remote, i cui mutamenti dipendono da fattori extra-umani, sia anche da quelle del Paleolitico la cui economia di sussistenza poteva praticarsi senza interventi di modifica ambientale, tuttalpiù con qualche modesto intervento di disboscamento mediante fuoco. È il passaggio dall’economia di caccia e raccolta a quella di produzione di cibo (agricoltura e allevamento) che rende funzionali e anzi necessari interventi sull’ambiente: ampliamento delle radure coltivabili e dunque disboscamento più sistematico, regolarizzazione dei corsi d’acqua, definizione di unità produttive (campi) mediante delimitazione ed anche recinzione, delineamento (per effetto di utilizzo ripetitivo) di percorsi per la transumanza (tratturi), per arrivare, a partire dal Bronzo Antico, a più incisivi interventi come i terrazzamenti collinari e le reti di canali a bonificare le zone paludose (p. 13).

Come ho già avuto occasione di suggerire (Mario Liverani, Power and Citizenship, in Peter Clark (ed.), Cities in World History, Ubuversity Press, Oxford 2013), la città orientale era caratterizzata dai “luoghi del potere”, mentre quella ellenistica (con i suoi elementi di derivazione greca) diede altrettanto spazio ai “luoghi della cittadinanza” – le caratteristiche urbanistiche riflettendo quelle socio-politiche. Per “luoghi del potere” s’intendono le strutture difensive (mura e porte urbiche), gli edifici palatini Ci palazzi, ma anche gli arsenali, le stalle, gli opifici militari), gli edifici templari (moltiplicati dalla struttura politeistica, ma culminanti nel tempio del dio cittadino), mentre a certe esigenze già presenti (specie lo scambio sia locale sia a distanza) vengono dedicati dei “non-luoghi” di funzionalità secondaria o intermittente: la porta urbica, lo spazio antistante al tempio, la via regia che attraversa la città. I “luoghi della cittadinanza” sono quelli dedicati alle riunioni politico-amministrative, allo scambio, allo svago: il foro (o agorà), i porticati che spesso lo circondano, il mercato, il teatro, le terme (o più banalmente i bagni pubblici). Per riprendere una distinzione resa celebra dal Guicciardini, al Palazzo si aggiunge e si contrappone la Piazza. Non ci sono piazze nella città antico-orientale, solo vie di ogni ordine e grado, dalla grande “via regia” fino ai dedali di oscure viuzze; al sole risplendente ma accaldante si preferisce l’ombra. Magari il re preferisce il sole, per motivi simbolici, ma va in giro seduto sul baldacchino e protetto dal grande ombrello, mentre i portatori (se solo potessero) preferirebbero l’ombra (p. 124).

Mario Liverani, Paradiso e dintorni. Il paesaggio rurale dell’antico Oriente, Gius. Laterza & Figli Bari 2018.,


Quarta di copertina
La nostra civiltà comincia il suo viaggio in uno spazio mitico. Un ‘giardino dell’Eden’ in cui l’uomo trovava soddisfatte tutte le sue necessità. Per secoli studiosi e ricercatori si sono interrogati sulla realtà storica di questo paesaggio primigenio. Oggi finalmente è possibile rispondere alla domanda: ma com’era fatto questo paradiso?

Quando l’Europa iniziò la sua esplorazione del Vicino Oriente, le notizie riguardanti quest’area erano sommarie e spesso facevano riferimento a un passato leggendario e mitico. In particolare, due miti ne avevano simboleggiato il paesaggio: la ‘Torre di Babele’ come metafora per la città e il ‘Giardino dell’Eden’ come metafora per la campagna. Entrambi erano caratterizzati da un elemento di crisi e di collasso: la torre di Babele era rimasta incompiuta e abbandonata, il giardino dell’Eden era stato chiuso all’uomo, costretto a migrare verso ambienti meno ospitali. Invece di città, i primi viaggiatori nel Vicino Oriente trovarono rovine, e invece di giardini trovarono il deserto. Col progredire dell’indagine storica e archeologica, le informazioni sulle antiche città (da Ninive a Babilonia) crebbero, mentre le informazioni sulle campagne rimasero scarse e quasi nulle. La storia orientale antica divenne una questione di re e dinastie, di città e palazzi, di scribi e artigiani e mercanti. Si sapeva che la stragrande maggioranza della popolazione antica era costituita da contadini e pastori, ma la ricostruzione della loro vita e del loro ambiente venne a lungo esclusa dal quadro. Oggi le condizioni sono cambiate. Possiamo provare, per la prima volta, a dare un volto al ‘giardino dell’Eden’, a quel paesaggio in cui è germinata alcuni millenni fa la nostra civiltà.

Indice del volume



Mappa del mondo babilonese, ca 500 a.C.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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FRanco Toscani – Marx non cessa di lodare la duttilità, l’iniziativa storica, la capacità di sacrificio, la novità e la grandezza dell’azione storica della Comune, per quanto destinata a essere sopraffatta.

Franco Toscani- Comune di Parigi

Jules Vallès

L’insorto.

Introduzione, traduzione e cura di Fernanda Mazzoli.

ISBN 978-88-7588-207-5, 2019, pp. 320, Euro 27.

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Peter Watkins – La Comune di Parigi è sempre stata seriamente emarginata dal sistema educativo francese. Le questioni che i comunardi affrontarono erano molto simili a quelle con cui dobbiamo confrontarci oggi.

Peter Watkins La comune di Parigi01

«La Comune di Parigi è sempre stata seriamente emarginata dal sistema educativo francese, nonostante – o forse perché – è un evento chiave nella storia della classe operaia europea, e quando ci siamo incontrati la maggior parte del cast ha ammesso di conoscere poco o nulla sull’argomento ed è stato molto importante che le persone si siano coinvolte direttamente nella nostra ricerca sulla Comune di Parigi, acquisendo così un processo esperienziale nell’analisi di quegli aspetti dell’attuale sistema francese che stanno fallendo nella loro responsabilità di fornire ai cittadini un processo veramente democratico e partecipativo. Migliaia di Comunardi morirono per i loro ideali nel 1871. Speriamo che prima di vedere la fine del film capirete perché, e quanto le questioni che affrontarono siano molto simili a quelle con cui dobbiamo confrontarci oggi».

Peter Watkins

 

La Commune (Paris, 1871) è un film storico-drammatico del 2000 diretto da Peter Watkins sulla Comune di Parigi. Come rievocazione storica in stile documentaristico, il film ha ricevuto molti consensi dalla critica, per i suoi temi politici e per la regia di Watkins. La Comune (Parigi, 1871) è stata girata in soli 13 giorni in una fabbrica abbandonata alla periferia di Parigi.

 


Louise Michel (1830-1905) – Non voglio difendermi e non voglio essere difesa, appartengo completamente alla rivoluzione sociale e mi dichiaro responsabile delle mie azioni. Viva la Comune di Parigi.

Louise Michel 01

F. Roy, libraire-éditeur,  (p. titre-490).
 

 


 

«Non voglio difendermi e non voglio essere difesa,
appartengo completamente alla rivoluzione sociale
e mi dichiaro responsabile delle mie azioni […].
Bisogna escludermi dalla società, siete stati incaricati di farlo, bene!
L’accusa ha ragione.
Sembra che ogni cuore che batte per la libertà
ha solo il diritto ad un pezzo di piombo,
ebbene pretendo la mia parte!».

 

***
*

Louise Michel, Dichiarazione rivolta al tribunale durante il processo contro i comunardi che la giudicava perché era stata arrestata sulle barricate di Parigi della Comune del 1871. Le sue parole ispirarono Victor Hugo nel suo poema Viro Major .


 


 

 

La barricata di Piazza Blanche difesa dalle Donne comunarde.

Franco Toscani – Karl Marx e il significato della “Comune” di Parigi. La “Comune” sarà celebrata per sempre come la gloriosa messaggera di una nuova società. La sua testimonianza, il suo patrimonio e la sua eredità risiedono essenzialmente nella «sovrabbondanza di umanità dalla parte degli oppressi».

Karl Marx e la Comune di Parigi

 

Karl Marx, Die Klassenkämpfe in Frankreich: 1848 bis 1850

Die Klassenkämpfe in Frankreich: 1848 bis 1850 è una raccolta di articoli pubblicati nel 1850 da Karl Marx (1818-1883) sulla «Neue Rheinische Zeitung» e poi riuniti in volume da Friedrich Engels (Berlin, der Expedition des Vorwärts, 1895). 
La traduzione italiana, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, uscì a Milano nel 1896 dalle edizioni della Critica sociale e venne ripubblicata più volte (nel 1902, 1922,  1925 e poi nel dopoguerra).

Franco Toscani

 Karl Marx
e il significato della Comune di Parigi

 

 

I.
Marx e il significato essenziale della Comune di Parigi
come “governo del popolo per il popolo”.
‘Paris, arbeitend, denkend, kämpfend, blutend…’

Se le rivoluzioni sono per Marx “le locomotive della storia” (“Die Revolutionen sind die Lokomotiven der Geschichte”),[1] quella della Comune parigina del 1871 fu per lui la locomotiva più trainante e fondamentale, una vera e propria stella polare del suo pensiero e della sua attività politica come dirigente della Prima internazionale dei lavoratori. In vari scritti e occasioni Marx non cessa di lodare la duttilità, l’iniziativa storica, la capacità di sacrificio, la novità e la grandezza dell’azione storica della Comune, per quanto destinata a essere sopraffatta dalla reazione borghese.

Com’era sua consuetudine, per scrivere (fra il maggio e il giugno 1871) ciò che nel merito rimane il suo testo principale, Der Bürgerkrieg in Frankreich. Adresse des Generalrats der Internationalen Arbeiterassoziation (La guerra civile in Francia. Indirizzo del Consiglio generale dell’Associazione internazionale dei lavoratori), egli si documentò con grande accuratezza sull’esperienza rivoluzionaria francese (su cui scrisse pure due abbozzi preparatori), lavorò su materiali forniti da giornali francesi, inglesi e tedeschi, esaminò sia pubblicazioni che sostenevano la Comune sia quelle che si opponevano ad essa, utilizzò pure lettere e racconti orali di non pochi partecipanti all’esperienza della Comune e reduci dalla Francia (tra cui Léo Frankel, Eugène Varlin, Auguste Serraillier, Paul Lafargue, Yelisaveta Tomanovskaya, Pyotr Lavrov), si avvalse dei risultati cui era giunto nei suoi studi precedenti sulle lotte di classe in Francia (come Der Achtzehnte Brumaire des Louis-Napoleon, 1851-1852).[2]

Dal 18 marzo al 28 maggio 1871 resistette e operò alacremente, in condizioni di terribili avversità, la “gloriosa rivoluzione operaia” (die ruhmvolle Arbeiterrevolution, cfr. MEOC XXII, 287) della Comune, messa in atto da chi cercò di prendere in mano il proprio destino e seppe giungere sino all’estremo sacrificio di sé nella lotta per la salvezza nazionale (la Pariser Kommune era infatti agli occhi di Marx, giustamente, die wahrhaft nationale Regierung, il vero governo nazionale, cfr. MEOC, XXII, 303) e per una nuova, migliore società.

Analizzando con grande cuore, intelligenza e passione questa esperienza rivoluzionaria, Marx ritiene che il proletariato parigino, nel momento della disfatta e dei tradimenti delle classi dominanti, abbia deciso di padroneggiare il proprio destino assumendo “la direzione degli affari pubblici” (die Leitung der öffentlichen Angelegenheiten), prendendo “il potere di governo” (die Regierungsgewalt); tale presa di potere non avvenne impadronendosi semplicemente della macchina statale-militare-burocratica già data e usandola per i propri fini, ma cercando di spezzarla (come l’autore del Capitale scrive anche in una lettera a Ludwig Kugelmann del 12 aprile 1871) in quanto strumento di dominio di classe (Klassenherrschaft) e di asservimento sociale (cfr. MEOC XXII, 293-294 e 770, n. 429).

Riflettendo sullo stato borghese caratterizzato da un potere esecutivo centralizzato, il pensatore tedesco interpreta la sollevazione parigina come una rivoluzione contro il carattere essenzialmente repressivo del potere statale e capace di proporre, in nuce, un modello alternativo di potere e di istituzione municipale e statale.

La neue Kommune, per Marx, “rompe il moderno potere dello stato” (die moderne Staatsmacht bricht) proprio nel suo tentativo caparbio di porre termine alla perpetuazione (Verewigung) dell’asservimento sociale (gesellschaftliche Knetschaft. Cfr. MEOC XXII, 298, 300).

Pur assediata e in mezzo a mille inenarrabili difficoltà, la Comune voleva essere infatti e, per il breve tempo che le fu concesso, riuscì effettivamente ad essere il “governo della classe lavoratrice” (Regierung der Arbeiterklasse), “un governo del popolo per il popolo” (eine Regierung des Volks durch das Volk), capace di porre fine alla separazione fra stato e società, al dispotismo del potere.

Essa fu un nobile e grandioso tentativo di ripensare radicalmente la stessa nozione di potere politico o (leggiamo nel primo abbozzo de La guerra civile in Francia) “la riassunzione da parte del popolo per il popolo della sua vita sociale. Non è stata una rivoluzione per trasferirlo da una frazione delle classi dominanti all’altra, ma una rivoluzione per abbattere questa stessa orribile macchina della dominazione di classe” ( cfr. MEOC XXII, 299, 304, 486).

Nel primo abbozzo Marx così riassume il senso essenziale della rivoluzione parigina: “E’ il popolo che agisce per sé stesso da sé stesso” (MEOC XXII, 463).

Essa sorse come “la rivolta di una città provata dalla guerra e umiliata dalla sconfitta”[3] e divenne un “mezzo organizzato d’azione”, un “mezzo razionale” per condurre la lotta delle classi “nel modo più razionale ed umano” (cfr. MEOC XXII, 490), per rendere il potere al servizio della società e non più contro o sopra di essa.

E’ pure rimarchevole il fatto, ben documentato, che nel periodo dell’esperienza rivoluzionaria comunarda vi fu più ordine e sicurezza per le strade, diminuirono drasticamente gli assassinii, i furti, le aggressioni: “Non più cadaveri sui tavoli dell’obitorio, non più insicurezza nelle vie. Parigi non era mai stata così tranquilla. Al posto delle cocottes, le eroiche donne di Parigi! Una Parigi virile, inflessibile, che combatte, che lavora, che pensa! Una Parigi piena di magnanimità! Di fronte al cannibalismo dei suoi nemici, metteva i suoi prigionieri solamente in condizioni di non nuocere!” (MEOC, 507).

Continua Marx nel primo abbozzo: “Soltanto i proletari, infiammati da un nuovo compito sociale da portare a termine per tutta la società, il compito di sbarazzarsi di tutte le classi e del dominio di classe, erano gli uomini che potevano distruggere lo strumento di quella dominazione di classe – lo Stato, il potere governativo centralizzato ed organizzato, che pretendeva di essere il signore anziché il servo della società”(MEOC XXII, 487).

Nel primo abbozzo, Marx sottolinea la semplice e cristallina grandezza della Comune in questo modo: “La Comune – il riassorbimento del potere dello Stato da parte della società, in quanto sue forze vitali invece che in quanto forze che la controllano e la assoggettano, da parte delle stesse masse popolari, che formano la loro stessa forza al posto della forza organizzata per reprimerle – la forma politica della loro emancipazione sociale al posto della forza artificiale della società esercitata dai loro nemici per opprimerle (la loro stessa forza che viene loro opposta ed organizzata contro di loro). Questa forma era semplice come tutte le grandi cose” (MEOC XXII, 488).

Secondo Marx, la forma politica inaugurata dalla Comune (“la forma politica dell’emancipazione sociale, della liberazione del lavoro”, “la forma comunale di organizzazione politica”) assume un valore che va ben oltre i confini pur importanti della capitale francese; il modello parigino è esemplare, indicativo e regolativo per tutta la Francia, valido sia per tutti i grandi centri industriali del paese sia per i più piccoli villaggi di campagna: “Tutta la Francia organizzata in Comuni che lavorano per sé e si governano da sé, l’esercito permanente sostituito dalle milizie popolari, l’esercito dei parassiti dello Stato destituito, la gerarchia clericale rimpiazzata dall’insegnante pubblico, i giudici di Stato trasformati in organismi comunali, il suffragio per la rappresentanza nazionale non più una questione d’intrallazzi per un governo onnipotente, ma l’espressione deliberata di comuni organizzate, le funzioni dello Stato ridotte a poche funzioni per scopi generali nazionali” (cfr. MEOC XXII, 490-491).

L’unità nazionale e politica va garantita e organizzata attraverso la costituzione comunale e il contributo delle iniziative locali. La struttura del potere e dello stato va ricostituita e rifondata per assecondare e favorire il libero movimento e sviluppo della società.

Mettendo in discussione lo stato borghese, la Commune de Paris voleva contrastare e superare der rein unterdrückende Charakter der Staatsmacht (“il carattere puramente repressivo del potere dello stato”) e la Knechtung (asservimento) del lavoro al capitale, per trasformare il lavoro in un “lavoro libero e associato (freie und assoziierte Arbeit)” e restituire il suo libero movimento (freie Bewegung) alla società (cfr. MEOC, XXII, 294-295, 298, 300).

Essa – intesa come “la forma politica finalmente scoperta” (die endlich entdeckte politische Form) della “emancipazione economica del lavoro” (ökonomische Befreiung der Arbeit. Cfr. MEOC XXII, 299) – mirava concretamente a una rifondazione dei poteri istituzionali e statali su salde basi popolari e libertarie.

Marx prende in esame accuratamente le principali misure assunte durante il periodo di governo della Comune, come l’elettività, responsabilità e revocabilità – in qualunque momento – di tutti i funzionari pubblici e rappresentanti politici (legati a un mandat impératif dei loro elettori e remunerati con livelli salariali pari a quelli degli operai), l’abolizione dei privilegi economici previsti per il servizio pubblico, il controllo operaio della produzione (con l’attribuzione ai lavoratori delle fabbriche abbandonate o dismesse), la soppressione dell’esercito permanente e la sua sostituzione col popolo in armi, la separazione fra stato e chiesa, il carattere laico, popolare, gratuito, libero e aperto a tutti dell’istruzione, etc. .

Marx elenca minuziosamente, entrando nei dettagli, le ordinanze, i decreti, i provvedimenti di tipo economico-finanziario presi dalla Comune assediata (operante sotto gli occhi dei vincitori prussiani da una parte e dell’esercito francese agli ordini di Thiers dall’altra, con Bismarck e Thiers di fatto alleati e concordi nel tentativo di stroncarla) a favore delle classi popolari e nella direzione di una maggiore giustizia sociale; in particolare, l’autore di Das Kapital sottolinea il valore del decreto del 16 aprile 1871 (pubblicato sul “Journal officiel de la République française” il 17 aprile 1871 e ritenuto da Engels il più importante dell’intera esperienza rivoluzionaria comunarda), che sanciva la consegna alle cooperative operaie delle officine e delle manifatture che erano state chiuse o per la fuga dei capitalisti o per una sospensione da essi decisa del lavoro; tale decreto avviava la trasformazione effettiva in senso socialista della produzione (cfr. MEOC XXII, 304, 773, n. 454).

La Comune aveva anche cominciato a valorizzare concretamente la soggettività, il protagonismo e la dignità delle donne. In Der Bürgerkrieg in Frankreich Marx rileva con sollievo, letizia e calore che nella Parigi comunarda “sono ricomparse le vere donne di Parigi (die wirklichen Weiber von Paris) – eroiche, nobili e leali, come le donne dell’antichità (wie die Weiber des Altertums). Una Parigi che lavorava, pensava, lottava, dava il proprio sangue – quasi dimentica, nel suo portare in grembo una società nuova, dei cannibali alle sue porte -, radiosa nell’entusiasmo della sua storica iniziativa! (Paris, arbeitend, denkend, kämpfend, blutend, über seiner Vorberaitung einer neuen Gesellschaft fast vergessend der Kannibalen vor seinen Toren, strahlend in der Begeisterung seiner geschichtlichen Initiative!)” (MEOC XXII, 307). Perciò i comunardi furono concretamente – senza alcuna retorica – degli eroi e la loro testimonianza resta unica.

Quest’immagine vitale della Parigi comunarda, simbolica di un nuovo mondo (neue Welt) che stava sorgendo è da Marx duramente contrapposta a quella del vecchio mondo (alte Welt) marcio e decadente di Versailles: “La Parigi del signor Thiers (…) la Parigi ricca, capitalista, dorata, oziosa (…) si accalcava a Versailles, saint Denis, Rueil e Saint Germain con i suoi lacchè, i suoi furfanti, con la sua bohême di letterati e le sue cocottes (…), considerava la guerra civile come un gradevole diversivo, guardando lo svolgimento della battaglia attraverso i binocoli, contando i colpi di cannone, e giurando sul proprio onore e su quello delle sue prostitute che lo spettacolo (das Schauspiel) era allestito assai meglio di quello solito della Porte Saint Martin” (MEOC XXII, 308).

Accadde così che i francesi controrivoluzionari e i prussiani militaristi, cioè vinti e vincitori agirono di concerto per soffocare nel sangue la sollevazione del popolo parigino, alleati nell’organizzazione degli orrori (Schandtaten) e delle infamie (Niedertrachten), nello sterminio (Ausrottung) e nella carneficina (Blutbad) della Parigi rivoluzionaria (cfr. MEOC XXII, 313-314). Marx è durissimo anche nei confronti della Prussia bismarckiana, definita uno sgherro (Bravo), più precisamente uno sgherro codardo (feiger Bravo) e mercenario (gemieteter Bravo. Cfr. MEOC XXII, 319).

 

 

 

II.
Marx, l’ ‘esistenza operante’ e la lotta valorosa della Comune di Parigi

 

Ciò che importa maggiormente è comunque l’ “esistenza operante (arbeitendes Dasein)” della Comune nella direzione del superamento della vecchia società borghese (Bourgeoisgesellschaft): “Quale che sia il merito di ciascuna delle misure adottate dalla Comune, la sua misura più grande era la sua organizzazione, improvvisata col nemico straniero che premeva a una porta, e il nemico di classe dall’altra, dando prova con la propria vita della propria vitalità, confermando le sue tesi con la sua azione” (cfr. MEOC XXII, 304, 489).

La Comune non inseguì astratti ideali, ma cercò tenacemente e coraggiosamente di liberare gli elementi di una nuova società (neue Gesellschaft) dalla vecchia società borghese putrescente. La Pariser Kommune non pretendeva di poter agire secondo l’infallibilità (Unfehlbarkeit), come tutti i governi di vecchio stampo, ma operava nella totale trasparenza e pubblicità dei suoi atti e decreti, senza nascondere tutte le sue manchevolezze (Unvollkommenheiten); anche per questo essa aveva cominciato ad avviare una meravigliosa trasformazione (wunderbare Verwandlung. Cfr. MEOC XXII, 306) nella pratica del potere e nella concezione stessa del potere, inteso non come dominio, ma come servizio e poter-essere nella direzione di una vita degna e di una società più giusta e libera.

In generale, contro ogni tipo di centralizzazione dispotica e arbitraria, il vecchio sistema di potere centralistico avrebbe dovuto essere sostituito dall’ “autogoverno dei produttori” (Selbstregierung der Produzenten) e l’autorità avrebbe dovuto essere intesa come un servizio alla società, non come potere repressivo o dominio su di essa; al posto di una investitura gerarchica del potere, il suffragio universale doveva servire al popolo costituito in comuni.

Intenzione della Comune era di restituire “al corpo sociale tutte le forze fino allora assorbite dallo Stato parassita che si nutre della società e ne ostacola il libero movimento. Con questo solo atto avrebbe dato inizio alla rigenerazione della Francia (die Wiedergeburt Frankreichs)” (cfr. MEOC XII, 297-298).

Il contrario della Comune è lo stato borghese repressivo, il quale non è che l’apparenza spettrale dello stato concepito nella sua separazione dalla società. L’intenzione di Marx è dunque, nel riferimento concreto all’esperienza della Comune, quella di esaltare il “libero movimento” della società, la sua liberazione dalle catene e dai privilegi economico-politici esistenti, la relativa autonomia della società, sempre repressa, fino ad allora, dallo Stato parassita e vampiro che si nutre di tutte le forze sociali.

Ciò è rimarchevole e particolarmente degno di nota in riferimento a quel che saranno nel XX secolo il totalitarismo comunista bolscevico, i regimi repressivi del Partito unico identificato con lo Stato, la vera e propria idolatria del Partito-Stato, che non ha nulla a che fare, evidentemente, con l’originaria proposta marxiana.

L’esistenza e la Costituzione della Comune implicano “la libertà municipale locale (die lokale Selbstregierung)”, l’esautoramento della monarchia (la quale in Europa è “il normale ingombro e l’indispensabile copertura del dominio di classe (Klassenherrschaft)”) e la fondazione delle istituzioni repubblicane su basi autenticamente democratiche (cfr. MEOC XXII, 299). La sua è una forma politica “espansiva”, come “governo della classe operaia” che pone fine al dominio borghese e all’asservimento sociale, operando in totale trasparenza e pubblicità.

Mirando all’ “espropriazione degli espropriatori” (quella Enteignung der Enteigner di cui Marx aveva già parlato in Das Kapital), la Comune intendeva realizzare l’emancipazione dei lavoratori, incentivare la produzione cooperativa secondo un piano comune (gemeinsamer Plan), porre fine alla moderna schiavitù del lavoro salariato e ridare un nuovo senso, una nuova dignità alla parola lavoro e ai lavoratori, considerando la terra e il capitale come “semplici strumenti di un lavoro libero e associato” (cfr. MEOC XXII, 300).

Rappresentando tutti gli elementi sani della società francese, come governo operaio e popolare, “audace campione dell’emancipazione del lavoro (der kühne Vorkämpfer der Befreiung der Arbeit)”, la Comune era il “vero governo nazionale” e aveva un forte carattere internazionale, aveva “annesso alla Francia gli operai di tutto il mondo” (cfr. MEOC XXII, 303-304), aveva cominciato a realizzare l’internazionalismo proletario, la solidarietà internazionale dei lavoratori, nominando ad esempio ministro del lavoro il tedesco Léo Frankel; essa era pienamente consapevole di iniziare una nuova era storica, ma non le fu concesso tempo.

Sapendo che la causa dei lavoratori è dovunque la stessa e che il nemico è dovunque lo stesso, la Comune fu così anche una grande e genuina espressione della solidarietà e dell’internazionalismo proletario e popolare contro ogni miope nazionalismo, contro ogni tipo di imperialismo militaristico e guerrafondaio.

Marx coglie con grande lucidità questo aspetto – ripreso con forza qualche decennio dopo da Rosa Luxemburg – e sembra quasi ammonire/presagire circa le immani sventure e i macelli umani preparati dai nazionalismi e dall’imperialismo che si manifesteranno anche e soprattutto nelle guerre mondiali del ventesimo secolo: “Lo sciovinismo della borghesia è soltanto la suprema vanità che dà una copertura nazionale a tutte le sue pretese. E’ un mezzo, grazie agli eserciti permanenti, per perpetuare lotte internazionali, per sottomettere in ogni paese i produttori scagliandoli contro i loro fratelli di ogni altro paese, un mezzo per ostacolare la collaborazione internazionale delle classi operaie, prima condizione della loro emancipazione” (MEOC XXII, 502).

L’anti-imperialismo, l’anti-militarismo, l’anti-nazionalismo e l’internazionalismo della Comune furono dimostrati concretamente il 16 maggio 1871 dall’abbattimento, tramite un decreto del 12 aprile, della colonna Vendôme, simbolo del militarismo (das kolossale Symbol des Kriegsruhms) e dei bourgeois chauvins (borghesi sciovinisti) francesi, eretta a Parigi tra il 1806 e il 1810 per celebrare le vittorie militari di Napoleone; per la precisione, il décret del 12 aprile decideva la demolizione della colonne Vendôme in quanto “monumento di barbarie, simbolo di forza bruta e di falsa gloria, affermazione del militarismo, negazione del diritto internazionale” (cfr. MEOC XXII, 304, 475, 503, 772, n. 451).

Quanto la Comune aveva messo in moto era troppo, era insopportabile, ” ‘impossibile’ comunismo” (‘unmöglicher’ Kommunismus) agli occhi delle sanguisughe e dei vampiri del proletariato, della camarilla reazionaria e dei suoi pennivendoli, del vecchio mondo borghese e aristocratico attaccato ai propri immensi privilegi, ricchezze e poteri, vizi e lussi, roso dalla rabbia e dal desiderio di vendetta alla vista della bandiera rossa (die rote Fahne…das Symbol der Republik der Arbeit) sventolante sull’Hôtel de Ville; la Comune stava dimostrando infatti la realizzabilità del ” ‘possibile’ comunismo” (‘möglicher’ Kommunismus. Cfr. MEOC XXII, 300-301).

Nessuno si aspettava miracoli (Wunder) dalla Comune, che portò avanti la rivoluzione in condizioni di enormi difficoltà, né essa aveva “utopie belle e pronte da introdurre par décret du peuple“; piuttosto, “nella piena coscienza della sua missione storica” (im vollen Bewuβtsein ihrer geschichtlichen Sendung), essa agiva con tenacia ed “eroica risoluzione” (Heldenentschluβ), senza alcuna inutile violenza e senza ferocia, con “modestia, coscienza ed efficienza”, con “moderazione” (βigung), “umanità” (Menschlichkeit) e “magnanimità” (Hochherzigkeit), come seppe dimostrare ad esempio Flourens (cfr. MEOC XXII, 291, 300-301, 315, 534).

L’unico vero errore della Comune fu, a parere di Marx, quello di non marciare immediatamente su Versailles, all’inizio ancora indifesa, per arginare le manovre di Thiers e dei Rurali (i “Ruraux”), per impedire la riorganizzazione della controrivoluzione, degli sciacalli ” ‘Ordungsmänner’, die Reaktionäre von Paris” (cfr. MEOC XXII, 289).

 

III.
La Comune di Parigi gravida di futuro e messaggera d’una nuova società

Il tono di Marx è giustamente commosso e pieno di indignazione, tutto il suo scritto è lucidissimo e, insieme, pervaso da una forte tonalità etico-politica che anche noi facciamo nostra ancor oggi, anzi, più che mai oggi, in questi nostri tempi così disincantati, grigi e fiacchi dal punto di vista della solidarietà e della tensione etico-politica.

Con l’eccezione dei più incalliti reazionari e dei ricchi capitalisti, perfino la grande maggioranza della classe media (bottegai, commercianti, artigiani) riconobbe la capacità di gestione sociale della Comune, che seppe impostare una efficace politica di alleanze fra il proletariato e i settori intermedi della società parigina e, ad esempio, con la “Loi sur les échéances” (un decreto del 17 aprile 1871 pubblicato sul “Journal officiel de la République française”), “stabilì che tutti i debiti fossero rateizzati in tre anni senza interessi, alleviando così la situazione della piccola borghesia e svantaggiando i creditori, i grandi capitalisti” (cfr. MEOC XXII, 301, 771, n. 440).

Nel primo abbozzo de La guerra civile in Francia Marx scrive a questo proposito: “Per la prima volta nella storia, la piccola e media borghesia si è apertamente stretta intorno alla Rivoluzione degli operai, e l’ha proclamata come il solo strumento della propria salvezza e di quella della Francia! Forma con loro la grande massa della Guardia nazionale, siede con loro nella Comune, e per loro media nell’Union républicaine! (…)

Di fronte ai disastri collezionati dalla Francia in questa guerra, alla sua crisi da collasso nazionale ed alla sua rovina finanziaria, questa classe media sente che non la classe corrotta di coloro che vogliono essere gli schiavisti della Francia, ma soltanto le virili aspirazioni ed il potere erculeo della classe operaia possono portarla in salvo!

Sente che solo la classe operaia può emanciparla dal dominio dei preti, convertire la scienza da strumento del dominio di classe in una forza popolare, trasformare gli stessi uomini di scienza da manutengoli del pregiudizio di classe, da parassiti dello Stato a caccia di posizioni, e da alleati del capitale, in liberi funzionari del pensiero! La scienza può interpretare la sua parte autentica solo nella Repubblica del Lavoro” (MEOC XXII, 496-497).

Praticando il realismo rivoluzionario, la Comune aveva cominciato a cercare alleanze pure nel mondo contadino, proclamando ad alta voce – in un appello del 10 aprile 1871 dei “lavoratori di Parigi” (“Les travailleurs de Paris”) “aux travailleurs des campagnes” – che la sua vittoria era “la sola speranza” anche dei contadini francesi (cfr. MEOC XXII, 302, 772, n. 445).

Con la sua politica saggia e lungimirante di alleanze già operante nelle prime settimane di vita della Comune attraverso le prime misure prese, era facile prevedere un effetto contagio e una larga diffusione anche nelle campagne e in tutto il paese del consenso popolare all’operato dei comunardi. Perciò la maggiore preoccupazione dei controrivoluzionari e della canaglia reazionaria capeggiata da Thiers fu quella di isolare la Parigi comunarda dal resto del paese, “in modo da bloccare la diffusione della peste bovina” (cfr. MEOC XXII, 303).

Nel secondo abbozzo de La guerra civile in Francia, Marx è giustamente durissimo nel sintetizzare il reale significato della reazione (Reaktion) di Versailles, della Paris des Verfalls (Parigi del declino): “Alla Parigi che combatte, che lavora, che pensa, elettrizzata dall’entusiasmo dell’iniziativa storica, piena di eroica realtà, la nuova società nel suo travaglio, si oppone a Versailles la vecchia società, un mondo di antiquate simulazioni e di menzogne accumulate. (…) Non c’è niente di reale in loro al di fuori della loro comune cospirazione contro la vita, il loro egoismo dettato dall’interesse di classe, il loro desiderio di nutrirsi della carcassa della società francese, i loro comuni interessi di schiavisti, il loro odio verso il presente, e la loro guerra contro Parigi” (MEOC XXII, 544).

Nelle ultime pagine di Der Bürgerkrieg in Frankreich Marx si sofferma con grande commozione, indignazione e amarezza – che avvertiamo pienamente anche noi oggi nel riferire e riflettere su quanto allora avvenne – sugli accordi fra Thiers e Bismarck (nemici nella guerra tra Francia e Prussia nel 1870, ma alleati nello stroncare l’esperienza rivoluzionaria comunarda del 1871) per pianificare la repressione e la carneficina della Comune, ossia l’ “indicibile infamia del 1871. L’eroismo sino al sacrificio di sé (der selbstopfernde Heldenmut) con cui la popolazione di Parigi – uomini, donne e ragazzi – ha combattuto per otto giorni dopo l’entrata dei versagliesi riflette tanto la grandezza della loro causa (die Gröβe ihrer Sache), quanto le azioni infernali della soldatesca riflettono lo spirito innato di questa civiltà di cui essi sono i vendicatori mercenari. Una civiltà gloriosa, invero, il cui grande problema è come riuscire a sbarazzarsi dei mucchi di cadaveri che ha prodotto, dopo la fine della battaglia!” (MEOC XXII, 314).

In tutto il suo scritto Marx non risparmia disprezzo e sarcasmo, ampiamente giustificati, nei confronti di quella che chiama la feccia (Bande), la Reaktion, i vari Thiers, Favre, Desmarets, Vinoy, Galliffet, etc., ossia i principali infami esponenti degli sterminatori della Comune, coloro che hanno posto fine all’esperienza e alla vita della “serena Parigi lavoratrice” (das heitere Arbeiter-Paris der Kommune, cfr. MEOC XXII, 315), che aveva osato combattere ogni Klassenherrschaft (dominio di classe), ogni statalismo repressivo e dispotico, per tendere alla rigenerazione (Wiedergeburt) dell’intera Francia.

Questa Pariser Kommune, in mezzo ai misfatti e ai tradimenti delle classi dominanti (herrschende Klassen), fu agli occhi di queste ultime una vera Sphinx (sfinge) capace di tormentare l’angusto Bourgeoisverstand (intelletto borghese); essa fu die proletarische Revolution, l’avvio del governo dell’Arbeiterklasse, la cui opera fu interrotta tragicamente dalle “prodezze cannibalesche dei banditi di Versailles” (kannibalische Taten der Versailler Banditen. Cfr. MEOC XXII, 291, 293).

In Der Bürgerkrieg in Frankreich sferzante e costante è il sarcasmo di Marx sull’ipocrisia e sul conformismo borghesi, sulla Zivilisation und Gerechtigkeit der Bourgeoisordnung (civiltà e giustizia dell’ordine borghese), il cui vero volto – essendo una “civiltà nefasta” (schmäliche Zivilisation) fondata sull’ “asservimento del lavoro” (Knechtung der Arbeit) – si mostra, specialmente nel momento delle violenze e del massacro finali, sotto l’aspetto di “aperta barbarie e vendetta senza legge” (unverhüllte Wildheit und gesetzlose Rache. Cfr. MEOC XXII, 314-315).

Nella brutale repressione della Comune, di quella che fu un’autentica rivoluzione proletaria, la società borghese mostrò il suo volto più rivoltante e rivelatore, il suo spirito di vendetta e la sua ferocia di classe: “La sua guerra contro Parigi non è nient’altro che una pusillanime chouannerie sotto la protezione delle baionette prussiane. E’ una spregevole cospirazione per assassinare la Francia, per salvaguardare i privilegi, i monopoli ed il lusso delle classi degenerate, svigorite e putrefatte che l’hanno trascinata in un abisso dal quale può essere salvata solo dalla mano erculea di una vera rivoluzione sociale” (Primo abbozzo, in MEOC XXII, 449).

La conclusione di Der Bürgerkrieg in Frankreich è amara: “La cospirazione della classe dominante per abbattere la Rivoluzione mediante una guerra civile portata avanti sotto il patrocinio dell’invasore straniero (…) è culminata nella carneficina di Parigi. Bismarck gongola (schaut) di fronte alle rovine di Parigi, (…) di fronte ai cadaveri del proletariato di Parigi” (MEOC XXII, 318).

Da parte di Marx l’interpretazione degli avvenimenti parigini del 1871 è cruda e realistica, non lascia spazio a edulcorazioni e a facili consolazioni. La sconfitta della Comune è un fatto, la tragedia immensa, ma, nonostante quest’esito così indubbio e doloroso, la Comune – questo evento straordinario – è incontestabilmente esistita, anzi annuncia la rovina futura della Bourgeoisgesellschaft e il prossimo avvento d’una nuova società.

La sveglia è stata comunque data a tutti i popoli europei e al proletariato internazionale; l’ “eroico sacrificio di sé” (seine heroische Selbstopferung, cfr. MEOC XXII, 315) dei comunardi non è avvenuto invano, per chi sappia trarre un insegnamento da quanto accaduto: un nuovo mondo è possibile.

Si tratta ora, per Marx e per l’Internazionale, di proseguire la lotta; non vi sono per lui dubbi su chi alla fine vincerà, se “i pochi sfruttatori o l’immensa maggioranza lavoratrice” (cfr. MEOC, XXII, 319).

Il messaggio della Comune resta dunque un grande e permanente messaggio di solidarietà internazionale del proletariato e dei popoli nella lotta per l’emancipazione sociale, per giungere – attraverso lunghe e difficili lotte e tutte le contraddizioni della storia – alla Befreiung, a una nuova società senza dominio di classe e a una “repubblica sociale” (come leggiamo nel primo abbozzo, cfr. MEOC XXII, 497).

Così Marx conclude – con parole che, mutatis mutandis, ancor oggi rimangono per noi valide e stimolanti – l’Indirizzo del Consiglio generale dell’Associazione internazionale dei lavoratori, Der Bürgerkrieg in Frankreich: “La Parigi operaia, con la sua Comune, sarà celebrata per sempre come la gloriosa messaggera di una nuova società. I suoi martiri hanno per urna il grande cuore della classe operaia (Das Paris der Arbeiter, mit seiner Kommune, wird ewig gefeiert werden als der ruhmvolle Vorbote einer neuen Gesellschaft. Seine Märtyrer sind eingeschreint in dem groβen Herzen der Arbeiterklasse). I suoi sterminatori, la storia li ha già inchiodati a quella gogna eterna, dalla quale non riusciranno a riscattarli tutte le preghiere dei loro preti” (MEOC XXII, 320).

La sua testimonianza, il suo patrimonio e la sua eredità risiedono essenzialmente nella “sovrabbondanza di umanità dalla parte degli oppressi” (MEOC XXII, 537).

Per quanto feroci, nessuna carneficina e nessuna repressione potranno cancellare il fatto incontestabile che la Comune parigina è stata (come leggiamo nel secondo abbozzo de La guerra civile in Francia) una “rivoluzionaria rivendicazione del futuro (…). La Comune di Parigi può cadere, ma la Rivoluzione sociale a cui ha dato inizio trionferà. Il suo luogo di nascita è ovunque” (MEOC XXII, 546-547).

La lotta di classe (Klassenkampf) sempre risorgerà dal suo terreno sorgivo che è la stessa società moderna. Come ha rilevato giustamente Lelio Basso, il saggio marxiano sulla Comune non ha soltanto “un valore di elogio funebre per la posterità”.[4]

Noi oggi non abbiamo e non possiamo avere alcuna certezza di “trionfo”, né possiamo rivendicare in alcun modo il futuro, ma indubbiamente la testimonianza luminosa della Comune, “gravida di un mondo nuovo” (cfr. il primo abbozzo di Der Bürgerkrieg in Frankreich, MEOC XXII, 481), non cessa ancora di risplendere per noi e di indicarci il difficile cammino della civiltà planetaria, pure nell’epoca per tanti aspetti tenebrosa e rischiosa dell’attuale cosiddetta “globalizzazione”.

Franco Toscani

Piacenza, autunno 2017


[1] Cfr. K. Marx, Die Klassenkämpfe in Frankreich (1850), trad. it. di P. Togliatti, Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, in K. Marx-F. Engels, Opere complete, vol. X, a cura di A. Aiello, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 121.

[2]Nelle pagine seguenti faremo riferimento alla seguente edizione italiana in cui sono compresi (insieme ad altri scritti) sia Der Bürgerkrieg in Frankreich (La guerra civile in Francia, 1871, pp. 275-321) sia i due abbozzi preparatori sopra citati (pp. 433-518, 519-558): K. Marx-F. Engels, Opere complete, vol. XXII (d’ora in poi cit. con la sigla MEOC XXII), trad. it. di S. Bracaletti, V. Morfino, M. Vanzulli, F. Vidoni, a cura di M. Vanzulli, La Città del Sole-Editori Riuniti, Napoli 2008. Per i vent’anni della Comune, nel 1991 Engels curò una rilevante edizione tedesca in cui, oltre a Der Bürgerkrieg in Frankreich, pubblicò i due abbozzi preparatori, assieme al primo e al secondo Indirizzo del Consiglio generale dell’Internazionale sulla guerra franco-prussiana del 1870. Si tenga presente pure una pregevole edizione italiana degli scritti marxiani sul tema: K. Marx, Scritti sulla Comune di Parigi, a cura di P. Flores d’Arcais, Samonà e Savelli, Roma 1971.

[3] L. Basso, Socialismo e rivoluzione, Feltrinelli, Milano 1980, p. 195. In questo libro di Lelio Basso le pagine 192-197 sono dedicate in modo esplicito e assai stimolante all’interpretazione marxiana della Comune.

[4] L. Basso, Socialismo e rivoluzione, Feltrinelli, Milano 1980, p. 193.


Franco Toscani – Il rapporto etica-politica e il tema dell’amicizia in Aristotele.
Franco Toscani – L’antropologia culturale e il sogno dell’universalità umana concreta
Franco Toscani – Il filosofo e le Muse. La filosofia come “musica altissima” e “sinfonia dell’anima”-

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Marc Bloch (1886-1944) – L’incomprensione del presente cresce fatalmente dall’ignoranza del passato. L’errore non si propaga, non si amplia, non vive che ad una condizione: trovare nella società in cui si diffonde un terreno di coltura favorevole. Una notizia falsa nasce sempre da rappresentazioni collettive che preesistono alla sua nascita.

Marc Bloch 01

L’incomprensione del presente
cresce fatalmente dall’ignoranza del passato.

Marc Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico, Einaudi, Torino 1969.

L’errore non si propaga, non si amplia, non vive […] che ad una condizione: trovare nella società in cui si diffonde un terreno di coltura favorevole. In essa, incosciamente, gli uomini esprimono i loro pregiudizi, i loro odi, i loro timori, tutte le loro emozioni forti. Grando stati d’animo collettivi sono i soli ad avere il potere di trasformare in una leggenda una percezione distorta.

Ma in merito a esse la storia non ci arreca se non insufficienti chiarimenti. I nostri antenati non si ponevano affatto questo tipo di problemi; essi rigettavano l’errore quando l’avevano riconosciuto come tale; non s’interessavano al suo sviluppo. E per questo che le indicazioni che ci hanno lasciato non ci permettono di soddisfare le nostre curiosità, ch’essi ignoravano. Lo studio del passato deve, in questo campo, basarsi sull’osservazione del presente. Lo storico che cerca di capire la genesi e lo sviluppo delle false notizie, deluso dalla lettura dei documenti, penserà naturalmente a rivolgersi ai laboratori degli psicologi. Gli esperimenti che vi s’istituiscono quotidianamente sulla testimonianza, saranno bastevoli a fornirgli l’insegnamento che l’erudizione gli nega? Non credo affatto; e ciò per svariate ragioni.

[…] La falsa notizia di stampa ha certo il suo interesse: ma a condizione che se ne riconoscano i caratteri tipici. Di solito essa rappresenta qualcosa d’assai poco spontaneo. Senza dubbio talvolta capita che una voce, diffusa nel paese, o in un certo gruppo sociale, sia riportata, in piena buona fede, da un giornalista; vi sarebbe molta ingenuità nel negare ai reporters ogni ingenuità. Ma nella maggior parte dei casi la falsa notizia di stampa è semplicemente un oggetto fabbricato; essa è forgiata dalla mano d’un professionista con uno scopo preciso, per influenzare le opinioni, per obbedire a una parola d’ordine […].

Una notizia falsa nasce sempre da rappresentazioni collettive che preesistono alla sua nascita; essa non è casuale se non in apparenza, o, più precisamente, tutto ciò che v’è di fortuito in essa è l’incidente iniziale, assolutamente casuale, che scatena il lavorio delle capacità d’immaginazione, ma questa messa in moto non ha luogo se non perché le immaginazioni sono già pronte e in silenzioso fermento. Un avvenimento, una percezione distorta per esempio, la quale non andasse nel senso in cui già propendono gli spiriti di tutti, tutt’al più potrebbe costituire l’origine d’un errore individuale, ma non una falsa notizia popolare e ampiamente diffusa. Se ho l’ardire d’utilizzare un termine cui i sociologi hanno dato un valore secondo me troppo metafisico, ma che è comodo e dopo tutto ricco di senso, la falsa notizia è lo specchio in cui «la coscienza collettiva» contempla le sue fattezze.

 

Marc Bloch, La guerra e le false notizie. Ricordi (1914-1915) e riflessioni (1921), Introduzione di Maurice Aymard. Traduzione di Gregorio De Paola, Donzelli, Roma 2004.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Harald Haarmann – Molte civiltà hanno lasciato una loro traccia modificando il corso della storia, ma sono state poi dimenticate perché le civiltà successive le hanno rimosse. Scrive Lucio Biasiori che il libro «ci invita a mettere in discussione questa rimozione e a immaginare un futuro diverso per il nostro passato, e quindi anche per il nostro presente».

Harald Haarmann 01

Vedremo come molte civiltà hanno lasciato una loro traccia
modificando il corso della storia,
ma sono state poi dimenticate
perché i vincitori o le civiltà successive le hanno rimosse,
tacendone, cancellandone o vietandone la memoria,
o semplicemente pqerché le loro conquiste sono state attribuite ad altre culture.

***

Harald Haarmann, Culture dimenticate. Venticinque sentieri smarriti dell’umanità, Bollati Boringhieri, Torino 2020, p. 12.


Il libro di H. Haarmann ci invita a mettere in discussione questa rimozione
e a immaginare un futuro diverso per il nostro passato,
e quindi anche per il nostro presente.

Lucio Biasiori, “Venticinque civiltà cancellate dalla storia”, «Alias», il manifesto, 27-12-2020, p. 5.


Clicca qui.



«Un gioco di destrezza tra i saperi di varie discipline, che incoraggia il lettore a cambiare prospettiva sulla storia del mondo. Un saggio non potrebbe offrire di più»
Günther Wessel

«Culture dimenticate è un libro di grande valore che ci affascina e insegna a vedere la storia con occhi diversi»
Theodor Kissel, Spektrum der Wissenschaft

«L’autore prende in esame le scoperte più recenti dell’archeologia, della linguistica e della genetica umana, riassumendo in modo chiaro e conciso lo stato della nostra conoscenza ma, soprattutto, lo stato della nostra ignoranza»
Kathrin Meier-Rust, Neue Zürcher Zeitung

«Una panoramica molto intrigante sulle scoperte archeologiche più sensazionali al mondo»
Niklot Krohn, Archäologie in Deutschland

Quarta di copertina

Molte culture del passato sono rimaste avvolte dall’oblio, altre invece hanno lasciato tracce che, se percorse, dischiudono mondi inimmaginabili. Grazie a recenti ritrovamenti archeologici e a nuovi studi genetici e linguistici, Harald Haarmann ci fa scoprire venticinque culture dimenticate o trascurate dalla storiografia tradizionale. L’autore va alla ricerca di insediamenti preistorici sul Lago Bajkal, getta nuova luce sulle popolazioni pelasgiche e svela il mistero delle guerriere del Mar Nero. Dalle mummie bionde ritrovate a Xinjiang, nel deserto cinese, alla sofisticata civiltà della valle del Danubio, dotata di una scrittura fra le più antiche al mondo, fino agli abitanti dell’Isola di Pasqua, decimati da una crisi ecologica che essi stessi avevano provocato. Questa esplorazione alternativa nella storia dell’uomo ci introduce anche a sensazionali scoperte, come quella di antichi insediamenti urbani in una regione dell’Amazzonia da sempre creduta semi-spopolata. Percorrendo i possibili sviluppi dell’umanità e le sue strade scartate, Haarmann non solo restituisce voce a chi l’aveva persa, ma esorta anche a riflettere sulla nostra civiltà, perché soltanto il riconoscimento del diverso ne dispiega il vero potenziale


Harald Haarmann (nato nel 1946) è un linguista e scienziato culturale tedesco che vive e lavora in Finlandia . Haarmann ha studiato linguistica generale, varie discipline filologiche e preistoria presso le università di Amburgo , Bonn , Coimbra e Bangor . Ha conseguito il dottorato di ricerca a Bonn (1970) e l’ abilitazione (qualifica a livello di cattedra ) a Treviri (1979). Ha insegnato e condotto ricerche in numerose università tedesche e giapponesi ed è membro delCentro di ricerca sul multilinguismo a Bruxelles . È vicepresidente dell’Istituto di archeomitologia (con sede a Sebastopol, California ) e direttore della sua filiale europea (con sede a Luumäki , Finlandia).


Il sito archeologico di Gobekli Teper, a nord-est della città di Sanliurfa, in Turchia
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Massimo Bontempelli – Gesù di Nazareth, uomo nella storia, Dio nel pensiero, ci ha dato la simultanea figurazione metastorica della forza creatrice dell’amore, del valore universale dell’individualità, della priorità assiologica della giustizia, del principio della speranza, che sono, filosoficamente parlando, le dimensioni di esistenza della libertà, e le articolazioni concettuali della verità logico-ontologica.

Gesù 2020

Massimo Bontempelli

Gesù di Nazareth. Uomo nella storia. Dio nel pensiero
Prefazione di Marco Vannini. Postfazione di Giancarlo Paciello.

ISBN 978-88-7588-188-7, 2017, pp. 160, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [81].

In copertina: Henri Matisse, Icaro, tavola a pochoir, pubblicata nel 1947 sulla rivista Jazz.

indicepresentazioneautoresintesi
Gesù nella storia e oltre la storia

 

Gesù fu il regista della sua passione, con l’obiettivo di essere finalmente riconosciuto Messia, e di promuovere per questa via la realizzazione di una nuova società, chiamata regno di Dio. Tutto ciò fu espressione di un coraggio eroico. Il coraggio intellettuale di capire che la via del semplice appello predicatorio alla trasformazione non mutava le cose. Il coraggio morale di rimanere tuttavia fedele al suo ideale, in una situazione in cui chiunque altro sarebbe arretrato su posizioni conformistiche rispetto alle aspettative dell’ambiente. E, soprattutto, il coraggio spirituale e fisico di intuire e di volere il suo supplizio come unica maniera rimastagli di essere fedele a se stesso, e di poter ancora lottare per il regno di Dio. […]
Lo spirito di Gesù è bensì inizialmente risorto attraverso Maria Maddalena, ma la sua memoria e poi stata gestita non da costei, ma dalla Chiesa apostolica e da Paolo, il vero fondatore della religione cristiana. Questa gestione ha determinato una frattura storica tra la fede per cui Gesù era morto e la fede successiva nel Cristo risorto […] In tal modo il regno di Dio cessò di essere pensato come un’attualità storica, da portare a compimento con un’azione storica, e diventò l’oggetto di un’attesa miracolistica, l’attesa della cosiddetta seconda venuta del Cristo.
Lo spirito religioso cominciò di conseguenza a separarsi dalla volontà di trasformazione politico-sociale, mentre in Gesù i due momenti avevano mantenuto una stretta unità. Per Gesù credere nel regno di Dio era volere il crollo dei poteri mondani e la redistribuzione delle ricchezze, l’anno di grazia del Signore. Per Paolo è invece dovuta ubbidienza ai poteri terreni, e l’impegno religioso si riduce alla predicazione del Cristo risorto. […]
I Vangeli sono stati redatti a partire da questa nuova fede della comunità cristiana primitiva. Essi, quindi, pur essendo basati sulla storicità di una tradizione di testimonianze su Gesù, ne reinterpretano la figura in chiave miracolistica. Per questo devono essere a loro volta interpretati, e la loro storicità deve essere enucleata da un involucro leggendario che talvolta porta fuori strada.
Col trascorrere dei secoli, e il passaggio della Chiesa cristiana dalle catacombe al potere, la religione basata sulla figura teologica del Cristo diventò sideralmente lontana dalla fede proposta dal Gesù storico. All’impegno di trasformazione personale e collettiva necessario alla realizzazione delle profezie bibliche subentrò l’adesione fine a se stessa a Chiese istituzionalizzate. Al posto del regno di Dio di cui promuovere l’avvento storico sulla Terra venne messo il Paradiso ultraterreno. Tanto che oggi, quando i cristiani recitano il Padre nostro, e pronunciano la frase «venga il tuo regno», non sanno letteralmente cosa stanno dicendo, perché ignorano che il significato originario di quell’espressione era un auspicio di rovina per tutti i governi e i poteri economici della Terra.
Nulla del progetto storico di Gesù ha quindi continuato a vivere nel cristianesimo storico bimillenario, che nel suo complesso, con l’eccezione di alcune sue esperienze minoritarie di trascurabile peso storico, rappresenta anzi l’ultimo e più grosso chiodo che l’ha fissato alla croce, l’estremo oblio della sua memoria.
Diciamo allora la verità, una verità per noi tragica, quasi insopporta­bile: l’abbandono dei suoi seguaci e la vittoria dei suoi nemici hanno sconfitto Gesù non soltanto a Gerusalemme nel 36 d.C., ma anche, ed ancor più, nella storia successiva fino ad oggi. Gesù è, allora, soltanto uno dei vinti della storia, oppure la storia non esaurisce il significato e la portata della sua figura?
La sconfitta subíta da Gesù a Gerusalemme è stata il dramma del suo amore. Ci vuole un immenso amore, per se stessi, per i propri amici, e per tutti coloro che amici potrebbero esserlo, per spendere una vita intera a coltivare l’ideale di una società in cui ogni essere umano sia libero di esprimere le sue potenzialità umane. E ci vuole una immensa potenza di questo immenso amore per andare volontariamente incontro ad un supplizio atroce, quando le circostanze non lascino altra possibilità di non indebolire la testimonianza di quell’ideale. Gesù ha trovato in se stesso tutto questo amore, e ne ha avuto compiuta consapevolezza, perché ha posto l’amore al di sopra di ogni altra legge, prescrivendo come suo unico comandamento: «Questo è il mio comandamento, che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore maggiore di chi dà la vita per i suoi amici, e voi siete miei amici. Non vi dico servi perché il servo non sa cosa fa il suo signore. Vi ho invece unito come amici perché vi ho fatto conoscere tutto ciò che ho ascoltato dal Padre mio».
L’amore, d’altra parte, essendo ontologicamente radicato nel riconoscimento reciproco tra gli individui umani necessario alla costituzione della loro identità soggettiva, rappresenta una sorgente umanamente perenne di comportamenti creativi. Gesù, perciò, disegnando con i suoi atti, con il suo sacrificio finale, e con la consapevolezza del loro senso, la figura stessa dell’amore, si è collocato su un piano che è oltre la storia.

Gesù, poi, si è proposto come oggetto d’amore soltanto proponendo la sua identificazione con ogni individuo umano bisognoso d’amore. […] Attraverso questa identificazione, manifestata da tutti i suoi atti, Gesù si è identificato con un principio assiologico che trascende, in quanto fonte inesauribile di nuova storia, ogni storicità empirica: l’intrinseco valore etico dell’individualità umana, indipendentemente dalle circostanze fattuali e dai ruoli sociali in cui si presenta.
Dare a ciascuno ciò che gli spetta in nome del valore universale della sua individualità, ed eliminare gli ostacoli che impediscono il pratico riconoscimento di questo valore, è sempre e dovunque, anche se diversamente declinato e variamente sminuito nei differenti tempi e luoghi della storia, il significato della giustizia. Tale giustizia è, nelle narrazioni evangeliche, la forza motivazionale di tutti gli atti di Gesù, e il contenuto reale del suo ideale supremo, per il quale è morto. Si potrebbe infatti mostrare, storicamente e filologicamente, come l’ideale del regno di Dio altro non sia che l’ideale della giustizia sulla Terra. E si potrebbe mostrare, filosoficamente, come la giustizia, in quanto potenzialità metastorica dell’essere umano, abbia la medesima radice ontologica dell’amore.
Non è un caso, dunque, che Gesù ci abbia dato, nella sua vicenda storica, la simultanea figurazione metastorica dell’amore e della giustizia, e che, avendo raggiunto piena consapevolezza intuitiva dell’amore, sia stato compiutamente consapevole anche della giustizia. Egli ha sicuramente saputo, infatti, che la giustizia non consiste nel trattare tutti, potenti e deboli, oppressori ed oppressi, con lo stesso metro e la stessa considerazione. Ha saputo, cioè, che la violenza dell’oppressione deve essere riequilibrata da un’attenzione e da un impegno molto maggiore a favore degli oppressi, per poter eliminare gli ostacoli al pratico riconoscimento dell’universale valore di ogni individualità, di cui la giustizia consiste.
Si noti infatti come l’attività guaritrice e consolatrice di Gesù sia stata svolta a favore degli oppressi e degli umili, mai dei potenti della Terra. Egli ha saputo, inoltre, che la giustizia viene per sua natura lesa non soltanto da coloro che la offendono direttamente ed esplicitamente con i loro atti, ma anche da coloro che si limitano alla fruizione soddisfatta e senza problemi dei loro privilegi. Al punto da maledirli, preannunciando la fame a coloro che sono sazi nel privilegio, il lutto e il pianto a coloro che irresponsabilmente se la ridono in un mondo ingiusto.
La semplice, sia pur fattiva, carità verso i miserabili, alla Maria Teresa di Calcutta, è molto lontana dall’esempio dato dal Gesù storico, che non disgiunge mai la pietà verso i deboli da una volontà incrollabile di giustizia, che comporta anche l’ira verso gli oppressori. Gesù ha compreso che non si può essere giusti se non si sceglie la giustizia, quando è necessario, anche contro la pace. Il regno di Dio, nell’accezione originaria di Gesù, porta la distruzione, non la pace, ai reggitori e ai beneficiari di un ordine ingiusto.
Seguire Gesù nel suo senso inflessibile della giustizia potrebbe però portare alla disperazione, in un mondo in cui l’ingiustizia abbia sempre dalla sua parte la forza e l’apparenza della necessità. Gesù, nel suo chiamare l’umanità alla giustizia, ha posto la sua persona come realtà della speranza. Se lui non è un uomo qualsiasi, ma porta il segno di Dio, allora acquistano un preciso significato di speranza le famose beatitudini del cosiddetto discorso della montagna. […]

Gesù, pur tragicamente sconfitto a Gerusalemme nel 36 d.C., e pur tragicamente obliato persino, e talora soprattutto, da coloro che hanno fondato su di lui la loro religione, non è soltanto uno dei sia pur grandi vinti della storia, perché non esiste soltanto come figura del nostro passato, storicamente omogenea ad altre precedenti e successive, ma è la figurazione metastorica della forza creatrice dell’amore, del valore universale dell’individualità, della priorità assiologica della giustizia, del principio della speranza.
Ma la forza creatrice dell’amore, il valore universale dell’individualità, la priorità assiologica della giustizia, il principio della speranza, sono, filosoficamente parlando, le dimensioni di esistenza della libertà, e le articolazioni concettuali della verità logico-ontologica. Se non impropriamente chiamiamo Dio la natura trascendentale della verità perennemente umana, Gesù appare come una singolarità irripetibile segnata da Dio. Giustamente, quindi, egli ha detto ai suoi discepoli: «Se rimarrete nel mio logo conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi».
Non si tratta, invero, di una conoscenza razionale della verità, perché Gesù non è stato un filosofo. Egli ha piuttosto seguìto, con irripetibile coerenza, una sua intuizione essenziale, anche se naturalmente concretizzata nelle forme culturali del suo tempo e del suo ambiente, della legge divina universale, che ha tradotto in tutti i suoi atti, nella vita e nella morte. In maniera più aderente al suo genio, egli ha parlato di un «fare la verità» mediante cui si va nella direzione della luce divina.
Gesù è quindi stato un uomo nella storia, ma lo è stato in modo da collocare la sua figura oltre la storia, alle sorgenti di quella libertà morale da cui perennemente sgorga storia, e da porsi quindi come fonte di luce per ogni epoca.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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