Gianluca Cavallo – Potere e natura umana. Paradigmi a confronto

magritte.jpg

 

Premessa

Che cosa sono io? E poi: che cosa è l’uomo, in quanto concetto universale? È possibile definirlo o sono tali e tante le differenze interne al genere cui ciascuno di noi appartiene da rendere questo uno sforzo vano?
Anche se l’uomo è a se stesso il primo e più immediato oggetto di riflessione, queste domande lo seguono da sempre, in maniera forse insolubile. Tuttavia, col rischio di fare un passo più lungo della nostra gamba, tenteremo qui, passando in rassegna le risposte più comuni nella storia del pensiero, di individuare quella che ci pare più corretta o, quanto meno, più persuasiva.
Siccome l’uomo è necessariamente inserito in un contesto sociale (o culturale) che in qualche modo ne determina le credenze e dunque il comportamento, prendere in considerazione diverse ipotesi di risposta su cosa sia l’uomo, significa porre attenzione anche al problema della sua relazione con il potere. Si vedrà, infatti, come diverse idee di “natura umana” coincidano con altrettante concezioni del potere, essendo facilmente assimilabili nel suo discorso di legittimazione.
Occorre allora chiarire, in via preliminare, che per “natura umana” si intende una caratteristica universale che sia condivisa dagli uomini di ogni tempo e di ogni luogo e perciò come un dato inemendabile che determina il comportamento degli individui sul pianeta e, per reazione, una risposta politica che si ritiene adeguata a questo. Le risposte alla domanda “che cos’è la natura umana?” che abbiamo individuato nella storia del pensiero e che abbiamo chiamato “paradigmi” sono le seguenti: 1) il paradigma realista, che considera la natura umana come qualcosa di realizzato e negativo (conflittuale); 2) quello moderno, che ritiene che l’uomo occidentale-europeo abbia realizzato pienamente la natura umana in termini positivi; 3) quello edenico, che considera la natura umana perfettamente realizzata come un dato perduto e irrecuperabile; 4) quello riduzionista, che considera il solo dato biologico dell’essere-umano; 5) quello negazionista, che afferma che una natura umana universale non esiste; 6) quello aristotelico-umanista, che considera la natura umana come una potenzialità da realizzare in base a determinati criteri universali.

Una natura umana compiuta e realizzata
Il paradigma realista
Nella maggior parte degli esempi di riflessione sull’uomo che ci fornisce la storia della filosofia troviamo una concezione della natura umana come un dato di fatto, facilmente constatabile da chiunque osservi la storia, la realtà politica, o, semplicemente, guardi con onestà dentro la propria anima. Tale atteggiamento è stato definito realista, in quanto considera la realtà umana come un fatto di cui il pensiero vero deve essere un rispecchiamento. Ogni proposizione espressa sull’argomento, potrà allora essere facilmente identificabile come vera, se ad essa corrisponde un elemento della realtà (cioè se è dotata di un referente); falsa, altrimenti.
Gli elementi che i pensatori aderenti a questa concezione ritengono di poter con esattezza individuare come caratteristiche universali sono tutti negativi: l’umanità è malvagia ed egoista, caratterizzata dal desiderio di sopraffazione in vista dell’ottenimento di una sempre maggiore quantità di beni ad uso esclusivamente personale (quella che in greco era detta pleonexia); tra gli uomini vige perciò naturalmente uno stato di odio e di guerra, cui solo una società artificialmente istituita può porre un rimedio, mai, peraltro, del tutto sicuro.
Il più prestigioso pensatore dell’antichità ad aver espresso per la prima volta in modo esplicito e compiuto queste idee è Tucidide, autore di quell’ opera fondamentale (per la filosofia, la storia e la storiografia) che è La guerra del Peloponneso. Nell’antichità classica, idee simili a quelle espresse da Tucidide furono sostenute soprattutto dai Sofisti. Che La guerra del Peloponneso narri di rapporti politici di alleanza e conflitto e che i sofisti esercitassero prevalentemente la loro professione nell’ambito della polis greca, sono dati che è utile qui ricordare per sottolineare lo stretto legame che una determinata idea di natura umana intrattiene con la riflessione politica.
Per mettere in luce i rapporti tra un’antropologia così pessimista e le risposte che si suppone la politica debba essere pronta a dare ai conflitti scatenati dall’egoismo umano, è bene fare riferimento all’opera di Thomas Hobbes, il quale può essere considerato il “sistematizzatore” della concezione di natura umana che stiamo descrivendo. Egli visse nell’Inghilterra del XVII secolo, in un’epoca in cui il paese era dilaniato dalle guerre civili, dai conflitti religiosi e politici; da questi fatti egli trasse, con un’induzione di dubbia validità, quelle che riteneva essere le caratteristiche universali dell’umanità e che aveva trovato descritte proprio in Tucidide, del quale, non a caso, egli fu uno dei primi traduttori moderni.
Secondo Hobbes, la natura umana si caratterizza per tre aspetti che la portano inevitabilmente ad ingenerare il conflitto tra i singoli: la competitività, la diffidenza e l’orgoglio. Vi è, poi, il fondamentale istinto alla conservazione della propria vita e dell’integrità del proprio corpo. La «somma» del diritto naturale è infatti «difendersi con tutti i mezzi possibili» [1] e questo è l’unico diritto inalienabile, tanto che nemmeno il sovrano assoluto può forzare il suddito a subire il male senza difesa. Questo è il bene assoluto che viene messo in questione nello «stato di natura», ossia nello stadio prepolitico dell’umanità. In questa condizione, non esistendo alcuna autorità che freni il diritto naturale che ciascuno ha su qualsiasi cosa e che tende a conseguire con qualsiasi mezzo, gli uomini «si trovano in quella condizione che è chiamata guerra e tale guerra è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo.  […] La natura della guerra non consiste nel combattimento effettivo, ma nella disposizione verso di esso che sia conosciuta e in cui, durante tutto il tempo, non si dia assicurazione del contrario.  […] In tale condizione non c’è posto per l’industria, perché il frutto di essa è incerto, e per conseguenza non v’è cultura della terra, né navigazione, né uso dei prodotti che si possono importare per mare, né comodi edifici, né macchine per muovere e trasportare cose che richiedono molta forza, né conoscenza della faccia della terra, né calcolo del tempo, né arti, né lettere, né società, e, quel che è peggio di tutto, v’è continuo timore e pericolo di morte violenta, e la vita dell’uomo è solitaria, misera, sgradevole, brutale e breve».
L’uomo è infatti indotto a ricercare il proprio vantaggio a danno di quello degli altri in parte per necessità, poiché egli deve contendere i pochi beni offerti dalla natura, in parte per sua propria volontà, poiché per natura egli è incline non già alla socievolezza, ma all’aggressività nei confronti del prossimo: «gli uomini non hanno piacere (ma al contrario molta afflizione) nello stare in compagnia, ove non ci sia un potere in grado di tenere in soggezione tutti».
Per uscire da questo stato di natura, in cui la vita e i beni di ciascuno sono costantemente esposti al pericolo, gli uomini debbono allora istituire la società, la quale è dunque un costrutto artificiale, contrario alla natura dell’uomo e limitante le sue libertà, e tuttavia necessario. Questo corpo sociale è descritto da Hobbes con la celebre metafora del Leviatano, figura mostruosa tratta dal libro Giobbe e usata dal filosofo inglese per descrivere l’unione di una moltitudine in una sola persona dei cui atti «ogni membro… con patti reciproci, l’uno nei confronti dell’altro e viceversa, si è fatto autore, affinché possa usare la forza e i mezzi di tutti, come penserà sia vantaggioso per la loro pace e la comune difesa».
Il potere che viene a costituirsi per ovviare agli inconvenienti dello stato di natura è un potere assoluto e coercitivo: la «logica realista» di Hobbes vuole che «dove c’è eguaglianza  […] non può esserci che conflitto, e dove si supera il conflitto non può esserci che gerarchia e struttura di dominio»[2]. Il governo del sovrano dev’essere teso alla conservazione più duratura possibile dell’ordine sociale, pena la ricaduta nello stato di guerra; dev’essere inoltre garantita la continuità al governo, quando un sovrano per qualche ragione decada, di modo che il Leviatano disponga di una «eternità di vita artificiale».
Se è vero che lo Stato hobbesiano è una monarchia assoluta, il cui sovrano può agire secondo arbitrio, non si deve tuttavia supporre che il potere da lui descritto sia di una forma superata da secoli e che non riguardi i nostri attuali regimi di governo, detti democratici. Lo Stato sempre assume le caratteristiche di violenza e coercizione che Hobbes gli attribuisce: il dissenso è disciplinato in maniera tale che non possa nuocere all’autorità e all’ordine costituito e «tutti gli uomini che non sono sudditi o sono nemici, oppure hanno cessato di esserlo per un patto precedente»[3]. Basti pensare a ciò che, in merito, sostiene Kant, considerato uno dei padri del liberalismo moderno: «in una costituzione civile già sussistente il popolo non dispone più di alcun giudizio giuridicamente valido che determini come essa debba essere amministrata»; l’unica libertà concessa è la «libertà della penna», la quale non può però istigare alla sovversione nei confronti del sovrano[4].
È chiaro, allora, come il paradigma realista diviene (se è vero) o è (se è falso) strumento dell’ideologia del potere statale moderno e della società mercantile capitalistica, che all’epoca di Hobbes non era ancora certamente sviluppata in senso industriale, ma di cui già si coglievano le prime avvisaglie.
Date queste premesse, infatti, il potere statale, per quanto coercitivo o violento che sia, o scarsamente rappresentativo degli interessi comuni del popolo di cui è fatto portavoce, è comunque legittimo e la forma peggiore di governo sarà comunque un male da tollerare in quanto migliore di uno stato di anarchia che si suppone asociale e necessariamente conflittuale. Un governo tirannico andrà magari sovvertito in vista di uno più democratico (Hobbes e Kant non contemplavano questa ipotesi, ma l’ha fatto la storia dell’istituzione statale, senza uscire dalle linee fondamentali del loro paradigma teorico), tuttavia il suo potere ordinatore e pacificatore sarà comunque considerato intoccabile ed indiscutibile. In effetti, le società statali occidentali non prevedono nell’ordine del loro discorso5 una riflessione sulla forma e le modalità del potere che metta in dubbio la forma statale, la quale si è trasformata in un corpo dotato di una eterna vita artificiale (come diceva Hobbes) e che non può e non deve mai morire.
Per comprendere meglio questo punto può essere utile esemplificare un atteggiamento opposto, quale quello rintracciabile nella storia di numerosi regni africani di epoca precoloniale, presso i quali era uso tracciare profondi solchi nella temporalità del potere, rendendola discontinua. Ciò era realizzato con l’apertura di una fase di interregno alla morte del sovrano in carica, il quale non veniva sostituito se non dopo una guerra fratricida tra i contendenti al potere, durante la quale la società cadeva nell’anarchia. Addirittura, la capitale del regno veniva abbandonata (o anche distrutta) e ricostruita in un luogo diverso, dove il potere si sarebbe instaurato nuovamente, ponendosi in discontinuità tanto spaziale quanto temporale rispetto alla fase di governo precedente. Contrariamente a quanto è considerato ovvio nella cultura statalista occidentale, secondo la filosofia politica rintracciabile nei regni dell’Africa equatoriale, sarebbe una contraddizione o un non senso l’operazione che invece è stata compiuta nell’Europa tra Medioevo e Rinascimento: ovvero, la concettualizzazione dello Stato come un “corpo” e la sua trasformazione ideologica in un corpo imperituro, che non conosce la morte.  […]
Nei regni dell’Africa equatoriale è individuabile una biologizzazione del potere: per quanto esso si astragga e cerchi di sottrarsi al tempo, il potere viene pur sempre ricondotto alle dimensioni e ai ritmi della vita, periodicamente inglobato nella società e nella natura. La biologizzazione del potere è una rappresentazione che prevede anche, periodicamente, l’ineluttabilità della sua scomparsa[6].

Questa lunga citazione permette di cogliere per contrasto come la nostra cultura abbia ereditato da Hobbes la teoria e la pratica del Leviatano come potere assoluto e imprescindibile. Ma che lo Stato sia un’istituzione neutrale con l’unico compito di rappresentare i cittadini (o sudditi), è un’ideologia che è stata messa in dubbio con serie ragioni da pensatori di diversa appartenenza politica. Per Rousseau e Spinoza soltanto la democrazia diretta realizzata in comunità di ristrette dimensioni potrebbe porre fine al dato coercitivo e violento del potere, che secondo Rousseau rappresenta ciò che non si può rappresentare e dunque inevitabilmente devia dall’esprimere la volontà del cittadino [7]. Per Marx e i marxisti la forma moderna di Stato non è altro che un prodotto della borghesia e, come tale, istituito a bella posta per l’espressione degli interessi particolari di questa classe (perciò lo Stato si sarebbe “dissolto” nella società comunista, dove nessun interesse particolare avrebbe dovuto prevalere su quelli comuni).
Ma, come accennavamo sopra, la concezione realista della natura umana, costituisce anche un terreno ideologico fertile per la società capitalistica. Se si suppone, infatti, che l’uomo sia per natura acquisitivo, individualista ed egoista, tutto teso a massimizzare il proprio interesse privato, la conseguenza logica sarà l’istituzione di una società capitalistica, la quale, così, potrà pure avere tutti i difetti che le si possono imputare, ma tuttavia sarà la migliore e infine anche l’unica possibile, perché rispondente alla natura dell’uomo.
Ci sembra che questa concezione della natura umana sia falsa, in quanto assume come naturale ciò che è invece un prodotto interamente culturale. Infatti sono le logiche di instaurazione e riproduzione del potere politico ed economico che plasmano gli individui in modo da renderli così come i realisti li descrivono, e non il contrario. La persona è portata a massimizzare il proprio interesse privato perché inserita in un contesto sociale in cui prevale la crematistica (criticata dai filosofi dell’antichità classica) o, in termini moderni, la logica del profitto capitalista. Che il contesto strutturale (in termini marxiani) sia determinante nei confronti delle soggettività e della loro elaborazione simbolica ci pare evidente dal momento che sia esempi storici che etnografici possono fornirci un dato valido contro le pretese universalistiche di questa impostazione di pensiero. Non tutte le società che nella storia e nel mondo sono esistite ed esistono vedono agire in esse individui malvagi ed egoisti, frenati nelle loro pulsioni distruttive soltanto dal potere istituito. Non è, infatti, un prodotto universale né lo stato centralizzato, né il capitalismo, che pure sembrano essere indispensabili a chi si ponga in questa prospettiva.
Come ha scritto MacIntyre, «a uno stadio particolare dello sviluppo storico di qualsiasi cultura particolare, la configurazione predominante di emozione, desiderio, soddisfazione e preferenza sarà compresa adeguatamente solo se questi saranno intesi come espressione di una particolare posizione morale e valutativa. Le psicologie intese in questo senso esprimono e presuppongono delle concezioni morali» [8]. In altre parole, se si suppone che certe inclinazioni siano “naturali”, in realtà si sta presupponendo che esse siano moralmente lecite, cosicché la morale precede sempre una teoria degli affetti e dunque non può basarsi su essa, se non in maniera ideologica.
La concezione realista della natura umana è, quindi, falsa, e tuttavia è la più diffusa. Questo non può essere spiegato che in termini di aderenza del discorso esposto alle logiche della riproduzione simbolica della cultura occidentale, la quale è in prevalenza legata ad un antiumanesimo crematistico, legato cioè a doppio filo con le logiche della massimizzazione dei profitti, che invertono mezzi e fini laddove l’economia diventa il fine dell’attività umana, e l’uomo è ridotto a mezzo di funzionamento del sistema. Luca Grecchi ha sostenuto in maniera convincente come questo antiumanesimo sia presente fin dalle origini della cultura occidentale, anche se inizialmente come atteggiamento minoritario (basti pensare che i più grandi filosofi dell’antichità erano ben distanti da posizioni simili, sostenute appunto dai sofisti), storicamente divenuto preminente fino ad assumere la quasi totalità della dimensione simbolica della nostra cultura odierna [9].

Il paradigma moderno
Vi è una seconda concezione che considera la natura umana come qualcosa di compiuto e reale, ma che si differenzia dalla precedente in quanto caratterizza l’umanità come dotata di caratteri essenzialmente positivi. La natura umana, in questa prospettiva, è qualcosa di realizzato in pienezza, ma ancora soltanto da una parte dell’umanità, che si trova in capo al treno della storia e del progresso. Inutile dire che questa minoranza del mondo è localizzata in Europa (o in Occidente) ed è caratterizzata dal trionfo della ragione sulla superstizione, della scienza sulla magia, dell’uomo sulla natura circostante, eccetera. Il resto del mondo è ancora intrappolato nei propri costumi arretrati, che si tratterebbe si spazzare via come un che di superfluo, in modo da far emergere finalmente la vera natura dell’uomo [10]. Fra gli innumerevoli esempi storici possibili, scegliamo quello di un filosofo tanto amato dagli illuministi e ancora oggi da molti filosofi di matrice analitica, cioè David Hume, il quale scrisse: «la grande superiorità degli europei inciviliti rispetto ai barbari indiani ci ha indotto ad immaginarci di essere, nei loro riguardi, allo stesso livello degli uomini rispetto agli animali e ci ha fatto buttar via tutti i freni della giustizia e perfino dell’umanità nei nostri rapporti con loro» [11].
La modernità illuminista elaborò una filosofia della storia essenzialmente ottimistica; formulata in maniera esplicita da Kant e soprattutto da Condorcet, essa divenne un dogma che, pur non accettato da tutti, rimase intatto fino al XX secolo, e vedeva nella modernità un’epoca di progresso sia nel campo della scienza che nel campo della morale e quindi della politica. Lo sviluppo della ragione umana avrebbe infatti portato ad una conoscenza scientifica sempre più dettagliata e onniesplicativa, ma avrebbe altresì garantito l’espulsione dal dominio dell’umano della barbarie morale che caratterizzava i tempi bui precedenti alla nova aetas. In questo modo la violenza ingiustificata dell’uomo sull’uomo sarebbe rimasta soltanto un ricordo lontano.
Analogo ottimismo sul futuro del genere umano mostrano tutte le grandi narrazioni di filosofia della storia elaborate nel secolo successivo: positivismo, hegelismo, marxismo. Il primo si gettava con cieca fiducia nelle mani della scienza, la quale sarebbe stata in grado, presto o tardi, non solo di dare ragione di ogni esistente, ma anche di estendere il dominio della società sull’uomo (in base alla conoscenza scientifica della natura umana si sarebbe infatti potuta costruire una società solida e fondata su dati certi) e sulla natura (conoscendola nei dettagli, la si sarebbe potuta sfruttare con il massimo profitto). «L’uomo, divenuto onnipotente, avrà soggiogato la natura utilizzandone le leggi per fare regnare su questa terra tutta la giustizia e libertà possibili. Non vi è scopo più nobile, più elevato, più grande. In esso consiste il nostro compito di esseri intelligenti: penetrare il come delle cose per dominarle e ridurle allo stato di meccanismi ubbidienti» [12]. L’hegelismo individuava nella storia il dispiegarsi dell’autocoscienza della libertà umana e pretendeva di individuare una forma statale entro la quale si sarebbe realizzata in sommo grado la libertà dell’uomo. Il marxismo, da canto suo, individuava un futuro regno della libertà che le leggi dialettiche intrinseche dello sviluppo delle forze produttive e dei mezzi di produzione avrebbero dovuto rendere prevedibile come esito certo della crisi del capitalismo industriale.
Che questa concezione della natura umana sia falsa è ovvio ormai anche per il senso comune. Da una parte, i progressi stessi della scienza hanno contribuito a metterne in crisi le pretese di onniesplicatività, di conoscenza e dominio (basti pensare al Principio di indeterminazione); dall’altra, la storia ha fatto riemergere, nel XX secolo, una barbarie e una violenza così sconvolgenti da rendere impensabile un ottimismo così ingenuo come a noi giustamente appare quello di certa filosofia moderna. La retorica postmoderna, del resto, ci ha abituati a ritenere che il Novecento abbia posto la parola fine a qualsiasi progetto della modernità, a qualsiasi possibilità di pensiero che domini la totalità del reale pretendendo di indicarne gli esiti futuri.
Se il paradigma moderno della natura umana è ormai inservibile, esso ha comunque avuto un’importanza storica fondamentale e non è del tutto scomparso, sotto certi aspetti, nemmeno oggi. L’individuazione dei caratteri della vera natura umana in ciò che la cultura occidentale aveva prodotto, ingenerava un sentimento di superiorità che portava a considerare l’Europa il luogo della civilizzazione e il resto del mondo vittima della barbarie, dell’inciviltà, dell’ignoranza, che sarebbe stato non solo lecito, ma anche giusto e buono per loro, conquistare e sottomettere, per impiantarvi i germi di una vera civiltà, di modo che tutto il mondo potesse assurgere allo splendore che l’Occidente vedeva nel suo specchio truccato (cioè l’ideologia, ancora una volta). La storia è nota: colonialismo, schiavismo, imperialismo, eccetera.
Naturalmente, abbiamo ancora una volta a che fare con un’ideologia di legittimazione non solo del potere politico, ma anche del capitalismo, il cui sviluppo necessita di un ampliamento costante dei propri spazi d’intervento, sempre e soltanto in nome della massimizzazione del profitto. È evidente, allora, che quest’ideologia non cessa di avere i suoi effetti nel mondo odierno, laddove si identifica l’Occidente con la Democrazia e si giustificano conflitti e mascherano interessi economici dietro la retorica democratica di quei governi che non si fanno problemi ad appoggiare dittatori quando questi sono ligi al dovere e che li abbattono quando diventano fastidiosi o pericolosi.
Se i filosofi postmoderni hanno perlopiù cessato di credere in qualsiasi valore universale e nelle metanarrazioni moderne, i potenti del mondo non hanno cessato di inzuppare di universalismo la loro retorica, attribuendo alla democrazia grosso modo lo stesso ruolo che aveva il comunismo nella teoria ortodossa marxista: un destino, la cui realizzazione deve essere favorita con ogni mezzo e il cui avvento porterà la libertà universale di tutti gli individui. I pensatori postmoderni non possono che prendere atto di questa realtà, ma si esimono dal darne una spiegazione coerente. Perché mai il progetto della modernità dovrebbe considerarsi fallito, quando ancora la maggioranza delle persone del mondo è succube di una retorica modernista e capitalista che ritiene ancora l’Occidente il modello a cui tutto il mondo dovrebbe guardare? La risposta di Lyotard è che l’universalismo cui fa riferimento la retorica politica è falso ed il progetto moderno è fallito proprio in quanto il capitalismo è portatore di un’universalità puramente ideologica [13], mentre qualsiasi alternativa ad esso sembra non poter avanzare alcuna pretesa, essendo peggiore del sistema attuale e pericolosamente totalitaria.
Ciò che qui si vuole sostenere è che il discorso politico odierno è, almeno in parte, assimilabile ad una metanarrazione di stampo illuministico, che vede nel corso della storia la possibilità di realizzare il modello occidentale su scala globale. Da questo punto di vista, il grand récit moderno è sempre stato fautore di un’universalità falsa ed ideologica e la retorica odierna non può esserne considerata il fallimento, bensì la naturale prosecuzione.
A parere di chi scrive, tuttavia, l’universalismo di per sé non costituisce un vizio della modernità da abbandonare in quanto ideologico o fallimentare. Si tratta di capire cosa si intende con universalismo, di modo da abbracciare con questo concetto qualcosa che non sia l’universalizzazione di un particolare (come nel caso della cosiddetta «occidentalizzazione del mondo», secondo un’espressione ormai celebre di Serge Latouche), bensì, se mi si passa il gioco di parole, una particolarizzazione dell’universale. Ma, su ciò, più diffusamente nel seguito.

Il paradigma edenico
Possiamo qui elencare una terza concezione della natura umana, che definiamo edenica, in quanto suppone che vi sia stato un uomo originario (ad esempio Adamo nella tradizione ebraica e cristiana) o un’umanità originaria (ad esempio i popoli primitivi, considerati paradigmi della buona naturalità dell’uomo, nella visione edulcorata che di essi avevano taluni intellettuali occidentali, come Rousseau) in cui erano presenti i caratteri della vera natura umana, i quali sono stati successivamente perduti, a causa del peccato o della corruzione dei costumi originari causata dalla cosiddetta civilizzazione.
Come ha notato Marshall Sahlins, si tratta, evidentemente, di un’inversione, rispetto al paradigma hobbesiano, del rapporto tra natura e cultura, tra physis e nomos, alle quali vengono assegnati qui valori assiologici opposti rispetto a quelli attribuiti da Hobbes e dai realisti. Ma le due concezioni si ricongiungono negli esiti, laddove viene considerata la natura umana corrotta degli edenisti in termini del tutto analoghi a quelli della natura umana originaria degli hobbesiani [14].
Va a finire, così, che anche il paradigma edenico diviene facilmente integrabile nel discorso di legittimazione del potere politico ed economico, il quale corrisponde a determinate caratteristiche umane. In questa prospettiva, tuttavia, la carica ideologica è meno pressante, in quanto, pur facendo propria una concezione realistica della natura conflittuale dell’uomo, non si suppone che questa sia originaria, e perciò si comprende come essa sia un prodotto culturale, contrario alla vera natura dell’uomo.
Il pensiero cattolico ritiene sì che gli uomini, discendenti di Adamo, portino sulle loro spalle il peso del peccato originale ed agiscano malvagiamente per l’inclinazione peccaminosa dei loro animi; tuttavia è sempre presente l’idea del riscatto. A differenza di certa teologia luterana e calvinista, che assume a propria base un rigido determinismo legato alla predestinazione di ciascuno alla vita eterna o alla perdizione, il pensiero cattolico ritiene pur sempre che la volontà umana, per merito della grazia divina, sia in grado di indirizzarsi verso il bene, in maniera tale da tendere ad una condizione adamitica di perfezione morale. È vero, dunque, che anche il pensiero politico cristiano vede nell’istituzione coercitiva una necessità, a causa della prevalente peccaminosità dell’uomo, ma lascia tuttavia aperto lo spiraglio della redenzione e l’ideale della comunità cristiana originaria o della «città di Dio» (Agostino) continua a valere come metro di paragone nei confronti della società esistente.
Per il pensiero roussoviano15 la civiltà ha compromesso definitivamente la naturalità spontanea e positiva dell’umanità originaria, la quale, allo stato odierno, è dunque costretta ad entrare in un sistema gerarchico ed istituzionalizzato che regoli la vita umana, divenuta nel frattempo di una tale complessità da non poter essere gestita dalle persone comuni. Ma anche Rousseau lascia aperta la via del riscatto, che passa attraverso la famiglia (La Nuova Eloisa), l’educazione (Emilio) e la politica (Il contratto sociale).
Pur essendo facilmente integrabile in un discorso di legittimazione del potere, il paradigma edenico mantiene una forza critica che va persa tanto nella concezione realista che in quella moderna della natura umana. Infatti, la condizione originaria (o anche il regno dei Cieli futuro, ove tutti sono uguali al cospetto di Dio) resta pur sempre un paradigma rispetto al quale si può valutare e giudicare la degenerazione del mondo odierno.

La natura umana tra biologia e cultura
Il paradigma riduzionista
Con lo sviluppo delle scienze biologiche, negli ultimi decenni è emersa una concezione della natura umana che intende identificare alcuni dati biologici universali, che si suppongono fondanti alcune caratteristiche tipiche dell’uomo rispetto ad altre specie animali. Queste caratteristiche possono essere positive (ad esempio il linguaggio, la creatività, l’altruismo) ovvero negative (l’egoismo, l’individualismo, l’utilitarismo).
Noam Chomsky è uno dei più prestigiosi teorici a sostenere l’esistenza di caratteristiche universali del comportamento umano determinate, almeno in parte, da meccanismi biologici. Egli sostiene infatti che esiste un insieme di schemi mentali innati, biologicamente determinati, che guidano il comportamento sociale e intellettuale degli individui, ed attribuisce a questi schemi proprio il concetto di «natura umana». In sintesi, si tratta di schemi di elaborazione che permettono al singolo di elaborare una risposta complessa a partire da un input di dati assai ristretto. Un esempio di questo meccanismo è il linguaggio: il bambino – sostiene Chomsky – ha un’esperienza linguistica «limitata e priva di ordine», che gli fornisce una quantità di dati «esigua» e di «bassa qualità». Per comprendere come sia possibile che il bambino, a partire da ciò, giunga ad una conoscenza «articolata, altamente sistematica e profondamente organizzata», è necessario supporre che esistano schemi innati che permettano l’elaborazione dei dati da parte del bambino, il quale fornisce un «contributo straordinario» alla creazione dell’output in termini di «creatività» [16]. Detto altrimenti, «le parole si apprendono, ma il linguaggio si sviluppa (come lo scheletro) più di quanto non s’impari» [17].
Com’è noto, Chomsky, oltre che ad essere un celebre linguista, è anche un militante e pensatore politico. Ancora una volta, dunque, la concezione della natura umana è strettamente legata ad una determinata visione della politica. Nella fattispecie, Chomsky, partendo dal dato della creatività intrinseca nei processi intellettuali umani, afferma che «una società più giusta dovrebbe massimizzare le possibilità di realizzare questa fondamentale caratteristica umana» [18] (cioè, appunto, la creatività).
Come si possa, da un dato biologico definito in maniera così generica, giungere con coerenza logica all’anarco-sindacalismo, non è del tutto chiaro. A parere di chi scrive, voler fondare una progettualità politica su un’astratta nozione di creatività, che si suppone determinata biologicamente, non è né efficace né coerente. È un tentativo che lascia insoddisfatti, per quanto si possa condividere la proposta politica di Chomsky, o il suo discorso sulle capacità innate nel soggetto umano; sono discorsi che restano separati e che possono avere una validità autonoma, ma sembra davvero difficile unirli in maniera convincente.
Possiamo considerare quello di Chomsky una forma di riduzionismo, in quanto riduce tutte le dimensioni dell’umano alla sola biologia, volendo fondare su di essa un cosmo sociale che implica il simbolico, il morale, il politico, ecc. In questo modo l’essere viene ricondotto «nell’angustia della semplice categoria della quantità», in linea con quella tradizione che principia grosso modo con Cartesio e che intende ridurre «il tutto dell’essere a ciò che la scienza ne può conoscere» [19]. Tuttavia, è lo stesso Chomsky a dover riconoscere che «è del tutto probabile che molte delle cose che ci piacerebbe comprendere,  […] come la natura umana o la natura di una società giusta o molto altro ancora, ricadano al di fuori dall’ambito di quel che la scienza può spiegare» [20].
Il riduzionismo biologico, d’altro canto, è utilizzato da alcuni per sostenere tesi sulla natura umana che, con l’apparenza di essere scientificamente fondate, sono opposte a quelle di Chomsky e in parte analoghe a quelle hobbesiane. Per usare le sintetiche parole di Sahlins, «l’idea che l’egoismo sia innato è stata recentemente rinforzata da un ondata di determinismo genetico che trova la sua espressione nel “gene dell’egoismo” dei sociobiologi e nel redivivo darwinismo sociale degli psicologi evoluzionisti» [21]. Ma non solo.
Nel XIX secolo alcuni scienziati positivisti tentarono di dimostrare come supposte differenze biologiche fossero delle barriere immutabili che impedivano lo sviluppo di una società più egualitaria. Il darwinismo ben presto si trasformò in «darwinismo sociale», utilizzato come metodo pseudoscientifico per giustificare le differenze economiche tra gli strati della società e tra le popolazioni in ambito coloniale. Nel XX secolo questa pseudobiologia è stata utilizzata per servire la causa della supremazia dell’uomo bianco o della razza ariana. Più recentemente, la psicologia evolutiva è diventata, nelle mani di qualcuno, una fonte per ammettere il patriarcato [22].
Queste teorie purtroppo non sono state abbandonate, hanno semmai cambiato faccia, e sono alla base delle presunte spiegazioni di qualsiasi tipo di comportamento umano, dall’omosessualità alla depressione, alla violenza, alla criminalità. Addirittura c’è chi millanta di aver individuato un gene per la condizione di senza tetto.
Esattamente come proposto dall’ambiziosa utopia positivista espressa da Zola ne Il romanzo sperimentale, le politiche della Rockefeller Foundation, in seno alla quale nacque negli anni Trenta quella disciplina che ha preso il nome di biologia molecolare, erano orientate – come ebbe a sostenere uno dei direttori della fondazione – «verso il problema generale del comportamento umano, con lo scopo di comprenderlo e quindi controllarlo.  […] La Scienza medica e le Scienze naturali propongono uno studio strettamente coordinato delle scienze che si occupano della comprensione della persona e del suo controllo» [23]. Il direttore della celebre rivista Science, alla domanda «perché dovremmo spendere soldi per il Progetto Genoma quando ci sono tante persone senza casa e senza lavoro?» rispose: «Il Progetto Genoma è più importante per quelle persone che per chiunque altro perché l’essere senza casa e senza lavoro sono una forma di handicap che sarà possibile curare una volta che si conosceranno a fondo i geni» [24].
La neurogenetica, una scienza “giovane”, nata dalla sintesi fra gli studi genetici e quelli neurologici, offre la prospettiva di identificare i geni che influiscono sulle funzioni cerebrali e quindi sul comportamento, ascrivendo loro un potere causale e alla fine modificandoli. La neurogenetica afferma di essere in grado di rispondere a questa domanda: in un mondo pieno di sofferenza individuale e di disordine sociale, dove dovremmo guardare non soltanto per spiegare, ma, ancor di più, per cambiare la nostra condizione?
La più naturale risposta ad una simile domanda, se priva delle premesse strettamente deterministiche che i neurogenetisti avanzano, sarebbe che la soluzione va ricercata in un affinamento delle leggi che regolano la vita sociale. Nel corso dei secoli il compito di risolvere questi problemi è stato affidato alla politica e alle scienze sociali, mentre oggi sembra che questa speranza non sia più sensata, anche perché non si è mai venuti, in nessuna epoca storica e in nessun contesto sociale, a capo di queste problematiche. La soluzione è dietro l’angolo, ed è solo questione di scienza. Del resto, se sono i geni a stabilire che cosa noi siamo e saremo, perché non dovrebbe darsi la possibilità di comprendere tutto solo in base ad essi?
Così, questo riduzionismo-determinismo riconduce il problema della natura umana ad una questione di genetica e la fondazione di una società politica alle scoperte della scienza. Ma sappiamo che queste ricerche sono ben lungi dall’essere neutrali, e identificano l’uomo con quell’atomo sociale utilitarista ed individualista che è l’idealtipo richiesto dal sistema capitalistico. Se infatti l’essenza dell’uomo va rintracciata unicamente nei suoi geni, l’identità di ciascuno sarà determinata in maniera endogena (indipendentemente dal contesto sociale) e gli eventuali comportamenti altruisti non saranno che il riflesso di una necessità biologica di riprodurre i propri geni (questa è la tesi di Richard Dawkins [25]). È facile constatare la somiglianza fra queste tesi e quelle che sostengono come il legame sociale derivi e si mantenga soltanto se i singoli ne derivano un’utilità individuale: tale è la verità per certo pensiero liberale, per il quale l’individualismo possessivo è sinonimo di libertà.
Ma il determinismo genetico è una posizione controversa all’interno della comunità scientifica ed ha ricevuto le sue fondate critiche. Come ha sottolineato in un’intervista Richard Lewontin, genetista di fama mondiale, «anche se avessi la sequenza completa del DNA di un organismo, se non conoscessi la sequenza degli ambienti in cui l’organismo si sviluppa, non potrei sapere quale aspetto avrebbe quell’organismo». Ma nemmeno l’ambiente [26] può servire da spiegazione sufficiente: la differenza, per esempio, tra le impronte digitali della mano destra e della mano sinistra non può essere spiegata né a livello genetico (i geni sono gli stessi per entrambe le mani), né a livello ambientale (l’ambiente in cui le due mani si sono sviluppate è lo stesso, cioè l’utero materno). Come si spiega allora una differenza come questa? Semplicemente non si spiega. Lewontin afferma che «durante lo sviluppo di un organismo probabilmente accade qualcosa a livello di movimenti evolutivi casuali, divisioni di cellule che si verificano per caso, su un lato piuttosto che sull’altro, e che non sono determinati né dai geni né dall’ambiente nell’accezione comune del termine, ma che incidono in maniera rilevante sull’aspetto finale dell’organismo» [27].
Quando si parla specificamente di esseri umani, che è la questione che maggiormente ci interessa, la questione si fa ancora più ardua, a causa dell’estrema complessità del nostro sistema nervoso: le connessioni sinaptiche si sviluppano in buona parte in maniera pressoché casuale, e ciò determina (in un certo senso) il nostro essere, senza nessuna influenza genetica.
Come ha sostenuto Clifford Geertz, le informazioni genetiche fornite dal nostro organismo non sono sufficienti a guidare il nostro comprtamento; per funzionare, lo stesso nostro cervello necessita di acquisire delle informazioni esterne, che sono tratte dal contesto culturale in cui l’individuo (e specialmente il bambino nella fase di formazione delle connessioni cerebrali) è inserito [28].
Alla base della vita sta dunque la complessità: l’espressione dei geni, l’ambiente cellulare ed extra-cellulare, nonché l’ambiente esterno all’organismo sono relazionati tra loro in una rete inestricabile: non vi è unidirezionalità causale; i livelli microscopici condizionano e sono condizionati dai livelli superiori.
Il riduzionismo dunque non è una strada percorribile per ottenere una risposta soddisfacente alle domande sulla natura umana e sulla società politica.

Il paradigma negazionista
Constatando l’inadeguatezza di tutte queste formulazioni del problema della natura umana e forti dei loro studi etnologici, alcuni antropologi hanno proposto di abbandonare l’idea, sostenendo che sia impossibile rintracciare un dato universale che caratterizzi la specie umana, siccome ogni diversa cultura porta a compimento forme diverse di umanità. Scrive Sahlins: «la natura umana è un divenire basato sulla facoltà di comprendere e mettere in atto lo schema culturale appropriato» [29]. La natura umana, secondo questa prospettiva, è qualcosa di non naturale, e viene a coincidere con la cultura; il che equivale a dire che una natura umana non esiste. Coma ha sintetizzato Francesco Remotti, secondo gli sviluppi più recenti dell’antropologia culturale si sostiene «l’irreperibilità dell’uomo al di là delle sue usanze, l’impossibilità di scoprirlo nudo nella sua ‘purezza’ originaria e preculturale» [30]. Essendo poi i costumi e le usanze sempre particolari e soggetti a mutamento, tale sarà allora anche l’idea di uomo, che non sarà più un concetto universale, ma sempre particolare e destinato anch’esso a mutare, in parallelo con il mutare dei costumi. In questo modo, la natura umana perde la sua stabilità e la sua unità, sicché «risulta ormai difficile parlare di ‘essenza’» [31] riferendosi all’uomo.
Il bambino nasce aperto a potenzialità pressoché illimitate (per fare un esempio, un bambino appena nato può potenzialmente apprendere qualsiasi lingua si trovi a sentire), le quali vengono gradualmente selezionate dalla cultura entro la quale si trova inserito, sicché da una parte la cultura si configura come un completamento di potenzialità che, selezionate, vengono attualizzate, e dall’altra come una rinuncia a potenzialità che vengono escluse. Ma la cultura non giunge mai a saturare completamente le possibilità di un individuo, sicché la si può caratterizzare anche come un processo che non giunge mai a compimento, perché l’uomo resta sempre aperto al mondo. L’incompletezza umana è, come ha scritto Remotti, «il presupposto  […] della capacità poietica e autopoietica che contraddistingue Homo sapiens» [32].
Se l’uomo è plasmato dal contesto culturale in cui è inserito, sarà allora impossibile parlare sia di uno stadio preculturale che di uno stadio prepolitico. Così è fatta cadere quella dicotomia fra individuo e società che il pensiero contrattualista dà per scontata e la dimensione sociale viene ad essere immediata, di modo che la caratterizzazione aristotelica dell’uomo come zoon politikon viene ad assumere un significato più preciso.
Tuttavia, questa prospettiva culturalistica, che nega qualunque contenuto alla natura umana, non è esente da rischi. Infatti, se l’uomo è determinato nelle sue scelte comportamentali in buona parte dalla cultura (pur essendo questa frutto di una convenzione sempre precaria ed esposta alla possibilità della revoca) e se di questa la dimensione simbolica è fondamentale per il controllo e la comprensione del comportamento umano, dovremo riconoscere che il potere ha larga parte nel plasmare le diverse forme di umanità. Il potere è infatti ciò che ordina il corpo sociale e ne organizza le forme della produzione e della riproduzione, che investono non soltanto – e nemmeno principalmente – la dimensione materiale, ma anche e soprattutto quella simbolica.
Tenendo conto del carattere gerarchico e coercitivo della maggioranza delle forme di potere diffuse al mondo, possiamo affermare che il potere gerarchizza il corpo sociale e in tal modo opera, all’interno di una stessa cultura, un’imposizione di diverse forme di umanità. L’equazione tra una cultura e una specifica forma di umanità, sostenuta da Geertz, ci sembra approssimativa. Il potere non è soltanto ciò che si differenzia dal resto della società e che opera una differenziazione tra la società da esso rappresentata e le altre [33]; esso è anche ciò che differenzia il corpo sociale. Inoltre al potere è ascrivibile l’organizzazione del discorso, che della cultura è un elemento fondamentale, coinvolgendo la dimensione del simbolico. È anzi mediante la produzione di regimi di discorso che il potere si legittima e in questo modo fonda e riproduce la gerarchia sociale che lo mantiene in vita dal punto di vista materiale.
Michel Foucault, nella lezione inaugurale che tenne al Collège de France il 2 dicembre 1970, individuò una serie di stratagemmi mediante i quali il potere organizza il discorso di una cultura. Quelle che ci paiono più importanti, nonché più diffuse, sono quelle che egli chiamò «procedure d’esclusione». Esse sono 1) l’interdetto; 2) la partizione; 3) l’opposizione del vero e del falso. Brevemente, l’interdetto consiste nell’esclusione di taluni argomenti da ciò che può essere detto: si concretizza in «tabù dell’oggetto, rituale della circostanza, diritto privilegiato del soggetto che parla» [34]. Come Foucalt sottolinea, gli ambiti in cui l’interdetto si applica maggiormente sono quelli della sessualità e della politica.
La partizione consiste nell’organizzare il discorso secondo opposizioni di termini il cui significato è socialmente e storicamente determinato. Ad esempio, l’opposizione tra ragione e follia, che va ben oltre il suo significato psichiatrico (anch’esso, comunque, secondo Foucault, non neutrale), e può essere utilizzato per screditare facilmente una posizione scomoda: un discorso critico radicale nei confronti del potere può essere facilmente tacciato di “follia” o di “utopismo”, termini che non sono poi così distanti.
L’opposizione del vero e del falso non riguarda ovviamente il livello logico della proposizione, ma ha a che fare con quella che Foucault chiama «volontà di verità» o «volontà di sapere», la quale è espressione del potere nelle varie forme che esso ha assunto nella storia. In questo senso, la volontà di verità è «storia dei piani d’oggetti da conoscere, storia degli investimenti materiali, tecnici, strumentali della conoscenza» [35]. Foucault descrive in tratti concisi ma estremamente efficaci quella volontà di verità che è emersa tra il XVI e il XVII secolo e che caratterizza ancora in buona parte la nostra cultura odierna: «una volontà di verità che imponeva al soggetto conoscente (e in certo modo prima di ogni esperienza) una certa posizione, un certo sguardo e una certa funzione (vedere più che leggere, verificare più che commentare); una volontà di sapere che prescriveva (e con modalità più generali di ogni strumento determinato) a che livello tecnico le conoscenze tecniche avrebbero dovuto investirsi per essere verificabili e utili» [36].
Può essere interessante, a questo punto, adottare le categorie elaborate da Ferruccio Rossi-Landi [37], secondo le quali, come il capitalista detiene i mezzi della produzione e della riproduzione materiale, così il potere politico detiene i mezzi della produzione e della riproduzione simbolica. In tal modo, il regime di discorso può essere paragonato al capitale costante di una determinata cultura, mentre ogni parlante può essere paragonato ad un “lavoratore linguistico” che, non detenendo i mezzi della produzione, non può modificarli, ma è costretto ad utilizzare materiale linguistico e comunicativo (generalizzando: simbolico) prestabilito. Si può dunque parlare di una vera e propria alienazione linguistica che, esattamente come l’alienazione del lavoratore nella teoria marxiana, può essere rotta soltanto con un atto rivoluzionario che sconvolga la cultura esistente.
Se si afferma che la cultura è la dimensione che realizza l’umano, non si può ignorare questa dimensione politica; ma se la si prende seriamente in considerazione, una prospettiva culturalistica che strumenti può offrire per un discorso valutativo che chiarisca quali forme di umanità (di cultura, di potere) sono accettabili e quali no? Ci sembra che l’idea che stiamo seguendo, che nega qualsiasi contenuto alla natura umana, non sia in grado di offrirne alcuno. Se non esiste un universale, infatti, non può esistere alcun valore, ed è soltanto in base a questi che si può sostenere con coerenza un discorso valutativo.
Alla base di questo negazionismo, possiamo individuare tre tesi filosofiche fondamentali: 1) non può essere affermata alcuna verità universale se si ritiene che l’uomo sia interamente plasmato dai costumi particolari; 2) ciascun essere particolare è in sé completo e vero: ogni cultura particolare è valida e giustificata secondo i parametri di giudizio da essa stessa elaborati; 3) supporre l’esistenza di una verità assoluta significa universalizzare un ‘noi’ culturale particolare, il quale si pone come superiore agli altri e come tale sempre potenzialmente violento. Com’è facile notare, queste tre tesi confluiscono in un evidente relativismo culturale. Geertz sostiene che il relativismo è una forma di sapere «coraggiosa», che destabilizza le rassicuranti certezze di chi vorrebbe attaccarsi ad una presunta verità. In realtà è il contrario: il relativismo è il frutto della paura della Verità, la quale – si sostiene – è violenta e totalitaria e porta con sé inevitabili derive, di cui gli orrori del XX secolo costituirebbero l’emblema.
Il relativismo è vecchio quanto il veritativismo, ma nella sua forma specificamente postmoderna esso (ri)nasce proprio dalla paura, come elaborazione di un lutto. Lyotard afferma esplicitamente (ne Il postmoderno spiegato ai bambini) che occorre negare validità alle pretese veritative delle grandi narrazioni perché esse hanno avuto come conseguenza – a suo dire – le guerre mondiali e le dittature del Novecento. È quindi una paura per la verità a far sostenere un facile relativismo, che, lungi dall’essere una posizione coraggiosa, è perfettamente inerente al discorso politically correct ed è una forma, nemmeno molto velata, di legittimazione dell’esistente. Si afferma che il relativismo mette al riparo dalla «paura per le differenze», ma lo fa semplicemente negando la possibilità della critica, tanto nei confronti del “noi” quanto dell’ “altro”.
Come insegna Alain Badiou [38], una Verità non può essere paurosa delle differenze, perché ad esse superiore. La Verità è sempre un universale che, come tale, considera, di fronte a se stesso, le differenze come non discriminanti; non già come inesistenti o da sopprimere, ma come un dato di fatto ineliminabile che tuttavia non può intaccare l’universalismo, che vale per chiunque. Anzi, la Verità si realizza solo tramite e grazie alle differenze, non già con una negazione di esse a favore di un Noi che si impone sugli Altri. In un certo senso, verità e universalismo vengono a coincidere, perché ogni verità non può che essere universale.
In tal modo si preserva la possibilità del discorso valutativo, dal momento che potremo considerare una cultura che, ad esempio, tolleri lo schiavismo, la discriminazione, lo sfruttamento, come non aderente al Vero, non già in quanto particolare (ogni cultura è infatti particolare), ma perché negatrice dell’universalismo ed esaltatrice delle differenze. Si noti, peraltro, che valutare non significa discriminare: come ha spiegato chiaramente Diego Marconi, nel considerare un valore che una cultura ritiene tale, noi possiamo benissimo sforzarci di comprenderlo e anche di scusarlo, ma ciò non significa che esso sia vero, per il semplice fatto che coloro che appartengono a quella cultura lo ritengono tale. Né voler riconoscere tutti i valori come equivalenti può sostenere davvero la possibilità di un dialogo interculturale, perché «i valori esigono di essere messi a confronto», sia per mettere alla prova la loro validità, sia per poter comprendere (anche se non giustificare) quelli propri o altrui che risultano falsi [39].
La critica dei relativisti contro la verità assoluta ha di mira un discorso ideologico che universalizza una verità particolare (e che, secondo la classificazione qui proposta, possiamo identificare con il paradigma moderno). In tal senso, la loro critica è indubbiamente corretta e filosoficamente valida. Tuttavia ci sembra che essi gettino via, per così dire, l’acqua sporca della verità così intesa con il bambino della verità tout court.
Seguendo il discorso di Badiou possiamo invece affermare che la Verità non è l’universalizzazione di un particolare, bensì una particolarizzazione dell’universale, nel senso che la speculazione filosofica ci ha insegnato: ogni concretizzazione di un concetto assoluto è storicamente (e geograficamente) determinata; nondimeno, essa corrisponde pur sempre all’Idea.
In tal modo, possiamo concludere che: 1) un’idea di Verità siffatta è perfettamente compatibile con la particolarità dei costumi; 2) non si può affermare che ogni cultura è valida secondo i suoi stessi criteri, ma, adottando il punto di vista dell’universale, si dovrà valutare se e quale cultura è eticamente e politicamente vera; 3) la Verità così intesa non è affatto prevaricatrice e violenta, ma si pone come un universale di fronte al quale le differenze non sono discriminanti.

Il paradigma aristotelico-umanista
Vi è un modo di intendere la natura umana che finora non abbiamo considerato, avendo deciso di porlo al fondo del nostro lavoro, quale conclusione positiva, dopo una serie di presentazioni in negativo di paradigmi che abbiamo ritenuto poco convincenti. Quest’ultima maniera di intendere la natura umana la considera come pura potenzialità, esattamente come il paradigma che abbiamo definito negazionista. A realizzare queste potenzialità (che includono certamente anche un dato biologico, ma che non possono essere limitate a questo, come fanno i riduzionisti), sarà ogni specifica e particolare cultura. A differenza del paradigma culturalista, tuttavia, il paradigma aristotelico-umanista considera tale potenzialità come indirizzata verso un telos determinato, che è la natura dell’uomo completa e realizzata, e che si realizza in una vita felice. Perciò questa prospettiva è insieme teleologica e eudemonistica, ciò che fa storcere il naso alla gran parte dei pensatori moderni e postmoderni, attaccati ai valori di una scienza sperimentale assolutamente non teleologica e ad un’etica che non considera più la felicità come una condizione stabile raggiungibile dall’uomo, ma semmai come momentanea soddisfazione di desideri sempre crescenti e alla fine insoddisfatti.
Siccome l’uomo non vive fuori dalla società, per definire la sua condizione di felicità occorrerà definire anche quale condizione sociale sarebbe la migliore per lo sviluppo delle sue potenzialità, cosa che ancora una volta è contraria al paradigma liberale e individualista, secondo il quale, se una felicità c’è, essa è un fatto individuale e dipende semmai da quanto il singolo è riuscito a sfruttare le occasioni che la società gli ha dato e non certo da una società eventualmente diversa e migliore dalla presente.
Per comprendere come si strutturi la teoria aristotelica (o di quei filosofi che si rifanno ad Aristotele), occorre leggere la sua famosa tesi secondo la quale «l’uomo è per natura un animale politico» [40] a partire dalla sua dottrina della potenza e dell’atto. Secondo quest’ultima, la potenza (dynamis) è capacità, movimento orientato ad un fine; l’atto (energheia) è la causa finale, il telos verso il quale tende qualsiasi dynamis. Per questo, «secondo la sostanza» esso «è anteriore» rispetto alla potenza: «tutto ciò che diviene procede verso un principio, ossia verso il fine: infatti, lo scopo (telos) costituisce un principio e il divenire ha luogo in funzione del fine. E il fine è l’atto (energheia)» [41]. Ogni cosa realizza pienamente la propria natura soltanto quando perviene all’attualizzazione, in quanto «l’atto è l’esistere della cosa» [42]. In base a questo principio possiamo dire che la politicità è l’essere-in-potenza dell’uomo, una dynamis che può realizzarsi soltanto nella comunità giusta. Il conflitto (il contrario della buona vita politica) e il vizio (il contrario della virtù), sono ciò che si frappone al raggiungimento dell’energheia. Infatti l’uomo è sì un essere naturale, ma soltanto le sue potenzialità fisiche e biologiche possono giungere all’atto «per virtù propria». La sue caratteristiche razionali, che fanno di lui uno zoon politikon logon echon, possono attualizzarsi soltanto «quando siano volute e non intervengano ostacoli dal di fuori» [43].
È chiaro, allora, come, nella definizione, «per natura» non significa che la politicità dell’uomo sottostia a regole naturali del tipo di quelle che regolano la fisica o la biologia. Così si potrebbe intendere se la socialità si risolvesse semplicemente nell’ambito dell’utile, in considerazione del fatto che l’uomo non può fisicamente e biologicamente sopravvivere da solo e perciò ha un bisogno naturale degli altri; ma per Aristotele la polis è molto di più:
la comunità cittadina non è costituita soltanto dall’identità del luogo, dall’astinenza dal danno reciproco e dalla garanzia dei rapporti commerciali, perché, sebbene queste cose siano imprescindibili per l’esistenza della città, tuttavia, anche se si realizzano tutte, non c’è ancora una città, ma questa è la comunità che garantisce la buona vita e alle famiglie e alle stirpi, e ha come fine una vita indipendente e perfetta [44].

Il termine greco per «natura» (physis) include nel proprio campo semantico un dinamismo, che Aristotele concettualizza appunto in termini di passaggio dalla potenza all’atto. Come si vede, secondo questa prospettiva, l’uomo realizza la propria natura soltanto quando vive in una comunità giusta (che secondo Aristotele significa che essa dà a ciascuno quanto gli spetta secondo il proprio merito, il quale va misurato a seconda di quanto il comportamento virtuoso del singolo abbia contribuito alla realizzazione del bene comune) e realizzi una vita «indipendente e perfetta». Come anche per Marx, infatti, l’uomo può realizzare la propria individualità soltanto in un contesto comunitario, il quale non è però oppressivo e totalitario, come sarebbe secondo una concezione meramente organicistica della comunità, ma è la condizione essenziale per il dispiegamento delle potenzialità dell’uomo «onnilaterale» [45].
Secondo la filosofia greca classica al concetto di uomo era immediatamente associata l’idea di ciò che lo rende pienamente e perfettamente tale. Alasdair MacIntyre ha notato come «uomo» sia, così inteso, un concetto funzionale. Esattamente come «il concetto di orologio non può essere definito indipendentemente dal concetto di buon orologio» e «il criterio che fa di qualcosa un orologio e il criterio che fa di qualcosa un buon orologio non sono indipendenti l’uno dall’altro», così l’uomo non può essere definito indipendentemente dall’idea della sua piena realizzazione. Un concetto funzionale può essere poi inserito in asserzioni del tipo ‘questo è un buon x’ (dove ‘x’ sta per un concetto funzionale) e tali asserzioni, che si concludono assiologicamente, saranno argomentazioni valide la cui premessa è basata su dati empirici (conoscendo la natura e la funzione di x potrò dire con certezza cosa è buono per x) [46].
Secondo Luca Grecchi, che interpreta la tradizione classica inserendosi positivamente nel suo solco, nell’uomo sono ritracciabili tre componenti: a) quella razionale, b) quella morale e c) quella simbolica. La a) non va intesa nel senso illuministico del termine (cioè come portatrice di progresso e di superiorità culturale dell’Occidente sulle altre culture), bensì nella sua accezione classica: essa riguarda «non tanto l’operatività sulle cose», quanto il significato che l’uomo attribuisce «ad ogni ente e relazione della vita» e quindi alla «trama complessiva di rapporti che unisce gli uomini fra loro ed al mondo» [47]. La componente b) va invece intesa, secondo Grecchi, come «cura che ogni uomo deve realizzare, per essere realmente uomo, nei confronti di ogni altro essere vivente e del mondo» [48], giacché soltanto in questo modo l’uomo può realizzare una comunità da cui sia espunto il conflitto e in cui la vita possa realizzarsi felicemente alla maniera aristotelica. Infine, la c) include la dimensione del sacro e di tutto ciò che assume un significato per l’uomo indipendentemente dalla sua utilità pratica: se quest’ultima presuppone l’attribuzione ad ogni cosa di un significato e una funzionalità specifica, lo spazio simbolico è ciò che resta aperto «alla ambivalenza dei contenuti» [49]. Il simbolico è forse la dimensione che maggiormente segna la differenza fra le culture, e tuttavia esso non va escluso in nome della verità, ma, proprio in base a questa, ha da essere valorizzato.
In questo modo non giungiamo a conclusioni così distanti da quelle cui giunge chi adotta il paradigma negazionista. Se questi ultimi possono assumere un atteggiamento critico nei confronti di un capitalismo che riduce la vivacità e la varietà culturale e che è in qualche modo percepito (correttamente) come indebita universalizzazione di un particolare, con caratteristiche di violenza e sopraffazione, ingiustizia e criminalità (seppur abilmente mascherate), noi possiamo adeguare la medesima critica al fondamento filosofico che proponiamo di assegnarle ed affermare che un tale sistema è deplorevole in quanto agisce contro la possibilità dell’uomo di realizzare le proprie potenzialità di vita felice e di giustizia. Ma, a differenza dei «negazionisti», non si intende qui destituire il capitalismo inteso come verità universale per valorizzare le differenze e negare la verità; al contrario, si afferma che il sistema che ci domina oggi è falso (in quanto non universale e discriminante le differenze) e che occorre affermare una Verità che confligga tanto con esso quanto con qualsiasi alternativa che debba essere destinata a restare un particolare, chiuso in se stesso e portatore di una verità parziale.

Note

1 Le citazioni seguenti sono tratte dal Leviatano, nella traduzione edita da Rizzoli, Milano, 2011.
2  P. P. Portinaro, Il realismo politico, Laterza, Roma-Bari, 1999, p. 26.
3 Leviatano, XXVIII.
4 I. Kant, Sul detto comune: questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la prassi, in Id., Scritti di storia, politica e diritto, Laterza, Roma-Bari, 20098, p. 146 e p. 150.
5 Uso qui un’ espressione desunta da Foucault, su cui tornerò in seguito.
6 F. Remotti, Centri di potere. Capitali e città nell’Africa precoloniale, Trauben, Torino, 2005, p. 156.
7 Rousseau e Spinoza consideravano questa democrazia difficilmente realizzabile e tuttavia ponevano con coerenza un problema che non può essere ignorato.
8 A. MacIntyre, Giustizia e razionalità. Vol. 1. Dai greci a Tommaso d’Aquino, Anabasi, Milano, 1995, p. 98.
9 Cfr. L. Grecchi, Occidente. Radici, essenza, futuro, Il Prato, Padova 2009.
10 Cfr. F. Remotti, Cultura. Dalla complessità all’impoverimento, Laterza, Roma-Bari, 2011, p. 14.
11 D. Hume, Ricerca sui principi della morale, Laterza, Roma-Bari, 1997, p. 41.
12 E. Zola, Il romanzo sperimentale, tr. it I. Zaffagnini, in G. Baldi et al., Dal testo alla storia dalla storia al testo, vol. E, Paravia, Torino, 2000, p. 157.
13 Cfr. J.-F. Lyotard, Il postmoderno spiegato ai bambini, Feltrinelli, Milano, 1987, p. 28: «la vittoria della tecnoscienza capitalistica sugli altri candidati alla finalità universale è un altro modo di distruggere il progetto moderno con l’aria di realizzarlo».
14 Cfr. M. Sahlins, Un grosso sbaglio. L’idea occidentale di natura umana, elèuthera, Milano, 2010, p. 41.
15 Sahlins ricorda come questo pensiero “nostalgico”, che vede nella storia un declino dalla condizione originaria, fosse già presente nella mitologia greca, in riferimento alla perduta età dell’oro di Crono; aggiunge inoltre che resoconti, in epoca moderna, di simili concezioni sono giunte anche dall’America o da Tahiti. Cfr. M. Sahlins, Un grosso sbaglio, op. cit., p. 44.
16 N. Chomsky, M. Foucault, Della natura umana. Invariante biologico e potere politico, DeriveApprodi, Roma, 2005, pp. 8-11.
17 D. Marconi, Il ritorno della natura umana, in N. Chomsky, M. Foucault, Della natura, op. cit., p. 95.
18 N. Chomsky, M. Foucault, Della natura umana …, op. cit., p. 47.
19 C. Vigna, L. Grecchi, Sulla verità e sul bene, Petite Plaisance, Pistoia, 2011, p. 67.
20 N. Chomsky, M. Foucault, Della natura umana …, op. cit., p. 36.
21 M. Sahlins, Un grosso sbaglio …, op. cit., p. 100.
22  B. Ehrenreich, J. McIntosh, The New Creationism, «The Nation», 9 giugno 1997.
23 Cit. in S. Rose, Linee di vita. La biologia oltre il determinismo, Garzanti, Milano, 2001, p. 314.
24 Cit. in R. Lewontin, Il mito del DNA: le false promesse del Progetto Genoma, intervista dell’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, 1 gennaio 1992, Rai Educational, http://www.emsf.rai.it/interviste/interviste.asp?d=445. Il Progetto Genoma Umano (HGP, Human Genome Project) è stato un progetto di ricerca finanziato per 3 miliardi di dollari da Stati Uniti e alcuni paesi europei, il cui scopo, raggiunto all’inizio del terzo millennio, era quello di mappare l’intero genoma umano. Di questo progetto Lewontin fu sempre oppositore. Si veda anche R. Lewontin, Il sogno del genoma umano e altre illusioni della scienza, Laterza, Roma-Bari, 2002.
25 Celebre è l’affermazione di questo scienziato secondo la quale «noi siamo macchine per la sopravvivenza, veicoli robotici ciecamente programmati per conservare molecole egoiste note come geni». Cfr. R. Dawkins, Il gene egoista, Arnoldo Mondadori, Milano, 1995, cit. in S. Rose, Linee di vita, op. cit., p. 15. Per una sintetica esposizione delle posizioni di Dawkins e un confronto con una posizione critica, si veda B. Goodwin, R. Dawkins, What i san organism? A discussion, in N. S. Thompson, ed., Perspective in Ethology, Volume II: Behavioral Design, Plenum Press, New York, 1995, pp. 47-60, disponibile su google books oppure all’indirizzo http://www.fortunecity.com/emachines/e11/86/organism.html.
26 Con questo termine si intende ciò che va dall’intracellulare all’extracorporeo.
27 R. Lewontin, Critica al riduzionismo genetico, intervista dell’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, 2 giugno 1992, Rai Educational, http://www.emsf.rai.it/interviste/interviste.asp?d=446#torna.
28 Cfr. C. Geertz, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna 1987; cit. in F. Remotti, Cultura, op. cit.,, p. 22. Cfr. anche gli scritti di G. Pezzano editi da Petite Plaisance in questi anni.
29 M Sahlins, Un grosso sbaglio …, op. cit., p. 122.
30  F. Remotti, Cultura …, op. cit., p. 15.
31  Ivi, p. 16.
32  Ivi, p. 155.
33  Cfr. F. Remotti, Luoghi e corpi. Antropologia dello spazio del tempo e del potere, Bollati Boringhieri, Torino 1993, p. 49.
34  M. Foucault, L’ordine del discorso e altri interventi, Einaudi, Torino, 2004, p. 5.
35  Ivi, p. 9.
36  Ibidem.
37  F. Rossi-Landi, Il linguaggio come lavoro e come mercato, Bompiani, Milano, 1968.
38  A. Badiou, San Paolo. La fondazione dell’universalismo, Cronopio, Napoli, 20102.
39  D. Marconi, Per la verità. Relativismo e filosofia, Einaudi, Torino, 2007, pp. 135-138.
40  Etica Nicomachea I, 5, 1097b 11; Politica I, 2, 1253a 2
41  Metafisica Θ, 8, 1050a 7-9.
42  Metafisica Θ 6, 1048a 32.
43  Metafisica Θ, 7, 1049a 5-17.
44  Politica III, 9, 1280 b 31-35.
45  Cfr. D. Fusaro, Marx pensatore della libera individualità, «Giornale Critico di Storia delle Idee», 2009, 1, http://www.giornalecritico.it/ (url visitato 14/11/12)
46  Cfr. A. MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Armando Editore, Roma, 2007 [1981], pp. 92-93.
47 L. Grecchi, Conoscenza della felicità, Petite Plaisance,  Pistoia, 2005, p. 41.
48  Ivi, p. 44.
49  Ivi, p. 47.

Luca Grecchi – Socrate in Tv. Quando il “sapere di non sapere” diventa un alibi per il disimpegno

Socrate e la cicuta_pic

Tempo fa, un noto presentatore di quiz televisivi utilizzò, come motto del proprio programma, il seguente detto attribuito a Socrate: “Una sola cosa so: di non sapere”. Quando ripeteva questo motto – e mi hanno riferito che succedeva spesso –, la sua espressione risultava molto soddisfatta, e scrosciavano gli applausi. In effetti, il “sapere di non sapere” è molto rassicurante, poiché esime dalla responsabilità, in quanto solo chi sa deve appunto saper rispondere di ciò che ha fatto, ma soprattutto deve saper agire di conseguenza. Per utilizzare un detto popolare molto diffuso, si potrebbe dire che, in un’epoca di disimpegno come la nostra, in molti pensano che sia “beata l’ignoranza”, non la conoscenza, ossia che il non sapere dia una maggiore felicità rispetto al sapere. Un radicale rovesciamento, dunque, rispetto a quel pensiero greco classico che anche Socrate – pace per il nostro conduttore televisivo – incarnava.

Effettivamente, come gli studiosi sanno bene, più si studia e più ci si accorge che sono molte le cose che si ignorano. “L’arte è lunga (da apprendere), ma la vita è breve”, dicevano i Latini. Per porre rimedio a questa situazione ansiogena, i ricercatori universitari di pressoché tutte le discipline hanno trovato un rimedio: specializzarsi in un campo del sapere sempre più piccolo, in modo tale da poterlo padroneggiare (quasi) interamente. A questa soluzione sono giunti anche gli studiosi di filosofia, e questo nonostante la filosofia sia per definizione la scienza che si occupa dell’intero, ossia di comprendere e valutare la totalità. Questa soluzione, tuttavia, è solo apparentemente corretta. Chi infatti conosce solo una parte dell’intero, ma non conosce le altre parti, e dunque le relazioni che esse intrattengono con la propria parte, non può nemmeno dire di conoscere bene quest’ultima. Indubbiamente non si può conoscere tutto. Tuttavia la filosofia, ed in particolare la metafisica – di cui appunto Socrate, Platone ed Aristotele si occupavano –, insegna la necessità della ricerca continua per trovare risposte.

Socrate e la cicuta

L’immagine di un Socrate che si limitava a dire di “sapere di non sapere”, per quanto molto diffusa, è in effetti eccessivamente semplicistica; essa serve più che altro come alibi per dare un tono colto all’ignoranza. In effetti, per rimanere anche solo al piano logico, il sapere di non sapere implica quanto meno di sapere che cosa è il sapere, il che non è poco. Senza, comunque, troppe complicazioni, occorre ribadire chiaramente che Socrate sapeva di conoscere molte cose. Come mostra infatti il “dibattimento” avvenuto durante il processo che lo vide poi condannato a morte, e che ci è riportato da Platone, egli si dichiarò consapevole di avere fatto solo del bene agli Ateniesi stimolandoli nella ricerca della verità, e di aspettarsi pertanto di essere premiato, non punito. Come avrebbe potuto Socrate sostenere queste cose, senza una chiara consapevolezza di possedere una fondata conoscenza della verità e del bene? Se Socrate avesse realmente ritenuto di “sapere solo di non sapere”, avrebbe più coerentemente dovuto rimettersi alla decisione popolare, senza sollecitarla in una direzione o nell’altra.

Una variante colta del “sapere di non sapere” socratico è poi quella di chi ritiene – tesi diffusissima fra i docenti di filosofia – che la filosofia non ricerca risposte, ma desidera solo porre domande. Se così fosse, basterebbe porsi dei quesiti per essere buoni filosofi, indipendentemente dal fatto di sapere poi ad essi rispondere, e dunque di ricercare. Sarebbe possibile, insomma, essere filosofi senza fare troppa fatica. In realtà, anche qui opera la stessa inconscia motivazione di fondo che si è vista operare in precedenza: la risposta impegna, vincola ad agire in conformità ad essa, e pertanto viene tendenzialmente accantonata quando il suo contenuto confligge con abitudini consolidate. Tuttavia, per la propria stessa funzione, la filosofia non deve affatto limitarsi a fare domande, ma deve sempre cercare risposte vere, senza pensare ad altro. La risposta non è infatti sinonimo di dogmatismo, se si è sempre disposti a porla in discussione. Essa è anzi sinonimo di serietà ed impegno: di responsabilità appunto. Questo, almeno, sappiamo con certezza di saperlo.

                                                                                                           Luca Grecchi

Dello stesso autore nel Blog di Petite Plaisance:

A cosa non servono le “riforme” di stampo renziano e qual è la vera riforma da realizzare

Platone e il piacere: la felicità nell’era del consumismo

Cosa direbbe oggi Aristotele a un elettore (deluso) del PD

Luca Grecchi

Luca Grecchi (1972), direttore della rivista di filosofia Koinè e della collana di studi filosofici Il giogo presso la casa editrice Petite Plaisance di Pistoia, insegna Storia della Filosofia presso la Università degli Studi di Milano Bicocca. Da alcuni anni sta strutturando un sistema onto-assiologico definito “metafisica umanistica”, che vorrebbe costituire una sintesi della struttura sistematica della verità dell’essere. Esso rappresenta, nella sua opera, la base teoretica di riferimento sia per la fondazione di una progettualità sociale anticrematistica, sia per la interpretazione dei principali pensieri filosofici. Grecchi è soprattutto autore di una ampia interpretazione umanistica dell’antico pensiero greco, nonché di alcuni studi monografici su filosofi moderni e contemporanei, e di libri tematici su importanti argomenti (la metafisica, la felicità, il bene, la morte, l’Occidente). Collabora con la rivista on line Diogene Magazine e con il quotidiano on line Sicilia Journal. Ha pubblicato libri-dialogo con alcuni fra i maggiori filosofi italiani, quali Enrico Berti, Umberto Galimberti, Costanzo Preve, Carmelo Vigna.

Libri di Luca Grecchi

Cliccando

L’anima umana come fondamento della verità (2002) è il primo libro di Grecchi, che pone, in maniera stilizzata, il sistema metafisico umanistico su cui sono poi strutturati i suoi libri successivi. La tesi centrale di questo libro è appunto che l’anima umana, intesa come la natura razionale e morale dell’uomo, è il fondamento onto-assiologico della verità dell’essere. Questo sistema metafisico costituisce la base per una analisi critica della attuale totalità sociale, e per una progettualità comunitaria finalizzata alla realizzazione di un modo di produzione sociale conforme alle esigenze della natura umana.

Karl Marx nel sentiero della verità (2003) costituisce una interpretazione metafisico-umanistica del pensiero di Marx, che viene analizzato nei suoi nodi essenziali, spesso in aperta critica con la secolare tradizione marxista. Nato originariamente come elaborazione degli studi di economia politica dell’autore compiuti negli anni novanta del Novecento, il testo assume carattere filosofico-politico. Marx è analizzato come il pensatore moderno che, rifacendosi implicitamente al pensiero greco, realizza la migliore critica al modo di produzione capitalistico, pur non elaborando – per carenza di fondazione filosofica – un adeguato discorso progettuale.

Verità e dialettica. La dialettica di Hegel e la teoria di Marx costituisce in un certo senso una integrazione del precedente Karl Marx nel sentiero della verità. Il testo effettua una sintesi originale, appunto, sia della dialettica di Hegel che della teoria di Marx. Pur riconoscendo l’influenza del pensiero di Hegel nelle opere del Marx maturo, Grecchi propone la tesi che il pensiero di Marx, strutturatosi nei suoi punti cardinali prima del suo studio attento ed approfondito della Scienza della Logica, sia nella sua essenza non dialettico. Una versione sintetica di questo libro è stata pubblicata sulla rivista Il Protagora nel 2007.

La verità umana nel pensiero religioso di Sergio Quinzio (2004) con introduzione di Franco Toscani, è una sintesi monografica sul pensiero del grande teologo scomparso nel 1996. Il testo presenta al proprio interno una analisi del pensiero ebraico e cristiano, unita ad una rilettura poetica ed umanistica del testo biblico. Il tema centrale è quello della morte, e della speranza nella resurrezione su cui Quinzio ripetutamente riflette, e che vede continuamente delusa. Al di là dei riferimenti religiosi, la riflessione del teologo si presta ad una profonda considerazione sulla fragilità della vita umana.

Nel pensiero filosofico di Emanuele Severino (2005) con introduzione di Alberto Giovanni Biuso, è una sintesi monografica sul pensiero del grande filosofo italiano. Il testo presenta al proprio interno una analisi critica del nucleo essenziale della ontologia di Severino e delle sue analisi storico-filosofiche e politiche. Esiste uno scambio di lettere fra Severino e Grecchi in cui il filosofo bresciano mostra la sua netta contrarietà alla interpretazione ricevuta. Il testo, tuttavia, è segnalato nella Enciclopedia filosofica Bompiani come uno dei libri di riferimento per la interpretazione del pensiero severiniano.

Il necessario fondamento umanistico della metafisica (2005) è un breve saggio in cui, prendendo come riferimento la metafisica classica (ed in particolare le posizioni di Carmelo Vigna), l’autore critica la centralità dell’approccio logico-fenomenologico rispetto al tema della verità, ritenendo necessario anche l’approccio onto-assiologico. Per Grecchi infatti la verità consiste non solo nella descrizione corretta di come la realtà è, ma anche di come essa – la parte che può modificarsi – deve essere per conformarsi alla natura umana. Si tratta del primo confronto esplicito fra la proposta di Grecchi della metafisica umanistica e la metafisica classica di matrice aristotelico-tomista.

Filosofia e biografia (2005) è un libro-dialogo composto con uno dei maggiori filosofi italiani, Umberto Galimberti. Nel testo si ripercorre il pensiero galimbertiano nei suoi contenuti essenziali, ma si pone in essere anche una serrata analisi di molti temi filosofici, politici e sociali, in cui spesso emerge una sostanziale differenza di posizioni fra i due autori. Di particolare interesse le pagine dedicate al pensiero simbolico, all’analisi della società, ed alla interpretazione dell’opera di Emanuele Severino. Percorre il testo la tesi per cui la genesi di un pensiero filosofico deve necessariamente essere indagata, per giungere alla piena comprensione dell’opera di un autore.

Il pensiero filosofico di Umberto Galimberti (2005), con introduzione di Carmelo Vigna, è un testo monografico completo sul pensiero di questo importante filosofo contemporaneo. Si tratta di un testo in cui Grecchi, sintetizzando la complessa opera di questo autore, prende al contempo posizione non solo nei confronti della medesima, ma anche di filosofi quali Nietzsche, Heidegger, Jaspers, che nel pensiero di Galimberti costituiscono riferimento imprescindibili. Vigna, nella sua introduzione, ha definito il libro «una ricostruzione seria ed attendibile del pensiero del filosofo» in esame.

Conoscenza della felicità (2005), con introduzione di Mario Vegetti, è uno dei testi principali di Grecchi, in cui l’autore applica il proprio approccio classico umanistico alla società attuale, mostrando come essa si ponga in radicale opposizione alle possibilità di felicità. L’autore, seguendo la matrice onto-assiologica del pensiero greco, mostra che solo conoscendo che cosa è l’uomo risulta possibile conoscere cosa è la felicità. Scrive Vegetti, nel testo, che Grecchi è «pensatore a suo modo classico», per il suo «andar diritto verso il cuore dei problemi». Il libro è assunto come riferimento bibliografico, per il tema in oggetto, dalla Enciclopedia filosofica Bompiani. .

Marx e gli antichi Greci (2006) è un libro-dialogo composto con uno dei maggiori filosofi italiani, Costanzo Preve. Nel testo viene effettuata una analisi non tanto filologica, quanto ermeneutica e teoretica dei rapporti del pensiero di Marx col pensiero greco. I due autori, concordando su molti punti, colmano così in parte una lacuna della pubblicistica su questo tema, che risulta essere stato nel tempo assai poco indagato. Di particolare interesse l’analisi effettuata dai due autori di quale potrebbe essere, sulla base insieme del pensiero dei Greci e di Marx, il miglior modo di produzione sociale alternativo rispetto a quello attuale.

Vivere o morire. Dialogo sul senso dell’esistenza fra Platone e Nietzsche (2006), con introduzione di Enrico Berti, è un saggio composto ponendo in ideale dialogo Platone e Nietzsche su importanti temi filosofici, politico e morali: l’amore, la morte, la metafisica, la vita ed altro ancora. Scrive Berti, nella sua introduzione, che, come accadeva nel genere letterario antico dell’invenzione, Grecchi non nasconde lo scopo “politico” della sua opera, la quale «risulta essere innanzitutto un documento significativo di amore per la filosofia e di vitalità di quest’ultima, in un momento in cui l’epoca della filosofia sembrava conclusa».  

Il filosofo e la politica. I consigli di Platone, e dei classici Greci, per la vita politica (2006) è una ricostruzione del pensiero filosofico-politico di Platone effettuata in un continuo confronto con le vicende della attualità. In questo libro Grecchi pone esplicitamente Platone, in maniera insieme divulgativa ed originale, come proprio pensatore di riferimento. Il filosofo ateniese infatti, a suo avviso, pur scrivendo molti secoli or sono, rimane tuttora colui che ha offerto le migliori analisi, e le migliori soluzioni, per pensare una migliore totalità sociale, ossia un ambiente comunitario adatto alla buona vita dell’uomo.

La filosofia politica di Eschilo. Il pensiero “filosofico-politico” del più grande tragediografo greco (2007) costituisce una interpretazione, in chiave appunto filosofico-politica, dell’opera di Eschilo. Lo scopo principale di questo libro è quello di “togliere” Eschilo dallo specialismo degli studi poetico-letterari, per inserirlo – come si dovrebbe fare per tutti i tragici greci – nell’ambito del pensiero filosofico-politico. Nel testo viene presa in carico l’analisi precedentemente svolta da Emanuele Severino ne Il giogo (1988), ritenendone validi molti aspetti ma giungendo, alla fine, a conclusioni opposte circa il presunto “nichilismo” di Eschilo.

Il presente della filosofia italiana (2007) è un libro in cui vengono analizzati testi di alcuni fra i più importanti filosofi italiani contemporanei pubblicati dopo il 2000. Gli autori analizzati vengono ripartiti in quattro categorie: 1) pensatori “ermeneutici-simbolici” (Sini, Vattimo, Cacciari, Natoli); 2) pensatori “scientifici-razionalisti” (Tarca, Antiseri, Giorello); 3) pensatori “marxisti-radicali” (Preve, Losurdo); 4) pensatori “metafisici-teologici” (Reale). Il testo è arricchito da due appendici e da una ampia postfazione di Costanzo Preve. In questi testi Grecchi oppone criticamente, ai vari approcci, il proprio discorso metafisico-umanistico.

Corrispondenze di metafisica umanistica (2007) è una raccolta di testi in cui sono contenuti scambi epistolari, nonché risposte di Grecchi ad introduzioni e recensioni di suoi libri. Il testo rispecchia la tendenza dell’autore a prendere sempre seriamente in carico le altrui posizioni; secondo Grecchi, infatti, di fronte a critiche intelligenti, sono solo due gli atteggiamenti filosofici possibili: o fornire argomentate risposte, o prendere atto della correttezza delle critiche e rivedere le proprie posizioni. Il tema caratterizzante il testo è dunque la “lotta amichevole” per la emersione della verità.

L’umanesimo della antica filosofia greca (2007) è un libro in cui Grecchi effettua, in sintesi, la propria interpretazione complessiva della Grecità. Partendo da Omero, e giungendo fino al pensiero ellenistico, l’autore mostra come non la natura, né il divino, né l’essere furono i temi principali del pensiero greco, bensì l’uomo, soprattutto nella sua dimensione politico-sociale. L’uomo infatti assume centralità, in vario modo, in tutti i vari filoni culturali della Grecità, dal pensiero omerico a quello presocratico, dal teatro fino all’ellenismo.

L’umanesimo di Platone (2007) è un testo monografico sul pensiero di Platone, da Grecchi in quegli anni ritenuto come il più rappresentativo della Grecità. Ponendo in essere una analisi complessiva delle diverse interpretazioni finora effettuate del pensiero platonico, Grecchi applica al medesimo il proprio paradigma ermeneutico metafisico-umanistico, cogliendo in Platone la centralità del ruolo filosofico-politico dell’uomo, ed insieme la centralità della posizione anti-crematistica, all’interno di una considerazione progettuale e della totalità sociale.

L’umanesimo di Aristotele (2008) è un testo monografico sul pensiero di Aristotele, che sarà poi da Grecchi ripreso negli anni successivi come struttura teoretica di riferimento. Ponendo in essere una analisi complessiva delle diverse tematiche del pensiero aristotelico, Grecchi applica al medesimo il proprio paradigma ermeneutico metafisico-umanistico, cogliendo in Aristotele – così come in Platone, ma in forma differente – la centralità del ruolo filosofico-politico dell’uomo, ed insieme la centralità della posizione anti-crematistica, all’interno di una considerazione progettuale della totalità sociale.

Chi fu il primo filosofo? E dunque: cos’è la filosofia? (2008), con introduzione di Giovanni Casertano, è un libro suddiviso in due parti. Nella prima parte, prendendo come riferimento alcuni fra i principali manuali di storia della filosofia italiani, Grecchi mostra come essi spesso non definiscano l’oggetto del loro studio, ossia la filosofia, dichiarandola talvolta addirittura indefinibile. L’autore, invece, offre in questo libro la propria definizione di filosofia come caratterizzata da due contenuti imprescindibili: a) la centralità dell’uomo; b) la ricerca, il più possibile fondata ed argomentata, della verità dell’intero. Nella seconda parte l’autore esamina dieci possibilità alternative su “chi fu il primo filosofo”, giungendo a concludere che, pur all’interno del contesto comunitario della riflessione greca, il candidato più accreditato risulta essere Socrate.

Socrate. Discorso su Le Nuvole di Aristofane (2008) è una ricostruzione di fantasia, pubblicata nella collana Autentici falsi d’autore dell’editore Guida, di un discorso che avrebbe potuto essere tenuto da Socrate ad Atene l’indomani della rappresentazione della famosa commedia di Aristofane. Si tratta, come è nello stile della collana, di una ricostruzione al contempo verosimile e spiritosa, in cui Grecchi coglie l’occasione per offrire la propria interpretazione, insieme umanistica ed anticrematistica, del pensiero socratico. Tale interpretazione risulta convergente con quelle offerte, nella medesima collana, da Mario Vegetti su Platone e da Enrico Berti su Aristotele.

Occidente: radici, essenza, futuro (2009), con introduzione di Diego Fusaro, è un testo in cui l’autore analizza il concetto di Occidente e le sue tradizioni culturali costitutive, sempre in base al proprio sistema metafisico-umanistico. Analizzando le radici greche, ebraiche, cristiane, romane e moderne, ma soprattutto l’attuale contesto storico-sociale, Grecchi coglie nella prevaricazione derivante dalla smodata ricerca crematistica l’essenza dell’Occidente, ed individua per lo stesso un futuro cupo. Il testo è arricchito dal dialogo con Fusaro, alla cui introduzione Grecchi risponde in una appendice finale.

Il filosofo e la vita. I consigli di Platone, e dei classici Greci, per la buona vita (2009), è una raccolta di brevi saggi in cui l’autore, prendendo spunto da alcuni passi del pensiero platonico, e più in generale del pensiero greco classico, affronta sinteticamente alcune tematiche centrali per la vita umana (l’amore, la famiglia, la filosofia, la storia, le leggi, la democrazia, l’educazione, l’università, la mafia, la libertà, ecc.), col consueto approccio attualizzante, ovvero facendo interagire – nel rispetto del contesto storico-sociale dell’epoca in cui tale pensiero nacque – il pensiero platonico col nostro tempo. Il libro è arricchito da un lungo saggio finale di Costanzo Preve, intitolato “Luca Grecchi interprete dei filosofi classici Greci” (con risposta), in cui il filosofo torinese sintetizza le posizioni dell’autore.

L’umanesimo della antica filosofia cinese (2009) costituisce il primo volume di una trilogia sull’umanesimo dell’antico pensiero orientale (l’unica nel nostro paese effettuata da un solo autore). Il libro parte dalla constatazione che l’Oriente risulta essere pressoché assente dalle principali storie della filosofia occidentali. Tuttavia, in base alla definizione di filosofia fornita dall’autore, l’antico pensiero cinese risulta possedere, nei contenuti e talvolta anche nei metodi, caratteristiche tali da non poter essere considerato pregiudizialmente assente dal quadro filosofico. Non si tratta, comunque, di un manuale di storia della filosofia cinese, ma di una interpretazione umanistica dei principali contenuti costitutivi dell’antico pensiero cinese.

L’umanesimo della antica filosofia indiana (2009) costituisce il secondo volume di una trilogia sull’umanesimo dell’antico pensiero orientale. Il libro parte dalla constatazione che l’Oriente risulta essere pressoché assente dalle principali storie della filosofia occidentali. Tuttavia, in base alla definizione di filosofia fornita dall’autore, l’antico pensiero indiano risulta possedere, nei contenuti e talvolta anche nei metodi, caratteristiche tali da non poter essere considerato pregiudizialmente assente dal quadro filosofico. Non si tratta, comunque, di un manuale di storia della filosofia indiana, ma di una interpretazione umanistica dei principali contenuti costitutivi dell’antico pensiero indiano.

L’umanesimo della antica filosofia islamica (2009) costituisce il terzo volume di una trilogia sull’umanesimo dell’antico pensiero orientale. Il libro parte dalla constatazione che l’Oriente risulta essere pressoché assente dalle principali storie della filosofia occidentali. Tuttavia, in base alla definizione di filosofia fornita dall’autore, l’antico pensiero islamico risulta possedere, nei contenuti e talvolta anche nei metodi, caratteristiche tali da non poter essere considerato pregiudizialmente assente dal quadro filosofico. Non si tratta, comunque, di un manuale di storia della filosofia islamica, ma di una interpretazione umanistica dei principali contenuti costitutivi dell’antico pensiero islamico.

A partire dai filosofi antichi (2010), con introduzione di Carmelo Vigna, è un libro-dialogo composto con uno dei maggiori filosofi italiani, Enrico Berti. In questo testo viene ripercorsa l’intera storia della filosofia, apportando interpretazioni originali non soltanto – anche se soprattutto – dei principali filosofi antichi, ma anche di quelli moderni e contemporanei. Non mancano inoltre considerazioni su temi di attualità, nonché su temi di interesse generale, quali l’educazione, la scuola e la politica. Scrive Vigna, nella introduzione, che «questo testo è tra le cose più interessanti che si possano leggere oggi nel panorama della filosofia italiana».

L’umanesimo di Plotino (2010) è un libro in cui l’autore colma una distanza temporale fra il periodo classico ed il periodo ellenistico della Roma imperiale. Il testo si divide in due parti. Nella prima, in ossequio alla tesi per cui ogni pensiero filosofico deve essere inserito all’interno del proprio contesto storico-sociale (anche in quanto è all’interno del medesimo che esso spesso “deduce” le proprie categorie), l’autore realizza una analisi del modo di produzione sociale greco e di quello romano, per tracciare alcune differenze importanti fra l’epoca classica e l’epoca ellenistica. Nella seconda parte, che è la più ampia, è invece analizzato, in base alle dieci tematiche ritenute centrali, il pensiero di Plotino.

Perché non possiamo non dirci Greci (2010) è un libro in cui l’autore sintetizza, in termini divulgativi, le proprie posizioni generali sui Greci. Il testo prende spunto dalla rilettura, in controluce, del classico di Benedetto Croce intitolato Perché non possiamo non dirci cristiani, per mostrare non solo come le radici greche siano almeno altrettanto importanti di quelle cristiane per la cultura europea, ma soprattutto che una loro ripresa sarebbe fortemente auspicabile. Il testo è completato da una ampia appendice inedita che costituisce una analisi critica del pensiero ellenistico (in rapporto a quello classico) incentrata sulle opere di Epicuro e di Luciano di Samosata.

La filosofia della storia nella Grecia classica (2010) è il testo ermeneutico forse più originale di Grecchi. Alla cultura greca si attribuisce infatti, solitamente, la nascita dei tronchi di pressoché tutte le discipline filosofiche e scientifiche tuttora studiate nella modernità (con varie ramificazioni). Tradizionalmente, tuttavia, la filosofia della storia è ritenuta essere disciplina moderna, senza precedenti antichi. Analizzando l’opera di storici, letterati e filosofi dell’epoca preclassica e classica, l’autore mostra invece le radici antiche anche di questo campo di studi, contribuendo ad un chiarimento teoretico della disciplina stessa.

Sulla verità e sul bene (2011), con introduzione di Enrico Berti e postfazione di Costanzo Preve, è un libro-dialogo con uno dei maggiori filosofi italiani, Carmelo Vigna. In questo testo viene ripercorsa l’intera storia della filosofia, insieme agli importanti temi teoretici ed etici che danno il titolo al volume. Scrive Berti, nella introduzione, che si tratta di «una serie di discussioni oltremodo interessanti tra due filosofi che sono divisi da due diverse, anzi opposte, concezioni della metafisica, ma sono accomunati dalla considerazione per la filosofia classica e soprattutto da un grande amore per la filosofia in sé stessa».

Gli stranieri nella Grecia classica (2011) è un libro in cui l’autore, prendendo distanza dalle interpretazioni tradizionali che caratterizzano gli antichi Greci come vicini alla xenofobia, mostra che, sin dall’epoca omerica, essi furono invece aperti all’ospitalità verso gli stranieri. Preceduto da una analisi anti-ideologica delle categorie di “razza”, “etnia”, “multiculturalismo” ed altre, Grecchi rimarca come sia stato centrale, nel pensiero greco classico, il concetto di “natura umana”, il quale possiede basi teoretiche salde ed una costante presenza nella riflessione greca, che l’autore appunto caratterizza come “umanistica”.

Diritto e proprietà nella Grecia classica (2011) è un libro in cui l’autore prende in carico i temi poco indagati del diritto e della proprietà nella antica Grecia. Si tratta di temi molto importanti per comprendere il contesto storico-sociale in cui nacque la cultura greca, e che pertanto non possono essere ignorati da chi studia la filosofia di questo periodo. Il testo sviluppa inoltre un confronto con il diritto romano – che si rivela assai meno comunitario di quello greco – e con il nostro tempo, per mostrare come la cultura greca possieda, anche sul piano giuridico, contenuti che sarebbero tuttora importanti da applicare.

L’umanesimo di Omero (2012) è un libro in cui l’autore effettua una analisi teoretica ed etica del pensiero omerico, inserendo l’antico poeta nel novero del pensiero filosofico, rompendo il tradizionale isolamento nel campo letterario che da secoli caratterizza questo autore. Grecchi insiste in particolare sul carattere di educazione filosofica dei poemi omerici, mostrando come essi abbozzino temi ontologici e soprattutto assiologici poi elaborati dalla intera riflessione classica. Il testo si distingue per il continuo aggancio dei miti omerici alla contemporaneità.

L’umanesimo politico dei “Presocratici” (2012) è un libro in cui l’autore, centralizzando il carattere politico-sociale del loro pensiero, prende distanza dalle interpretazioni tradizionali che caratterizzano questi pensatori come “naturalisti”, e che li separano sia dalla poesia e dal teatro precedenti, sia dalla filosofia e dalla scienza successive. L’autore, facendo riferimento agli studi di Mondolfo, Capizzi, Bontempelli e soprattutto Preve, mostra il nesso di continuità del pensiero presocratico con l’intero pensiero greco classico. Risultano centrali, in questa trattazione, le figure di Solone e Clistene, oltre a quelle più consuete di Eraclito, Parmenide e Pitagora.

Il presente della filosofia nel mondo (2012), con postfazione di Giacomo Pezzano, è un libro in cui vengono analizzati testi di alcuni fra i maggiori filosofi contemporanei non italiani (fra gli altri Bauman, Habermas, Hobsbawm, Latouche, Nussbaum, Onfray, Zizek). Nella introduzione si rileva, come caratteristica principale della filosofia del nostro tempo, la presenza in solidarietà antitetico-polare di una corrente scientifico-razionalistica ed, al contempo, di una corrente aurorale-simbolica. Esse occupano il centro della scena escludendo dal “campo di gioco” la filosofia onto-assiologica di matrice classica, presente oramai solo in un numero limitato di studiosi.

Il pensiero filosofico di Enrico Berti (2013), con presentazione di Carmelo Vigna e postfazione di Enrico Berti, è un testo monografico introduttivo sul pensiero di questo importante filosofo contemporaneo, uno dei maggiori studiosi mondiali del pensiero di Aristotele. Rapportandosi a tematiche quali l’interpretazione degli antichi, la storia della filosofia, l’educazione, l’etica, la politica, la metafisica, la religione, Grecchi non si limita a descrivere il pensiero dell’autore considerato ma, come è nel suo approccio, valuta; in maniera solitamente concorde, eppure talvolta anche critica, in particolare nella opposizione fra metafisica classica e metafisica umanistica.

Il necessario fondamento umanistico del “comunismo” (2013) è un libro scritto a quattro mani con Carmine Fiorillo, in cui gli autori mostrano come la diffusa critica (marxista e non) al modo di produzione capitalistico, priva di una fondata progettualità, risulti sterile ed inefficace. Assumendo come base principalmente il pensiero greco classico (ma anche le componenti umanistiche di altri orizzonti culturali), gli autori mostrano che solo mediante una solida fondazione filosofica è possibile favorire la progettualità di un ideale modo di produzione sociale in cui vivere, che gli autori appunto definiscono – ma differenziandosi fortemente dalla tradizione marxista – “comunismo”.

Perché, nelle aule universitarie di filosofia, non si fa (quasi) più filosofia (2013) è un pamphlet in cui si mostra che le attuali modalità accademiche di insegnamento della filosofia, incentrate sullo specialismo, non ripropongono più il modello greco classico della filosofia come ricerca fondata ed argomentata della verità onto-assiologica dell’intero, che Grecchi assume invece ancora come centrale. L’autore mostra come la causa principale di questa situazione sia attribuibile ai processi socio-culturali del modo di produzione capitalistico.

La musa metafisica. Lettere su filosofia e università (2013), con Giovanni Stelli, costituisce uno scambio epistolare nato dal commento di Stelli al pamphlet Perché, nelle aule universitarie di filosofia, non si fa (quasi) più filosofia. A partire da questo tema lo scambio ha assunto una rilevanza ed una ampiezza tale, estendendosi a contenuti storici, culturali e politici, da renderne di qualche utilità la pubblicazione. In esso Grecchi anticipa alcuni temi portanti del suo testo che sarà intitolato Metafisica umanistica. La struttura sistematica della verità dell’essere, cui sta lavorando dal 2003.

Discorsi di filosofia antica (2014) è un libro che raccoglie i testi del corso di lezioni sull’uomo nella cultura greca, da Omero all’ellenismo, tenuto dall’autore alla università degli studi di Milano Bicocca nel 2013. Esso accoglie inoltre i testi di alcune conferenze sul pensiero antico svolte dall’autore nel 2013 e 2014, ed in particolare, in appendice, un saggio inedito sulla alienazione nella antica Grecia. Quest’ultimo è un tema poco indagato in quanto mancano, alla mentalità filologica – poco teoretica – tipica del mondo accademico di oggi, i necessari riferimenti testuali (i Greci non avevano nemmeno la parola “alienazione”); questo saggio tuttavia può aprire un filone di ricerca su una tematica tuttora inesplorata.

Omero tra padre e figlia (2014) è un libro-dialogo con Benedetta Grecchi, figlia di 6 anni dell’autore, sulle vicende di Odisseo narrate appunto nella Odissea di Omero. Il testo costituisce – come recita il sottotitolo – una “piccola introduzione alla filosofia”, passando attraverso i contenuti educativi dell’opera omerica già delineati dall’autore nel libro L’umanesimo di Omero. Questo dialogo tra padre e figlia mostra come la filosofia possa passare anche ai bambini evitando, da un lato, di essere ridotta a “gioco logico”, e dal lato opposto di essere presentata come “chiacchiera inconcludente”.

Discorsi sul bene (2015) è un libro che raccoglie i testi del corso di lezioni sul Bene tenuto dall’autore alla università degli studi di Milano Bicocca nel 2014. In appendice sono aggiunte una intervista filosofica e due relazioni su temi etico-politici. Il testo si rivela importante in quanto, all’interno di un approccio aristotelico – in cui in sostanza il Bene è il fine verso cui ogni ente, per natura, tende –, Grecchi indica nel rispetto e nella cura dell’uomo (e del cosmo: gli elementi portanti del suo Umanesimo) i contenuti fondamentali del Bene.

Discorsi sulla morte (2015) è un libro che raccoglie i testi del corso di lezioni tenuto dall’autore alla università degli studi di Milano Bicocca nel 2015. L’autore, delineando le principali concezioni della morte presenti nella storia della filosofia, con particolare riferimento agli antichi Greci ed a Giacomo Leopardi, mostra come la rimozione di questo tema costituisca una delle principali concause di alcune psicopatologie del nostro tempo.

L’umanesimo della cultura medievale (2016) è un libro che raccoglie i contenuti umanistici del pensiero medievale. Rispetto alle interpretazioni tradizionali, ancora caratterizzate da una descrizione del Medioevo come età oscura, questo testo mostra il carattere umanistico in particolare della Scolastica aristotelica. Rispetto ai consueti autori di riferimento, ossia Agostino e Tommaso, particolare importanza è attribuita in questo volume a due autori del XIII secolo, Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia (solitamente poco considerati), nonché alle ripetute condanne ecclesiastico-accademiche dell’aristotelismo che ebbero il loro punto culminante nel 1277.

L’umanesimo della cultura rinascimentale (2016) è un libro che critica la tradizionale interpretazione umanistica del pensiero rinascimentale del XIV e XV secolo. Rispetto, infatti, alla vulgata comune, che ritiene centrale in questo periodo la riscoperta filologica ed ermeneutica dei testi di Platone e di altri autori antichi, Grecchi reputa centrale la filocrematistica, e dunque la rottura – operata da modalità sociali sempre più privatistiche e mercificate, cui la cultura dell’epoca si adeguò – del legame sociale comunitario proprio dell’epoca medievale. Il Rinascimento costituì dunque, a suo avviso, la prima apertura culturale verso la modernità capitalistica.

In preparazione:

Umanesimo ed antiumanesimo nella filosofia moderna (e contemporanea);

L’umanesimo greco-classico di Spinoza;

Il sistema filosofico di Aristotele;

Metafisica umanistica. La struttura sistematica della verità dell’essere.

 

Costanzo Preve – Questioni di filosofia, di verità, di storia, di comunità. INTERVISTA A COSTANZO PREVE a cura di Saša Hrnjez

Paul Klee, Ritmi rosso, verde e viola giallo, 1920

La fine della filosofia, Heidegger, paradigma dello spazio e temporalità storica

SAŠA HRNJEZ: Comincerei da un tema abbastanza trattato nel corso del Novecento. È il tema della “fine della filosofia”. Basta pensare a Heidegger, ma non solo. Mi interessa come ti rapporti con questo problema. Ed inoltre pongo la questione della autocontraddizione dell’annuncio filosofico della fine della filosofia, in quanto questa stessa affermazione rimane ancora nell’orizzonte della filosofia. É la questione che lateralmente apre un altro problema: il problema dell’autoriflessione della filosofia stessa.
COSTANZO PREVE: In primo luogo io penso che Heidegger non possa essere ridotto all’annunciatore della fine della filosofia. Più esattamente lui è un annunciatore della fine della metafisica che egli ritiene risolta integralmente nella tecnica planetaria, perché il termine tedesco Gestell vuol dire dispositivo anonimo ed impersonale. Perciò, quello che Heidegger dice è una proposta di fine della metafisica. Questa proposta è autocontraddittoria, non c’è alcun dubbio, nel senso che per poter annunciare la fine della filosofia bisogna filosofare. La teoria della fine della filosofia o della fine della storia o della società è un’autoriflessione filosofica pessimistica dell’umanità su se stessa. E perciò io la respingo immediatamente. Piuttosto voglio riflettere sul fatto che l’annuncio della morte della metafisica è dovuto, secondo me, a due componenti fondamentali. In primo luogo una lettura errata, distorta dell’antichità greca. Siccome Heidegger non è in grado di compiere una deduzione sociale delle categorie della filosofia greca e della sua nascita come risposta della comunità di fronte al pericolo della sua dissoluzione a causa del denaro, del potere, della tirannia e della crematistica, allora, dato appunto che non è in grado di capire ciò, da solo poi si infila in un distinzione fittizia tra aletheia e orthotes intesa come corretto rispecchiamento, distinzione che secondo me è completamente sbagliata. Perché l’orthotes pitagorico-platonica era un modo dei greci antichi per arrivare al disvelamento, cioè all’aletheia. Perciò devo respingere completamente questa diagnosi di Heidegger.
Poi c’è un secondo aspetto: Heidegger registra nel sofisticato e rarefatto linguaggio della filosofia l’impressione di immodificabilità del mondo, che è evidentemente un’impressione che avviluppa molti filosofi intorno agli anni Trenta, Quaranta, Cinquanta, e Sessanta. In un certo senso Adorno, anche se è un filosofo molto diverso da Heidegger, dice le stesse cose in una forma di pessimismo radicale che lui esprime nel linguaggio della dialettica negativa. Gli stessi filosofi marxisti, come il gruppo iugoslavo di Praxis (di cui ho conoscituo Gajo Petrović e Mihajlo Marković), poi Bloch, Lukács, francesi come Althusser e così via, mantengono invece una sorta di speranza di trasformazione socialista del mondo. Ma la mantengono sullo sfondo, come se non ci credessero neanche loro molto. Lukács parla di prospettiva, Bloch parla di utopia, Karel Kosík parla di distruzione della pseudoconcretezza. Però è come se tutti loro – arrivati alla svolta degli anni Sessanta e Settanta (prima che ci fosse ancora il postmoderno, che ha in un certo senso consacrato l’idea dell’immodificabilità del mondo) – quasi avessero smesso di credere a questa modificabilità. Perciò il successo di Heidegger nelle comunità universitarie europee, a mio parere, non è altro che la trascrizione filosofica sofisticata di questo senso d’impotenza sociale generale.

S H: Infatti ciò a cui volevo arrivare con la mia domanda sulla fine della filosofia è proprio questo che hai indicato. A mio parere c’è una connessione più profonda tra l’affermazione della fine della filosofia, un’affermazione filosofica auto-negante, e un’altra affermazione, quella ideologica di Fukuyama sulla fine della storia. Interessante è notare che queste due posizioni teoriche emergano in un periodo dominato dal paradigma dello spazio (lo dice esplicitamente Foucault nel suo saggio Spazi altri, ma si trova anche in Deleuze-Guattari e recentemente in Sloterdijk, etc). Allora, da una parte lo spazio secondo Sloterdijk diventa saturato, senza distanza e privo di estensione e d’altra parte abbiamo un esaurimento della temporalità storica. Una diagnosi perspicace oppure un altro indicatore dell’impotenza politico-sociale?
PREVE: Il rapporto fra spazio e tempo sostanzialmente ha come origine moderna il 1700. Ma è noto che il problema dello spazio e del tempo non nasce nel 1700 ma percorre tutta l’antichità greca e il cristianesimo: lo spazio inteso come (diceva Newton) il sensorium Dei; o lo spazio per i greci (che non erano monoteisti) che era chiamato hora, cioè il luogo in cui semplicemente si organizzava la materia; oppure lo spazio inteso come creazione divina, e che dunque era il teatro della sua creazione. Nel 1700 le cose cambiano radicalmente: la borghesia capitalista in formazione deve intervenire simbolicamente sia nel tempo che nello spazio. Per quello che riguarda l’intervento nello spazio nasce il moderno materialismo che non ha nessun carattere proletario, operaio, socialista e scientifico, ma rappresenta un’unificazione simbolica dello spazio alto e basso all’interno del quale possa circolare la merce capitalistica, togliendo la divinità che stava in alto e qualunque sovranità sull’economia. Per quello che riguarda il tempo: il tempo è unificato sotto la categoria di progresso, e come tutti sanno è l’ideologia fondamentale del Settecento borghese destinata ad essere ereditata completamente dal marxismo, e non soltanto dal pensiero di Marx, ed anche di più dal marxismo successivo. Personalmente non sono sicuro che noi siamo di fronte a un problema di saturazione dello spazio, come diceva la scuola francese. Io sposterei un po’ il problema seguendo il marxista britannico David Harvey, ultimamente autore di un libro che si chiama The Enigma of Capital. Harvey sostiene che ci sia oggi una prevalenza dello spazio sul tempo, dovuto al fatto che da un lato il mondo borghese ha abbandonato completamente il mito del progresso, mantenendone soltanto una superficie tecnologica e retorica; e d’altro lato, la globalizzazione – che fa diventare l’intero mondo una sorta di territorio liscio per lo scorrimento della merce e dei capitali – porta automaticamente a una prevalenza dello spazio sul tempo. Propendo a ritenere valida una sorta di combinazione di due diagnosi, quella di Jameson e l’altra di Harvey. Jameson ha detto che il postmoderno è l’epoca della produzione flessibile e secondo me ha ragione. Harvey parla di dominio dello spazio sul tempo con lo sbaraccamento dell’ideologia del progresso e con l’enfasi sulla globalizzazione spaziale del mondo come luogo di possibilità infinite.

SH: E non è che il compito filosofico di oggi sarebbe proprio di re-introddure nella filosofia una concezione del tempo alternativa e una prospettiva della temporalità storica?
PREVE: Con questa domanda tu stesso hai suggerito il modo migliore per arrivare alla risposta, perché Hegel non è affatto un cane morto, ma è un autore ancora attuale, anzi, più che mai attuale. In Hegel infatti al centro del problema è il riconoscimento della coscienza, della presa di coscienza progressiva che diventa l’autocoscienza, che avviene ovviamente all’interno di uno spazio e di un tempo in cui il soggetto manifesta, diciamo così, le sue richieste, i suoi bisogni, i suoi progetti. Questo vuol dire innanzitutto escludere che in Hegel ci sia una teoria della fine della storia. È un equivoco, secondo me, espresso in buona fede dal francese Alexandre Kojeve, ma è errato, profondamente errato. E poi viene ripreso ridicolmente da Fukuyama come teoria apologetica del secolo americano. Ma Fukuyama è un funzionario del Dipartimento di Stato come quelli che fanno bombardamenti sull’Afghanistan. Non è una cosa seria. Io parlo di Kojeve che invece è una persona seria. Secondo me in Kojeve c’è un fraintendimento gravissimo, perché quella che era una diagnosi di Hegel è stata fatta nel 1820, una diagnosi situata, congiunturale. Hegel aveva maturato la opinione secondo cui il tempo storico che stava vivendo era un tempo ricco di possibilità, in cui lo spirito si era determinato. Il concetto di Bestimmung è qui fondamentale. Perché Hegel, come è noto, polemizza continuamente contro il cattivo infinito di Kant e contro l’idea di Fichte secondo cui noi staremmo vivendo nell’epoca della compiuta peccaminosità. Siccome Hegel non può accettare la diagnosi dell’epoca della compiuta peccaminosità, che poi viene ripresa dagli intellettuali marxisti del Novecento – ovviamente in forma diversa (Bloch, Lukács, Althusser …) –, egli vuole contrapporsi a quelli che lui chiama i vecchi conservatori di Metternich, all’economia politica inglese che lui chiama «uno stato civile senza metafisica», e si contrappone anche a Rousseau e a Robespierre in base a quello che lui chiama «furia del dileguare».
Come tu sai Hegel nega il contratto sociale, ma lo nega non perché neghi gli elementi progressivi del giusnaturalismo o del contrattualismo, ma perché pensa che la civiltà non sia nata da un contratto. Lui dice, nella Fenomenologia dello Spirito, che la civiltà nasce dalla violenza, come nelle prime sequenze del film di Kubrick, Space Odissey 2001. La civiltà nasce dalla violenza, nasce dalla paura del dominato del primo dominatore, e soltanto nel corso del tempo storico che si arricchisce d’autocoscienza la civiltà giunge a superare questa nascita violenta in direzione di un’autocoscienza. Questa proiezione hegeliana afferma che ci sono il tempo e lo spazio come luoghi di realizzazione …
SH: È chiaro perché Hegel critichi il contrattualismo. Semplicemente un’ontologia della società non si può basare sul contratto, proprio in quanto l’ontologia storica che va oltre l’accordo tra due volontà rimane ancora, diciamo così, a posteriori.
PREVE: Hegel dice molto chiaramente che il contratto riguarda soltanto il diritto privato e non accetta che lo Stato nasca da un contratto. In questo ambito del diritto astratto c’è il contratto, ma è un errore trasformare il contratto da questo suo ambito reale a un ambito statuale. Come è noto lo Stato in Hegel deve avere una fondazione etica (eticità), che io traduco “comunitaria” ma che certamente non è un comunitarismo comunista; però ritengo che questo sia uno degli aspetti di Hegel meno trattati. Dimenticando questa genesi comunitaria della filosofia hegeliana già presente dal 1803, Hegel viene trasformato erroneamente nel filosofo del dispotismo, del totalitarismo, dello statalismo: il che è un fraintendimento mortale.

Filosofia e politica, la deduzione sociale delle categorie filosofiche,
la filosofia di oggi e le facoltà di filosofia
SH: Su Hegel torneremo. Ma per arrivarci voglio passare attraverso un’altra questione. Nel testo Dialogo sulla filosofia a venire, che è un dialogo tra Roberto Esposito e Jean-Luc Nancy, dove tra l’altro si affrontano tutti questi problemi di fine della filosofia e di paradigma dello spazio etc., affiorano due definizioni di filosofia che trovo interessanti. L’una dice che «il dentro della filosofia è precisamente il suo fuori» e l’altra espressa dallo stesso Nancy dice più o meno questo: se filosofare significava in passato contemplare e fissare, oggi significa aprire gli occhi, occhi finora non ancora aperti. Allora, queste due definizioni mi conducono verso il rapporto tra filosofia e politica, andando ovviamente al di là del testo di partenza di Nancy e Esposito e cercando di dare un’altra interpretazione. Questo “fuori” della filosofia che è il suo più profondo dentro, secondo me, è il contesto politico-sociale a cui filosofia necessariamente risponde. Ed “aprire gli occhi” significherebbe aprirsi a questo fuori politico-sociale che è nient’altro che il nocciolo della filosofia stessa.
PREVE: Per usare la terminologia di Esposito e di Nancy, che non è la mia, il fatto che la filosofia abbia un rapporto di esternità e contemporaneamente d’internità con la politica per me è un’ovvietà. Non è un qualcosa di strano a cui arrivare attraverso percorsi complicati, ma è quasi, come direbbero i greci antichi, un postulato. Se Nancy dice che la filosofia è nata come contemplazione ed oggi non si tratta di contemplare, è semplicemente errato. La filosofia non è mai nata come contemplazione. Secondo me è un equivoco che nasce da una frase nobile ma errata di Aristotele che fa nascere la filosofia dalla meraviglia. Perché, sia nella antica Grecia sia nella Cina, nella valle del fiume giallo di Confucio, che erano due zone che non si conoscevano reciprocamente, la filosofia non è nata come contemplazione, ma come risposta concreta ai fenomeni di convivenza. Perciò io non riesco a prendere sul serio questa definizione di Nancy perché essa parte da un presupposto inesistente. Secondo me, la filosofia non è mai nata come contemplazione.

SH: All’inizio hai accennato che Heidegger non era in grado di fare una deduzione sociale delle categorie. Poi infatti la spiegazione dello spazio e del tempo che hai dato è un esempio di questa deduzione sociale. Ed anche questa riflessione sulla nascita sociale di filosofia è legata a una tale deduzione. Allora visto che molte riflessioni esposte da te si basano su questa operazione deduttiva, ci potresti spiegare il concetto?
PREVE: Quando si parla di deduzione sociale delle categorie, innanzitutto io intendo le categorie filosofiche e non soltanto quelle ideologiche. È assolutamente chiaro ed ovvio che l’ideologia ha un’origine sociale, perché la stessa parola ideologia rivela in quanto tale che l’ideologia viene prodotta socialmente per rispondere ai bisogni di legittimazione delle classi dominanti verso le classi dominate. Questo è evidente per l’ideologia, ma è meno evidente per la filosofia. Si vorrebbe far apparire la filosofia come se fosse nata al tempo dei greci non in modo sociale ma per un miracolo greco: improvvisamente i greci, popolo indoeuropeo geniale, avrebbe scoperto la filosofia. Lo stesso Aristotele parla di meraviglia. Questo vuol dire che le idee filosofiche cadono dal cielo. Io invece penso che non soltanto le categorie ideologiche ma anche le categorie filosofiche devono essere socialmente dedotte. Questo fatto ovviamente comporta il pericolo del riduzionismo sociologico e del relativismo nichilistico, cioè del ridurre le categorie filosofiche soltanto a un episodio puramente ideologico-storico, togliendogli ogni carattere veritativo. Questo problema può essere agevolmente superato distinguendo quello che si chiama in tedesco Genesis e Geltung, cioè il fatto che c’è una genesi particolare e una validità potenzialmente universale.
In realtà le principali categorie della filosofia greca antica, chiamata erroneamente presocratica, perché in fondo Socrate è al servizio ideale della polis esattamente come Talete, Anassimandro o Pitagora, nascono sulle basi comunitarie per rispondere ad esigenze di mantenimento della comunità contro la sua dissoluzione.

SH: Quando si teorizza una deduzione sociale delle categorie, uno dei primi riferimenti che emerge è Kant (almeno per quanto riguarda il termine deduzione). E dunque, se in Kant abbiamo una quid iuris, deduzione della legitimità e della validità dell’uso di concetti, la deduzione sociale potrebbe sembrare antikantiana in quanto esce fuori dal regno trascendentale del soggetto. Però se ci pensiamo un attimo, la deduzione sociale delle categorie come una sorta di quid iuris politicamente contestualizzato sviluppa e porta il trascendentalismo di Kant fino alle sue ultime conseguenze. Per di più, la deduzione sociale può spiegare anche la deduzione trascendentale di Kant dal punto di vista delle esigenze sociali dell’epoca.
PREVE: Direi che questa è una buona impostazione. Negli anni Venti e Trenta del Novecento il pensatore tedesco Alfred Sohn-Rethel fu il primo a proporre la deduzione sociale delle categorie suscitando l’entusiasmo di Adorno in una loro corrispondenza. Horkheiemer invece la respinse, perché vide in questo tentativo di Sohn-Rethel una sorta di caduta nel relativismo sociologico, e pertanto si oppose. In questo modo buttò via il bambino con l’acqua sporca. Secondo me quello che dici tu può essere inteso in due modi: noi possiamo contrapporre la deduzione sociale delle categorie a quella trascendentale di Kant e a quella fenomenologica di Husserl; in questo caso abbiamo una terza posizione contrapposta. Poi c’è un altro modo che secondo me è altrettanto legittimo: possiamo pensare che la deduzione sociale delle categorie non rompa con quella trascendentale di Kant e quella fenomenologica di Husserl, ma semplicemente ci sia una Aufhebung, un superamento e una contestualizzazione.
Detto questo, secondo me, l’Io penso kantiano è fondamentalmente destoricizzato e desocializzato. Ich denke perciò non è dedotto socialmente. E se mi si chiede se in Kant ci sia in un certo senso l’origine della deduzione sociale delle categorie, direi di no, perché Ich denke è come Ego cogito di Cartesio, completamente destoricizzato e desocializzato: viene posto fuori dello spazio e del tempo.

SH: Sì, ma il fatto che Kant non esegua una deduzione sociale delle categorie, non vuol dire che questa deduzione non sia applicabile allo stesso Kant. Anzi, sicuramente c’erano le esigenze sociali per impostare anche l’Ich denke trascendentale.
PREVE: In un certo senso, e parzialmente, lo stesso idealismo di Fichte e di Hegel è proprio questo. Perché lo stesso idealismo di Fichte e di Hegel parte dall’Ich denke di Kant cercando di storicizzarlo, attraverso l’insegnamento di Vico e attraverso l’impostazione di Spinoza che non separa le categorie dell’essere e le categorie del pensiero. In un certo senso il primo idealismo di Fichte e di Hegel rappresenta già un tentativo di concretizzare storicamente la deduzione trascendentale di Kant.

SH: Una delle mie domande precedenti, quella sul fuori/dentro filosofico, era mirata a una critica della tendenza attuale, cioè alla filosofia che si riduce alla storiografia filosofica autarchica, all’analitica logico-semantica, oppure ad una sorta del esistenzialismo dove filosofia diventa quasi un’esperienza mistico-personale. In tutte queste declinazioni non c’è quel “fuori” filosofico-politico, e perciò non c’è niente di sovversivo in queste filosofie.
PREVE: Su questo voglio dire la cosa che ritengo più importante. Bisogna distinguere con grande chiarezza il problema storico e teorico della filosofia come forma di vita occidentale poi globalizzatasi, vecchia ormai di 2000 anni, e un secondo problema che non ha nessun rapporto con il primo, che è l’organizzazione universitaria delle facoltà di filosofia, le quali oggi non hanno più nessun rapporto con la filosofia. Quando dico nessun rapporto, intendo dire nessuno. Non sto dicendo un rapporto debole, fragile … ma nessuno per motivi storici che si possono spiegare. Le moderne facoltà di filosofia sono nate alla fine del Settecento, all’inizio del Ottocento, nel tempo di Kant e Hegel. Ma nella seconda metà dell‘Ottocento hanno assunto in Europa un carattere sostanzialmente positivistico e neokantiano, concentrato sulla teoria della conoscenza. Le tecniche di cooptazione dei giovani filosofi sono tecniche, diciamo così, patriarcali perché il giovane filosofo è scelto dal cattedratico sulla base di simpatia/antipatia con la propria affinità. Per cui Kant verrebbe bocciato con la Critica della ragion pura, e Hegel verrebbe bocciato a un concorso con la Scienza della Logica, in quanto i concorsi di filosofia vengono fatti su base citatologica, cioè con una corretta citatologia, se possibile in greco antico o tedesco, ma fra poco soltanto in basic english. Questo è un fenomeno che si sta sviluppando e che secondo me deve essere interpretato in questo modo: l’ultimo periodo storico in cui c’è ancora stato rapporto fra filosofia universitaria e pratica politica generale della filosofia sono stati gli anni di metà Nocevento, dal 1920 al 1970-75, gli anni di Lukács, Bloch, Kosík, Marcuse, Petrović, Heidegger. Gli anni in cui filosofi erano nazisti, comunisti, socialisti, liberali etc.; ghli anni in cui i filosofi, oltre ad essere cattedratici, erano anche impegnati nelle grande ideologie del tempo. I comunisti Bloch e Lukács, il nazional-socialista Heidegger, il liberale Popper. In questi 50 anni il dibattito filosofico aveva ancora un rapporto con la riproduzione universitaria. Secondo me questo rapporto è finito negli anni Ottanta del Novecento, e per cui da circa 30 anni, in questa congiuntura storica, la filosofia non ha più nessun rapporto con l’università. Esistono certamente ancora alcuni professori universitari che praticano liberamente filosofia perché sono dotati etc., però l’organizzazione in quanto tale è …

SH: … è antifilosofica …
PREVE: Peggio. È una forma di criminalità se mi permetti, di criminalità bianca. La definirei così. Normalmente non è sanguinaria, le persone non vengono uccise …

SH: Ma non ne sono sicuro. Intellettualmente e simbolicamente alcune persone vengono anche” uccise”. O il tentativo almeno c’è.
PREVE: Ad esempio nell’ultimo romanzo poliziesco di Petros Markaris intitolato L’Esattore che ho letto in greco, il protagonista dice: «Lo Stato greco è l’unica mafia fallita». Lui dice che le mafie di solito non falliscono, si arricchiscono con il traffico di armi, droga, prostituzione etc., ma lo Stato greco inteso come clientelismo è l’unica mafia fallita.

SH: Vale anche per gli altri Stati?
PREVE: Meno. Nel senso che la classe politica greca ha fatto pagare prezzi giganteschi al popolo greco. Ora accade anche in Spagna, Portogallo, e io penso che l’Italia abbia ancora due-tre anni prima di sprofondare. Tu sai che gli orsi per andare in letargo devono avere del grasso, perché se l’orso andasse in letargo senza grasso, soltanto pelle e ossa, morirebbe. La Grecia e la Spagna sono gli orsi senza grasso, e l’Italia ha ancora due-tre anni di grasso.

L’attualità di Hegel, comunitarismo e capitalismo
SH: Anche su questo argomento torneremo, particolarmente su quello che sta succedendo nella Grecia. Ma ora ci aspetta Hegel. Oggi si nota una certa rinascita del pensiero hegeliano sull’orizzonte globale, si parla addirittura del Hegelian turn, nei quotidiani escono ad esempio gli articoli intitolati Hegel on Wall Street e così via. Comunque la questione è sempre in che modo si riprende Hegel. Tu sei uno dei pochi filosofi italiani che esprime e prende una posizione esplicitamente e chiaramente hegeliana. Quando si parla del ritorno a Hegel c’è sempre la questione: quale Hegel?. Tu vedi Hegel come un rimedio filosofico contro il neoliberismo capitalistico di oggi e perciò in questo sta la sua attualità
PREVE: Non soltanto in questo, ma anche in questo.

SH: Allora, alla domanda: Quale Hegel? Rispondiamo Hegel filosofo della comunità, Hegel comunitarista?
PREVE: Dunque, tu sai molto bene che un grande filosofo come Hegel, e questo vale anche per Platone, Kant, Spinoza, Aristotele, non può essere ridotto ad una sola dimensione. La ricchezza inesauribile di Hegel sta proprio nel fatto che non c’è soltanto un aspetto di Hegel. Quando leggiamo ad esempio l’Estetica di Hegel vediamo che le sue osservazioni sulla storia dell’arte, sull’arte greca e l’arte fiamminga non posso essere ridotte a l’Hegel politico. Vediamo anche che la sua ricostruzione storica della filosofia greca e moderna non può essere ridotta a l’Hegel politico; per cui facendo una permessa che Hegel è un pensatore multiversum, direi che la sua attualità consiste nel fatto che Hegel è completamente alternativo alla fondazione del neoliberismo, il quale per la sua fondazione trova Hume. In Inghilterra hanno fatto un concorso su quello che la gente considerava essere il più grande filosofo. È venuto fuori Marx. The Economist scese in campo per impedire che Marx vincesse – ma poi Marx ha vinto –, e ha proposto come alternativa Hume, mentre gli altri filosofi come Hegel hanno avuto score molto basso. Questa questione è molto significativa e molto importante, perché il liberalismo capitalistico, che è una forma di dittatura dell’economia finanziaria, non ha bisogno di nessuna fondazione filosofica. Dunque non ha bisogno né di Dio, né della religione che viene derubricata ad assistenza per drogati, poveracci e popolo infelice; non ha bisogno della filosofia, non ha bisogno della politica, perché si basa sulla premessa tipicamente humiana empirista dell’autofondazione del capitalismo su se stesso come attesa dello scambio di merci fra venditori e compratori, cioè la teoria humiana della natura umana dove la natura umana di per sé, essendo basata su una serie di attese ed aspettative del compratore-venditore, ha messo le basi per l’economia politica di Smith (anche lui amico di Hume). A questo punto che è successo? Che per 200 anni la borghesia ha ancora avuto una coscienza infelice, per usare linguaggio hegeliano. E la coscienza infelice della borghesia si chiama dialettica. Perciò abbiamo avuto 200 anni di Marx, Adorno, Lukacs, cioè 200 anni sia degli amici della dialettica sia dei nemici della dialettica (Althusser). Secondo me attualmente viviamo in un capitalismo largamente postborghese e postproletario – il che è il mio concetto fondamentale, per cui un capitalismo postborghese e postproletario continua ad essere capitalismo ma non è più caratterizzato né dalla coscienza infelice borghese, né della coscienza utopica proletaria. A questo punto le facoltà di filosofia perdono ogni significato politico per cui i discorsi di Esposito e simili mi sembrano del tutto privi di realismo perché richiamano semplicemente un fatto intorno a cui non vediamo nulla.

SH: Capitalismo postborghese. E la distinzione tra borghesia e capitalismo?
PREVE: In tutti i miei libri ho sempre lavorato sulla distinzione metodologica fra borghesia e capitalismo. In primo luogo Marx non dice mai la parola Kapitalismus che nasce con Sombart e con la socialdemocrazia tedesca. Marx dice sempre Produktionsweisen, i modi della produzione capitalista. E questa differenza non è puramente linguistica e sofistica, bensì strutturale. Per Marx il modo di produzione capitalistico è un meccanismo riproduttivo anonimo ed impersonale come il Gestell in Heidegger, che potrebbe essere definitivo capitalismo senza opposizione dialettica. La concezione heideggeriana di tecnica ricopre completamente la concezione marxiana di capitalismo togliendole però l’aspetto utopico dialettico coscienziale rivoluzionario. Se andiamo al di là della chiacchera su Heidegger come amante di Arendt o come nazista, e cerchiamo invece di entrare nella sua filosofia, noi vediamo che la sua filosofia tende a descrivere il dominio anonimo ed impersonale che lui chiama Gestell (dipositif in francese è la traduzione molto corretta perché dà l’idea di qualcosa di anonimo, qualcosa che è fuori controllo dell’umanesimo). L’antiumanesimo di Heidegger distinto da quello degli strutturalisti alla Althuser è un segnale di impotenza. Nella sua Lettera sull’Umanesimo rivolta a Sartre, lui fondamentalmente fa un diagnosi di impotenza. L’umanesimo, ci sia o non ci sia, è comunque impotente, e gira su se stesso. La filosofia di Heidegger è una diagnosi marxiana a cui viene tolta semplicemente la rivoluzione. Però è una cosa grossa.

SH: Secondo me il valore epocale di Hegel non sta soltanto nella sua nota differenza tra la società civile e lo Stato, ma nel fatto che già la società civile in Hegel provvede gli strumenti e le istituzioni contro una deviaziane potenziale (e qua non sarebbe sbagliato interpretare “potenziale” come dynamis) del principo soggettivo della particolarità liberata. Cioè, i momenti di amministrazione della giustizia, di polizia (che vuol dire anche assistenza sociale), di corporazione, etc., sono già i momenti fondativi per uno stato sociale. E se ne teniamo conto concludiamo che già al livello della bürgerliche Geselschaft abbiamo un Hegel che propone una sorta di welfare, la protezione sociale e il diritto al benessere.
PREVE: Sono completamente d’accordo con questa analisi, ed essere d’accordo al cento per cento capita molto raramente in filosofia. In Italia, ma anche altrove, c’è l’idea che bürgerliche Geselschaft sia la parola tedesca per dire civil society. É un errore enorme. Perchè civil society anglosassone è concepita come luogo di mercato delle merci e delle opinioni, e non come organizzazione statuale della comunità pur in presenza di un’economia dello scambio capitalistico. Penso che si tratti di un concetto che si può spiegare tranquillamente dopo appena un mese di corso su Hegel. Il fatto che ci sia tanta ignoranza su questo io lo spiego in maniera sociale: come vera e propria volontà di censurare un pensiero dialettico e sociale che intreccia economia e politica in favore di un pensiero che separa completamente economia e politica, e questa separazione è un vero problema del capitalismo. È chiaro allora che le facoltà di filosofia, che sono povere serve del capitalismo, lavorino per questo. Mentre le facoltà di economia offrono direttamente dei managers all’apparato capitalistico, le facoltà di filosofia diventano completamente inutili. Sono delle nicchie marginali che vengono mantenute come si mantengono certi animali rari nello zoo, tipo panda e così via … vengono mantenute purché non rompano le scatole. E il modo migliore affinché non rompano le scatole è togliergli ogni espressività politica, ogni espressività comunitaria e trasformarle in meccanismi di citatologia e di nicchie postmoderne.

SH: Andrei anche oltre partendo dalla mia riflessione precedente. Hegel anche ci dice che quello che nel linguaggio di oggi potremmo chiamare welfare, non basta. Il mito della socialdemocrazia non è sufficiente, e l’altra questione è se oggi è possibile. Hegel ci dice che, in modo dialettico, se vogliamo la protezione sociale e il diritto al benessere, Soziale Sorge e il bene comune, ci vuole un orizzonte più alto della comunità. E proprio quello bisogno contrassegna il passaggio dalla società civile allo stato. Questo è secondo me il punto di estremo rilievo. La società civile può funzionare giustamente purché ci sia un orizzonte del mutuo riconoscimento politico-sociale, un orizzonte di Noi – l’idea dello Stato in Hegel.
PREVE: Sono ancora pienamente d’accordo con quello che dici. Sono cose che si sentono dire molto poco mentre invece è basilare dirle. Il passaggio dalla società civile allo stato non deve essere interpretato come una forma di burocrazia statalista, ma deve essere interpretato come un inveramento etico-comunitario, in mancanza del quale uno Stato non può funzionare unicamente come Sorge socialdemocratica o comunista nel senso del comunismo storico novecentesco, che si è sviluppato come una sorta di socialdemocrazia povera che garantiva in maniera dispotica la piena occupazione e le cure mediche gratuite (in Russia, Polonia, ovviamente il caso di Iugoslavia era un po’ diverso). Tuttavia c’era ugualmente l’antipatia e l’avversione da parte della stragrande maggioranza della popolazione. Questo fenomeno apparentemente incomprensibile viene spiegato generalmente o con la mancanza dei beni di consumo, per cui Polacchi e Ungheresi volevano passare dalla Trabant alla vera automobile Mercedes, oppure come dispotismo burocratico nella spiegazione trotzkista del fato che i burocrati rubavano, mangiavano, saccheggiavano e nominavano i loro amici, parenti, amanti etc. … Tutte queste spiegazioni colgono soltanto parzialmente il fatto fondamentale, cioè che lo Stato comunista non è mai riuscito ad esser percepito dalla maggioranza della popolazione come realizzazione di una Sittlichkeit, cioè di una eticità soddisfacente.
Stessa cosa oggi con la socialdemocrazia. Noi abbiamo il SPD in Germania, Holland in Francia, in Italia neanche questo perché la degradazione del vecchio PCI è stata distruttiva, nel senso che l’Italia è attualmente il paese che ha meno sinistra. Non so come è da te?
SH: Anche nella Serbia è così, ma per altri motivi.
PREVE: Ecco, lì si tratta di una elaborazione e di un superamento del lutto e dell’odio. Per ancora molti anni in Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia, Romania e Serbia non si potrà parlare del socialismo. Questo fatto è molto triste perché impedisce quello che psicologi chiamano l’elaborazione del lutto e l’elaborazione della coscienza. Tu non puoi a lungo espellere la prospettiva anti-capitalista per il fatto che essa è stata a suo tempo inquinata ed infangata dal sistema despotico del socialismo reale, che io attribuisco alla fondamentale incapacità d’egemonia della classe operaia proletaria, con tutto il rispetto per gli operai di fabbrica, per i contadini poveri e i lavoratori manuali (io ho grande disprezzo per gli atteggiamenti intellettualistici verso il lavoro manuale di chi pensa che, sapendo tedesco ed inglese, deve essere superiore); però dobbiamo constatare – usando il linguaggio di Gramsci – che i ceti popolari non sono mai riusciti ad avere un’egemonia sulla società, per cui hanno dovuto sostituire l’egemonia con il despotismo burocratico-militare. E questo fatto è imprevedibile in Hegel e Marx. Fermandosi alla lettera di Fichte, di Hegel e di Marx non può essere previsto, perché è un fenomeno che si fa strada alla fine del Ottocento e nei primi del Novecento, perché nei tempi di Hegel, ma secondo me anche di Marx, non c’era ancora una presenza sociologica dominante della classe operaia proletaria. C’era già la massa dei poveri contadini, che però non era visibile agli occhi del filosofo.

SH: Ritengo importantissima una interpretazione del fallimento del comunismo storico novecentesco a partire dal concetto di Sittlichkeit. Però tornando a Hegel (ribadendo di nuovo un “Ritorno a Hegel) secondo me è importante tenere un piano di lettura di Hegel su cui insisti anche tu, cioè la sintesi tra il piano trascendentale logico-ontologico e la prospettiva storica. Perché se diamo uno sguardo agli studiosi di Hegel, negli ultimi 150 anni sembra che si dividano in due gruppi: quelli che leggono la Fenomenologia dello Spirito senza la Logica, e quelli che leggono la Scienza della Logica senza Fenomenologia, mentre si tratta di leggerli insieme. Ed aggiungerei anche: leggere la Filosofia del diritto insieme alla Scienza della Logica.
PREVE: Ed ancora una volta sono totalmente d’accordo con questa impostazione. Se tu leggi Hegel senza Scienza della logica Hegel diventa uno storicista, e lo storicismo è l’anticamera del relativismo. Se invece tu leggi la Scienza della logica unicamente come sintesi di ontologia e logica, tu leggi Hegel in modo spinoziano come chi ha costruito una cattedrale puramente astratta che non ha nessun rapporto con il mondo reale, e sta in un mondo platonico-celeste. In realtà Hegel va letto insieme, sia come pensatore del processo storico di autocoscienza attraverso le figure della negazione, sia come pensatore che ha un robusto ancoraggio ontologico, come gli antichi greci e come Spinoza, diverso certamente, perché è dialettico e strutturato nella differenza tra essere, essenza e concetto. A questo punto Marx non è stato letto in maniera correttamente hegeliana, perché se si leggesse Marx in maniera hegeliana la produzione generale corrisponderebbe alla logica dell’essere, il capitalismo come la sua negazione alla logica dell’essenza, e l’autocoscienza comunista, intesa come autocoscienza etica della libertà, alla logica del concetto. In questa maniera Marx non fu letto neppure da Lenin, che pure si dichiarava ammiratore della Logica di Hegel, ma trascurava completamente l’aspetto idealistico, perché secondo me Lenin non capiva che il materialismo di Marx era metaforico, che il fondamento della filosofia di Marx non era la materia, ma la storia intesa come idea unificata del tempo.

SH: Ho dimenticato di dire che la tua “iniziazione” al pensiero hegeliano era avvenuta attraverso i corsi di Hyppolite che hai seguito a Parigi negli anni Sessanta.
PREVE: Io ho sempre pensato che Hyppolite avesse ragione. Solo che purtroppo in quel momento storico Hyppolite era un grande professore, ma non aveva nessuna influenza politica. Mentre invece Althusser, che secondo me capiva molto meno di Hegel ed aveva di Hegel una concezione completamente sbagliata, è riuscito ad intercettare il momento storico militante, il grande lavoro di Hyppolite tradotto in molte lingue è rimasto isolato.

Le figure antropologiche di Nietzsche: l’Übermensch e l’ultimo uomo
SH: Nietzsche è un altro filosofo cruciale per capire le contraddizioni e i limiti della Modernità. Nietzsche è spesso posto agli antipodi di Hegel, dove quest’ultimo rappresenta il culmine di una tradizione razionalista e idealista, mentre Nietzsche sarebbe l’inizio di una filosofia anti-metafisica che porta al postmoderno. Ma è davvero Nietzsche così opposto a Hegel, oppure questi due pensatori qualche volta sembrano molto più vicini di quanto si pensi?
PREVE: Allora, per poter rispondere a questa domanda bisogna vedere se per caso il problema a cui cercano di rispondere sia Hegel che Nietzsche sia un problema identico, o se non identico almeno omologo, oppure comparabile. Onestamente mi sembra di no. Perché mi sembra che Hegel affronti, in modo a mio parere corretto, i limiti dell’illuminismo e della filosofia kantiana senza respingerli completamente, e cerchi di assumere l’eredità greca interpretandola correttamente a partire da Platone ed Aristotele. Secondo me in Hegel c’è una corretta interpretazione sia dell’eredità greca, che in lui passa attraverso il filtro del cristianesimo (a differenza di Nietzsche che pensa che essa sia una decadenza), sia dell’illuminismo nella forma del suo elemento positivo di lotta contro il dispotismo dei gesuiti. Tra l’altro io non sono d’accordo con Hegel quando dice che c’è soltanto la filosofia greca, e respinge la filosofia cinese e indiana. Secondo me è un errore comprensibile nel 1820 ma oggi assolutamente intollerabile.
Nietzsche basa la sua diagnosi su alcuni equivoci fondamentali. In primo luogo vede Socrate come l’inizio della decadenza greca. E non dimentichiamo mai che Nietzsche non vede soltanto il cristianesimo come decadenza, come protesta dei poveri e malriusciti, come sublimazione dell’invidia. Questo dice apertamente e continuamente. E questo impedisce di avere del cristianesimo una visione dialettica, perché anche uno che non è credente come me, come filosofo cerca di interpretare l’evento cristiano in termini storico-dialettici, e non semplicemente come caduta nella decadenza.
Perciò Nietzsche respinge l’intera filosofia greca classica evocando una fondamentale sapienza greca, dionisiaca ed apollinea, che avrebbe preceduto il vero ruolo della filosofia, cosa che parzialmente fa Heidegger. Ora, questo è un mito d’origine, cioè un mito secondo il quale prima della filosofia greca che è già decadenza, ci sarebbe stato un momento precedente non decadente; secondo me tutto questo è completamente falso. Se poi pensiamo alla critica di Nietzsche della società borghese del suo tempo, essa è in buona parte profonda e riveltarice. Anche se non esagererei il carattere di originalità. La concezione del soggetto di Nietzsche c’era già in Hume come fascio di sensazioni e come polemica contro l’unità del soggetto che è il presupposto della filosofia di Cartesio, di Kant e di Hegel. Perciò la grande moda di Nietzsche, contrapposta a Hegel ed anche a Marx, rappresenta storicamente –a partire dagli anni Sessanta e Settanta del Novecento – un episodio di stanchezza degli intellettuali europei nei confronti dello storicismo ottimistico-marxista che essi avevano coltivato spesso contro voglia per 20-30 anni, e in cui hanno smesso di credere. È la loro delusione nei confronti della loro precedente illusione. Perché l’illusione diventa delusione e porta alla collusione, cioè la collusione con il potere. Spero che ciò sia traducibile in serbo.
SH: Però c’è un’altra figura nietzscheana che è quella dello Uebermensch. Mi interessa a questo punto la linea interpretativa Hegel-Marx-Nietzsche. E tra l’altro un abbinamento tra Hegel e Nietzsche si trova in Vattimo, almeno nel suo libro Il soggetto e la maschera, che comunque lui poi ha riveduto dicendo che era troppo aperto al pensiero dialettico. E in questo testo di Vattimo si trova l’idea che lo spirito assoluto si realizza con l’oltreuomo, cioè, l’oltreuomo nietzscheano sarebbe una sorta di figura antropologica che corrisponde per certi versi all’ontologia di Hegel. Perché entrambe le figure, antropologica in Nietzsche e ontologica in Hegel, secondo Vattimo rappresentano un punto finale di risoluzione del conflitto tra l’esistenza e il senso, che poi non è niente altro che quel conflitto che costituisce la coscienza infelice in Hegel.
PREVE: In primo luogo il termine tedesco Übermensch non può essere tradotto in italiano. È assolutamente intraducibile. Sia tradurlo come oltreuomo sia come superuomo è arbitrario. Nel momento in cui la parola tedesca Über può voler dire sia “sopra” che “oltre”, ogni traduzione è arbitraria. La cosa migliore è non tradurlo, segnalare e lasciare la parola in originale. Non so com’è in lingua serba, ma per l’italiano la penso così. Poi passando all’Übermensch, io credo che Nietzsche volesse dare un disegno antropologico della situazione contemporanea che deve essere paragonata a quello che lui chiama l’eremita, l’uomo superiore e l’ultimo uomo. Nel Così parlò Zarathustra Nietzsche fa una sorta di cartina, di mappa antropologica in cui sostiene il rapporto tra l’informazione e la morte di Dio. L’eremita è colui che abitando nelle montagne non è ancora informato della morte di Dio e pensa che Dio ci sia ancora. L’ultimo uomo è un uomo informatissimo della morte di Dio e che ne trae come conclusione e conseguenza che tutto è possibile. Allora, io credo che Nietzsche in un certo senso abbia presagito l’equivoco che poteva nascere nel Così parlò Zarathustra. E tutte le figure del nano, del serpente, danno luogo ad una sua consapevolezza dell’equivocità di quello che stava dicendo. Ed io ritengo che l’evocazione della figura dell’Übermensch fosse in certo senso una risposta preventiva ai fraintendimenti dell’Übermensch in termini di ultimo uomo.
Per quello che riguarda invece Hegel, io non sono convinto che in Hegel ci sia una fine antropologica della storia con inveramento del superamento integrale della coscienza infelice. Mi rendo conto che questa è soltanto una mia interpretazione. E non dimentico mai che la Scienza della Logica di Hegel non può mai realizzarsi una volta per tutte nella storia temporale, in quanto non c’è mai una sovrapposizione completa fra logica e storia. Così io vedo Hegel. Se ci fosse una sovrapposizione integrale fra logica e storia avremmo anche la fine della storia come un coperchio sopra una pentola. A questo punto potremmo interpretare l’ultimo capitolo della Fenomenologia come coronamento antropologico delle vicende della coscienza infelice, e lo spirito assoluto come luogo del coronamento antropologico. Io non sono affatto d’accordo.

SH: Sì, certo che non c’è un coronamento antropologico, ma sicuramente è una realizzazione ontologica, che poi non vuol dire necessariamente la chiusura, come spesso si interpreta.
PREVE: È tutt’un’altra storia. Secondo me lo spirito assoluto apre la storia. Sia nella forma dell’arte che della religione che della filosofia, lo spirito assoluto significa un rifiuto di chiudere il sistema. È il punto fondamentale. Se noi prendiamo il sistema di Hegel e lo chiudiamo, cadiamo in un equivoco grottesco che va contro lo spirito di Hegel. L’equivoco linguistico che Hegel ha lasciato quando morì è dovuto al suo eccesso di polemica contro Kant e Fichte, con il fatto che lui voleva ad ogni costo rompere con l’idea dell’epoca della compiuta peccaminosità fichtiana e rompere con quello che lui chiama la cattiva infinità in Kant. Secondo me Hegel fa bene a rompere con Kant, ma esagera un po’.
Poi, si è parlato molto di giovane Hegel alla fine degli anni Novanta nelle su varie fasi religiose, cristiane, anche la fase schelingiana, etc. Però, secondo la mia opinione, c’è una sopravalutazione del giovane Hegel. Il giovane Hegel secondo me non è molto interessante. Hegel comincia ad essere interessante nel 1803 con la sua rottura con Schelling e diventa veramente interessante con la Fenomenologia. Fatta questa premessa, che Hegel è veramente interessante dopo i 33 anni mentre il giovane Hegel è oggetto di tesi di laurea e di erudizione filosofico-biografica, ma secondo me non presenta un particolare interesse, darei un’interpretazione dell’interesse esagerato per il giovane Hegel. Tutta la corrente di pensiero alla Löwith vuole dire che Hegel non fa altro che secolarizzare l’escatologia cristiana. Allora, per poter sostenere questa tesi folle e per ridurre Hegel fondamentalmente a un burattino, bisogna ridurlo a quando aveva 26 anni, a quando era ancora invischiato fra l’interesse verso la grecità, l’interesse verso il cristianesimo: il che è vero, ma lo ha superato nel momento in cui individua nella filosofia il luogo di ricomposizione dell’intero scisso, dell’intero sociale spezzato. Soltanto quando Hegel capisce – e lo capisce intorno ai 33 anni – che la filosofia è il luogo privilegiato di ricomposizione dell’intero sociale, della comunità spezzata, e che il criticismo di Kant non è sufficiente perché è una metafisica di Verstand, Hegel diventa interessante.
Per tornare a Nietzsche, io credo che Nietzsche voglia una nuova antropologia. Sia il modo in cui considera i greci, sia il modo in cui considera i moderni mostra che egli è alla ricerca di un’antropologia dello Übermensch. Ora, il problema di Hegel non è antropologico, ma filosofico: il problema è quello della autocoscienza. L’ontologia correttamente intesa dà luogo automaticamante a una ricaduta che poi di fatto è anche antropologica, ma è sempre comunitaria. Nella misura in cui Nietzsche è un pensatore radicalmente anticomunitario e individualistico, finisce con l’arrivare alle stesse conclusioni di Locke e di Hume semplicemente in un linguaggio tragico. E per questo piace agli intellettuali postmoderni, perché dà loro una medicina per poter rompere con Hegel, Marx e la dialettica.

SH: Questa considerazione su Nietzsche come pensatore radicalmente individualista e come critico dei valori borghese-cristiani mi fa pensare all’ orizzonte culturale del Sessantotto. E non per caso dagli anni Settanta del Novecento abbiamo una rinascita dell’interesse per Nietzsche (Deleuze, Foucault in Francia, Vattimo e Cacciari in Italia etc.)
PREVE: Il Sessantotto è stato fondamentalmente una riforma radicale del costume antiborghese che si è pensato con falsa coscienza necessaria come anticapitalistico. Si creò un equivoco. I residui del pensiero borghese (tipo la famiglia) che erano quelli che sorreggevano la coscienza infelice nella sua ultima forma – che era la Scuola di Francoforte – furono completamente distrutti. Il Sessantotto non ha ucciso soltanto Lukács e Bloch, ma anche Adorno. È stata, diciamo così, un’apoteosi, una festa dell’individualismo, sebbene nella forma nuova. Non è più vecchio individualismo borghese razionalistico e positivistico, ma è l’immaginazione al potere, lo scatenamento del desiderio. Questo spiega perché la scuola di Deleuze, Guattari e Negri mette al posto del bisogno il desiderio. Invece Hegel è un filosofo del bisogno.

SH: Per dire il vero c’è anche la figura del desiderio nella Fenomenologia dello spirito come la prima figura dell’autocoscienza…
PREVE: É un’altra cosa. Il desiderio (Begierde) hegeliano è un momento dell’autocoscienza, il momento in cui essa si sviluppa. Il desiderio puro in quanto tale deve essere aufgehoben. Perciò non c’entra per nulla con il desiderio di Deleuze.

SH: Certo. Perché è la questione del soggetto ad essere in gioco. Il desiderio hegeliano è il momento costitutivo della soggettività, mentre negli autori francesi il desiderio è proprio quello che fa parte della dissoluzione del soggetto autoriflessivo.
PREVE: Direi che è questo e lo sottoscrivo.

Marx – pensatore epocale,
comunismo storico e comunismo come giudizio riflettente
SH: Perché Marx inattuale, citando il titolo di un tuo libro? Cosa è ancora vivo in Marx e cosa è invece ciò che bisogna rivedere, ripensare e ricostruire?
PREVE: Il titolo Marx inattuale non è un mio titolo, ma fu suggerito dalla casa editrice Bollati Boringhieri che voleva usare il termine nietzscheano “inattuale” per dire più che attuale. Secondo me questo è una sofisticazione intellettuale, e io avrei preferito un titolo più noioso, ma diverso. Fatto questo chiarimento, direi che Marx è un pensatore epocale. In quanto pensatore epocale lui è sempre attuale e sempre inattuale. Marx è entrato in quella sfera di pochissimi pensatori occidentali, tipo Platone, Aristotele, Spinoza etc. che non superano cinque-dieci. E perciò Marx sarà attuale anche fra 500 anni. Perché Marx è un pensatore dentro il quale si intrecciano due cose: si intreccia una filosofia idealistica della storia come luogo dell’emancipazione e del superamento dell’alienazione, ed una scienza sociale dei modi di produzione, la quale offre alla storia del passato e del presente uno schema interpretativo basato su alcuni concetti (modi di produzione, rapporti di produzione, forze produttive, ideologia etc.), paragonabile allo schema di Weber o di Durkheim, ma secondo me migliore. Marx è un pensatore che non ha mai smesso di essere attuale. Quando è crollato il socialismo reale sia in Russia che in Iugoslavia, e in Cina si è trasformato in modo confuciano in un capitalismo dirigistico di Stato, gli intellettuali hanno rotto con Marx dichiarando che Marx è morto. Ma gli intellettuali essendo una categoria parassitaria ogni vent’anni dichiarano i morti. E questo fa parte della riproduzione del gruppo intellettuale come tale. Io personalmente per quello che riguarda gli intellettuali sono d’accordo con Pierre Bourdieu che li considera un gruppo dominato della classe dominante, per cui fanno parte della classe dominante avendo un capitale intellettuale da vendere, ma all’interno di essa sono un gruppo dominato dal capitale finanziario e dai capitalisti. E pertanto sono un gruppo sociale. E che sia chiaro che quando parlo degli intellettuali non parlo della singola persona che utilizza il proprio intelletto. Gli intellettuali come gruppo sociale moderno nascono con l’Illuminismo. Prima del Settecento non esistevano. E come gruppo politico nascono alla fine Ottocento con il caso Dreyfus. Io non mi considero un intellettuale. Sono uno studioso che parla 6 lingue e ha scritto 30 libri, però personalmente non appartengo a questo gruppo sociale. In Italia questo gruppo si definisce prima di tutto dall’adesione alla dicotomia sinistra-destra, poi si definisce in base al codice d’accesso al politicamente corretto.
Dunque, Marx è un pensatore epocale e gli intellettuali europei in preda al complesso di colpa per avere sostenuto l’utopia comunista di fronte al suo crollo apparso negli anni Ottanta, hanno rifiutato Marx riscoprendo Nietzsche, Heidegger, Hume, Popper e così via. Pochi intellettuali si sono opposti. Ad esempio, Žižek. Che non è l’unico, ma comunque non fa ancora massa critica, cioè una massa sufficiente per poter spostare veramente le cose.
Poi, c’è un’esperienza importante degli anni Sessanta: io, negli anni Sessanta, come molti ragazzi francesi ed italiani avevo le fidanzatine nei paesi socialisti. E andavo in questi paesi. Per essere simpatico dicevo sempre “I am a communist” provocando le reazioni di sospetto e di disgusto. Perché nella mia intenzione comunismo voleva dire l’utopia hegeliano-marxiana, ma per loro voleva dire la spia della polizia e il burocrate. Poi dopo un po’ mi sono accorto che bisogna dire “I am Italian”, e improvvisamente si aprivano tutte le porte.

SH: Devo ammettere che questo codice per aprire le porte vale anche oggi, anche se non c’è più il comunismo all’Est. È sopravvissuto alle ideologie. Noi nella rivista avremmo anche una sezione dedicata ai testi contemporanei che riattualizzano l’idea di comunismo. I molti libri recenti, le conferenze i dibattiti pubblici indicano un risveglio dell’interesse per il pensiero comunista (il fenomeno è abbastanza comprensibile data la crisi del capitalismo). Ti chiedo che ne pensi e potrei aggiungere anche un’altra domanda che è il titolo di un testo di A. Negri: «é possibile essere comunisti senza Marx»?
PREVE: Risponderò prima all’ultima domanda e poi farò il mio bilancio storico del comunismo in quanto cittadino di un paese che non ha mai avuto il comunismo, ma soltanto una simulazione onirica del comunismo per cui erano chiamate comuniste le cooperative emiliane dell’Emilia-Romagna.
Si può essere comunisti senza Marx? È una domanda epocale. Io oserei dire di sì, ma è meglio essere comunisti con Marx perché Marx ci ha consegnato gli strumenti filosofici e scientifici di grande valore ancora attuali. Ma se proprio mi fai questa domanda in maniera brutale, risponderei di sì. È sufficiente la filosofia greca e lo spirito comunitario della filosofia greca. È chiaro che i greci non erano comunisti, però secondo me la filosofia greca classica nella variante di Platone e di Aristotele, e soprattutto dei presocratici che erano legislatori sociali, è sufficiente per il comunismo. Se poi il comunismo viene ridefinito attraverso la concezione hegeliana del comunitarismo, trascurando però l’analisi del plus-valore, pianificazione economica, etc., risponderei sì alla tua domanda. Ma è tuttavia meglio essere con Marx perché ci ha consegnato degli strumenti filosofici e scientifici inestimabili.
Poi, un conto è l’idea di comunismo e un conto è quello che io chiamo comunismo storico novecentesco. Il comunismo storico novecentesco è come la tomba con la data di nascita e di morte. È un fenomeno vissuto per 64 anni, nato nel 1917 e finito nel 1989 e di cui ancora resistono alcuni residui storici a Cuba, perché non c’è più né in Cina, né in Vietnam, né altrove. Come fenomeno finito ha espresso secondo me la volontà di liberazione di due classi povere, classe operaia di fabbrica e classe dei contadini poveri, che erano giustificati nel rivendicare il loro riconoscimento, per usare linguaggio hegeliano, ma che erano completamente incapaci d’egemonia e che hanno sostituito l’egemonia attraverso le figure dei capi carismatici come Tito, Stalin, Mao Tsetung e altri. Comunque figure temporanee come quella di Tito: la figura temporanea di antifascista, perché la legittimità della Iugoslavia si è basata quasi unicamente sull’antifascismo, e quando l’antifascismo è finito, improvvisamente Serbi, Croati, Sloveni e Macedoni hanno scoperto che sono diversi. Io continuo a pensare che la Iugoslavia era la soluzione migliore, cioè la meno peggiore, perché io considero le soluzioni migliori degli Stati multinazionali in cui le nazionalità sono intrecciate. Nei casi dove c’è la frontiera sicura come tra Francia e Italia, è facile fare una separazione, un divorzio, ma se popoli sono intrecciati come erano Serbi e Croati qualunque modo di separarvi era traumatico. Anche in Kosovo erano intrecciati Albanesi e Serbi. Poi, quando la Nato decise di bombardare la Serbia non lo fece per ragioni di giustizia, ma per ragioni geopolitiche, per insediare le basi americane. I serbi furono trasformati nel popolo balcanico selvaggio attraverso una campagna mediatica. Certo che c’erano i crimini della guerra, però non esistono i popoli malvagi. E questa è una vergogna dell’Occidente.
Per quanto riguarda l’idea di comunismo, io interpreto il comunismo in un modo che Marx ed Engels e Lenin avrebbero rifiutato, cioè il comunismo come un’ideale regolativo della ragion pura pratica, oppure il comunismo come giudizio riflettente e non determinante. Questo però verrebbe rifiutato da tutti i marxisti ufficiali del Novecento, sia quelli aderenti al materialismo dialettico sia quelli aderenti allo hegelo-marxismo di tipo lukacsiano. Un’altra opinione che io ho è che fra poco la gente sarà costretta a porsi il problema di comunismo, che non sarà più una questione di option. Penso che questo capitalismo finanziario sia talmente distruttivo anche se in questo momento non si vede ancora. Come dico l’orso ha ancora del grasso, e siccome ancora ha del grasso può andare in letargo, ma il letargo finisce quando il grasso finisce.

SH: Ad esempio, Slavoj Žižek dice che “comunismo” è piuttosto il nome di un problema, quando come oggi il bene comune sparisce nella privatizzazione totale.
PREVE: Non ho mai conosciuto Žižek, non l’ho mai visto, e personalmente non so qual è il motivo del suo successo: è una cosa a cui non so rispondere. Perché in generale tutti i pensatori anti-sistema vengono respinti dal mondo mediatico. Come sia possibile essere fuori sistema ed essere una star mediatica? Anche Chomsky lo è. E questa non è una critica. Se Žižek ha avuto questa fortuna ne sono contento, almeno dice cose importanti dentro lo spazio mediatico. Così noi abbiamo alcuni pensatori anticapitalisti che sono star. Non so perché, penso che alla nicchia del 2% di persone colte si possono lasciare Chomsky e Žižek. Mi ricordo di una frase di Althusser prima di morire: «Io sono famoso per la mia notorietà».

Althusser, Gramsci e il capitalismo aleatorio
SH: Siamo arrivati ad Althusser. Il tuo libro appena uscito, Lettera sull’Umanesimo, è dedicato ad Althusser. Potresti riassumere la tua posizione nei confronti di questo pensatore che tu hai conosciuto, diciamo così, alla nascita del suo pensiero negli anni Sessanta frequentando il circolo althusseriano?
PREVE: Dunque, io ero studente all’Università di Parigi negli anni Sessanta. Althusser non era professore ma bibliotecario all’École normale supérieure. Non ero suo allievo direttamente, ma sono stato amico di molti dei suoi allievi diretti, come E. Balibar, con cui siamo stati in rapporti di amicizia molto stretta. E poi, quando Althusser morì, ho partecipato al primo convegno fatto in lingua francese a Parigi dopo la sua morte che si chiamava Politique et theorie. Negli anni Sessanta ero indeciso fra Althusser e Hyppolite: cioè mi trovavo nella situazione dell’asino di Buridano tra due mucchi di fieno. Chiaramente questo è un paradosso e posso dirlo a distanza di 50 anni. Io ero attratto contemporaneamente dalla rivalutazione di Hegel fatta da Hyppolite (non dimentichiamo che i famosi saggi su Marx e Hegel furono pubblicati nel 1965 e sono contemporanei di Per Marx e Come leggere il Capitale), ed anche ero attratto dalla scientificità di Althusser e dalla critica della metafisica del soggetto. Ad un certo punto l’asino di Buridano ha dovuto decidere da quale parte andare. Il momento di verità per me è arrivato con la lettura di Lukács, della sua Ontologia dell’essere sociale, che nonostante non condivida in toto mi ha convinto fondamentalmente del rapporto organico tra Hegel e Marx. A questo punto ho smesso di essere althusseriano, ma smettere di esserlo non vuol dire buttare via tutti gli elementi razionali contenuti in Althusser.
Dunque, io ho scelto Hegel contro Althusser soltanto negli anni Ottanta. Ci sono arrivato a risolvere il mio problema soltanto negli anni Ottanta, quando mi è sembrato di capire che Althusser continuava ad avere una funzione storica molto positiva, perché secondo me la sua critica alla metafisica del soggetto, origine e fine continua ad essere intelligente, per cui non voglio buttarlo via completamente. Ma il suo rifiuto della dialettica e di Hegel secondo me è da respingere. Althusser definì quello di Hegel un Processo senza Soggetto. È una follia perché il soggetto in Hegel c’è, è l’Idea che diventa Spirito. Intanto Hegel rimprovera a Spinoza che non aveva pensato radicalmente la sostanza come soggetto. La mia impressione è che Althusser non sapesse quasi niente.

SH: Di Hegel …
PREVE: No, quasi niente di niente. Ma attenzione, non lo dico con disprezzo. Kant non sapeva quasi niente, leggeva solo i manuali. Kant conosceva Hume e Cartesio. Auguste Comte si vantava di non aver mai letto né Kant né Hegel. Per me per essere un filosofo creativo è utile ma non è necessario conoscere tutta la storia della filosofia, si può anche non conoscerla, fraintenderla ed essere creativi. Althusser non sapeva quasi niente. Non so cosa avesse letto. Ha letto Kojeve. Il suo Hegel passava attraverso Kojeve.
Da giovane Althusser era cattolico, fece anche dei pellegrinaggi cattolici a Roma nel 1948-49. E questo è molto importante; una delle cose che gli althusseriani nascondono di più. Esiste un libro di un certo Salvatore Azzaro che si chiama Althusser e la critica, che parla della gioventù cattolica di Althusser. E questo libro parla del fatto che Althusser fu prigioniero di guerra dal 1940-45, cominciò a mostrare in questo periodo alcuni sintomi di nevrosi, ad esempio accumulava tutta la mondizia sotto il lettino della camerata del campo di lavoro. Poi fu riportato in Francia, negli anni Quaranta era cattolico e faceva i pellegrinaggi a Roma. E solo negli anni Cinquanta diventò comunista. Secondo me questa origine cattolica sempre censurata spiega anche un certo stile teologico di Althusser. Quello che lui chiama l’intervento politico in filosofia è secondo me un intervento teologico in filosofia. Poi, la setta althusseriana attualmente è una setta universitaria priva di qualunque espressività politica. Cioè l’althusserismo politico è morto prima che Althusser morisse, già alla fine degli anni Settanta. Io ho letto i verbali dell’ultima conferenza che Althusser ha fatto in pubblico prima di strangolare la moglie, nella città di Terni. Anche essa rimossa dagli althusseriani. La voglio raccontare perché è fondamentale. Althusser arriva, si siede davanti a tutti gli intellettuali di sinistra che aspettavano il verbo del profeta, sposta tutti i libri dicendo «bisogna suonare senza spartiti»; poi si alza, va alla finestra dove nel cortile c’erano i ragazzini che giocavano a pallone felicissimi e dice: «Il socialismo è merda. Il comunismo è questo», indicando i bambini che giocavano. Dopo la merda avremo l’anarchismo sociale – ha detto così. Il mio libro su Althusser intitolato Lettera sull’Umanesimo, titolo che ho scelto apposta perché è un titolo di Heidegger, è una critica educata di Althusser in cui definisco il mio concetto filosofia-scienza-ideologia prima, e poi faccio una critica al materialismo aleatorio e all’ultimo Althusser. Una critica molto dura. E questo lo considero il mio congedo definitivo e completo dall’althusserismo. In questo libro io affermo che Althusser era arrivato al taoismo ed a una concezione puramente anarchica. E questo è interessante, perché poco prima della uccisione della moglie andò a trovare Althusser il filosofo italiano Lucio Colletti (prima marxista e poi berlusconiano), che fece un’intervista in cui dice: povero Althusser, è pazzo. Già questo è poco educato. «Mi sono accorto che era pazzo perché mi invitò in un piccolo ristorante vietnamita e mi disse: il più grande marxista del mondo è Toni Negri – dice Althusser», ma sempre secondo Colletti, non abbiamo un altro testimone. Io ho fatto molta attenzione sia all’intervista di Colletti che al discorso di Terni. Quando Althusser uccise la moglie scrisse una sua autobiografia che si chiama Il futuro dura a lungo. È un’autobiografia interessantissima, piena di menzogne, dove lui racconta che ha conosciuto De Gaulle, che non è vero. Tutta fantasia che rivela le sue angosce.
L’althusserismo come setta universitaria è finito; esistono ancora alcuni althusseriani, per esempio in Grecia dove ho alcuni amici althusseriani. Però la domanda che faccio io a te è cosa vuol dire oggi essere althusseriani. Negli anni Sessanta era chiaro cosa voleva dire: voleva dire contrapporsi all’umanesimo interclassista di Garaudy in favore di una radicalizzazione classista del marxismo. Chiunque ha vissuto quegli anni lo sa. Però visto che tutto ciò è finito 40 anni fa mi chiedo che cosa vuol dire oggi essere althusseriani, che significato abbia. Se il significato è “eliminazione del soggetto”, è frutto di fraintendimento. È vero che la sorte di un filosofo morto è di essere frainteso, perché quando il filosofo è morto non può più rispondere, per cui Kant non può polemizzare con i neokantiani e Marx non può polemizzare con Lenin e Stalin. Siccome ho vissuto quegli anni, so che il vero problema di Althusser non era criticare il soggetto ma criticare la Metafisica del soggetto, cioè criticare la metafisica del soggetto proletario inteso come sviluppo di un origine verso un fine. Al di fuori di questo contesto politico la critica della trilogia soggetto-origine-fine, la critica del soggetto non ha senso, diventa semplicemente un’altra cosa. Per criticare il soggetto occorre andare da Hume, Deleuze, etc., ma non da Althusser, che non c’entra niente.

SH: Se riprendiamo l’idea di Althusser su Marx come scopritore di un nuovo continente, potremmo dire che il compito del marxismo è teorizzare sul come abitare questo continente, come renderlo vivibile? E che questo lavoro non è ancora finito …?
PREVE: Non sono d’accordo con la metafora dello scopritore del continente Storia. Questa metafora è tratta da Cristoforo Colombo che è partito per andare in India e poi scoprì l’America senza sapere che c’era. La metafora di Marx come scopritore di un continente Storia è errata e scientistica.

SH: E tra l’altro appartiene al paradigma dello spazio da cui è partita la nostra conversazione.
PREVE: Non soltanto questo, ma c’è una ragione più profonda. La storia non è una scienza nel senso delle scienze della natura come chimica o fisica. E pertanto la storia è una disciplina per cui la parola scienza può soltanto essere usata metaforicamente. La conoscenza della storia vuol dire la conoscenza del passato, del presente e del futuro (dove il futuro rimane inconoscibile). E Marx pensava che fosse conoscibile attraverso il concetto di legge storica, cosa che oggi sappiamo che non è così. Per cui semplicemente respingo la metafora della scoperta di un continente, perché considero la storia una disciplina in cui sono intrecciati due elementi: filosofia della storia, di cui Marx non è scopritore ma sono scopritori Vico, Fichte e Hegel, e la scienza della storia dove l’apparato scientifico di Marx è un apparato provvisorio, utile, ma non è affatto detto che abbia scoperto un nuovo continente.

SH: E quando dici che il capitalismo è un incidente aleatorio, non è questo un “residuo althusseriano” nel tuo pensiero?
PREVE: La questione della nascita aleatoria del capitalismo io l’ho tratta non da Althusser ma da Robert Brenner. Brenner dice che a metà Settecento le condizioni che resero possibile il decollo (take off) capitalistico dell’Inghilterra di quei tempi, da non confondere con gli elementi borghesi già presenti prima nel Cinquecento e nel Seicento, furono largamente aleatorie, cioè il fatto che ci fosse una combinazione del commercio triangolare e del passaggio dell’agricoltura alla forma dello sfruttamento capitalistico (la teoria di Sweezy e di Dobb). Il capitalismo rappresenta nella storia umana non uno sbocco inevitabile di questa storia, ma un fenomeno largamente aleatorio che per certi versi è paragonabile al fatto che gli uomini abbiano vinto contro i neanderthal. Perciò, così come lo sviluppo dell’uomo sulla terra è un fenomeno largamente aleatorio, nello stesso modo lo sviluppo del capitalismo è largamente aleatorio.

SH: E questa tesi come si inserisce nel quadro del marxismo, avendo presente l’idea di necessità storica che era dominante?
PREVE: Quello che viene chiamato spesso marxismo non c’entra con Marx, perché è una formazione ideologica nata fra il 1875 e il 1895, di cui furono fondatori Kautsky e Engels. Essa è in realtà una forma di positivismo di sinistra che ha una teoria neokantiana della conoscenza, per cui se qualcuno mi chiedesse quale è il pensiero di Marx, direi: è un pensiero idealista non coerentizzato. Perciò c’è una filosofia della storia idealistica che è a fianco di una teoria sociale di modi di produzione che in quanto tale non è né materialista né idealista, ma è una teoria sociologica. Quello che viene chiamato Marxismo è una scena primaria come direbbe Freud. Secondo me la scena primaria del marxismo, che il marxismo non ha mai abbandonato, nasce in quel ventennio dal 1875 al 1895 e nasce per opera di Engels e Kautsky e io lo definirei come un positivismo di sinistra unito a una teoria gnoseologica del rispecchiamento prodotta di Friedrich Lange nella Storia del materialismo del 1866.
Ora, il marxismo non si è mai separato da questa scena primaria, ma l’ha mantenuta per 130 anni. Quando questa scena primaria è caduta con la fine dell’Urss e dei paesi socialisti, la comunità dei marxisti non ha avuto il coraggio di rompere con essa. Ad esempio, mantenere il materialismo come teoria del rispecchiamento, mantenere la teoria dei cinque stadi (che è una secolarizzazione marxista positivista della teoria borghese del progresso. È, come direbbe Lukács, “una storia spogliata dalla forma storica”, cioè una pseudo-storia). Tutto questo fondamentalmente nel linguaggio di Kuhn vuol dire che il vecchio paradigma scientifico non è abbandonato, ma si cerca soltanto di fare le aggiunte ad hoc e le eccezioni senza fare la rivoluzione scientifica. Ora, a mio parere, il marxismo tutt’ora non ha ancora avuto una rivoluzione scientifica a causa del conservatorismo dei gruppi universitari marxisti e dei gruppi militanti marxisti, però per ragioni diverse. Sia i gruppi universitari che hanno le principali riviste Historical materialism, Actuel Marx etc., sia i gruppi militanti (trozkisti, staliniani, maoisti e così via), non hanno osato fare un rivoluzione scientifica. Allora il primo passo di una rivoluzione scientifica è di dire che il capitalismo è nato in modo aleatorio. Non è l’unico ma è uno dei passi.
Per quanto riguarda “il residuo althusseriano” il fatto è questo: Althusser prima di morire ha scritto una storia della filosofia su base aleotoria, in cui lui parla di tradizione materialistica in filosofia, in cui mette dentro Heidegger, Rousseau, Epicuro, Machiavelli. Io la respingo completamente. Però considero intelligente la teoria dell’aleatorietà.

SH: A tal proposito mi vengono due riflessioni. La prima riguarda il modo in cui la tesi sull’aleatorietà e non necessità del capitalismo ci indica oggi di superarlo. Perché se un fenomeno è nato contingente, allora anche la sua vita non è necessaria e la sua morte diventa contingente. La seconda riflessione si basa sul fatto che la contingenza non deve escludere necessariamente la necessità, purché quest’ultima non si consideri come la necessità predestinata che deve per forza realizzarsi come se ci fosse un fato ineluttabile. In questo modo, prendendo l’esempio hegeliano, anche quando Cesare attraversava il Rubicone non è che lui era portato da una necessità superiore chiamata l’astuzia della ragione, ma il suo atto storico era contingente e la necessità viene dopo, retroattivamente; perché la necessità qua è piuttosto pensata come l’autoriflessione della contingenza stessa.
PREVE: Sono completamente d’accordo con questa definizione di necessità. Facciamo un esempio: se io studio come è nato il modo di produzione schiavistico in Grecia vedo che esso è nato in modo aleatorio e contingente, dovuto al fatto che nel Regno di Lidia, quello di Creso, davanti all’isola di Chio, cominciarono a fare delle monete (prima la Grecia non aveva le monete). A questo punto le monete passarono all’isola di Chio e poi all’isola Egina davanti ad Atene. E nel giro di 50 o 100 anni si creò una classe dei proprietari schiavistici. Fu infatti contro questa classe che Solone fece le sue leggi per impedire la messa in schiavitù per i motivi di debito. Questo è un tipico esempio di come il modo di produzione schiavistico, nato in modo completamente aleatorio e casuale, ha dato poi luogo a un fenomeno di necessità successiva. Per esempio, il feudalesimo europeo è nato in maniera completamente aleatoria per l’incontro fra Gefolhschaft dei Germani (il seguito militare armato del re) con il latifondo romano; l’incontro fra questi due elementi, aleatorio, ha dato luogo al modo di produzione feudale, che una volta messo in piedi è durato poi mille anni. Stessa cosa per il capitalismo. Il capitalismo è nato in modo aleatorio a metà Settecento, ma una volta innescato ha dato luogo a delle regolarità. Perciò la formulazione che hai dato tu, che la necessità è un’autoriflessione dialettica della contingenza, è assolutamente corretta.

SH: Più volte nelle tue risposte hai usato il linguaggio gramsciano. Allora, la mia impressione che può essere sbagliata e può sembrare sciocca perché fatta da uno straniero, è che il pensiero di Gramsci non è ancora affrontato giustamente. A parte tantissimi lavori, studi e articoli su Gramsci in Italia, mi sembra che la sua attualità oggi non sia riconosciuta sufficientemente. Possiamo dire alla Hegel che Gramsci è noto ma non conosciuto?
PREVE: Io personalmente sono ammiratore della figura di Gramsci e della sua filosofia mai sistematizzata e mai coerentizzata. Gramsci è stato usato e manipolato come ideologo di legittimazione del vecchio PC dal 1946 al 1990. Perciò si sono scritti migliaia dei libri su Gramsci soltanto per motivi opportunistici. Gramsci nel mondo anglosassone è diventato un teorico di quello che loro chiamano cultural studies, cioè uno studioso della cultura, e perciò alle università anglosassoni Gramsci non è più un intellettuale comunista, ma è semplicemente un grande teorico di cultura.

SH: Ma questo è un lavaggio ideologico di Gramsci e la sua riduzione.
PREVE: Certamente lo è. Ma c’è un motivo per cui Gramsci è stato censurato. Perché lui è filosoficamente un neoidealista, come erano anche Gentile e Croce, però comunista politicamente, per cui la cultura italiana che è una cultura drogata dalla politica centro-sinistra-destra, non è arrivata neppure a capire una cosa elementare: che uno può essere neoidelista hegeliano pur essendo fascista (Gentile), liberale (Croce) o comunista (Gramsci). Questa cosa è completamente incomprensibile per un intellettuale italiano medio drogato dalla politica.
Gramsci è scoperto, letto e tradotto in molte lingue, Gramsci è molto presente nell’America Latina (Argentina per esempio) e per quanto riguarda Italia devo dire, ma mi dispiace dirlo a uno straniero: l’Italia è un paese malato, è stato malato per 40 anni della contrapposizione Partito Comunista – Democrazia cristiana, e poi è stato malato per 20 anni della simulazione teatrale berlusconismo – antiberlusconismo, per cui sembrava che fare politica fosse soltanto lo svelare le puttane di Berlusconi oppure difendere la libertà contro gli orribili comunisti, nel frattempo spariti.

Italia di Berlusconi, Syriza in Grecia e gli orsi in letargo
SH: Sembra che nell’Italia sia più visibile quello che è una tendenza globale del capitalismo. É interessante che molti filosofi e teorici prendano l’esempio dell’Italia come un terreno per rintracciare i processi del capitalismo, cioè quello che può succedere anche negli altri paesi.
PREVE: Ad esempio Roberto Esposito

SH: Sì, ma già negli anni Ottanta e Novanta Baudrillard scriveva che l’Italia è un paese della simulazione gioiosa e della connivenza ironica dove non ci sono le leggi, ma le regole del gioco. Oggi Žižek dice che l’Italia è l’immagine del nostro futuro sinistro. Il suo messaggio è più o meno questo: se volete vedere il futuro autoritario del capitalismo, guardate l’Italia di Berlusconi.
PREVE: Secondo me è una sciocchezza. Tu chiedi questa cosa non ad un italiano, ma ad un italiano che si chiama Costanzo Preve. Io non sono portavoce di un’entità metafisica chiamata Italia, come tu non sei portavoce di un’entità chiamata Serbia. E nessuno lo è. La mia opinione è che gli intellettuali stranieri non conoscono l’Italia. Non conoscono l’Italia perché prima erano illusi ed ora sono tragici. Dunque, prima, negli anni Sessanta-Settanta, il PC italiano ha fatto una campagna propagandistica verso gli intellettuali europei dicendo “siamo i comunisti migliori del mondo” e “non abbiamo niente in comune con Russi, Cinesi etc. …”. Ma è una campagna totalmente illusoria, perché erano più corrotti degli altri. Basta vedere D’Alema, ex-comunista che ha fatto la guerra in Kosovo nel 1999. Gli intellettuali stranieri generalmente hanno dell’Italia un’immagine pittoresca: commedia dell’arte, la vita giocosa, Benigni, spaghetti, San Remo e così via. Questo stereotipo che io ho conosciuto molto in Francia e in Germania, è completamente falso, è una porcheria indegna. Per di più, gli Italiani amano pensare se stessi come un popolo buono, ma gli Italiani hanno fatto in Etiopia, Libia, Iugoslavia, Grecia stermini terribili, ma non vogliono saperlo e vogliono pensare di essere buoni a differenza dei Francesi e Inglesi che sono cattivi.
Gli intellettuali hanno creduto che l’arrivo di Berlusconi fosse l’arrivo di una forma del totalitarismo soft e una nuova forma del fascismo. Non è vero. Sono ovviamente contro Berlusconi. La vittoria di Berlusconi è stata la vittoria del vecchio bacino elettorale anti-PC che in Italia ha sempre avuto dal 50 al 60 per cento dei voti. Nel momento in cui i magistrati di Mani Pulite – che fu un colpo di Stato giudiziario ed extra-parlamentare – hanno arrestato l’intera classe politica del partito socialista, democristiano e così via, era rimasta unicamente la classe politica del PC pronta a prendere il potere regalato dai magistrati. Berlusconi, con i soldi e le televisioni, poteva concentrare i voti su se stesso. Però per 20 anni secondo me Berlusconi non è stato l’espressione di una nuova forma del fascismo mediatico e del populismo autoritario. Queste sono stupidaggini di chi non ha mai vissuto in Italia e di chi pensa che la Grecia è il Partenone e la Serbia è la slivovitza e basta. Il livello è questo. Cosa diresti se uno ti dicesse «Ah, i serbi sono quelli che bevono slivovitza»? Diresti che è un po’ più complicato. Berlusconi è una persona certamente abietta, ma non rappresenta a mio parere un nuovo populismo mediatico. In questo momento il governo Monti ha fatto quello che Berlusconi non avrebbe mai potuto fare. Oggi “il fascismo” in Italia è Monti. Se Berlusconi avesse detto: prolungo l’età pensionabile di 5 anni, taglio gli stipendi, licenziamenti etc… .avremmo avuto forse le manifestazioni come in Spagna. Invece, Berlusconi è stato messo in disparte perché non poteva farlo. Ecco il vero problema.

SH: Vuoi dire che il Governo Monti realizza tutto quello in cui Berlusconi forse non sarebbe stato efficace e avrebbe fallito.
PREVE: Sì, questa formulazione la accetto, ma non quella di prima.

SH: L’ultima volta quando abbiamo parlato si aspettavano le elezioni nella Grecia. E molte speranze erano rivolte al nuovo movimento-partito Syriza che tu hai apertamente appoggiato. Secondo me nella Grecia succedono cose di estrema importanza, e Syriza potrebbe essere un soggetto politico-modello anche per gli altri paesi.
PREVE: Io ho vissuto a lungo in Grecia, parlo perfettamente la lingua greca, per cui – pur essendo italiano – non sono del tutto straniero alla cultura greca. Per questa ragione la crisi della società greca e il suo impoverimento mi hanno colpito particolarmente. Ora, se io fossi stato greco avrei certamente votato Syriza senza alcun dubbio. Non avrei votato Partito Comunista greco, il quale ha messo come parola d’ordine: non credete in Syriza; è una cosa terribile. Però, fatto questo, il popolo greco ha trovato in Syriza secondo me un’illusione, cioè l’illusione di poter ricontrattare il suo rapporto con l’EU senza essere ridotto alla fame. Secondo me, questa è un’illusione. Syriza ha propugnato una via di mezzo: siamo nell’Euro, non usciamo dall’Euro, ma contrattiamo il nostro rapporto con la Germania e la Francia in modo che ci possano condonare o l’intero debito o una parte. Il popolo greco ha scelto Syriza giustamente. Non è un caso che gli intellettuali europei come Žižek e Balibar hanno appoggiato Syriza e Tsipras. Per cui gli intellettuali europei hanno trovato una speranza in Syriza perché non dice no alla Europa, ma sì però sulle altre basi.
I greci hanno paura di uscire dall’Euro perché la drahma ricorda ai greci la miseria e povertà. La soluzione del ritorno alla drahma non era popolare in Grecia. Ma Syriza è un’illusione che anch’io avrei votato…

SH: Ma non è l’orizzonte di speranza che possa esistere una società diversa proprio quello che bisogna mantenere come punto di partenza? Poi sul resto sicuramente possiamo discutere se è una soluzione o no …
PREVE: Se si vuole la speranza, allora Syriza è la speranza. Secondo me la crisi della Grecia è appena cominciata. E non è un caso che in Grecia si sia formato un partito nazista del 7%, Alba dorata, con dei teppisti in divisa, le mazze da baseball, che picchiano e massacrano gli immigrati. Ripeto, la Grecia è un orso senza grasso. E i giorni cattivi della Grecia ancora devono arrivare.

Torino, il 21 luglio 2012.

Già comparso sulla rivista Koiné   – Anno XIX  –  NN° 1-4  –  Gennaio-Dicembre 2012

Il testo di questa intervista è stato pubblicato anche in lingua serba nel terzo numero della rivista filosofica “Stvar” (Thing – Journal for Theoretical Practices) che esce a Novi Sad come pubblicazione del circolo filosofico “Gerusija” (http://gerusija.neru9.com/, http://tinyurl.com/74tdy37)

L’immagine:
Paul Klee, Ritmi rosso, verde e viola giallo, 1920.

Paul Klee, Ritmi rosso, verde e viola giallo, 1920

Giorgio Penzo – Recensione a «DUEL» di Steven Spielberg, U.S.A., 1971

Duel_locandina

David, piccolo borghese con moglie, figli e casetta con giardino, possessore di una brillante “compact-car” rosso fiamma, si reca a trovare un superiore.

Mentre si srotolano le miglia dell’autostrada e David (Dennis Weaver) ascolta comunicati commerciali a raffica e si sorbisce musichetta “Country and Western” di bassa lega, supera un colossale camion piuttosto vecchiotto, ma con numerosi cavalli nel motore (come vedremo). Un breve suono di clacson per chiedere strada, un veloce sorpasso, ed incomincia l’incubo: il banale diviene tragedia, il reale irreale; l’incubo si concluderà negli ultimi fotogrammi quando il protagonista, ormai in salvo, inizierà di fronte al sole un rito di ringraziamento che lo ricolloca nuovamente nella vita reale.

  1. – La Caccia

Nel lungo sogno appare chiaro il motivo della caccia, come osserva giustamente Giuliano Giuricin, in una lettera a Cinema Nuovo: «Al centro dell’opera di Spielberg si trova il motivo della caccia, come la polarità di cacciatore e cacciato che Wright Mills caratterizza la struttura mentale dell’uomo contemporaneo».

Non a caso appare qui il nome di Mills, autore di Colletti bianchi: La classe media Americana che descrive impietosamente vita e miserie dei tanti David da cui è composta la classe media U.S.A.

Ma la caccia non è una caccia libera e spietata, bensì soggiace a certe regole che riportano alla mente il codice della caccia alla volpe o, ancor meglio, la caccia con i falconi: un testo come il De Arte Venandi Cum Avibus di Federico II, con le regole minuziose e con l’indicazione delle prede possibili per un animale nobile come il falcone, è il riferimento più preciso che mi venga alla mente.

Regola prima del binomio camion-camionista (quasi invisibile) è considerare come preda il binomio David-macchina. Fofi: «In Duel è il camion ad imporre la regola: non attacca l’uomo fuori dalla macchina o la macchina priva dell’uomo, ce l’ha con l’insieme uomo-macchina». Dimostrazione abbastanza evidente di questo è il momento in cui il camion distrugge completamente la stazione di servizio quando David cerca di chiamare la polizia: in effetti è la cabina telefonica il suo bersaglio, poiché David non rispetta una regola base cercando di far intervenire in questo duello un altro elemento, la polizia appunto; il tema del rispetto delle regole si ritrova quando David cerca di convincere due vecchietti a chiedere aiuto: la reazione del camion è pronta e decisa, mette fuori combattimento la macchina dei due ed attende pazientemente che David lo preceda, perché la preda deve sempre temere, fuggire dinanzi alla minaccia: solo alla fine, quando la macchina (senza David) impatta contro il camion, la regola è violata, il cacciato si ribella al cacciatore ed impone la sua legge.

E’ bene intendersi subito su due punti: quando dico “camion” alludo al duo camion-conducente invisibile (o quasi); la supposta lealtà dello scontro è mera finzione, poiché l’aspetto quantitativo, la grandezza del camion, chiude apparentemente ogni possibilità di scampo al duo David-macchina: in effetti, come prima ho ricordato, è ribaltando questo criterio quantitativo nello scontro, e sostituendovi un criterio qualitativo, cioè l’astuzia e l’intelligenza, che David “viola” le regole di partenza ed impone le sue: “taglia”, si direbbe in termine bridgistico.

Non mi sembra inoltre che “il gioco” divenga progressivamente “un gioco mortale”, ma anzi che l’incubo sia presente e letale fin dal famoso colpo di clacson che suscita la reazione del camion: il braccio che invita al sorpasso quando sulla corsia opposta passa un bus e il tentativo di schiacciare la macchina al passaggio a livello, sono sicuramente la prova che non è mai un gioco. C’è certamente l’impressione da parte dello spettatore di assistere ad una lotta del gatto col topo, ma è la dimensione innaturale, incubica, in cui si svolge il dramma che lo porta a ciò.

  1. – Il Gran Feticcio: L’Automobile

Un altro aspetto, forse marginale, ma utile per comprendere il film di Spielberg è il suo attentare ai sacri miti della way of life americana, per esempio l’automobile: la bellissima vettura rosso-fiamma di David passa attraverso numerose traversie e verso la fine del film la vediamo ridotta ad un ammasso di lamiere che ben poco ha dell’aggressivo aspetto di partenza: lo status symbol che essa è viene ridicolizzato, messo alla berlina e infine ridotto alla sua forma primigenia: “chalybs es et in chalybem reverteris”; alla fine, come una qualunque arma di poco prezzo, viene utilizzata per organizzare il trick ai danni del camion e mentre prima, lungo tutto il percorso era stata sbeffeggiata dal colosso inseguitore, proprio ridotta a quello che in partenza non doveva essere, strumento e basta, sasso gettato con violenza, adempie ad una funzione, salvare l’uomo, per la quale non era stata costruita.

Solo quando David “si libera” della sua macchina, è salvo: meglio, solo dopo il disastro finale, in cui sia il camion che la vettura “periscono”, l’uomo può innalzare quella specie di epinicio che esalta al tempo stesso la “liberazione” dal Male (ciò che è estraneo, alieno) e il rinnovato “piacere” di vivere.

Ma l’atteggiamento di Spielberg verso la macchina non è piattamente negativo, bensì dialettico, è un odio-amore: se in Duel sembrerebbe che solo con la distruzione di questo instrumentum regni americano l’uomo possa riprendere contatto con le forze visibili ma misteriose della Natura da cui nasce, nel successivo Sugarland Express la macchina è anche amica, è Libertà, è Fuga dalla costrizione, è mezzo per raggiungere uno scopo “nobile”, se vogliamo (il figlio perduto).

Si potrebbe aggiungere, occupandoci adesso del camion, che senza la visione fugace di un paio di stivaletti di cuoio e di un braccio sinistro mosso meccanicamente, sia il camion stesso che abbia preso vita, intelligenza, astuzia dal suo fantomatico guidatore e gli si sia sostituito: qui il riferimento letterario e cinematografico è più preciso, basterebbe pensare al Golem di Wegener, al Frankestein (quello di Mary Shelley, non quello di molti filmacci) e soprattutto ai Robots del premonitore R.U.R. di Čapek.

Convalida di questa ipotesi è il misterioso liquido che scorre fra i rottami del mostro ormai distrutto: sangue del guidatore o olio della coppa? L’uno e l’altro, forse, indistinguibili, tale è stata la simbiosi fra uomo (invisibile) e mezzo meccanico.

Un altro mito a cui attenta il film di Spielberg è lo stereotipato milieu di tante avventure western entrate nella leggenda, come Stagecoach o My darling Clementine, perché, non dimentichiamolo, è proprio attraverso il deserto, simile a quello della Monument Valley, che si svolge l’avventura di David: solo che invece delle maestose e dinoccolate figure di John Wayne o Henry Fonda caracollanti su mustangs in uno sfondo di rara bellezza, si presenta David con la macchina che i reiterati assalti del camion riducono sempre più simile ad un rottame; il cavallo diviene un ronzino di ferro, così come il superman che veste da cowboy diviene un ometto pazzo di paura (a proposito, quanti avranno riconosciuto nel Dennis Weaver di Duel il timido, nevrotico watchman pieno di tic del Motel Grandi in Infernale Quinlan?) che trova nella rabies esistenziale il mezzo per salvare la pelle.

III. – Analogie Col Mondo Medioevale

Innanzitutto il termine Duel che, per quanto sintetico ed efficace, non rende sufficientemente il senso del film, trattandosi, come si è visto, di uno scontro ineguale, dato che al camion sono dati tutti gli atouts, mentre solo in fondo David riesce a introdurre le sue regole qualitative.

Il duello, a mio avviso, sorge da quel sorpasso che apre l’incubo: visto in questo senso, non si tratta più di una semplice punizione, ma di un guidrigildo che David deve versare per il delitto commesso: non ha importanza se la penale è la vita stessa di David.

La regola del duello, il seguire scrupolosamente le norme del codice cavalleresco, è un impegno del camion,

anche a costo di procrastinare la punizione: infatti attende David e la macchina ai bordi della strada (per analogia una specie di tregua di Dio); aspetta che David risalga sulla macchina quando questi vorrebbe fuggire a piedi (per analogia il duellante che permette al rivale di riprendere la spada caduta); il volere lo scontro a due, senza nessuna interferenza da parte della polizia (scena della cabina telefonica) o di altri (i vecchi coniugi); riprende la caccia solo quando le parti di cacciato e cacciatore, inseguito ed inseguitore sono perfettamente definite, canoniche.

In un certo senso è come l’inseguimento di Achille a Ettore intorno alle mura di Troia, con un protagonista (Achille) già sicuro della vittoria, il deuteragonista (Ettore) presago della sconfitta, ma conscio che vi è una dignità da difendere e nel cui cuore alberga una “speranziella”: in Duel il finale è però capovolto, in primis perché manca una τύχη che abbia già predeterminato l’esito della lotta e poi perché è violando le regole dell’avversario, cioè scindendo il sinolo uomo-macchina e rinunciando al secondo termine per pensare a se stesso come animal, come soggetto all’istinto di conservazione che David riesce a cavarsela, evitando la resa dei conti, come un guerriero che si tolga l’armatura dinanzi ad un altro armato pesantemente e riesca a tendergli una trappola mortale (Orazii e Curiazii, o, per rimanere nel mondo medioevale, la scena dell’affondamento nei laghi Masuri dei Cavalieri Teutonici opposti ai contadini di Alexander Nevsky, entrambi esempi di insopportabile rottura delle regole belliche cavalleresche).

Se per esempio riprendiamo le pagine del tournoi che nell’Ivanhoe oppone il Cavaliere Nero alias Cavaliere Del Catenaccio alias Riccardo Cuor di Leone ai più prestigiosi rappresentanti dell’Ordine dei Templari, come Brian de Bois-Guilbert, vediamo che il rituale (quello eternato da Walter Scott…) viene rispettato; ma all’apparire di Locksley alias Robin Hood e dei suoi allegri compagni di Sherwood, è valendosi di regole “diverse” da quelle della cavalleria che questi riescono a mettere sotto i titolati Normanni (attacco al castello di Front-de Boeuf). Walter Scott redime peraltro gli allegri predoni facendone seduta stante dei supporters del re in incognito e reinserendoli nella legalità perbenista.

Un aspetto più figurativo che discorsivo è la possibilità di istituire un parallelo fra il camion e un drago, proprio uno di quei draghi che sembrano uscire dalle menti fervide di un Merlino o di un Cavaliere della Tavola Rotonda: questa notazione mi sembra valida appena ci si ricordi del lento procedere del camion lungo la galleria che lo riporta a David: i due fari, non so se per un fenomeno ottico o per un eccezionale esito fotografico, sembrano veramente occhi di un drago, fiammeggianti come le litografie del tempo andato amavano rappresentarcelo; occhi di un essere pronto a ghermire la vittima, ma lento e maestoso perché sicuro dell’esito dello scontro.

Nel Drago di Evghenij Schwarz il mostro è tanto sicuro della propria vittoria nel futuro duello col giovane eroe, che, per quanto dapprima tentato di usare qualche astuto accorgimento per sbarazzarsi del rivale, alla fine accetta, per dignità ed orgoglio, di combattere secondo le regole, e viene clamorosamente sconfitto ed ucciso (questo è un inciso, perché il dramma di Schwarz ha ben altre implicazioni).

  1. – Una Lotta Gatto-Topo Ribaltata

Il motivo dello scontro ineguale è pur esso fertile di riferimenti.

La natura ci dà esempi sconvolgenti di scontri apparentemente ineguali nei quali il piccolo prevale sul grosso valendosi di quel quid che è dato da una summa di astuzia, agilità, destrezza e riflessi pronti: pensiamo, ad esempio, allo scontro vespa-migale, che è per lo più risolto quando la vespa riesce a paralizzare i centri nervosi del rivale o, ancora meglio, alla classica lotta mangusta-cobra: in un ideale bookmaker, ben pochi punterebbero sulla mangusta, eppure, e non solo nei libri di Rudyard Kipling, quest’ultima spesso prevale.

Pensiamo all’incontro-scontro Ulisse-Polifemo: anche qui il banale diviene tragedia, ma, pur se con mezzi diversi, Ulisse, emblema della scaltrezza umana, gioca la montagna di carne che gli sta di fronte: ma l’esito dello scontro è talmente schiacciante in suo favore, che non si attaglia al film, in cui l’eroe (se di eroe si può parlare) se la cava per il rotto della cuffia.

Molto più preciso e puntuale è il confronto: David-vettura contro camion – David contro Golia, anche se valido soltanto nello scontro finale: in effetti David (che l’omonimia sia solo un caso?) utilizza la macchina come una pietra lanciata da una fionda contro il Golia del momento e, altrettanto inevitabilmente, lo abbatte: qui si ferma il paragone, perché il David Biblico è già un “Unto da Jahweh”, la sua impresa è baciata dalla “grazia soprannaturale”, mentre l’altro David deve fare tutto da solo.

  1. – Il Camion Come Simbolo – Melville

Un sogno quindi, o «tutto quello che lo spettatore vuole, a seconda delle paure notturne, basate sulle sue inadempienze e sulle sue frustrazioni» (Fofi): quindi, aldilà del primo piano di lettura, che è relentless thriller di solido intreccio, si colloca un gusto verso la tradizione letteraria che ha avuto in America grandi rappresentanti: l’allegoria e il simbolismo.

Cerchiamo di esemplificare i due termini e stabilire, con l’aiuto di Richard Chase, in quale direzione si immetta Spielberg: la famosa lettera scarlatta, protagonista, in un certo senso, dell’omonimo romanzo di Hawthorne, è un simbolo comune o segno, indica l’adulterio appunto, ma (secondo piano di lettura) è «anche il marchio impresso sopra ogni vita umana» (Chase).

La balena bianca, il Moby Dick di Melville è un simbolo poetico: il significato della balena non è univoco, può essere eventualmente unilaterale (per Achab Moby Dick è il Male, ma non necessariamente per Ismaele o per il lettore: Achab allegorizza la balena; concentra in una la molteplicità delle interpretazioni).

Lasciando da parte le differenze fissate da Coleridge per distinguere allegoria e simbolismo, cioè vederle come rampollanti rispettivamente dalla fantasia o dalla immaginazione, dando la palma della “facoltà poetica” all’immaginazione (come ogni buon romantico), Chase osserva che: «l’allegoria raggiunge il suo massimo splendore quando tutti sono d’accordo nel definire la verità, quando la letteratura è esposizione, mentre una letteratura simbolista nasce dal dissenso nel definire la verità».

Tenendo ben presente la lezione di Melville, del Melville maggiore di Moby Dick e Bartleby, Spielberg utilizza il Leviatano adattandolo ai suoi tempi e facendone un mostro da autostrada. Anche la analogia fra i protagonisti del dramma è puntuale, anche se il rapporto cacciatore-cacciato è inverso: nel romanzo Moby Dick è un simbolo, ma è pure ben presente, come attestano i poderosi colpi alle barche ed infine alla nave e, soprattutto, la gamba di legno di Achab – nel film il camion, fin dal suo apparire sullo schermo suscita un reverenziale timore ed una impressione di forza (le targhe dei vari stati collocate sul davanti sono riprese come se fossero trofei di guerra di un combattente invincibile); sia nel film che nel romanzo entrambi questi combattenti vigorosi sono “fuori della norma”, sono resti di un’epoca ormai passata che fronteggiano il “nuovo”: basti ricordare lo scontro fra l’imponente camion stile anni ’40 e la vettura di David e paragonarlo con la baleniera solida e funzionale degli anni 1840-1850 (funzionalità che ci viene descritta da Melville in pagine memorabili per perizia tecnica e commosso rispetto del lavoro umano) alla caccia di un qualcosa di selvaggiamente anomalo, come il capodoglio bianco che non sottostà alla logica mercantilistica dei Nantucketesi, primi ambasciatori del capitalismo U.S.A. sui mari (50 anni prima della guerra con la Spagna).

La necessità quasi biologica che un uomo sopravviva al dramma, qui David, là Ismaele, viene ad affermare vigorosamente che, nonostante tutto, la vita umana rimane al centro della Natura, anche dopo i più furibondi drammi esistenziali: a Ismaele, raccolto nella bara del suo amico Queequeg (supremo oltraggio alla morte in agguato) e a David (restituito alla vita quando la ruota del camion ha compiuto il suo ultimo giro) si apre una nuova pagina, la pagina dove si scrive la fine delle facili illusioni e l’invito alla vigilanza verso i mostri che l’uomo crea con le sue stesse mani: Moby Dick diventa nemico solo perché con la caccia si attenta al suo esistere fisico, alla sua animalità, mentre il camion reagisce solo perché provocato da un sorpasso.

Si potrebbe obbiettare che quello che in Moby Dick nasce da una feroce lotta per la sopravvivenza, viene provocato nel film da una ripicca, ma, a mio avviso, anche qui Spielberg coglie il segno, facendo vedere che nell’universo scentrato e disumanizzato dell’Occidente e del suo rampollo più forzuto, gli U.S.A., il banale può provocare il dramma: caduti gli elementi cosiddetti “sani” della giovane America, rimane il futile a determinare gli incontri-scontri.

Si può ora rispondere ad una domanda fondamentale per la comprensione del film: il camion è simbolo o allegoria, semplice segno o summa di molti significati che ne formano un simbolo poetico?

A mio avviso il camion è un simbolo, come appunto la balena bianca.

Riprendiamo un passo del Pierre di Melville: «Per quanto ne dicano certi poeti, la Natura non è tanto l’interprete eternamente soave di se stessa, quanto la semplice fornitrice di quell’astuto alfabeto per mezzo del quale, selezionando e combinando come crede, ciascun uomo legge la propria peculiare lezione secondo il proprio cervello e stato d’animo».

Ora, il camion non è parto della Natura, anzi lo si direbbe soltanto un prodotto artificiale che serve; tuttavia, il fatto che Spielberg ignora la presenza del conducente induce lo spettatore a credere il camion come un qualcosa che sia divenuto da inorganico organico e da organico essere pensante.

In questa riuscita nel rendere naturale il camion, nel dargli una dimensione ed istinti naturali (quale istinto è più naturale della caccia?) sta una parte del successo di Spielberg.

Quindi il camion, integrato in una realtà come quella “Naturale”, che si può leggere ma non definire in assoluto (per dirla con Melville), è per ognuno ciò che ognuno lo crede. «Ambiguo come la natura, splendido ed orribile, benigno e malvagio» (Nemi D’Agostino). Riguardo all’ultimo punto non dimentichiamo infatti il momento in cui il camion trae d’impaccio uno scuolabus, quasi a far sembrare parole di un pazzo le affermazioni di David sulla persecuzione di cui è vittima e le sue invocazioni d’aiuto.

«Il camion può essere tutto: la violenza del sistema americano, certamente, ma soprattutto, nella costruzione incubo del film, un concentrato di ciò che popola gli incubi dell’uomo medio: dunque anche, magari, la rivoluzione e il proletariato, oppure l’irrazionale e la morte» (Fofi).

  1. – Dovuto A Kafka

Mi sembra che sia necessario fare i conti con un altro autore, la cui influenza è determinante per il film, e cioè Kafka.

Diario di Franz Kafka, 20 Dicembre 1910: «Con che cosa posso giustificare il fatto che oggi non ho scritto ancora nulla? Con nulla. Tanto più che la mia disposizione di spirito oggi non è delle peggiori. Ho sempre nell’orecchio una invocazione: “Potessi tu venire, Tribunale invisibile!”».

Ecco in nuce uno dei poli di sviluppo de Il Processo. Anche David ha commesso la sua infrazione (il sorpasso), che rimanda evidentemente a ben altre colpe, al limite alla colpa di vivere: egli deve essere punito; addetto alla esecuzione il camion.

David tuttavia non sa o finge di non sapere il perché dell’inseguimento, cerca una risposta nel razionale (ricordiamo il breve processo mentale che sviluppa durante la colazione allo snack-bar) e non la trova.

E’ lo stesso tentativo di Josef K. ne Il Processo, trovare il motivo del suo arresto: «Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché, senza che avesse fatto nulla di male, una bella mattina lo arrestarono». Da qui il protestare continuamente la propria innocenza.

Ma nello stesso capitolo de Il Processo, uno dei guardiani spiega molto chiaramente che: «l’autorità non cerca la colpa» ma «com’è detto nella legge, è attratta dalla colpa»; e alla risposta di K. «Questa legge non la conosco», l’altro guardiano pronunzia le parole che spiegano la problematica più profonda del romanzo: «Vedi, Willem, ammette di non conoscere la legge e nello stesso tempo afferma di essere innocente».

Aggiunge Mittner: «Mentre ancora nella Colonia Penale (1914) il mondo della giustizia si svela subito nella sua struttura concreta, visibilissima: detenuti, ufficiali, impiegati, celle di punizione e una valle in cui da tempi immemorabili si eseguono le sentenze capitali con una macchina che lentamente incide nel corpo del reo i segni misteriosi della Legge disprezzata, nel frammento del 1910 vi è già embrionalmente quella che sarà la grande innovazione del Processo: l’imputato non può mai vedere i suoi giudici, non è mai ammesso al loro cospetto», non conosce la sua colpa.

In America Carlo Rossmann ha appena ritrovato lo zio, “sostituto freudiano del padre”, ed incomincia a conoscerlo, quando un invito per una serata lo porta lontano da casa: la violazione di un appuntamento che Carlo non può conoscere (e quindi rispettare) lo fa ridiventare orfano. In un certo senso, la colpa e la condanna di Carlo sono già predeterminate, le sue obiezioni sono chiacchere, come dice Mr. Green.

Ne Il Processo, quando Josef K. si incontra, nella sala affollata, col giudice istruttore, cerca, seguendo un filo logico, di spiegare l’arbitrio del suo arresto e la nullità della decisione a suo riguardo: ma sia le reazioni della folla sia quelle dei singoli sono totalmente anomale rispetto alle sue parole; il giudice istruttore dicendo: «Volevo farle presente che Lei – senza averne coscienza – rinuncia al privilegio che costituisce per un arrestato l’interrogatorio», afferma una volta di più che il processo è una macchina che funziona irreversibilmente e le obiezioni di K. sono inconsistenti.

Vi sono molti punti di contatto, nel film, con le affermazioni che Orson Welles ha fatto relativamente al “suo” Josef K. in una intervista: «Josef K. è anche un piccolo burocrate. Io lo considero colpevole». Alla domanda perché è colpevole Welles ha risposto: «Egli appartiene a qualcosa che rappresenta il male e che, al tempo stesso, fa parte di lui. Non è colpevole di quanto gli viene rimproverato, ma è colpevole lo stesso; appartiene ad una società colpevole, collabora con questa. K. collabora per tutto il tempo. Io gli permetto soltanto di sconfiggere i suoi carnefici».

Più avanti Welles ha affermato: «Non sono assolutamente d’accordo con queste opere d’arte, questi romanzi, questi films che oggigiorno parlano di disperazione. Non penso che un artista possa prendere come soggetto la disperazione totale: le siamo troppo vicini nella vita quotidiana. Questo genere di soggetto può essere utilizzato quando la vita è meno pericolosa e decisamente positiva».

Se prendiamo alla lettera le “affermazioni” di Welles, e le confrontiamo con i “fatti” di Duel, anche Spielberg dà prima una dimensione incubica al film, ma poi “rassicura” lo spettatore (che ha avuto tutto il tempo di immedesimarsi con David). In questo senso è esatta la affermazione di Giuliano Giuricin che dice: «Il finale di Duel non sembra coerente col resto del film, rassicura invece di allarmare lo spettatore, non ne sovverte insomma le categorie mentali e gli schemi ideologici», operazione questa che esegue invece, ad esempio, Kafka ne Il Processo: la frase finale «”Come un cane!” mormorò, e gli parve che la sua vergogna gli sarebbe sopravvissuta», si sintonizza perfettamente con una vicenda, quella di Josef K., che non si chiude, ma viene soltanto sospesa, per riprendere con altre forme espressive e con personaggi più asciutti, ne Il Castello.

Welles non accetta questo finale: i due esecutori non riescono a servirsi del coltello e devono utilizzare un mezzo molto più impersonale come la dinamite; Josef K. riesce, in un gesto di ribellione (il primo, forse) a rilanciare la dinamite: è un finale aperto, nel senso che K. può salvarsi, e comunque non si lascia agire.

Anche il David di Duel è passivo durante tutto l’arco del film ed attivo solo nel finale: ma la sua ribellione è più fruttuosa, riesce addirittura a distruggere il nemico.

VII. – Conclusioni

E’ chiaro che né lo Josef K. di Welles né tantomeno il David di Duel rispettano la coerenza del discorso iniziato ed infatti il finale risulta “strano” rispetto al resto del film, ma mi sembra che non si tratti necessariamente di un ricorso al tradizionale happy-end del cinema americano: la vita di David è salva, ma è chiaro che le sue “categorie mentali” sono sconvolte e di tutto il suo bagaglio di fiducia nel “sistema” americano è rimasto il sine qua non, la pelle.

Il film di Spielberg si chiude con David inginocchiato sulla terra e accecato dal sole, mentre, come già osservavo, effettua una specie di rito di ringraziamento: in questo ricongiungimento con la Natura può vedersi un apologo sulla necessità della difesa dell’Umanità dai mostri che essa stessa costruisce e che, resisi indipendenti, si ribellano.

Quali sono i limiti dell’operazione di Spielberg? Pur tenendo conto che il film rappresenta un fatto nuovo nel panorama del cinema americano, perché usa un modello letterario (il simbolismo) derivato dalle avanguardie europee, ma risalente ad un maestro tipicamente americano come Melville, riconosciuto che è possibile dare al film un significato di difesa dell’Uomo contro le macchine che lo estraniano da se stesso, è doveroso riconoscere che Spielberg non ha (o non ha ancora) la consapevolezza che «i suoi problemi, il suo senso di disagio, di essere in trappola, sono legati a mutamenti storici di struttura, a fasi di conflitto nell’interno delle istituzioni sociali» (Mills).

In sostanza Spielberg non riconosce che la realtà del mondo, e quindi la via per fuggire agli incubi che assillano David e Spielberg stesso, nasce dallo scontro diretto fra chi accetta la realtà così com’è e la ratifica, e chi invece vuole cambiarla; il che non significa limitarsi a cambiare la struttura economica, ma attuare un rivolgimento che porti appunto a quel “uomo nuovo” che è al centro della visuale di Marx e che un certo tipo di economicismo (come osserva Paul Sweezy sulla Monthly Review) ha spesso posto in secondo piano.

“Dal regno della necessità” (attraverso la ribellione) “al regno della libertà”. Spielberg riconosce la necessità della ribellione e la necessità un “uomo nuovo”, ma non lo identifica con quello derivante dall’analisi e dalla lotta marxista: la sua posizione è quella di chi ricerca isolatamente una terza via in uno scontro che pone direttamente di fronte due concezioni di pensiero e di vita. Ed è una lotta, questa, in cui tertium non datur.

 

Giorgio Penzo

Articolo già pubblicato come lettera nella parte riguardante il rapporto tra Duel e Moby Dick nella rivista di cinema «CINEMA NUOVO».

Giorgio Penzo – nato a Trieste nel 1948, diplomato presso il Liceo Classico “F. Petrarca” di Trieste e laureato presso la facoltà di “Lettere e Filosofia” dell’Università di Trieste (summa cum laude), si dedica con passione allo studio della storia del cinema.

Giancarlo Paciello – Ci risiamo: ancora l’infame riproposizione “Processo di pace” e “Due popoli, due Stati!”

gerusalemme
«Fermate la colonizzazione di Gerusalemme Est»

Premessa

  1. La colonizzazione dei territori occupati
  2. Lo studio sulla colonizzazione di Gerusalemme-Est
  3. La documentazione UE su Gerusalemme-Est
  4. L’insabbiamento della documentazione
  5. Conclusioni

 

 

Région de Jérusalem

 

  1. Premessa

 

Era mia intenzione affrontare in questo saggio la colonizzazione di Gerusalemme-Est, senza per questo dimenticare la violenta e sempre operante colonizzazione, da parte degli israeliani, di tutta la Cisgiordania. E avevo anche deciso di non prendere in considerazione tutto il rumore propagandistico che si nasconde dietro le due formule ormai stantie (e soprattutto false!) “Processo di pace” e “Due popoli, due Stati” dal momento che, vuote entrambe ormai, e da tempo, di contenuto, avrebbero finito col nascondere nella sostanza la barbarie che si sta consumando in Palestina da parte dello Stato d’Israele nei confronti di un popolo che vive da quarantatre anni (!?) sotto occupazione militare.
Ma non ci sono riuscito! Troppo forte il rumore, troppo deformante la lettura dei fatti reali per non dover premettere qualcosa. Di qui, la modifica sostanziale del titolo, fuorviante in parte sul contenuto del saggio, ma teso ad evidenziare la colossale menzogna che si nasconde dietro alla riproposizione di un processo da tempo defunto e che di pace non ha mai avuto nemmeno la sembianza, se non nella formulazione originaria degli accordi di Oslo di un lontanissimo 1993. Ed era all’interno degli accordi di Oslo la formulazione “Due popoli, due Stati”. Di conseguenza …
L’ultima goccia, per un vaso che è traboccato almeno da 12 anni, è rappresentata da un evento molto recente, del 10 ottobre: l’approvazione della legge sul giuramento di fedeltà da parte del governo israeliano, avvenuto mentre riprendono le costruzioni di abitazioni nelle colonie, del tutto illegittime (sia le costruzioni sia le colonie!), e mentre, alla base della trattativa ripresa con l’ANP, Netanyahu ha posto il riconoscimento, da parte dei palestinesi, dello stato d’Israele come stato ebraico!
Ecco cosa ne pensa Gideon Levy, di quest’ultima goccia. L’articolo, apparso sul numero 868 (15-21 ottobre 2010) di Internazionale dal titolo assai significativo “La Repubblica ebraica d’Israele” è tratto da Haaretz, un coraggioso giornale progressista israeliano:

Segnatevi la data. Il 10 ottobre è il giorno in cui Israele ha cambiato natura. E magari cambierà addirittura nome e si chiamerà ‘Repubblica ebraica d’Israele’, come la Repubblica islamica dell’Iran. D’accordo: la legge sul giuramento di fedeltà che il premier Benjamin Netanyahu ha fatto approvare al governo e ora vuol far votare dal parlamento riguarda, o almeno così dice, solo i nuovi cittadini israeliani non ebrei.
Ma in realtà avrà effetti sul destino di tutti. Perché d’ora in poi vivremo in un nuovo paese etnocratico, teocratico, nazionalista e razzista. E chi pensa che la cosa non lo riguardi si sbaglia. Già, perché in Israele c’è una maggioranza silenziosa che accetta tutto questo con un’allarmante apatia. Invece chiunque creda che dopo l’approvazione di questa legge il mondo continuerà a considerare Israele come una qualsiasi democrazia non ha capito cos’è questa legge: è un nuovo grave danno all’immagine d’Israele.
Il premier Netanyahu ha dimostrato di essere come Avigdor Lieberman, il suo ministro degli esteri e leader del partito di estrema destra Yisrael Beitenu. Il parttito laburista ha dimostrato di essere solo uno zerbino. E Israele ha mostrato la sua indifferenza. La diga è crollata, minacciando di annegare ogni traccia di democrazia, fino al punto in cui forse finiremo per ritrovarci in uno stato ebraico, la cui natura nessuno capisce veramente, ma che di sicuro non sarà democratico.
Si prevede che la Knesset, nella sua sessione invernale, discuta un’altra ventina di disegni di legge anti-democratici. L’Associazione per i diritti civili in Israele ha appena pubblicato una lista nera di provvedimenti che comprende: una legge sul giuramento di fedeltà per i parlamentari, una legge sul giuramento di fedeltà per i produttori cinematografici, una legge sul giuramento di fedeltà per le associazioni senza fini di lucro. E ancora: un provvedimento che vieta ogni proposta di boicottaggio e un provvedimento sulla revoca della cittadinanza. Siamo di fronte a un pericoloso balletto maccartista, da parte di parlamentari ignoranti che non hanno capito cos’è la democrazia.
Non è difficile giudicare il duo Netanyahu-Lieberman: sono due fanatici nazionalisti, quindi nessuno può pretendere che capiscano che democrazia non significa solo potere della maggioranza, ma anche – anzi soprattutto – diritti delle minoranze. E’ molto più difficile da capire, invece, l’inerzia dei cittadini. Le piazze di tutte le città israeliane avrebbero dovuto riempirsi di persone che rifiutano di vivere in un paese dove la minoranza è oppressa da leggi severissime come quella che le obbligherebbe a prestare un falso giuramento di fedeltà ad uno stato ebraico. E invece quasi nessuno sembra pensare che la cosa lo riguardi. E’ sbalorditivo.
Ci siamo dedicati per decenni al futile dibattito su cosa significhi essere ebrei. Un interrogativo che a quanto pare ci impegnerà ancora per molto tempo. Cos’è infatti lo “stato della nazione ebraica”? Appartiene forse agli ebrei della diaspora più che ai cittadini arabi d’Israele? E i cittadini arabi potranno decidere delle sue sorti, così che la nostra si possa chiamare ancora democrazia? Cosa caratterizza l’ebraicità? Le festività? Le prescrizioni alimentari della kasherut? L’aumento del peso politico dell’establishment religioso, come se non fosse già sufficiente a distorcere la democrazia?
L’introduzione di un giuramento di fedeltà allo stato ebraico ne deciderà il destino. E rischia di trasformare Israele in una teocrazia simile all’Arabia Saudita. E’ vero: per il momento giurare fedeltà allo stato ebraico è solo uno slogan ridicolo, e non esistono tre ebrei che riescano a mettersi d’accordo su come dovrebbe essere uno stato ebraico. Ma la storia ci ha insegnato che la strada per l’inferno può essere lastricata anche di slogan inutili. Nel frattempo, la nuova legge non farà altro che aggravare il senso di estraneità degli arabi israeliani e finirà per alienare le simpatie nei confronti d’Israele di settori ancora più vasti dell’opinione pubblica mondiale.Ecco cosa succede quando non si ha piena fiducia nella strada intrapresa. Solo questa
sfiducia può indurre a presentare proposte di legge perverse come quella approvata il 10 ottobre.
Il Canada non sente il bisogno di che i suoi cittadini giurino fedeltà allo stato canadese, né lo richiedono altri paesi. Solo Israele. Questa decisione è stata pensata per provocare di nuovo la minoranza araba e spingerla a dimostrare ancora più distacco dal paese, così che un bel giorno venga finalmente il momento di disfarsene. Oppure per affossare la prospettiva di un accordo di pace con i palestinesi. Comunque sia, lo stato ebraico – come diceva Theodor Herzl – fu fondato nel primo congresso sionista, che si svolse a Basilea nel 1897. Il 10 ottobre invece è stata fondata l’oscurantista Repubblica ebraica d’Israele
”.

Un articolo dignitosissimo che, se sottoscritto al 50% dalla classe politica italiana (di destra e di sinistra, centrista o radicale) mi riempirebbe veramente di gioia, ma temo che dovrò continuare a soffrire! Alla sordità della nostra classe politica si è contrapposto in questo frangente, un documento del Sinodo del Medio Oriente del 18 ottobre 2010.
Gli scopi del Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente sono stati ribaditi dal relatore generale dell’assemblea, Antonios Naguib, patriarca di Alessandria dei Copti, che ha tenuto la ‘Relatio post disceptationem’ nella quale ha riassunto quanto emerso negli interventi dei padri sinodali la scorsa settimana. “Confermare e rafforzare i cristiani nella loro identità e rinnovare la comunione ecclesiale per offrire ai cristiani le ragioni della loro presenza, per confermarli nella loro missione di rimanere testimoni di Cristo”.
Naguib ha passato in rassegna la situazione dei cristiani in Medio Oriente evidenziando la necessità dell’essere missionari, e parlando di “laicità positiva”, ha ribadito che la “religione non deve essere politicizzata né lo Stato prevalere sulla religione. E’ richiesta una presenza di qualità perché possa avere un impatto efficace sulla società. Ciò che conta non è il numero di persone nella Chiesa ma che queste vivano la fede e servano onestamente il bene comune”.
Per assicurare la sua credibilità evangelica – ha rimarcato il Relatore – la Chiesa deve trovare i modi per garantire la trasparenza nella gestione del denaro”.
Ripercorrendo le principali sfide che i cristiani devono affrontare, tra le quali i conflitti politici nella regione, il patriarca Naguib “pur condannando la violenza da dovunque provenga ed invocando una soluzione giusta e durevole del conflitto israelo-palestinese”, ha espresso la solidarietà del Sinodo al popolo palestinese, “la cui situazione attuale favorisce il fondamentalismo. Chiediamo alla politica mondiale di tener sufficientemente conto della drammatica situazione dei cristiani in Iraq. I cristiani devono favorire la democrazia, la giustizia, la pace e la laicità positiva. Le Chiese in Occidente sono pregate di non schierarsi per gli uni dimenticando il punto di vista degli altri”.
Nella Relatio il Sinodo condanna anche “l’avanzata dell’Islam politico che colpisce i cristiani nel mondo arabo” poiché “vuole imporre un modello di vita islamico a volte con la violenza e ciò costituisce una minaccia per tutti” e la limitazione dell’applicazione di diritti quali la libertà religiosa e di coscienza che comporta anche, ha ricordato il patriarca, “il diritto all’annuncio della propria fede”. Conseguenza delle crisi politiche, del fondamentalismo, della restrizione delle libertà è l’emigrazione, che pur essendo “un diritto naturale”, interpella la Chiesa che “ha il dovere di incoraggiare i suoi fedeli a rimanere evitando “qualsiasi discorso disfattista”. […] “Le nostre chiese rifiutano l’antisemitismo e l’antiebraismo”: riafferma il Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente.
Le difficoltà dei rapporti fra i popoli arabi ed il popolo ebreo sono dovute piuttosto alla situazione politica conflittuale. Noi distinguiamo tra realtà politica e religiosa. I cristiani hanno la missione di essere artefici di riconciliazione e di pace, basate sulla giustizia per entrambe le parti” ribadisce il testo che, parlando di dialogo interreligioso, ricorda le iniziative pastorali di dialogo con l’ebraismo, come ad esempio “la preghiera in comune a partire dai Salmi, la lettura e meditazione dei testi biblici”.
Per il Sinodo il dialogo interreligioso e interculturale tra cristiani e musulmani “è una necessità vitale, da cui dipende in gran parte il nostro futuro”. E riprende le parole di Benedetto XVI a Colonia (2005) per riaffermare l’importanza del dialogo islamo-cristiano.
Le ragioni per intessere rapporti con i musulmani sono molteplici, sono tutti connazionali, condividono stessa cultura e lingua, le stesse gioie e sofferenze. Fin dalla sua nascita l’Islam ha trovato radici comuni con Cristianesimo ed Ebraismo. Il contatto con i musulmani può rendere i cristiani più attaccati alla loro fede”. Per il Sinodo vanno, tuttavia, “affrontati e chiariti i pregiudizi ereditati dalla storia dei conflitti. Nel dialogo sono importanti l’incontro, la comprensione reciproca. Prima di scontrarci su cosa ci separa, incontriamoci su ciò che ci unisce, specie per quanto riguarda la dignità umana e la costruzione di un mondo migliore”.
Serve – si legge nella Relatiouna nuova fase di apertura, sincerità e onestà. Dobbiamo affrontare serenamente e oggettivamente i temi riguardanti l’identità dell’uomo, la giustizia, i valori della vita sociale dignitosa e la reciprocità. La libertà religiosa è alla base dei rapporti sani tra musulmani e cristiani. Dovrebbe essere un tema prioritario nel dialogo interreligioso”.

  1. La colonizzazione dei territori occupati

 Dopo questa corposa premessa, entrerò nel merito dell’argomento che intendo trattare in questo che temo ormai non possa costituire un piccolo saggio. Partirò con il fornire l’elenco dei testi su cui ho basato questo lavoro. Sostanzialmente quattro, senza ovviamente citare quanto personalmente ho scritto in precedenza sull’argomento. Un volume dal titolo “Palestine, la depossession d’un territoire”, realizzato da Pierre Blanc, Jean-Paul Chagnollaud e Sid Ahmed Souiah, per la casa editrice L’Harmattan, del 2007, “Jerusalem le rapport occulté”, con sottotitolo Rapports 2005 et 2008 des diplomates de l’Union Européenne en poste a Jerusalem, con la presentazione di René Backmann, delle edizioni Salvator del 2009, “Gaza, le livre noir” che raccoglie rapporti e documenti di diverse associazioni, a cura di Reporters sans frontières, del 2009, il numero di Limes “Il buio oltre Gaza” del gennaio 2009 e il quaderno speciale di Limes del luglio 2010.
Il primo di questi testi mi è servito per sviluppare il paragrafo numero 3, il secondo per sviluppare i paragrafi 4 e 5 e gli altri due costituiscono un riferimento importante rispetto agli eventi riguardanti Gaza e il terrorismo di Stato israeliano, che avrei voluto trattare ma che ho deciso di non scrivere per le ragioni indicate all’inizio delle conclusioni.
In questo paragrafo ripercorrerò, sia pure sinteticamente, la colonizzazione dei territori occupati che ho trattato diffusamente sia in “Quale processo di pace?” del 1998, che ne “La nuova Intifada” del 2001. Sostanzialmente, cercherò di rendere ragione del perché, in un territorio totalmente abitato da palestinesi, quali la Cisgiordania e la striscia di Gaza, prima della guerra del 1967, fatta eccezione per Gerusalemme Ovest, si sia ormai giunti ad una presenza israeliana tra le 500.000 e le 550.000 persone, Gerusalemme Ovest inclusa.
Intendo inoltre mettere in evidenza un’esasperazione di lunga durata per il popolo palestinese, dovuta ad un articolato quanto iniquo sistema “legale” di sottrazione del territorio da parte dello Stato d’Israele, a danno dei palestinesi. Dopo aver analizzato le forme “legali” dell’espropriazione della terra, già in uso del resto dal 1948, procederò a quantificarla, a partire dal 1967. E, per quanto riguarda in particolare la colonizzazione di Gerusalemme-Est, sarà il testo di Chagnollaud a precisarla nei minimi particolari.
Occorre in ogni caso non dimenticare mai che si è trattato (e si tratta) di un processo di colonizzazione in piena regola, con un suo armamentario specifico di confische di terre, di distruzioni di case e di abbattimento di alberi, con la requisizione della terra, per motivi di sicurezza, come chiave di volta. Il mio timore è che oggi questo processo possa sfociare in una seconda e più feroce pulizia etnica. Si, è proprio ad una seconda Nakba che penso, quando vedo l’opera dell’esercito israeliano, sempre più vicino alla logica dell’espulsione dei palestinesi dalla loro terra, la costruzione del Muro e quel carcere a cielo aperto, rappresentato dall’intera striscia di Gaza! Ho trattato con dovizia di particolari ne “La colonizzazione sionista della Palestina” i vari aspetti dello spossessamento dei palestinesi da parte dei sionisti prima e dello Stato d’Israele poi, ma ritengo importante riassumerne gli aspetti essenziali.

 

Le forme “legali” per l’appropriazione delle terre.

Dopo il 1967, è passata sotto il controllo israeliano, fra terre demaniali confiscate, recintate e soggette ad acquisto forzato, e terreni di privati, “neutralizzati” e resi indisponibili per lo sviluppo urbanistico palestinese, più del 55% della Cisgiordania. Ciò è avvenuto attraverso tre procedure fondamentali: l’assenza, l’acquisto di terre e l’esproprio. Ma prima di tutto, voglio analizzare l’elemento dominante nella requisizione delle terre:

La sicurezza

Si tratta del noto vessillo agitato, da sempre, dallo Stato d’Israele (e anche da altri, sia chiaro!), divenuto in Italia la bandiera dell’improntitudine. Le autorità israeliane hanno sempre sostenuto che le requisizioni di terre per la costruzione di colonie, (o per qualsiasi altro motivo), sono effettuate nel pieno rispetto della legalità. Cosa che si spiega facilmente, pensando al ruolo che la nozione di stato di diritto occupa sia nell’ideologia dominante sia nella realtà del sistema politico di questo paese. E poi, portare un dibattito di questo tipo sul terreno giuridico permette di superare più facilmente i problemi difficili ed imbarazzanti circa la vera natura di queste appropriazioni coprendole della neutralità apparente e della rispettabilità formale della norma giuridica.
Conviene perciò cercare di capire meglio cosa nasconde la nozione di legalità. Partendo, come criterio di differenziazione, da come vengono prodotte le norme, occorre distinguere la legalità internazionale e quella interna. Per definizione, la legalità internazionale esiste al di fuori di ogni Stato preso separatamente. Come qualsiasi altro attore del sistema internazionale, lo Stato d’Israele si trova in presenza di un complesso di regole giuridiche, che esiste indipendentemente da lui. Certamente, in qualche modo, può rifiutare di sottoscriverlo ma non avrà mai il controllo assoluto della sua elaborazione, ma gli resta, in ogni caso, il potere di interpretazione. Vediamo quali sono le tesi israeliane sulla Cisgiordania e Gaza, come sulla questione più specifica delle colonie.
In sostanza Israele, avanzando dei diritti legittimi sui territori occupati, sostiene di non occuparli (nel senso del diritto internazionale) ma soltanto di amministrarli in attesa di uno statuto definitivo da assegnare loro, al termine di un processo di negoziati. Le colonie poi, sempre secondo il governo israeliano, non contravvengono alla legalità internazionale, nonostante la posizione adottata all’unanimità dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, con la Risoluzione del 1° marzo 1980, secondo la quale esse costituiscono “una flagrante violazione della Convenzione di Ginevra relativa alla protezione dei civili in tempo di guerra del 12 agosto 1949…”.
Altra cosa invece è la legalità interna che il governo può non solo interpretare, ma anche, e questa è la differenza fondamentale, creare come vuole, in funzione degli obiettivi politici che intende perseguire, a condizione tuttavia di tenere conto della giurisprudenza di una giurisdizione del tutto indipendente: la Corte Suprema d’Israele. La requisizione di terre nei territori occupati, ma non annessi, è avvenuta essenzialmente per motivi di sicurezza. La base giuridica di queste operazioni si trova nelle ordinanze promulgate dai britannici all’epoca del Mandato, e che sono rimaste in vigore dopo la creazione dello Stato d’Israele. In particolare l’articolo 125 delle Defence Emergency Regulations del 1945 che permette al Comandante regionale di vietare l’accesso in qualsiasi zona che si trovi sotto il suo controllo, per motivi di sicurezza.
Da allora, più nessuno può penetrarvi, senza aver ottenuto preliminarmente un’autorizzazione rilasciata dall’autorità competente. Queste pratiche non sembrerebbero in ogni caso contrarie al diritto internazionale, dal momento che, in questo ambito, le regole del diritto hanno soprattutto per obiettivo di proteggere l’interesse dello Stato occupato e quello dei singoli. Per questo vietano qualsiasi forma di sostituzione di proprietà e non ammettono che un uso provvisorio di esse. E dunque l’occupante non può essere che l’amministratore e l’usufruttuario dei beni dello Stato occupato. La confisca dei beni dei privati è rigorosamente proibita dall’articolo 46 del Regolamento dell’Aja (1907) che recita:

L’onore e i diritti della famiglia, la vita degli individui e la proprietà privata così come le convinzioni religiose devono essere rispettate”. Sono lecite soltanto le requisizioni poiché, entro certi limiti, rappresentano delle “prestazioni forzate in natura o servizi forzati, richiesti unicamente per i bisogni dell’esercito d’occupazione“.

Questo è un processo cominciato fin dai primi anni dell’occupazione; prima in forma occulta, trasformando l’installazione militare insensibilmente in insediamento civile. Poi, soprattutto dopo la guerra del 1973, in modo sempre più esplicito. Da quel momento in poi la colonizzazione è apparsa in tutta la sua forza e la sua ampiezza. Facciamo un passo indietro: sia la Gran Bretagna che la Giordania avevano avviato il censimento sistematico di tutti i titoli di proprietà. Ma questa operazione, indispensabile oltre che complessa, si basava sull’effettività del possesso e dell’uso, che ciascuno poteva provare in diversi modi. Proprio per questo, un tale processo, estremamente lento, era ben lungi dall’essere stato completato nel 1967, e dunque la più gran parte delle terre non era ancora stata censita. Uno dei primi provvedimenti delle autorità israeliane d’occupazione fu quello di bloccare brutalmente queste attività di censimento anche nei settori dove era praticamente terminato. Una decisione di una portata politica importantissima. A questo proposito Dany Rubistein, noto giornalista israeliano, su Davar del 20 marzo 1981, scrisse: “minore è il numero di beni immobili registrati al catasto e di terreni la cui proprietà è chiaramente definita, più numerose sono le aree suscettibili d’essere proclamate beni dello Stato“.

 

L’assenza

 Alla conquista del 1967, seguì subito dopo l’insediamento di un governatore militare nei territori occupati. Il Comandante regionale (nome ufficiale del governatore), pubblicò, il 23 luglio 1967, l’ordinanza n° 58, riguardante lo statuto della proprietà degli assenti. Per questa ordinanza, l’assente rispondeva ad una definizione molto estensiva. Si trattava in sostanza di chi, allo scoppio della guerra, nel giugno 1967, aveva lasciato la Cisgiordania. Così era già avvenuto nel 1950, quando la Knesset, il parlamento israeliano, adottò un provvedimento della stessa natura per tutte le proprietà abbandonate nel 1948 dai palestinesi. Il governatore sosteneva che l’obiettivo dell’ordinanza fosse quello di proteggere i beni di coloro che erano stati costretti a fuggire allo scoppio della guerra.
Vediamo come funziona quest’ordinanza. Il Comandante regionale nomina un “Guardiano della proprietà abbandonata”, cui compete il ruolo di prendere in carico l’insieme di questi beni. All’inizio la semplice assenza del proprietario non basta per trasferire il controllo dei beni al Guardiano. È necessario anche che non ci sia nessun parente prossimo, un membro della famiglia ad esempio, in grado di assicurarne la gestione secondo il diritto vigente. Non si tratta dunque di un vero e proprio trasferimento di proprietà: il Guardiano agisce in qualità di depositario della proprietà dell’assente fino al suo ritorno e deve anche conservare per il proprietario, tutti i redditi eventuali che può aver realizzato, diminuiti delle spese di gestione. Se il proprietario ritorna, il Guardiano gli deve restituire l’esercizio di tutti i suoi diritti. Ma tra il dire e il fare…
Esistono due questioni di fondo, che portano ad una realtà sensibilmente diversa da quella del discorso giuridico ufficiale. Infatti il Guardiano dispone in pratica di un potere discrezionale per quanto riguarda l’uso dei beni abbandonati. Nessuna transazione è valida senza la sua autorizzazione e nessun articolo limita le sue possibilità d’azione. In tali condizioni, il ruolo effettivo del Guardiano è anche quello di contribuire con efficacia agli insediamenti israeliani soprattutto nella valle del Giordano dove si trovano numerosi beni abbandonati, dal momento che questo settore è stato il più coinvolto dall’esodo della popolazione nel 1967. Ed eccoci così ad uno dei problemi chiave del conflitto israelo-palestinese e cioè quello del Ritorno. E qui il cerchio si chiude. Il contadino palestinese che ha attraversato il Giordano nel 1967, si è “sistemato” provvisoriamente a qualche decina di chilometri dalle sue terre, ormai occupate da una colonia israeliana. È perciò considerato assente sul piano giuridico poiché gli è vietato l’attraversamento del Giordano in senso inverso. Vi sembra un problema giuridico? Ma nemmeno per sogno! Questo è il risultato di un rapporto di forze. Il responsabile delle colonie israeliane della valle del Giordano si esprime a questo proposito in modo molto chiaro:

Qui, nella valle, noi lavoriamo su migliaia di dunum che appartengono – perché non dirlo? – a degli arabi. Arabi, per la maggior parte assenti, abitanti di Nablus o di Tubas… che sono fuggiti durante la guerra del 1967. Queste persone non possono tornare in Giudea-Samaria perché i loro nomi figurano su di una lista ai posti di frontiera sui ponti [sul Giordano]”. E così, questa legislazione ha generato situazioni kafkiane. Il caso classico? Un proprietario che, rientrato sulle sue terre senza autorizzazione, finisce davanti ad un tribunale, accusato d’effrazione di proprietà di un assente!

Gli acquisti di terre

 Per affrontare quest’altra questione, è necessario distinguere fra le istituzioni ufficiali autorizzate ad effettuare transazioni fondiarie e i privati che all’inizio, fino al 1979, non ne avevano diritto. A partire dal 1967, l’amministrazione del demanio (Israel Land Administration, I.L.A.) e il Fondo Nazionale Ebraico (K.K.L.), hanno concepito ed attuato una politica sistematica di acquisti di terre nei territori occupati. Queste due istituzioni hanno potuto così acquistare importanti superfici, soprattutto nella regione di Gerusalemme. Le decisioni sugli acquisti vengono prese dai due direttori delle istituzioni appena citate, che definiscono le loro scelte in funzione di dati forniti da una rete d’informazioni molto estesa, riguardante diversi paesi stranieri, dove si trova la parte più consistente dei venditori potenziali. L’operazione viene condotta in porto tramite la società Hemnutah, la cui creazione risale all’epoca del Mandato britannico (1938) quando il suo compito era quello di favorire il trasferimento dei capitali degli ebrei tedeschi. Le transazioni vengono fatte nel più gran segreto non solo per evidenti ragioni politiche ma anche perché sono molto forti le minacce di rappresaglie nei confronti dei proprietari palestinesi. Fino al 1979, gli acquisti di terre da parte di privati erano vietati nonostante le molteplici pressioni esercitate sui vari governi.

 

L’esproprio

 Non parliamo qui di un generico spossessamento ma di quello effettuato per motivi di interesse generale. È in questa prospettiva limitata che le autorità israeliane intendono collocarsi, quando sottolineano l’indispensabile rispetto dei principi fissati dal diritto internazionale. E così l’esproprio è lecito per la realizzazione di obiettivi di interesse pubblico nelle forme previste dal diritto locale e con la condizione del pagamento di un’indennità al proprietario. La legislazione giordana, relativa alla procedura d’esproprio, era stata concepita in modo da non limitare in alcun modo la sua attuazione. La nozione d’interesse pubblico viene definita dalla constatazione della volontà del potere politico. Un interesse pubblico è, a termini di legge, “qualsiasi interesse che il governo, con il consenso del Re, ha deciso di considerare come pubblico“. Le autorità israeliane ironizzano su questa formulazione per poi precisare che, nonostante l’ampiezza discrezionale, le autorità militari utilizzano la procedura d’esproprio in maniera molto restrittiva. (Quando si dice la democrazia!). E mettono in evidenza come tale procedura non sia mai stata impiegata per insediamenti civili nei territori occupati. Si è fatto ricorso ad essa, soltanto per servire l’interesse generale in senso stretto. Per la costruzione e l’ampliamento di strade o la costruzione di edifici pubblici, ad esempio!
Si ritrova perciò un dato evidente: in ogni situazione d’occupazione il diritto è sempre al servizio di una politica. Se la nozione stessa di Stato di diritto è centrale in Israele, essa non ha quasi più senso aldilà della linea verde. L’elemento dominante della colonizzazione sionista dopo la guerra del 1967 è caratterizzato proprio dal fatto di verificarsi in una società sotto occupazione e dunque completamente sottomessa all’arbitrio dello Stato d’Israele. In queste condizioni, l’occupazione non riguarda soltanto questo o quell’aspetto della vita quotidiana, ma è invece al centro di tutto, in tutti i settori d’attività. Costituisce un sistema globale coerente, che non lascia sfuggire nessun dettaglio al suo controllo, neppure il colore delle targhe delle automobili.
Dopo il 1967, strettamente connesso con il processo di colonizzazione continuò il processo di espropriazione della terra. In questo ambito è praticamente impossibile disporre di cifre precise. Bisogna distinguere fra terre coltivate e terre riservate alle colture o agli insediamenti futuri. Una fonte israeliana parla, per tutti i territori, di 118 chilometri quadrati (11.800 ettari, pari a 118.000 dunum) di terre ebraiche coltivate. La superficie delle terre confiscate, in vista di utilizzo futuro da parte dei coloni, sarebbe salita a 3.000 chilometri quadrati, di cui 1.200 sul Golan, e 1.800 in Cisgiordania, ovvero il 31,5% del suolo. Anche se fino al 1977 queste terre “redente” si trovavano soprattutto ad oriente, e si trattava di zone aride e spopolate, la violenza inflitta alla popolazione araba non era per questo meno severa: ad esempio, il livello dell’acqua si abbassò pericolosamente in alcuni villaggi arabi della valle del Giordano a causa della creazione di pozzi artesiani negli insediamenti israeliani vicini!
Evidenti gli effetti nefasti della colonizzazione israeliana sulla popolazione palestinese, i cui mezzi di sussistenza tradizionali erano progressivamente minacciati e che veniva sottoposta ad un processo di proletarizzazione. La perdita di terre coltivate spingeva infatti i contadini palestinesi ad abbandonare l’agricoltura e così molti di loro andavano a lavorare come manodopera non qualificata nell’economia israeliana. L’acquisto di terre assunse proporzioni ancora più allarmanti dopo il 1977, e riguardò molto di più campi e piantagioni palestinesi, esasperando la tendenza ad una compartimentazione dei centri di popolazione locale.
Se è vero che la colonizzazione non aveva raggiunto, nel 1977, proporzioni irreversibili, è altrettanto vero che nella pratica non c’è stato nessun aspetto della politica colonizzatrice successiva di Begin che non avesse avuto un precedente nel periodo laburista, in particolare nella sua ultima fase. Dopo il 1967, a tutto il 1985, passano sotto diretto controllo israeliano, fra terreni demaniali, confiscati, recintati, e soggetti ad acquisto forzato, un totale di 2.268.500 dunum, pari al 41% dell’intera Cisgiordania. Poiché le autorità israeliane “neutralizzano” altri 570.000 dunum, dichiarandoli indisponibili per lo sviluppo urbanistico palestinese, complessivamente l’area soggetta a requisizioni o restrizioni ammonta a 2.838.000 dunum pari al 52% della Cisgiordania. Nella striscia di Gaza, con la stessa logica, nascono 16 insediamenti ebraici. Nei primi dieci anni di occupazione nascono 24 insediamenti. Dopo ne sono sorti altri 118, distribuiti in modo da impedire qualsiasi futuro ritiro di Israele dalla Cisgiordania, se non dalla striscia di Gaza.

 

img263

Insieme con gli insediamenti, è cresciuto il numero dei coloni. Dalla tabella si vede come questi siano passati da 1.182 nel 1972 a 27.500 nel 1983. Se si confrontano i dati del periodo 1967-77 con quelli relativi al periodo successivo (1977-1983), quando il Likud è al governo, appare evidente una rapida crescita del numero dei coloni che passano dai 5023 del 1977 ai 27.500 di cui si parlava prima. Il partito della “Grande Israele”, che punta ad una Palestina tutta ebraica si fa più forte e prepotente. Con l’avvento della destra al governo, sono nate in Israele due tesi. La prima punta ad utilizzare i territori come “materiale” di scambio, per la pace. La seconda, oltranzista, basandosi sulla potenza militare d’Israele e sull’incondizionato appoggio degli Stati Uniti (anche nel Medio Oriente la “guerra fredda” funziona!), intende appropriarsi di tutta la Palestina del Mandato, e oltre.

La colonizzazione della terra d’Israele è un diritto e un aspetto determinante della sicurezza del paese che sarà difeso ed esteso”.

È ancora e sempre questo, uno degli obiettivi principali del programma di governo presentato l’8 giugno 1990. Il che significa che l’insediamento di colonie di popolamento, strumento essenziale della politica di colonizzazione, continuerà a svilupparsi, a danno dei palestinesi, con lo spossessamento continuo della loro terra. Il governo di Unità nazionale cade il 15 marzo 1990. Tre mesi dopo nasce un nuovo governo, diretto sempre da Shamir, con la partecipazione di tre formazioni di estrema destra. Si tratta del governo più a destra, più estremistico e più legato agli ambienti religiosi della storia d’Israele. Ariel Sharon, ministro degli Alloggi, dirige questa nuova tappa della colonizzazione. Fino a quel momento s’intende! Ma poiché il peggio non è mai morto, dopo la parentesi laburista, nel maggio 1996, nasce il governo Netanyahu. E poi il governo Barak e poi il governo Sharon e poi il governo Olmert …
Ufficialmente, non viene creato nessun nuovo insediamento, per tenere buoni gli Stati Uniti, ma i fatti sono diversi. Nascono nuove colonie ma questi insediamenti vengono mascherati da artifici amministrativi come dimostra il rapporto del Dipartimento di Stato: “[…] costruendo su quei siti che, da un punto di vista amministrativo, dipendono da un insediamento già esistente, anche se si trovano in realtà a distanza di chilometri. E così si vedono nascere cantieri in massa su località abbandonate da tempo, che ampliano i limiti di colonie già esistenti […]. E così si capisce perché la presenza israeliana nei Territori occupati continua a crescere a un ritmo altissimo. In meno di due anni, Ariel, il secondo insediamento della Cisgiordania per dimensioni, mette in cantiere 1.400 appartamenti; il più grande, Ma’ale Adumim, vicino Gerusalemme, ne costruisce attualmente un migliaio” (“Report on Israeli Settlement Activity in the Occupied Territories”, consegnato al Congresso americano il 20 marzo 1991).
Nel 1991, circa 200.000 coloni risiedevano in circa 200 colonie (197.000 abitanti in circa 150 colonie in Cisgiordania, e di questi 120.000 insediati nella città di Gerusalemme-Est annessa nel 1967, e 3.000 nelle 15 colonie a Gaza). Secondo uno studio del Dipartimento di Stato americano del 20 marzo 1991, essi rappresentavano il 13% della popolazione totale dei territori occupati, mentre il 50% delle terre della Cisgiordania erano state confiscate per la colonizzazione. A Gaza, un terzo del territorio abitabile era riservato ai coloni. Il movimento cresce dopo il 1990, con 10.000 nuovi arrivati in un anno. La natura degli insediamenti è ancora più significativa, se si pensa che non si tratta più della creazione di piccole unità che raggruppano alcune centinaia di persone ma di veri e propri centri urbani, il più vicino possibile ai grandi agglomerati israeliani. Non si tratta più di modeste colonie a vocazione rurale. L’ambizione è quella di costruire delle cittadine.
E’ importante ricordare la classificazione ufficiale delle zone d’insediamento. Queste si dividono in tre settori, a seconda dell’importanza della domanda di abitazioni: forte, media o debole. La zona di forte domanda comprende tutti i luoghi situati al massimo a mezz’ora da Tel Aviv e a venti minuti da Gerusalemme. Quella di domanda media comprende, a parte la precedente, tutte le località situate al massimo a cinquanta minuti da Tel Aviv e a trentacinque da Gerusalemme. La terza infine comprende il resto della Cisgiordania. In funzione di questa divisione, i grandi progetti si trovano concentrati nella zona di forte domanda. E così al centro di questo settore viene costruito Ariel, il più vasto insieme urbano, concepito per accogliere più di 100.000 abitanti. L’obiettivo politico implicito è quello di fare di questa zona una specie di cerniera che fissi strettamente la Cisgiordania a Israele. Sono questi gli aspetti più importanti per cercare di capire il “senso” del processo di pace.
Riepilogando, nel periodo (1967-1977) i laburisti hanno dato la priorità assoluta a Gerusalemme. Si sono annessa non soltanto la parte araba della città, ma anche importanti superfici di terre prese dai villaggi dei dintorni per creare un vasto agglomerato urbano. All’interno di questi nuovi limiti, sono stati costruiti grandi insiemi di immobili riservati alla popolazione ebraica a Nord, a Est e a Sud (Ramot, Talpiot, Gilo…).In alcuni anni i rapporti demografici sono stati rivoluzionati con tutte le conseguenze sociologiche e politiche che si possono immaginare (nel 1976 le statistiche ufficiali parlano di una popolazione di 264.000 ebrei e di 92.000 arabi). Oltre a Gerusalemme, i governi laburisti hanno avuto tre priorità: la valle del Giordano, il Golan e il Sinai; queste tre regioni hanno una caratteristica comune: sono poco popolate; il Sinai perché è un deserto, le altre due perché la maggior parte degli abitanti che vi risiedevano sono fuggiti durante la guerra del 1967. Gli insediamenti realizzati nelle zone a forte densità di popolazione palestinese furono poco numerosi, il più significativo di questi fu quello di Kiriat Arba alle porte di Hebron.
A partire dal 1975, sotto il governo Rabin, il processo si è accelerato ed esteso. Oltre alle sue iniziative, il Primo Ministro lascia fare al Gush Emunim la cui politica consiste nel creare insediamenti dappertutto, in particolare al centro della Cisgiordania. Come a Sebastia (vicino Nablus), dove il Gush Emunim riesce a spuntarla nell’installazione importante che intendeva realizzare. Nel periodo (1977-1984), con il governo del Likud vengono realizzati numerosi insediamenti. Il suo governo sviluppa quelli esistenti e soprattutto ne crea di nuovi. A questo proposito la formulazione del suo programma è molto semplice: “il territorio di Cisgiordania e di Gaza appartiene al popolo ebraico, è quindi legittimo creare degli insediamenti che dovranno permettere l’installazione di centinaia di migliaia di Ebrei”. Tuttavia, a causa dei negoziati avviati a Camp David, questa politica non troverà immediata applicazione sul terreno, si dovrà attendere il 1980 e soprattutto il 1981, data in cui Begin vince per la seconda volta le elezioni legislative, perché il processo di colonizzazione conosca una spettacolare accelerazione.
Con il Likud ormai la priorità delle priorità è la Cisgiordania (la Giudea e la Samaria); mentre i laburisti, in dieci anni, avevano creato una decina di siti, il governo del Likud ne costruisce più di una cinquantina in cinque anni. Se alla fine del 1976, c’erano circa 5.000 abitanti ebrei in Cisgiordania (senza contare Gerusalemme), nel 1983 sono vicini a 30.000. Tutti i dati statistici evidenziano l’importanza di questo salto qualitativo: un numero molto più grande di colonie e di abitanti, proprio nel cuore della Cisgiordania, rispetto all’epoca dei laburisti.
Nel periodo (1984-1988) i laburisti e il Likud si ritrovano in una situazione d’equilibrio elettorale tale da doversi rassegnare a formare un governo di unità nazionale, dopo aver tentato invano, per diverse settimane, di mettere in piedi delle coalizioni omogenee. Per giungere a questa formula, si sono fatte concessioni da una parte e dall’altra soprattutto a proposito degli insediamenti. Su questo punto, l’accordo di governo ha cercato di gestire le posizioni delle due parti in modo che ciascuna possa dare l’impressione di non aver ceduto nulla di essenziale. In applicazione di questo accordo è stata annunciata la creazione di sei nuove colonie; verranno installate in Giudea-Samaria al limite dei settori inclusi nel piano Allon, cosa che permette al Likud di affermare che il governo continuerà a creare insediamenti “dappertutto” e al partito laburista di mostrare di restare fedele alla sua posizione basata sulla ricerca di un compromesso territoriale. Nella pratica il ritmo della colonizzazione si è un po’ rallentato perché il governo non attribuiva a questo problema il ruolo prioritario che aveva in precedenza ma anche perché il numero delle persone che desideravano installarsi al di là della linea verde diminuivano sensibilmente.
Nel luglio del 1988, in una intervista alla rivista Nekuda, una delle figure di punta del movimento di colonizzazione, il rabbino Levinger, faceva un bilancio in questi termini: “Dopo le elezioni del 1984, siamo stati tra coloro che chiedevano un governo di unità nazionale. Noi lo abbiamo fatto perché l’unità della nazione è un principio non meno importante del processo d’insediamenti; per preservare questa unità abbiamo accettato di sacrificare l’insediamento di nuove colonie… Anche se la nostra influenza su un (tale) governo era inferiore rispetto a quella su di un governo diretto dal Likud”.
Che questa politica non avesse avuto più, dopo il 1984, l’intensità che l’animava all’inizio, non significa però che si sia veramente indebolita. Il risultato? Dal 1983 al 1986 il numero delle colonie è cresciuto del 118%, quello degli abitanti del 45 % e l’investimento pubblico del 56 %. Alla vigilia dello scoppio dell’Intifada, il processo di colonizzazione è un fatto politico che secondo molti osservatori ha tutte le possibilità di svilupparsi ancora, anche se si svolge ad un ritmo meno sostenuto che in precedenza. Nel suo rapporto del 1987, Meron Benvenisti valuta che ci sono 65.000 ebrei in Cisgiordania (esclusa Gerusalemme) e 2.700 nella striscia di Gaza e che fino alla metà degli anni 1990 il numero annuale di nuovi arrivati sarà dell’ordine di 10.000; tutta questa popolazione sarà concentrata negli insediamenti urbani situati attorno alle metropoli di Tel Aviv e Gerusalemme, a danno degli insediamenti rurali. Se non si sono raggiunti gli obiettivi ambiziosi sognati dagli ispiratori di questo processo, né gli scopi del piano progettato dal Likud, a medio termine, l’installazione di 100.000 coloni sembra già di un’importanza considerevole.
Per rendersene conto non basta del resto far riferimento soltanto alle statistiche sulle persone insediate; occorre prendere in considerazione altre due dimensioni essenziali. La prima attiene all’ampiezza delle superfici delle terre confiscate o requisite per questi insediamenti e più in generale per tutta una serie di motivi a cominciare da quelli invocati dalla sicurezza militare: più della metà della Cisgiordania si trova così oggi sotto il controllo assoluto d’Israele. È in questo senso che è giusto parlare di una vera appropriazione dello spazio con le molteplici conseguenze che ne derivano. Ciò significa soprattutto che queste terre sono state prese a degli uomini che ci vivevano e che in molti casi le coltivavano. Essi sono stati espulsi dal loro universo familiare, allontanati dai loro utensili di lavoro, dalla loro terra d’origine cui sono ormai costretti a girare intorno come se fossero degli stranieri. Non c’è da meravigliarsi, in queste condizioni, se la battaglia per la terra sia divenuta l’ossessione di molti; la posta in gioco si rivela fondamentale perché rinvia all’essenza stessa del conflitto che oppone i Palestinesi agli Israeliani.
La seconda dimensione riguarda le profonde trasformazioni che questi insediamenti inducono nella vita quotidiana. Per un palestinese dei territori è impossibile circolare senza passare vicino ad una colonia o senza sentirne la pesante presenza. In alcuni settori, come a Hebron per esempio, la tensione che ne consegue è difficilmente sopportabile e talvolta, in questa o in quella occasione, degenera in scontri. In ogni caso il rapporto di forze non può essere analizzato soltanto in termini di numeri. Anche se è assai minoritario in rapporto alla popolazione locale, il colono vuole sempre dimostrarsi come il padrone delle zone presso le quali abita. Ciò si materializza in particolare con il portare sistematicamente le armi che, soltanto a lui, esprime una realtà: l’atteggiamento arrogante di colui che esibisce il suo fucile sulla spalla basta per far capire molte cose. Non bisogna credere, tuttavia, che tutti i coloni siano degli ideologi determinati, costi quel che costi, a battersi in favore della grande Israele; questi ci sono, ovviamente, ma non rappresentano, secondo un’inchiesta effettuata nel 1983, che una minoranza valutata al 17% dell’insieme. Gli altri hanno scelto di vivere nei territori occupati in virtù dei prezzi molto competitivi degli appartamenti e della qualità della vita che si trova in regioni situate a qualche decina di minuti da Gerusalemme o da Tel Aviv.
Ciò non toglie che, al di là di queste constatazioni, la volontà politica affermata una volta da alcuni attivisti si sia ormai tradotta nei fatti, al punto tale da essere riuscito a creare una stretta rete d’influenze e d’interessi, capace di pesare sulle scelte fondamentali dello Stato. I sostenitori della Grande Israele attraverso lo sviluppo massiccio di insediamenti nei territori palestinesi occupati non erano infatti, trentanove anni fa, che dei gruppi relativamente periferici. Poi il loro progetto è stato facilitato dalle esitazioni e dalle contraddizioni del partito laburista. Così il Likud ha conosciuto uno sviluppo spettacolare che ne fa oggi una delle due grandi formazioni politiche del paese, cosa del tutto impensabile alla fine degli anni ‘60. In altri termini, il problema degli insediamenti non è più appannaggio di gruppi della società civile con scarsi addentellati politici; ormai, da trent’anni, esiste un’efficace articolazione fra questi gruppi di pressione e potenti formazioni politiche.
Ci si rende conto perciò di quanto l’appropriazione dello spazio costituisca, ad un tempo, fattore decisivo di esasperazione della popolazione palestinese e ostacolo importante a qualsiasi ricerca di una soluzione politica negoziata. Ecco perché, lo ripetiamo ancora una volta, questa occupazione non è un’occupazione come le altre.
Dopo gli accordi di Oslo, non solo la colonizzazione non ha subito alcun rallentamento ma addirittura c’è stata una forte accelerazione sia sotto i governi laburisti (Rabin, poi Peres ed infine Barak) sia, ovviamente, sotto i governi Netanyahu, Sharon e Olmert. Tutto è avvenuto come se “la corsa contro il tempo“, non fosse mai cessata, per accumulare fatti compiuti su fatti compiuti, e trovarsi così in posizione di vantaggio, all’apertura dei negoziati sullo statuto finale, previsti per il 4 maggio 1996 (pensate, più di quattordici anni fa!) Con il ritorno dei laburisti al governo nel 1992, sembrava che le cose stessero cambiando. Nel luglio del 1992, Rabin decise il congelamento della colonizzazione. Sembrava! Questa decisione bloccò soltanto i nuovi progetti, ma non fermò quanto era già avviato, in particolare tutta la colonizzazione intorno a Gerusalemme, e tutta la costruzione della rete stradale, decisiva nel vasto processo di appropriazione della terra. Rabin, in realtà, non ha mai cercato di bloccare la colonizzazione, ha soltanto dovuto tener conto dei vincoli imposti dagli americani al governo Shamir, secondo i quali la concessione di garanzie bancarie a prestiti privati, per l’ammontare di più di 20.000 miliardi di lire, era condizionata dal blocco della colonizzazione.
E così, il numero di coloni, dal 1992 al 1996, è passato da 100.000 a 151.000. Il ministro per le Abitazioni in carica nel governo Rabin (poi ministro della difesa nel governo Sharon) Benyamin Ben-Elieser, così commentava allora il suo lavoro: “Dal momento in cui ho il completo consenso del Primo ministro, io costruisco tranquillamente senza far rumore … Per me è importante costruire con grande slancio a Givat Ze’ev, Maale Adumim e Beitar… colonie che fanno parte di Gerusalemme. Per me ciò che conta è costruire, costruire e ancora costruire…”.

Per i dirigenti laburisti, il programma è chiaro: moltiplicare i fatti compiuti nelle zone che si vogliono conservare, mentre si negozia molto lentamente l’accordo di ripiegamento rispetto a quelle zone che si intendono evacuare comunque lentamente, per aver il massimo tempo possibile per controllare la doppia operazione. Facciamo ora un altro esercizio. Confrontiamo la carta di Oslo II con quelle dei piani Allon e Drobless. Si capisce, abbastanza presto, che si fondano su alcune logiche comuni. La carta di Oslo II evidenzia la divisione della Cisgiordania in tre zone. Non si infastidisca il lettore. È vero, per alcuni versi ci stiamo ripetendo, ma vedrà, che alla fine dell’esercizio, avrà un quadro più ampio, e non soltanto tecnico degli accordi di Oslo II.
La zona A riguarda le città palestinesi, da anni ormai circondate dalle colonie e tornate nel 2002 sotto il controllo dell’esercito israeliano. La zona B riguarda i villaggi, dove vive la massima parte dei palestinesi, e che sono assai spesso separati gli uni dagli altri da colonie o da strade di aggiramento, meglio sarebbe dire di accerchiamento. La zona C rappresenta tutto il resto del territorio, dove si trovano tutte le colonie, dalla più grande alla più piccola, oltre alle basi militari.
Quando il Likud, nel maggio del 1996, a sorpresa torna al governo, si trova in una situazione radicalmente diversa dal 1992. Dal momento che gli accordi di Oslo sono anche il portato della comunità internazionale e poi c’è stato il riconoscimento reciproco tra israeliani e palestinesi, la sua scelta pragmatica è quella di fare di tutto per piegare le cose nella direzione desiderata. La posizione di Benyamin Netanyahu viene formalizzata nel piano “Allon plus” (1997). Ironia delle parole: il piano va oltre, plus, un altro piano, fuori uso dal 1975, opera dei laburisti!

Quattro sono i punti essenziali di questo piano.
In primo luogo, l’instaurazione della sovranità israeliana su di una fascia larga 15 chilometri (dal Giordano alla cima delle montagne ad ovest).
In secondo luogo, l’estensione dei limiti territoriali di Gerusalemme con l’annessione a nord delle colonie di Givat Ze’ev, a est di Maale Adumim e a sud del blocco Etzion.
In terzo luogo, la rottura della continuità territoriale palestinese con l’attivazione di colonie ebraiche sotto la sovranità israeliana e la creazione di quattro corridoi di larghezza indeterminata (?!) che colleghino Israele alla valle del Giordano secondo l’asse est-ovest.
In quarto luogo, la rottura della continuità territoriale per la popolazione palestinese che si trova a cavallo della linea verde, secondo la logica del piano Seven Stars. La maggior parte delle 140 colonie (esclusa Gerusalemme-Est) con i suoi 160.000 coloni saranno annesse ad Israele. Di fatto, si tratta dell’annessione di circa il 60% della Cisgiordania con il controllo totale delle risorse in acqua. Quando Netanyahu lascia il governo, dopo aver fatto ricorso alle elezioni anticipate per bloccare i negoziati con i palestinesi e portare avanti, indisturbato, la colonizzazione, il bilancio “coloniale” è impressionante. Migliaia di appartamenti costruiti e migliaia di nuovi coloni insediati, in particolare nel settore della Grande Gerusalemme.
È la volta di Barak come Primo ministro. Questi, alla fine del mese di giugno del 1999, s’impegna a garantire la sicurezza dei coloni e a fornire loro “i servizi necessari alla vita quotidiana e al loro sviluppo”. E, dopo quella data, la colonizzazione prosegue a ritmo sostenuto. Ma il quadro della colonizzazione sarebbe sicuramente sbiadito, se non si parlasse specificamente di Gerusalemme, del resto al centro della nuova Intifada, chiamata dai palestinesi intifada Al-Aqsa, (La Lontana), dal nome di una delle moschee della Spianata, e terzo luogo sacro dell’Islam, che si trova appunto a Gerusalemme.Lo statuto finale della città di Gerusalemme ha rappresentato (e rappresenta) uno dei temi, forse il tema più importante, che divide, da sempre, israeliani e palestinesi.
Vista l’importanza di Gerusalemme, ripercorreremo la sorte di questa città, (che in ogni caso riprenderemo al paragrafo 3) per grandi linee, dalla fine del Mandato alla guerra dei sei giorni del 1967, per poi analizzarne le modifiche in termini di distruzioni e di colonizzazione apportate dalla potenza occupante, assai poco interessata al diritto internazionale e alle risoluzioni dell’ONU. Data di partenza, il mese di maggio del 1947, quando all’ONU, inizia il dibattito sul piano di spartizione della Palestina del Mandato. Gerusalemme è una città di 165.000 abitanti che si estende su di un’area di circa 30 kmq. È costituita dalla Città Vecchia, (poco più di un chilometro quadrato, densissimo di valori però per le tre religioni monoteiste), e da numerosi quartieri ebraici della Città Nuova, sviluppatisi, dopo il 1860.
Gli ebrei costituiscono il 60% degli abitanti. Del resto, dal 1875, sono sempre stati in maggioranza a Gerusalemme.Il 29 novembre 1947, l’ONU vota, come è noto, la spartizione della Palestina mandataria in due Stati, uno ebraico ed uno arabo. Gerusalemme dovrà costituire un corpus separatum internazionalizzato che comprende, dal punto di vista dello spazio, “la municipalità attuale di Gerusalemme, i villaggi e centri circostanti, il più orientale dei quali sarà Abu Dis, il più meridionale Betlemme, il più occidentale Ein Karim (compreso l’agglomerato di Motsa) e il più settentrionale Shu’fat” L’allargamento tende a realizzare un relativo equilibrio dal punto di vista demografico, con 100.000 ebrei e 105.000 arabi (di cui 65.000 musulmani e 40.000 cristiani).
Ovviamente, i primi essenzialmente concentrati nella Città Nuova ad ovest, dove si trovavano anche molti arabi. I secondi nella Città Vecchia e nei quartieri extra muros ad est, con qualche sacca ebraica, il Monte Scopus, in particolare. Tutti i villaggi intorno, Betlemme compresa, erano abitati da arabi. Dal punto di vista amministrativo, Gerusalemme doveva finire:“sotto un regime speciale amministrato dalle Nazioni unite… Lo statuto sarà in principio in vigore per un periodo di dieci anni… al termine del quale… le persone aventi la residenza nella Città saranno allora libere di far conoscere con un referendum i loro suggerimenti relativi ad eventuali modifiche al regime della Città”. In seno all’Agenzia ebraica, la spartizione venne celebrata come una grande vittoria. Totale fu il rifiuto nel mondo arabo.
Il Vaticano, che aveva avuto un ruolo importante nel progetto, risultava di fatto il vero beneficiario, perché quello statuto gli avrebbe permesso di esercitare un’influenza decisamente superiore a quella che avrebbe potuto esercitare nel caso in cui Gerusalemme fosse diventata una città araba o ebraica. Dopo la guerra 1948-1949, oltre a non nascere lo Stato arabo, di Gerusalemme come corpus separatum nemmeno l’ombra. Le disposizioni, mai annullate, non verranno mai applicate. Mistero onusiano!
Dal settembre 1948 in poi, i sionisti assumono una posizione molto rigida. Si oppongono all’internazionalizzazione di Gerusalemme, preferendo accordarsi con Abdallah di Giordania su di una tacita spartizione, da verificare successivamente con le armi! In realtà, Gerusalemme sarà sì un corpus separatum, ma soltanto nel senso che invece di essere un corpo a sé stante, sarà un corpo fatto a pezzi! Nascono così, Gerusalemme-Ovest, in mano agli israeliani e Gerusalemme-Est in mano ai giordani (e anche questa in fondo è una spartizione…). Gli israeliani, fin dal gennaio del 1950, dichiareranno Gerusalemme capitale dello Stato ebraico. I giordani, rimasti padroni della Città Vecchia, cacceranno gli ebrei che vi abitavano. La frontiera è un dato di fatto militare, e cioè la linea di demarcazione definita all’atto del cessate il fuoco del novembre 1948, la famosa linea verde. Subito dopo il 1967, il Vaticano non proporrà più l’internazionalizzazione, ma uno statuto internazionale garante dei Luoghi Santi. Con la vittoria del 1967, gli israeliani si impadronirono dell’intera città e, il 27 giugno dello stesso anno, estesero ad essa legge, giurisdizione ed amministrazione dello Stato d’Israele. Scomparve così la municipalità palestinese, in funzione dal 1948. E, fin da subito, iniziò la colonizzazione della Gerusalemme araba, di Gerusalemme-Est, che comportò la distruzione, via bulldozer, del quartiere maghrebino, (prima ancora che la guerra finisse), per far posto ad un enorme piazzale, antistante il Muro del Pianto, oltre che la restaurazione del quartiere ebraico. Ne fecero le spese più di 5000 palestinesi, espulsi dalla Città Vecchia. A questa “pulizia etnica” seguì un’astuzia amministrativa. I confini municipali della città furono arbitrariamente dilatati fino a comprendere un territorio dodici volte più grande, per quanto riguardava Gerusalemme-Est (da 6 a 72 kmq) e, complessivamente, 108 kmq, l’equivalente della superficie di Parigi! L’astuzia consistette nel realizzare un’operazione chirurgica sul territorio, che comportò l’esclusione di importanti comunità palestinesi dalla vita di Gerusalemme, pur comprendendone le loro proprietà! In questo modo, si evitò di aggiungere 80.000 palestinesi alla già numerosa popolazione araba di Gerusalemme, gettando le basi, allo stesso tempo, per una successiva confisca delle proprietà private dei palestinesi. Tale confisca si è puntualmente verificata, e su quelle terre sono state costruite colonie ebraiche, veri e propri quartieri residenziali come Gilo ad esempio, chiamate eufemisticamente in Israele “dintorni”, quartieri limitrofi. In trentatré anni, (dal 1967 al 2000), più di 27.000 dunum (27 kmq, pari a più di quattro volte le dimensioni di Gerusalemme-Est) di proprietà di palestinesi subiscono la stessa sorte: confiscati per “pubblica utilità”. Peccato che l’aggettivo “pubblica” è riferito soltanto agli ebrei, quanto al sostantivo “utilità” è poi riferito alla costruzione di colonie residenziali o di colonie tout court, che hanno accerchiato le zone abitate dai palestinesi nella città. Ai palestinesi di Gerusalemme-Est è toccata anche la brutta sorte di diventare poveri, Infatti, oltre ad essere stati espropriati e soppiantati dagli israeliani, hanno anche perduto terre per un valore di due miliardi di dollari USA (più di 4.000 miliardi di vecchie lire italiane).

Vediamo ora più in dettaglio la cronologia delle confische e degli espropri. La parte più cospicua è avvenuta agli inizi degli anni Settanta ed Ottanta ma confische ed espropri sono continuati negli anni Novanta e continuano ancora …
Per riassumere: nei mesi di gennaio e di aprile del 1968, furono confiscati 4.800 dunum; nell’agosto del 1970, 13.800; nel marzo 1980, 4.500; nell’aprile del 1991, 1840; nell’aprile del 1992, 2400 dunum vennero definiti green zone (zona verde) e dunque non utilizzabili dai palestinesi per costruire. Con il completamento di Har Homa (Jabal Abu Ghneim per i palestinesi), la più provocatoria iniziativa di Netanyahu, i 200.000 palestinesi di Gerusalemme-Est sono circondati da tutte le parti. Si tratta di una serie di fatti compiuti che hanno ignorato, anzi hanno approfittato del processo di pace, in aperta violazione del diritto internazionale e delle Risoluzioni dell’ONU. Oltre alle Risoluzioni 242 e 338, riguardanti l’insieme dei Territori occupati, ci sono altre specifiche Risoluzioni che condannano esplicitamente l’attività colonizzatrice israeliana a Gerusalemme-Est. In particolare la 252 del maggio 1968, la 279 del 15 settembre 1969, la 446 del 22 marzo 1979, la 476 del 30 giugno del 1980 e la 478 del 20 agosto del 1980. Della Risoluzione 476 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, riportiamo qui di seguito un estratto.

Deplorando che Israele continui a modificare il carattere fisico, la composizione demografica, la struttura istituzionale e lo statuto della Città santa di Gerusalemme.Gravemente preoccupato per le misure legislative adottate alla Knesset israeliana per modificare il carattere e lo statuto della Città santa di Gerusalemme.1. Riafferma la necessità imperiosa di mettere fine all’occupazione prolungata dei territori arabi occupati da Israele dopo il 1967 ivi compresa Gerusalemme […]3. Conferma di nuovo che tutte le misure e le disposizioni legislative e amministrative prese da Israele, la potenza occupante, per modificare il carattere e lo statuto della Città santa di Gerusalemme non hanno alcuna validità in diritto e costituiscono una violazione flagrante della convenzione di Ginevra relativa alla protezione dei civili in tempo di guerra […]6. Riafferma la sua determinazione, nel caso in cui Israele non si conformi alla presente risoluzione, di prendere in esame in conformità alle pertinenti disposizioni della Carta delle Nazioni Unite, i mezzi pratici per assicurare l’applicazione integrale della presente risoluzione”.

Ho usato spesso l’espressione “fatto compiuto“. Se qualcuno non sapeva cosa fosse, ora lo sa! In realtà, non c’è da meravigliarsi che Israele non abbia rispettato le Risoluzioni dell’ONU relative a Gerusalemme. Dal momento che non ne ha rispettata nessuna, compresa quella che ha dato vita allo Stato d’Israele, e non intende nemmeno rispettare la Risoluzione 194 relativa al diritto al ritorno dei rifugiati. In fondo, a che serve questo diritto internazionale, quando si dispone di un padrino come gli USA, maestro nell’infischiarsene e di un contesto internazionale prono ai piedi del padrino? Una volta l’Italia veniva accusata di essere favorevole ai palestinesi, ora questo rischio non lo corre più, dal momento che, con l’Europa, ignora la tragedia palestinese ha dato credito al macellaio di Sabra e Chatila, che bombardava tutti i giorni le misere case e le caserme palestinesi, (tutte piene di terroristi, intenti a confezionare ordigni micidiali), circa la sua buona volontà di riprendere le trattative, come continua a farlo con Netanyahu, sempre che cessi la violenza!
Vorrei invitare i lettori che hanno figli piccoli a non parlare loro di Esopo e comunque non della favola del lupo e dell’agnello! La pace in Israele/Palestina potrebbe esserci dal tempo, se il processo di pace fosse stato inteso, nel rispetto del diritto internazionale e delle Risoluzioni 242 e 338 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, come un processo graduale di restituzione dei Territori occupati, come un calendario di crescita di fiducia tra due popoli separati dalla nakba del 1948 e non invece come una serie di concessioni territoriali fatte dal più forte per legittimare la conservazione delle colonie, la rinuncia, da parte araba, a Gerusalemme-Est ed infine alla banalizzazione del problema dei rifugiati, come ricongiungimento di pochi nuclei familiari e senza nemmeno l’ammissione della ormai conclamata, anche da parte di storici israeliani, quelli “nuovi”, dell’espulsione di 750.000 palestinesi durante la guerra del 1948.
Saltiamo ora al 27 febbraio 2000, quando, all’Università palestinese di Bir Zeit, una sassaiola, opera di studenti, una sorta di mini intifada, costrinse ad una fuga ingloriosa Lionel Jospin, reo di aver accusato Hezbollah di terrorismo. Soltanto qualche mese prima, un ufficiale superiore dell’esercito israeliano aveva rilasciato al quotidiano Ha’aretz (La Terra, in ebraico), una dichiarazione di tutt’altro avviso:“Hezbollah non è un’organizzazione terroristica, ma un movimento di liberazione nazionale, che conduce operazioni di guerriglia. In queste condizioni, non abbiamo nessuna possibilità di farcela. Dobbiamo avere il coraggio di guardare la verità in faccia: noi non abbiamo più niente da fare in questo paese [il Libano]”.
Il 22 maggio Israele riceve un saggio della disfatta, con l’arrivo di Hezbollah alla frontiera. Viene liberato simbolicamente il villaggio di Hula. I mercenari si squagliano a tempo di record. Migliaia di libanesi ritornano in dodici villaggi abbandonati. L’aviazione israeliana fa cinque morti e più di trenta feriti.Gli Hezbollah, oltre ad avere una “fede incrollabile“, hanno in realtà goduto di un sostegno nell’opinione pubblica libanese che va ben oltre la comunità sciita da cui sono nati. Del resto, le “Brigate libanesi della resistenza”, cui diedero vita nel 1998, raggruppano oggi combattenti di tutte le confessioni, sunniti, drusi ed anche cristiani. Proprio per rafforzare il carattere nazionale del movimento lo sceicco Hassan Nasrallah, capo di Hezbollah dal 1992, si era opposto alla nascita di “brigate arabe”, come è avvenuto altrove, con il risultato che la maggioranza della classe politica libanese ha visto di buon occhio il movimento di resistenza. Ed ora Hezbollah spera forse in una pace totale, che porti ad un Libano liberato dall’occupazione israeliana ma anche siriana.
Nel frattempo israeliani e palestinesi si ritrovano nella base aerea americana di Bolling, vicino Washington, per cercare di definire, prima della fine di maggio, le grandi linee di un accordo globale che dovrebbe concludersi al massimo entro il 13 settembre 2000. Ma, nonostante l’impegno del mediatore americano Aaron Miller, che ha messo a disposizione delle due delegazioni anche la sua casa, le cose non vanno molto avanti. Si parla molto, ma Israele continua a non voler riconoscere la sua responsabilità sulla Nakba e, per quanto riguarda Gerusalemme Est, ripropone la solita autonomia amministrativa, mentre i palestinesi vogliono entrare nel vivo del contenuto dell’accordo quadro, e chiedono di definire con precisione le frontiere, lo statuto di Gerusalemme, la dimensione delle aree militari poiché definiti questi punti in termini percentuali, il resto dovrà essere trasferito a loro, con relativa scomparsa delle zone B e C.
Arafat, il 7 aprile, definisce i negoziati di Bolling una “perdita di tempo”.Sono giorni, questi, in cui si va sempre più deteriorando il rapporto tra Arafat e Barak. Quest’ultimo, mentre si prepara a partire (9 aprile) per Washington per incontrare Clinton, trova il modo di dichiarare che il blocco di colonie intorno a Gerusalemme (Maale Adumim, Pisgat Zeev, Ghilo e Ramot) resterà comunque sotto la sovranità israeliana. Dal Cairo, Arafat esprime un giudizio durissimo nei suoi confronti, sostenendo che è peggiore di Netanyahu. Ma il giorno dopo, Saeb Erekat parla dell’apertura di trattative segrete in Svezia. Per la Palestina c’è il presidente del parlamento, Ahmed Korei con Hassan Asfur, per Israele, Shlomo Ben-Ami e Gilad Sher, avvocato assai vicino a Barak.
Il 21 maggio, Barak intima ad Arafat di scegliere tra il negoziato e l’intifada e interrompe le trattative di Stoccolma. La situazione in Libano precipita. L’opinione pubblica palestinese rimane colpita dalla precipitosa ritirata dell’esercito israeliano. Molti confrontano ciò che Hezbollah ha ottenuto con la forza con quanto Arafat ha perso con i negoziati. Per Arafat, in visita a Madrid il 26 maggio, si tratta “innanzitutto di una vittoria della pace“, replicando così a chi chiama alla lotta armata. In una intervista alla televisione israeliana, forse per riesumare la 242, sostiene una tesi ardita e, a nostro modesto parere, totalmente errata, e cioè che Barak ha ordinato il ritiro non “a causa di Hezbollah” ma “per rispettare la risoluzione 425“!
La risposta del capo di Hamas, lo sceicco Ahmed Yassin, non si fa attendere. Per lui, il 29 maggio annuncia la nascita di “una nuova era“, sostenendo che gli avvenimenti libanesi “dimostrano che la resistenza è la sola via possibile. Quale che sia l’equilibrio tra le forze, la determinazione di un popolo prevale sempre sulla potenza militare“. Sicuramente giusta l’analisi rispetto al Libano, purtroppo soltanto affermazione di principio rispetto ad una situazione, quella palestinese, non immediatamente riconducibile, per motivi storici, politici e militari alla situazione libanese. Questo sempre a nostro modesto parere.Gli avvenimenti precipitano. IL 4 giugno l’OLP prepara la proclamazione dello Stato palestinese, prevista per il 13 settembre. La Albright è a Ramallah il 6, per incontrare Arafat. L’incontro è burrascoso. Alla conferenza stampa, il ministro degli esteri americano annuncia il ritorno dei negoziati a Washington, dopo il fallimento di Eilat e il ricevimento di Arafat alla Casa Bianca, il 14 giugno. In sostanza, il 6 giugno, ad Arafat venne proposto-imposto un vertice a tre a Washington. Arafat riteneva che le condizioni non fossero mature non avendo gli israeliani mantenuto gli impegni presi ad Eilat e in quello stesso giorno, nel corso del pranzo in onore degli americani, a Ramallah, Arafat si rivolse così alla Albright:

Signora segretario di Stato, se convocate un vertice e questo fallisce, la speranza dei nostri popoli di vedere instaurare la pace diminuirà ancora. Sarebbe saggio non deludere ancora questa speranza“.

La Albright non tenne conto dei dubbi espressi, nella riunione pomeridiana, anche dai negoziatori palestinesi, incontrò la sera Barak e, dopo essersi consultata con i suoi collaboratori, comunicò a Clinton di ritenere opportuna la convocazione del vertice. Cominciò, con la decisione della Albright, un tour de force per Arafat. Il 15 giugno incontra di nuovo Clinton, che dice di “voler finire il lavoro puntualmente” e s’impegna a far rispettare la scadenza finale del 13 settembre. Subito dopo, sospese i negoziati di Washington, dopo l’annuncio israeliano della liberazione di 3 (tre) prigionieri al posto di 230 e del trasferimento all’ANP dell’1% del territorio, quale ultimo ritiro dalla Cisgiordania, mentre l’accordo interinale prevedeva il 10% prima del 23 giugno.
Il 7 giugno Madeleine tornò in Israele per preparare il vertice a tre a Camp David, per i primi di luglio, continuando ad ignorare il parere dei palestinesi circa il sicuro fallimento dello stesso. A portare all’incandescenza il clima dovuto alle forti pressioni e alle reiterate inadempienze contribuì non poco l’intervento del procuratore israeliano Eliyakim Rubistein. Costui giudicò le risoluzioni 242 e 338 non applicabili, in quanto, all’atto dell’adozione delle risoluzioni, l’ANP non esisteva e che in esse, i palestinesi venivano menzionati soltanto come rifugiati! Bella mossa! E così viene di nuovo a galla la tesi del “buon cuore israeliano”. Secondo la quale, lo Stato palestinese non ha fondamento nel diritto internazionale, ma soltanto nella benevolenza israeliana, che occorre sapersi guadagnare. Si sta creando il contesto del vertice.
Americani a premere, al servizio delle tesi israeliane o servendosi delle stesse, sui palestinesi, perché accettino ancora una volta, ma questa volta senza più poter recriminare, un accordo che cancelli la Nakba, la realtà araba di Gerusalemme e anche la perdita definitiva di una parte del loro territorio residuale, per poter dar vita (sarebbe vita?) ad uno Stato di Palestina senza reale sovranità.Clinton chiama di nuovo Arafat, che lo invita a convocare negoziati preparatori e non un vertice. Il 4 luglio, Clinton, “portavoce” di Barak, dice ad Arafat che il Premier israeliano è contrario a negoziati preparatori, ma che ha “cose nuove da proporre”. Arafat non si arrende, mette di nuovo in guardia sui rischi di un fallimento, ma Clinton ormai è finito nella trappola dei “funzionari dell’impero” che lo hanno convinto della possibilità di incastrare i palestinesi! Partono gli inviti per l’undici luglio, a Camp David”.Come sono andate le cose dopo, e come vanno oggi lo sappiamo. Ma l’11 settembre diventa sempre di più una scusa che un evento epocale!


  1. Lo studio sulla colonizzazione di Gerusalemme-Est

 Lo studio che viene qui proposto (pagg. 85-108 del testo richiamato all’inizio del paragrafo 2), è opera di Jean Paul Chagnollaud, cui devo moltissimo sia per quanto riguarda le mie conoscenze sulla colonizzazione sionista in Palestina sia per quelle relative all’Intifada del 1987. Io penso che sia lo studioso che con maggiore sistematicità abbia affrontato il dramma del popolo palestinese, restando sempre lontano da un coinvolgimento ideologico. Forse è questa la ragione per cui i suoi testi non hanno trovato nessun editore in Italia! Sono perciò entusiasta di poter proporre, ancora una volta le sue argomentazioni e, in questo caso, un testo essenzialmente suo. Qualsiasi modifica fatta da me, nel quadro della traduzione è dovuta soltanto al mio tentativo di rendere più chiaro il testo ad un pubblico non sempre esperto della materia trattata. Spero di essere riuscito nell’intento, senza però aver tradito l’autore. Ed ora diamo la parola a Jean Paul!

Il processo di annessione unilaterale di Gerusalemme

Quando si arriva a Gerusalemme provenendo dall’aeroporto di Tel Aviv, si incontra prima la sua parte Ovest, abitata da israeliani e strutturata in vasti quartieri moderni con scuole, ospedali, grandi alberghi, ristoranti come all’incirca in qualsiasi altro agglomerato al mondo. Poi si arriva vicino alla città Vecchia, circondata dalle sue imponenti mura, attraversate da alcune grandi porte, le più importanti delle quali sono quella di Jaffa a ovest e quella di Damasco a est. Discendendo dall’una all’altra, si scopre rapidamente la parte Est della città, abitata da palestinesi, con la sua principale arteria, Salahedin street. In pochi minuti si potrebbe pensare di aver individuato le tre componenti principali di questa città. In realtà, il visitatore non ha visto quasi niente, dal momento che la città si estende in molteplici direzioni per inglobare zone assai differenti e soprattutto assai contrastanti. Si colgono almeno due grandi tipi di urbanizzazione.
Nella parte centrale di Gerusalemme-Est (da nord a sud) vasti complessi abitativi costruiti dagli israeliani, che non sono altro che colonie come ce ne sono tante altre nei Territori occupati e che sono riservati alla popolazione ebraica israeliana. Queste costruzioni moderne, abitate ciascuna da migliaia di persone, godono di un’ottima manutenzione, sono servite da buone strade e da buoni servizi di trasporto.
Alla periferia, ci sono alcuni villaggi o quartieri palestinesi che fanno pensare di trovarsi in una città di quello che veniva chiamato una volta terzo mondo, dove le strade sono quasi impraticabili, dove spesso si incontra, qui e là, spazzatura venuta non si sa da dove, che il vento sparpaglia in tutte le direzioni. Nessuna traccia di commercio o di servizi o quasi. Questi posti, che rassomigliano a terre di nessuno, sono abitati da migliaia di uomini e donne dagli abiti malandati, dalle automobili ammaccate e dagli sguardi tristi, che danno un’idea di quanto debba essere difficile la loro vita quotidiana, soprattutto dopo la costruzione del Muro della vergogna, che li pone in situazioni impossibili.
E tuttavia, questi spazi così diversi sono sotto l’egida della stessa municipalità creata dopo la guerra del 1967 dal governo che aveva ben presto decretato l’annessione de facto della città, dotandola di limiti municipali che andavano ben al di là di quelli esistenti sotto il regime giordano. Quelli cioè della Gerusalemme storica. Questa configurazione apparentemente caotica non deve nulla al caso. Al contrario, essa è il risultato di una politica coerente e sistematica il cui obiettivo è chiarissimo: fare in modo che Gerusalemme occupi il più vasto spazio possibile con il minor numero di palestinesi, per realizzare il sogno di una Gerusalemme “riunificata”, popolata da una larga maggioranza ebraica. Gerusalemme costituisce senza alcun dubbio il cuore del conflitto israelo-palestinese, poiché vi si trovano condensate tutte le sue dimensioni storiche, politiche, demografiche e religiose. Per gli uni come per gli altri, essa deve essere la capitale del loro Stato, cosa che, sia pure formalmente, la comunità internazionale continua a rifiutare allo Stato d’Israele (che l’ha proclamata unilateralmente dal 1950), e che gli israeliani rifiutano ai palestinesi che non hanno nemmeno più, da tempo, il diritto elementare di accedervi, se non sono residenti.
Durante la guerra del 1948, per conquistare questa città popolata da 205.000 abitanti (circa 100.000 ebrei e 105.000 palestinesi, di cui 60.000 musulmani e 45.000 cristiani), ci fu uno scontro durissimo tra l’esercito israeliano e la Legione araba giordana, e al cessate-il-fuoco le due forze in campo si trovarono faccia a faccia vicino alle mura della città Vecchia, che rimase sotto la dominazione giordana, mentre gli israeliani si installarono in tutti i quartieri della parte Ovest della città compresi quelli interamente popolati da palestinesi, costretti a lasciare le loro case. Questo flusso di profughi costituì una parte importante dell’esodo palestinese del 1948 e la prima tappa dell’attivazione del progetto israeliano di giudaizzazione della città, mentre alcune migliaia di ebrei che risiedevano nella città Vecchia subirono lo stesso destino, raggiungendo la parte Ovest della città. Negli anni successivi, la giudaizzazione di Gerusalemme-Ovest è avvenuta senza un’importante opposizione, poiché i palestinesi l’avevano abbandonata per esiliarsi a qualche chilometro dall’altra parte, o addirittura a poche centinaia di metri per quelli che, ad esempio, abitavano nei pressi della Porta di Jaffa e che si installarono nella città Vecchia.
Ma è con la guerra del giugno 1967 che la situazione precipita poiché, da quel momento, Israele controlla tutta la Palestina compresa perciò Gerusalemme. Immediatamente, la città viene percepita da una grandissima maggioranza di israeliani in maniera del tutto differente dal resto dei territori palestinesi appena conquistati. Se i vari governi succedutisi hanno esitato sulla politica da tenere rispetto ai nuovi territori, questo non è avvenuto in relazione a cosa era necessario decidere per Gerusalemme. Da allora, e senza che questo fatto abbia avuto mai una smentita, esiste un forte consenso tra i partiti di destra e di sinistra per farne una grande metropoli dove gli ebrei siano largamente in maggioranza.
Tutto questo trova d’altronde una prova immediata il 27 giugno 1967, con un voto della Knesset che stabilisce: “La legge, la giurisdizione e l’amministrazione dello Stato si estenderanno a qualsiasi porzione di Eretz Israel indicata per decreto governativo. Molto rapidamente vengono insediati a Gerusalemme-Est numerosi servizi amministrativi municipali e, qualche anno più tardi, nel luglio 1980, la Knesset adotta una legge fondamentale secondo la quale “Gerusalemme riunificata è la capitale d’Israele… (e) la sede del presidente dello Stato, del governo e della Corte Suprema”.
Questo vasto progetto, che s’inquadra pienamente nella logica sionista, è oggi, nel 2010, praticamente realizzato. Esso è costituito da quattro grandi articolazioni strettamente intrecciate le una con le altre e cioè l’estensione del perimetro dello spazio della città e fuori della città; la chiusura della città con un immenso muro di cemento che la separa dall’habitat palestinese, integrandola con l’hinterland israeliano; lo spossessamento fondiario dei palestinesi, con relativa costruzione di vaste colonie ebraiche; il logoramento sistematico degli abitanti palestinesi di Gerusalemme.


L’estensione del perimetro dello spazio della città e fuori della città

Questa estensione si è svolta in tre grandi tappe strettamente legate tra di loro anche se, ogni volta, di natura differente. La prima è consistita in una modifica unilaterale del perimetro originario della città, La seconda si è svolta all’esterno dei nuovi limiti con la creazione di una nuova colonia a meno di dieci chilometri da Gerusalemme. La terza ha riguardato una “nuova” forma di gestione del territorio, in realtà un progetto di sviluppo di una vasta metropoli: la “grande Gerusalemme”.


La modifica unilaterale dei limiti municipali

 Sulla base di un testo di legge votato dalla Knesset nel mese di giugno 1967, il governo ampliò in misura spropositata il perimetro urbano della città, ben al di là dei limiti urbani di Gerusalemme-Est e dunque al di là della linea verde che costituiva la linea di demarcazione relativa alla guerra del 1948. Questa iniziativa unilaterale va considerata di fatto come una forma mascherata di annessione di nuovi territori assolutamente contraria al diritto internazionale, come ha ribadito il Consiglio di sicurezza dell’ONU con la risoluzione 252 del 1968. Per attivare questo progetto, era necessario confiscare terre arabe, evitando il più possibile d’integrare, con la stessa operazione, nuove popolazioni nella città che non potevano che essere palestinesi o giordane. Servivano le terre ma non i loro abitanti e di conseguenza ecco i nuovi limiti municipali che fanno lo slalom tra questi vincoli demografici per giungere ad una nuova geografia della città particolarmente sinuosa, ricca di gomiti e di incavi, stirandosi verso sud e allungandosi lungo la verticale verso il nord, quasi fino alla periferia di Ramallah. Una metafora sessuale, ispirata alla forma assunta dai nuovi confini municipali, fa pensare ad un enorme fallo che stupra il cuore della Palestina. La superficie di Gerusalemme-Est passò così da 6 (sei) chilometri quadrati (che comprendevano anche il chilometro quadrato relativo alla città Vecchia) a circa 70 (settanta) kmq. Sommata alla parte Ovest della città, la superficie totale di Gerusalemme risulta essere di 108 kmq, abitata da 266.000 persone, per tre quarti ebree.

 

La costruzione di Ma’ale Adumim

 La colonia di Ma’ale Adumim, situata a pochi chilometri da Gerusalemme in direzione di Gerico, ha conosciuto all’inizio una storia assai contrastata, prima che il Likoud, arrivato al governo nel 1977, non la classificasse in zona di sviluppo prioritario, dopo averla legalizzata, in modo da permetterle di beneficiare di sovvenzioni per gli alloggi, di riduzioni di tasse e di prestiti agevolati. Dopo dieci anni, questa nuova colonia, consacrata ufficialmente nel 1992 prima città ebraica dei territori, è in piena espansione con circa 15.000 abi­tanti. Nel 1994, e cioè quando erano stati da poco firmati gli accordi di Oslo, il governo di Yitzhak Rabin, che intendeva continuare in maniera intensiva la politica dei fatti compiuti sul terreno, malgrado i negoziati con i palestinesi, prese la decisione di allargarne i limiti molto ampiamente, aggiungendo nuove riserve fondiarie, di fatto terre espropriate a cinque villaggi: El-Eisawiyeh, El-Tour, El-Eizariyeh, Anata e Abu Dis. Si trattò di una sorta di misura conservativa, che permise ad Israele di prendere tempo e di conservare per un uso successivo queste terre, dal momento che all’epoca, non fu presa alcuna decisione concreta.
Occorrerà infatti aspettare il 2005 perché il governo di Ariel Sharon decida di utilizzare questa riserva fondiaria per lanciare uno dei più grandi progetti di costruzione di colonie. Una prima fase, 3.500 nuovi alloggi e l’installazione del quartier generale della polizia per la Cisgiordania. I piano in questione si chiama “E1”, comporta anche una zona di sviluppo economico, zone commeciali, alberghi, istituti d’insegnamento superiore, un cimitero e un ampio parco che circonderà il tutto. La sua superficie totale è dell’ordine di 50 kmq e si stende praticamente da Gerusalemme a Gerico. La sua realizzazione deve collegare Ma’ale Adumim alle altre colonie di Gerusalemme-Est come Psigat Omer, Neve Yaacov e French Hill, creando così una continuità territoriale tra tutti questi quartieri ebraici.
Di fronte alle proteste americane ed europee (si fa per dire!) il governo ne ha congelato per qualche tempo l’applicazione, ma, dalla fine del 2006 sono state prese le prime misure effettive, con l’insediamento in particolare del centro di polizia. All’inizio del 2007, la zona si è trasformata in un immenso cantiere, con lavori di terrazzamento e l’apertura di nuove infrastrutture stradali. E oggi se ne vedono i risultati !
Ariel Sharon aveva preso questa decisione perché il piano s’inseriva perfettamente nella strategia di frantumazione del territorio palestinese, che puntava (e punta) a creare svariati cantoni isolati gli uni dagli altri. Questo progetto è assai vicino ad essere realizzato, e permette fin d’ora di collegare fisicamente Gerusalemme e Ma’ale Edumim con zone abitate esclusivamente da ebrei, di intercludere villaggi palestinesi come Abu Dis e Al-Eizariyeh, ormai soffocati tra il Muro della vergogna e Ma’ale Adumim, di isolare Gerusalemme dal resto dell’hinterland palestinese e, infine e forse soprattutto, di tagliare in due la Cisgiordania, separando i distretti palestinesi del Nord da quelli del Sud.
Questa separazione è già da oggi operante nei fatti. L’esercito impedisce qualsiasi forma di circolazione ai palestinesi tra il Nord e il Sud della Cisgiordania e, in sovrappiù essi non possono nemmeno accedere alla vallata del Giordano, ormai limitata ai soli residenti.
Una simile configurazione, cui vanno aggiunte le innumerevoli restrizioni alla libertà di movimento di cui sono vittime i palestinesi, rende impossibile la creazione di uno Stato palestinese dotato di continuità territoriale. A questa obiezione il governo israeliano replica che costruirà… un tunnel per renderla un giorno possibile, un chiaro modo per confermare questa politica di frammentazione dello spazio palestinese per favorire un dominio incontrastato degli israeliani.
Quasi a voler sigillare il tutto – nel senso proprio del termine -, è previsto che il Muro in cemento che circonda completamente la parte Est di Gerusalemme, venga prolungato tutto intorno a Ma’ale Adumim passando molto a sud per inglobare alcune piccole colonie come Kedar e molto a nord oltre Almon e Kefar Adumim.

 

Il progetto della Grande Gerusalemme

 Questo progetto rappresenta un’importantissima estensione dell’annessione già realizzata nel 1967 quando lo Stato d’Israele aveva del tutto unilateralmente ridisegnato i limiti municipali della parte Est della città. In seguito, la colonizzazione in Cisgiordania aveva portato alla costruzione di grandi blocchi di colonie intensamente popolate tutto intorno a Gerusalemme, per meglio garantirne il controllo politico e demografico. Lanciato da Benjamin Netanyahu nel 1995, questo progetto riguarda un vasto territorio che va a nord fino a Ramallah, a sud di Betlemme senza includerla e a est verso la periferia di Gerico. Comporta un forte sviluppo di quattro blocchi di colonie che si trovano al di là dei limiti della città di Gerusalemme e che la circondano da nord-ovest, da nord-est, da est e da sud. Queste colonie sono tutte collegate a Gerusalemme-Ovest da una rete stradale efficiente e sofisticata che permette collegamenti rapidi tra i diversi punti di questo spazio ampio, di cui Gerusalemme-Ovest costituisce il cuore, per l’offerta relativa al lavoro e ai servizi (istruzione, salute, alimentazione e tempo libero).

Il fatto nuovo ed essenziale è che questo complesso che inghiotte tutta una parte centrale della Cisgiordania è ormai separato fisicamente dal resto del territorio palestinese dal Muro il cui tracciato ha qui la funzione evidente di fissare una vera frontiera di cemento per consacrare l’annessione unilaterale di questo complesso allo Stato d’Israele.

Il primo blocco si situa a est, intorno a Ma’ale Adumim, punto cardine di questo dispositivo, con, a nord della strada che collega Gerusalemme a Gerico, una serie di piccole colonie che dipendono dal consiglio regionale di Mate Binyamin: Mizpe Yeriho, Kefar Adumim e Almon (3 600 abitanti). A sud-est di Ma’ale Adumim, si trova la colonia di Qedar (450 abitanti). Il complesso, con una superficie di circa 70.000 dunam, si estende fino alla periferia di Gerico e rinforza così la spaccatura tra il Nord e il Sud della Cisgiordania.

Il secondo blocco di colonie si situa a nord-ovest con in particolare Giv’on e Bet Horon che fanno anche loro parte del consiglio regionale di Mate Binyamin e Giv’at Ze’ev che è un consiglio locale. I limiti di queste colonie sono vicini a Ramot che si trova all’interno dei nuovi limiti municipali di Gerusalemme. Un pò più lontano si trova la colonia di Har Adar (circa 2000 abitanti) de facto incorporati allo Stato d’Israele da un tracciato del Muro che si allontana anche qui, deliberatamente, dalla linea verde. Il complesso è servito da strade che collegano questo settore all’autostrada Gerusalemme-Tel Aviv e al centro-città.

Il terzo blocco di colonie si situa a nord-est con in particolare le colonie di Kokhav Ya’akov, Tel Zion e anche Geva Binyamin, che dipendono tutte dal consiglio regionale di Mate Binyamin. Qualche chilometro più a nord, ci sono le colonie di Pesagot e Bet El che fanno parte di un altro sistema ma che, allo stesso tempo, sono vicinissime a questa metropoli. Questi due blocchi, entrambi situati a nord della città, costituiscono una specie di barriera che separa Gerusalemme da una decina di villaggi palestinesi. Più di 30.000 abitanti palestinesi sono così estraniati da quello che è sempre stato il loro centro urbano di riferimento.

Il quarto blocco si trova più a sud, vicino Betlemme. Comprende Betar Illit con 16.000 abitanti, Efrat e una serie di piccole colonie che dipendono dal consiglio regionale di Gush Etzion. Benché sia abbastanza lontano da Gerusalemme, questo settore si integra con la metropoli grazie ad una strada che la collega direttamente con il centro della città, evitando zone popolate da palestinesi. Del resto, come gli altri blocchi di colonie, esso contribuisce alla frammentazione dello spazio palestinese poiché impedisce lo sviluppo dei villaggi palestinesi e limita fortemente la libertà di movimento dei suoi abitanti. In totale, i limiti municipali di queste colonie nella Grande Gerusalemme si estendono per circa 130.000 dunum, due terzi dei quali rappresentavano nel 2002 una riserva fondiaria per progetti futuri, con una popolazione di circa 250.000 abitanti, con l’ambizione di raccogliere nella zona mezzo milione di israeliani per pesare nel rapporto di forze demografico nel cuore dei territori palestinesi.

Gli abitanti di queste colonie, sommati ai 200.000 di Gerusalemme-Est, costituiscono un insieme comparabile con la popolazione palestinese che, per di più, è fisicamente suddivisa tra diverse enclave dovute alla strutturazione spaziale indotta dalle nuove costruzioni israeliane e dal Muro che spezza in modo brutale tutto uno spazio in precedenza continuo.

 

Il Muro intorno a Gerusalemme

 Tutta l’operazione costruita in parecchi anni a partire da piani, tutti rigidamente centrati sull’idea di realizzare una maggioranza ebraica nell’insieme della città, ha trovato una forma di completamento con la costruzione del Muro a partire dal 2003. Ovviamente le conseguenze della costruzione del Muro hanno coinvolto (e coinvolgono) tutta la Cisgiordania. Qui di seguito studieremo le implicazioni relative alla sola Gerusalemme.
Questo mostro di cemento e di acciaio (si tratta in realtà di un’alternanza di un vero e proprio muro di cemento e, per la più gran parte del percorso, di una barriera, limitata da una parte e dall’altra da una rete metallica di circa tre metri di altezza, controllata elettronicamente, ma assai larga, dai 45 ai 100 metri. Questo spazio compreso tra le due reti è occupato da reticolati, da un fossato che impedisce il passaggio ad eventuali veicoli, un sistema di rilevazione di intrusioni e almeno una strada di pattugliamento), il Muro della vergogna, serpenteggia per decine di chilometri intorno a Gerusalemme, schiacciando tutto al suo passaggio, mutilando il paesaggio come un’enorme cicatrice, ferendo le magnifiche colline di Gerusalemme e imponendo una separazione di una violenza estrema che sconvolge letteralmente la vita di decine di migliaia di palestinesi ormai separati gli uni dagli altri, isolati dai loro cari, staccati dal loro ambiente naturale e anche, per molti di loro, rinchiusi in una sorta di ghetto, le cui uniche uscite sono dei tunnel!
L’argomentazione secondo la quale il Muro è stato costruito per ragioni di sicurezza non regge all’analisi precisa del suo tracciato in Cisgiordania. Nel caso di Gerusalemme, l’argomentazione regge ancora di meno tanto è evidente che la decisione di circondare la città con un muro risponde fondamentalmente alla volontà politica di annettersi le più ampie superfici possibili attorno a Gerusalemme e di crearvi un rapporto di forze demografico favorevole agli israeliani ebrei. Si ritrova qui l’ossessione demografica in tutta la sua ampiezza: bisogna fare tutto perché Gerusalemme sia a maggioranza ebraica. E nel quadro di questa ossessione, la Grande Gerusalemme completa in maniera decisiva i dispositivi che permettono di frammentare al massimo il territorio palestinese per impedire qualsiasi possibilità di creazione di uno Stato palestinese vivibile.
All’inizio del 2007, per capire il tracciato del muro e le relative conseguenze, occorre tenere ben separati i limiti municipali della città e la Grande Gerusalemme. I due progetti sono strettamente legati tra loro e sono anche complementari (dal momento che la Grande Gerusalemme consolida, con un’ampia estensione, i limiti iniziali della città) ma non procedono con lo stesso ritmo. Uno è completato mentre l’altro non lo è ancora, soprattutto perché la comunità internazionale ha condannato a più riprese il progetto di una Grande Gereusalemme. Detto questo, le implicazioni per i palestinesi sono più o meno le stesse e si possono individuarne almeno tre tipi : l’esclusione, la chiusura e la separazione.

 

L’esclusione

Il principio stesso dell’esclusione è semplice: estendere al massimo lo spazio urbano di Gerusalemme espropriando terre palestinesi, includendovi il minor numero possibile di palestinesi. Il caso più flagrante e senza dubbio più importante è quello del circondario di Shu’fat. In questo settore, dove vivono circa 50.000 palestinesi, ovverosia un quarto della popolazione palestinese della parte orientale della città, il tracciato del Muro opera un gran giro per “tirare fuori” questa popolazione della città, lasciandola fuori dal muro, nonostante che si trovi all’interno dei limiti municipali! Il circondario di Shu’fat comprende il campo profughi di Shu’fat, Ras Hamis, Ras l’Shehada, e i quartieri di Dahiyat al-Salaam. Si trova al limite nord-est di Gerusalemme, a sud della colonia Pisgat Ze’ev e a est della colonia French Hill e del villaggio di Isawiya. La grande maggioranza degli abitanti del settore è costituita da residenti di Gerusalemme, e alcuni sono cittadini israeliani. Si noti che la residenza di Gerusalemme è considerata come equivalente allo statuto di “residente permanente” e, in quanto tali, i suoi detentori godono della maggior parte dei diritti e servizi di cui godono i cittadini israeliani, in particolare, hanno il diritto di voto alle elezioni municipali, ma non a quelle parlamentari
Il campo-profughi di Shu’fat fu il primo campo ufficiale. Fu costruito tra il 1964 e il 1966 per ospitare i profughi di Gerusalemme-Ovest che vivevano nel quartiere ebraico della città Vecchia dopo la guerra del 1948.
La popolazione del campo (circa 10.000 rifugiati registrati ai quali conviene aggiungere dalle 10 alle 15 mila persone che non sono rifugiati ma che vivono là) si è sviluppato nel corso degli anni, mentre altri quartieri sono sorti intorno al campo negli anni 1970 e 1980 poiché la popolazione di Gerusalemme-Est aumentava e i residenti cercavano terreni liberi su cui insediarsi. L’ONU fornisce dei servizi di base ai rifugiati, mentre la municipalità di Gerusalemme e lo Stato d’Israele hanno l’obbligo di far fronte ai bisogni di tutti gli altri residenti di Gerusalemme all’interno del campo. In linea generale, le condizioni di vita dei residenti del capo sono decisamente modeste.
Proprio come per il campo di Shu’fat, la municipalità di Gerusalemme è responsabile della fornitura dei servizi per i qurtieri esterni al campo: Ras Hamis, Ras I’Shehada e Dahiyat al-Salaam dove vivono circa 10.000 persone. Tutto questo settore soffre di un’infrastruttura sottosviluppata. Poche strade, poca o nessuna raccolta di spazzatura e assenza qusi totale di illuminazione pubblica. Non ci sono scuole municipali, non ci sono parchi, non ci sono centri sociali e nessun ufficio postale. Per questi quartieri non esiste alcun piano urbanistico, la qual cosa impedisce ai residenti di depositare richieste per costruire. A titolo di confronto, il quartiere vicino di Pisgat Ze’ev, una colonia israeliana fondata nel 1982 a Gerusalemme-Est con i suoi 45.000 abitanti, dispone di una decina di scuole, di diverse cliniche, di un centro sociale, così come di strade, di lampioni, di parchi e di pianificazione paesaggistica. I residenti beneficiano dei vantaggi dei piani urbanistici approvati, della polizia, dei pompieri e di servizi di pronto soccorso. Nel gennaio 2004, Israele ha cominciato a confiscare la terra per la costruzione del Muro sul settore di Shu’fat. Il tracciato previsto lo ha circondato completamente, isolandolo dalla città, limitando de facto l’accesso degli abitanti al resto di Gerusalemme attraverso un solo check-point. Malgrado i ricorsi depositati dai palestinesi, la cos­truzione del Muro, alla fine del 2005, era già avviata.


La chiusura

Un altro segmento della popolazione palestinese, che viveva al di fuori del perimetro della città, si trova letteralmente chiuso da un muro che si è inserito tra quello delle frontiere municipali e quello della Grande Gerusalemme! Si tratta di quattro villaggi palestinesi che si trovano a nord-ovest della città tra le colonie israeliane di Giv’at Ze’ev e di Ramot Allon: Al-Judeira, Al-Jib, Bir Nabala e Al-­Balad. A lavori finiti, i loro abitanti non potranno più uscire da questa enclave se non attraverso tunnel controllati evidentemente dalla polizia israeliana.
Dall’altro lato di Gerusalemme, in prossimità della nuova colonia di Har Homa, alcune centinaia di palestinesi del villaggio di Nu’man vivono da anni un vero incubo. In seguito ad un errore commesso dall’amministrazione israeliana, gli abitanti di questa zona erano stati giuridicamente come residenti della Cisgiordania, mentre erano all’interno del nuovo perimetro di Gerusalemme. A questo titolo, avrebbero dovuto beneficiare dello statuto di residenti di Gerusalemme. Finché il Muro non esisteva, la loro situazione era difficile ma non drammatica, poiché potevano circolare alla meno peggio sia verso Gerusalemme sia verso la Cisgiordania. Con la costruzione del Muro, tutto è cambiato, dal momento che sono ormai bloccati all’interno della città senza disporre però dei documenti che li autorizzino a circolare da questa parte del Muro. Si trovano dunque in una situazione kafkiana poiché non hanno il diritto di stare legalmente nelle loro case e nello stesso tempo non possono più andare dalla parte palestinese a causa del Muro. Gli abitanti hanno depositato diversi ricorsi, ma senza alcun risultato, a tutt’oggi.


La separazione

 

L’insieme della zona compresa tra Ramallah, Gerusalemme e Betlemme ha sempre rappresentato un bacino di popolazione e di impieghi indivisibile dove la circolazione e gli scambi erano tanto più facili in ragione delle brevissime distanze : alcuni chilometri soltanto separano Ramallah da Betlemme. La decisione israeliana di vietare ai palestinesi di Cisgiordania di andare a Gerusalemme all’inizio degli anni 1990 ha costituito una prima rimessa in discussione di questa unità. Questo divieto, applicato in modo rigorosissimo, isola i palestinesi gli uni dagli altri con tutto ciò che comporta per la vita quotidiana, per le famiglie che non possono più incontrarsi dove desiderano, per i credenti che non possono più recarsi alla moschea di Al-Aqsa, per i commercianti e i lavoratori che non possono più servirsi dell’attività di un centro urbano importante.
Il Muro rafforza violentemente questa separazione perché ormai il minimo spostamento da Gerusalemme verso la Cisgiordania è un percorso di guerra mentre nel senso inverso sono impossibili del tutto percorsi discreti o clandestini che permettano ai palestinesi di andare a Gerusalemme. I pochi punti di passaggio esistenti dove si può superare questo Muro non sono semplici check-point ma veri terminali di frontiera con reti metalliche, porte di ferro e tornelli metallici mediante i quali si operano stretti controlli d’identità assai spesso umilianti per i palestinesi che devono passare uno alla volta davanti a vetri blindati dove i soldati israeliani la fanno da padroni assoluti.
Ci sono ormai anche diversi frammenti di popolazioni esplose: gli abitanti di Ramallah e di Betlemme sono separati, quelli di Gerico vivono in un’oasi circondata da una zona vietata, quelli di Abu Dis sono soffocati tra il Muro di Gerusalemme e presto quello di Ma’ale Adumim, quelli di Anata sono chiusi tra il Muro e una strada a diverse corsie, mentre quelli di Gerusalemme-Est sono praticamente agli arresti domiciliari dal momento che sono bloccati a casa loro in un perimetro sempre più ridotto, con la paura di perdere il loro statuto di residenti della città, nel caso in cui si allontanino per una qualsiasi ragione. Si potrebbe continuare facilmente questa enumerazione seguendo i contorni del Muro che ha accuratamente integrato le colonie israeliane e disintegrato le comunità dei villaggi palestinesi.
Una simile separazione pone molteplici e gravi problemi alla vita di tutti i giorni dei palestinesi, poiché spesso la famiglia, gli amici, il dispensario, la scuola, il centro per lo svago, il droghiere, il panettiere che prima erano a pochi minuti da casa, sono ormai quasi inaccessibili. La via principale di Abu Dis costituisce uno degli esempi che più colpisce: immaginate una larga strada che va dritta verso il centro di Gerusalemme spesso interrotta da un muro in cemento alto otto metri che trasforma quest’asse di vita e di attività in un sinistro vicolo cieco dove tutto deperisce.
Alcuni ricorsi depositati presso la Corte Suprema hanno portato qui e là ad alcune modifiche di tracciato ma mai ad una rimessa in discussione del principio stesso di questa barriera che chiude, esclude e separa una stessa popolazione. All’inizio del 2007 si poteva ancora vedere qualche breccia nel Muro, legate a decisioni provvisorie di sospensione, in attesa del giudizio definitivo. Ad esempio, esiste ancora un passaggio tra due villaggi che hanno sempre vissuto l’uno in rapporto all’altro: Jabal Mukabar (integrato dal Muro a Gerusalemme) e As-Sawa­hira (lasciato dal Muro all’esterno). Ma già, in attesa del verdetto della Corte, l’esercito ha attivato un check-point nella breccia per filtrare i passaggi. Siccome la circolazione delle automobili è vietata, gli abitanti di questi due villaggi sono costretti a passare a piedi per superare una distanza di trenta metri. Se la Corte autorizzerà la costruzione del Muro in quel punto, i due villaggi saranno separati, come tutti gli altri intorno a Gerusalemme, e tutta la vita di quella fino ad ora è una comunità, ne sarà sconvolta. Si vede bene con questi esempi come le argomentazioni che tentano di spiegare il tracciato del Muro con ragioni di sicurezza non reggano nemmeno per un minuto. Al contrario, l’esclusione, la chiusura e la separazione non possono che generare sofferenze e frustrazioni che un giorno, in un modo o in un altro, se la situazione permane, provocheranno violenze di ogni tipo soprattutto da parte dei giovani che non potranno che ribellarsi contro questa situazione di discriminazione che non esiste in nessun’altra zona al mondo.

 

Lo spossessamento fondiario

 L’estensione continua dei perimetri fondiari controllati da Israele ha senso soltanto se accompagnata da una vigorosa politica di di cocostruzione di nuovi complessi abitativi riservati agli israeliani nella prospettiva di prendere definitivamente possesso di quelle terre per giudaizzare questo settore centrale e vitale dei territori palestinesi. Siamo di fronte, ancora una volta, al centro di una logica che rinvia ai principi fondamentali del sionismo e cioè di impadronirsi al massimo di terre per radicarvi popolazioni ebraiche.
La messa in opera di questa politica obbedisce ad altri principi altrettanto «classici»: si tratta di creare le condizioni di una continuità spaziale tutto intorno e all’interno di Gerusalemme-Est. Ciò implica immediatamente, di spingere i palestinesi alla periferia dal centro dove la popolazione ebraica deve essere maggioritaria – di qui in particolare il tracciato del Muro a est della città che opera inverosimili contorsioni per cacciare all’esterno il più gran numero possibile di palestinesi e di circondare le zone palestinesi del resto già frammentatissime. Queste costruzioni costituiscono del resto un perfetto esempio del modo in cui i governi israeliani sono riusciti, per mezzo di progetti urbani, a cancellare in molti posti ogni traccia della linea verde poiché molti quartieri come Talpiot Est o Ramot Eshkol sono costruiti in piena continuità territoriale con Gerusalemme-Ovest. Dal momento che stiamo prendendo in considerazione soltanto le costruzioni all’interno dei nuovi limiti municipali della città, occorre distinguere le colo­nie create a Gerusalemme-Est e le molteplici iniziative di insediamento nella città Vecchia.

 

Le colonie nel nuovo perimetro di Gerusalemme-Est

 Una prima fase di costruzione è stata realizzata tra il 1968 e il 1970 per creare una continuità spaziale ebraica dal monte Scopus a Sanhe­driya, lungo un asse est-ovest. Negli anni seguenti, un’altra tappa si è avviata con la creazione di nuovi quartieri (o colonie) alla periferia dello spazio centrale per controllarlo meglio e includerlo nel nuovo spazio israeliano: Neve Yaakov a nord dove vengono costruite quasi 4.000 residenze per 20.000 persone circa, Ramot Allon per la quale vengono confiscati più di 4.000 dunam per permettere a circa 40.000 persone di viverci, Gilo a sud che domina Beit Jala e Betlemme, Talpiot Est (1973) su una superficie di più di 2 000 dunum (15 000 persone).
Ad eccezione di Talpiot Est, che si trova sulla linea di demarcazione tra Israele e la Giordania dal 1949 al 1967, queste nuove colonie sono state costruite su terre confiscate a una trentina di villaggi palestinesi bloccando durevolmente così il loro potenziale sviluppo poiché si sono ritrovati privati di spazi fondiari necessari sia alla loro agricoltura che all’estensione del loro habitat.
In totale, esistono ormai dodici colonie che, dal punto di vista del diritto internazionale, hanno esattamente lo stesso statuto illegale di quelle impiantate in Cisgiordania o sul Golan anche se la più gran parte degli israeliani le considerano come quartieri di Gerusalemme alla pari degli altri, dove vivono circa 200.000 persone (2005). La storia di una delle più recenti, Har Homa, è assai rivelatrice del modo in cui il governo procede per queste colonie presenti a Gerusalemme-Est. Il processo si è svolto in tre tempi: 1967, 1991, 1997.
A partire dal 1967, tenuto conto della sua localizzazione (a sud della città), della sua configurazione (una bellissima collina che offre panorami superbi) e delle sue potenzialità fondiarie, questo settore è stato incluso nel nuovo perimetro urbano di Gerusalemme unilateralmente deciso da Israele, mentre in precedenza dipendeva dal governatorato di Betlemme. Successivamente, nel 1968, è stato classificato come zona verde, in modo da impedire ai proprietari palestinesi di costruirvi una qualsiasi cosa. Nel 1991, il governo ha espropriato queste terre essenzialmente proprietà degli abitanti del villaggio vicino Beit Sahour, ma anche di Betlemme, di Sur Baher e di Um Tuba. Infine, nel 1997, Benjamin Netanyahu ha deciso di farci costruire una prima rerie di alloggi rapidamente seguita da altri negli anni successivi. Nel 2007, questa colonia contava diverse migliaia di abitanti e ancora oggi i palestinesi assistono impotenti alla crescita inesorabile di queste costruzionic sulle loro terre. Inoltre, essi temono che questo insieme si estenda anche alle terre circostanti dal momento che ora il Muro passa a poche centinaia di metri dall’abitato, chiudendo così completamente l’accesso di questa piccola montagna, Jabal Abu Ghneim, agli abitanti vicini di Cisgior­dania per i quali è stata a lungo una zona per trascorervi il tempo libero. Har Homa e il Muro separano ormai completamente villaggi che prima costituivano un medesimo insieme urbano distando gli uni dagli altri pochi chilometri oggi insuperabili.

 

Le installazioni nella città Vecchia

La città Vecchia è un universo unico dove ogni costruzione, quasi ogni pietra, conserva tracce di una memoria che si allunga su diversi secoli. L’intensità delle tracce lasciate dal tempo è tanto più forte, vista l’esiguità del perimetro di questo spazio così singolare dove tutto si mischia. Poche centinaia di metri soltanto separano il Santo Sepolcro dal Muro del Pianto che si trova perpendicolarmente alla Spianata delle Moschee… In una configurazione spaziale così esigua, impadronirsi di un semplice cortile diventa una posta importante tra palestinesi e israeliani che vogliono ad ogni costo esercitare il loro dominio sull’insieme della città che vogliono “riunificata”.

Una delle prime decisioni del governo immediatamente dopo la guerra del giugno 1967 è stata quella di radere al suolo le centotrenta case del quartiere maghrébino che si trovavano di fronte al Muro del Pianto per creare una vasta spianata dalla quale lo si può vedere interamente. Questa decisione si inseriva in un piano complessivo di rinnovamento e di estensione del quartiere ebraico vicino, che gli ebrei avevano dovuto abbandonare nel 1948 quando la Legione araba ne aveva assunto il controllo. E, da allora, e soprattutto dopo la vittoria del Likoud nel 1977, alcuni gruppi ultranazionalisti israeliani organizzati o che ispiravano al Goush Emunim hanno, a più riprese, tentato di acquistare immobili nel quartiere musulmano della città Vecchia.
Ateret Cohanim, diretto dal rabbino Shlomo Aviner, figura influente del campo nazionale religioso, è una delle organizzazioni radicali tra le più attive in questo ambito e ha la sua sede proprio in una yeshiva che si trova nel quartiere musulmano della città Vecchia, dove alcune decine di studenti si dedicano allo studio dei riti praticati nel Tempio di Salomone. E’ in parte grazie ad essa che Ariel Sharon, anche proprietario di una casa nei pressi della Porta di Damasco, ha fatto annunciare, en 2005, l’approvazione di un progetto di costruzione di un complesso di diversi edifici e di una sinagoga a Burj Al­-Laqlaq su di una superficie di circa 11 dunum (11.000 mq) tra la Porta dei Leoni e la Porte di Erode suscitando immediatamente vivissime reazioni tra i palestinesi.
Nello stesso periodo sono state prese altre iniziative importanti. E così, diversi edifici imponenti, di cui alcuni come l’hotel Imperial, situati sulla piazza della Porta di Jaffa, che controlla l’entrata occidentale della città Vecchia, sono stati riacquistati in condizioni che restano assai oscure. Queste operazioni immobiliari condotte in gran segreto sembrano annunciarne altre, con gran soddisfazione di alcuni giornali israeliani come Maariv (18 marzo 2005) che fa questo commento: “Ultimamente due gruppi di investitori .ebrei stranieri hanno comprato in segreto i terreni del quartiere … hanno speso milioni di dollari con un obiettivo preciso: restituire Gerusalemme agli Ebrei
Tenuto conto dell’importanza delle poste in gioco e delle passioni che suscitano, questo tipo di acquisizioni sono condotte nella più grande discrezione e molto spesso da società di copertura dove i coloni non compaiono. Una delle più note di queste società è la Atara Leyoshna che, in diversi anni, è riuscita a comprare numerose case e appartamenti nel quartiere musulmano. Gli inquilini palestinesi hanno finito con l’andarsene o perché stanchi delle svariate forme di logoramento, o perché hanno accettato sostanziosi compensi finanziari.
Nella stessa logica di questo tipo di iniziative, vanno collocate le decisioni del governo che hanno portato a spossessare i palestinesi di molte istituzioni a Gerusalemme-Est emblématiche del loro radicamento in questa città, la più impor­tante delle quali è la presa di possesso con la forza e la chiusura (nell’agosto 2001) della Casa dell’Oriente aperta nel 1992 da Feisal Husseini, discendente di una grande famiglia dela città e responsabile politico inportante dell’OLP (morto nel 2001). Nel periodo degli accordi di Oslo, era diventata una specie di municipio ufficioso che rappresentava gli interessi della popolazione palestinese a Gerusalemme-Est e un centro di ricerca documentatissimo sulla colonizzazione della città da parte dello Stato d’Israelel. La Road map proposta dal Quartetto nel maggio 2003 comprende la sua riapertura, ma più tempo passa e più questa eventualità si fa remota e problematica.


Il logoramento sistematico degli abitanti palestinesi di Gerusalemme

 Tutta l’urbanizzazione e, in senso più ampio, tutte le misure prese dalla municipalità di Gerusalemme, compreso il fatto che soltanto una modestissima componente del suo budget sia destinata ai quartieri palestinesi, sono condizionate da una vera e propria ossessione demografica. Non deve accadere che i rapporti di forze tra le due comunità possano risultare in favore dei palestinesi. Gli ebrei rappresentano il 72% della popolazione e questo rapporto deve restare immutato. In nessun caso, i palestinesi devono avvicinarsi al al “tetto” del 30% come viene detto in modo assolutamente esplicito in molti documenti ufficiali israeliani. Questo obiettivo porta ad esercitare una politica particolarmente repressiva nei confronti dei palestinesi per spingerli ad andarsene e, in ogni caso, per impedire loro di costruire.


Spingerli ad andarsene

 Questa politica che non viene espicitata e che non viene ostentata in quanto tale, consiste nel far di tutto per rendere difficile la vita ai palestinesi di Gerusalemme che haano questo strano statuto di non essere alla fine né cittadini israeliani, come lo sono più di un milione di loro, discendenti di coloro che rimasero sulla loro terra (diventata territorio israeliano) dopo il 1948, né soggetti all’Autorità palestinese. Hanno una carta d’identità (bleu) che permette loro di vivere a Gerusalemme, ma non di votare in Israele, n* di avere un passaporto israeliano. Il rinnovo di questo documento presso il Ministero dell’Interno è complicatissimo da ottenersi e spesso umiliante, visto che alcune procedure recenti hanno, se possibile, inasprito il processo. Risultato: regolarmente alcuni sono costretti ad andarsene. La stessa cosa avviene migliaia di altri che hanno vissuto per un periodo prolungato fuori della città, per esempio per fare i loro studi all’estero. Se non hanno compiuto i passi necessari e ripetuti presso le autorità israeliane per ottenere il rinnovo dei loro documenti, si ritrovano stranieri a casa loro poiché non possono più rientrare se non con un’altra nazionalità. Essi tornano a vedere i propri caricon lo statuto di turisti stranieri!. Stessa situazione impossibile per le coppie, nelle quali un membro della coppia possiede una carta d’identità bleu e l’altro una verde (per la Cisgiordania). C’è un’incessante pressione burocratica sul loro statuto al quale malgrado tutto essi tengono, dal momento che con lo stato attuale della situazione rappresenta l’unico mezzo per poter continuare a vivere a Gerusalemme, e cioè a casa loro! Alla fragilità di questo statuto ibrido si aggiungono molti altri vincoli amministrativi da sopportare per numerose attività. Un semplice spostamento fuori città è fonte quasi sempre di noie e preoccupazioni che la costruzione del Muro ha ancor più aggravate poiché ormai i contatti con i palestinesi di Cisgiordania – dove si trovano necessariamente la famiglia, gli amici, i rapporti professionali … ­sono difficilissimi.


Impedire loro di costruire

 Anche in questo caso si tratta di una politica che viene da lontano ! Dagli anni 1950, nei confronti degli arabi israeliani e dopo il 1967 nei confronti dei palestinesi di Cisgiordania. Da una parte, si è facilitata in tutti i modi possibili la creazione dell’habitat ebraico, al punto d’aver costruito, come abbiano visto, dodici colonie a Gerusalemme-Est dove vivono circa 200.000 persone (2005), dall’altra, l’habitat palestinese si scontra costantemente con ostacoli di ogni tipo, e alcuni di questi sono insormontabili. C’è infatti tutto un armamentario di regolamenti che avvolge i palestinesi in un mondo surreale e kafkiano al quale non hanno praticamente alcuna chance di sfuggire. Tra zone verdi e piani direttivi inesistenti, il loro percorso è praticamente senza sbocco, come lo mostra molto bene il rapporto dell’Unione europea: “Le autorità israeliane hanno attivato serie restrizioni sul rilascio di permessi di costruzione per i palestinesi di Gerusalemme-Est. Esse li rilasciano soltanto per località che hanno un piano direttivo relativo a certe zone. Ma la municipalità produce questi piani solo relativamente a zone di colonizzazione e non per le zone palestinesi. E così, ogni anno, i palestinesi ricevono meno di cento permessi per costruire per i quali hanno dovuto aspettare diversi anni”.

Bisogna precisare inoltre che le zone verdi possono evidentemente cambiare di statuto e un buon numero di palestinesi, ad esempio a Har Homa, hanno avuto la sorpresa di veder spesso una colonia costruita su terre “congelate” qualche anno prima per una simile destinazione. Secondo B’Tselem, le costruzioni palestinesi vengono autorizzate soltanto sul 7% di Gerusalemme-Est, e per la maggior parte delle volte in settori dove già esisteva un habitat palestinese. E anche in questi quartieri, rimane difficilissimo ingrandire la propria casa !
L’effetto perverso di questa politica ultra-restrittiva consiste nel fatto che i palestinesi che hanno, come tutti, esigenze impellenti di alloggio, finiscono per costruire senza permesso. A questo punto si trovano in difetto rispetto alla legalità israeliana che tuttavia non dovrebbe in ogni caso applicarsi, perché ai termini della Quarta convenzione di Ginevra del 1949, una potenza occupante non ha il diritto di estendere la propria giurisdizione ad un territorio occupato. Cresce dunque la fragilità, perché, in queste condizioni, le autorità israeliane hanno un facile pretesto per demolire queste costruzioni illegali. E così, ogni anno, decine di case private vengono distrutte, lasciando famiglie intere prostrate per aver visto brutalmente scomparire la loro casa per la quale avevano, in molti casi, investito quasi tutte le loro sostanze. Questa politica di distruzione dell’habitat pales­tinese illegale si è intensificata con la costruzione del Muro che schiaccia tutto ciò che trova sulla sua strada.
E, come fa notare il rapporto europeo da poco citato: “Queste demolizioni non obbediscono a nessun obiettivo apparente di sicurezza ma sono chiaramente legate all’espansione delle colonie … esse hanno conseguenze umanitarie catastrofiche e alimentano amarezza ed estremismo”.
A questo punto c’è da porsi una domanda essenziale: poiché i palestinesi non possono costruire per loro stessi, o molto poco, o fuori della legalità imposta dal governo, possono andare ad abitare nelle zone tenute dagli israeliani e in particolare nelle colonie ?
A priori, e fatte salve particolarissime eccezioni, i palestinesi non hanno alcuna voglia di andare ad abitare negli immobili degli insediamenti israeliani che percepiscono come vere enc1ave straniere che rappresentano a volte anche una minaccia per la loro vita quotidiana. L’ambiente culturale, sociale e soprattutto politico è tale che un simile approccio sembrerebbe inconcepibile. In queste condizioni ci si può aspettare rispetto a chi li circonda, che li evitino o che si sforzino di vivere ignorandoli ma non che cerchino di integrarsi. Ma, malgrado tutto, facciamo per un istante l’ipotesi di una famiglia palestinese che voglia affittare o comprare un appartamento in un quartiere ebraico. Sarebbe autorizzato a farlo ?
Sul piano del diritto positivo in vigore, non c’è, a quanto ne sappiamo, alcuna regola che vieti tale possibilità. Al contrario, è sicuro che i proprietari di beni immobiliari possono esigere un certo numero di condizioni per l’affitto o la vendita dei loro appartamenti, condizioni che i palestinesi non possono rispettare.
Per evitare facili polemiche su questo delicato argomento, la cosa migliore è quella di attingere alla giurisprudenza della Corte Suprema che ha avuto, almeno una volta, l’occasione di deliberare su questo problema. Essa è stata chiamata in causa da un richiedente che si era visto rifiutare il diritto di affittare un appartamento nel quartiere ebraico restaurato della città Vecchia, perché non ottemperava alle condizioni pretese dal venditore, e cioè di essere cittadino israeliano e di aver compiuto il servizio militare (o di esserne stato esentato o di aver servito in una organizzazione ebraica prima del 14 maggio 1948), o essere un nuovo immigrante ebreo residente in Israele. Dopo aver affrontato le questioni di competenza, illustrato le circostanze relative all’affare, trattato dei motivi sussidiari, la sentenza della Corte, redatta dal giudice Haim Cohen, va al punto essenziale, ovvero alla discriminazione determinata dalle condizioni imposte dal venditore, in questi termini:

[…] Il richiedente riconosce di non essere cittadino israeliano, che non ha svolto servizio militare nelle Forze di Difesa d’Israele e di non essere un nuovo immigrante: è di nazionalità giordana e dichiara di aver sempre risieduto nella città Vecchia di Gerusalemme […] […] L’argomentazione principale del richiedente è che il difensore pratica una discriminazione illegale tra le persone […] in funzione della loro religione o della loro nazionalità poiché è pronto ad affittare degli appartamenti ad ebrei ma non a musulmani […] Io non sono convinto che la richiesta del difensore costituisca una discriminazione […] 1) in primo luogo, la nozione di cittadino israeliano include anche il non-ebreo: musulmano, druso o cristiano … quanto alla restrizione relativa al servizio militare si spiega con semplici considerazioni di sicurezza […] 2) in secondo luogo una discriminazione tra cittadini e non cittadini … non è necessariamente illegale … 3) in terzo luogo se il restauro del quartiere ebraico della città Vecchia è apparso indispensabile ciò è dovuto al fatto che la sua occupazione aveva portato all’espulsione degli ebrei, al saccheggio delle loro proprietà e alla distruzione delle loro case. E’ perciò nella natura delle cose che questo restauro comporti il ritorno all’antico splendore delle case ebraiche nella città Vecchia […] 4) in quarto luogo, nella misura in cui la discriminazione si fa nei confronti di un cittadino giordano che deve fedeltà al suo governo (come nel caso di specie) io considero questa discriminazione giustificata ed appropriata: noi deploriamo e protestiamo contro quello che i giordani hanno fatto contro di noi … ma non ci si può aspettare che noi apriamo con larghezza la strada per un loro ritorno ed insediamento, in particolare nel quartiere ebraico della città Vecchia. Una simile discriminazione è fondata e giustificat ad un tempo per considerazioni politiche e di sicurezza […[. L’appello è respinto.

Questo appello del 1978 presenta aspetti molto particolari perché attiene alla città vecchia di Gerusalemme, divisa in diversi quartieri da tradizioni antiche e complesse. Ma al di là di questa incontestabile specificità, se ne deduce una posizione di principio molto semplice: ognuno può stabilire le discriminazioni che vuole nella gestione delle sue proprietà restando comunque in un quadro di legalità. Secondo le parole del giudice Haim Cohen che ci commentava la sua decisione alcuni anni dopo:

In una democrazia liberale, tutto ciò che non è espressamente vietato è permesso … nessuno può impedirvi di fare quello che voi volete della vostra proprietà”.

Sul piano logico, questo ragionamento è totalmente inattaccabile ma, sul piano politico, porta ad una situazione contraria alle premesse su cui si basa. In nome del liberalismo, tutta una categoria di persone viene privata di una libertà elementare. E’ proprio per questo che il giudice Haim Cohen aggiungeva: “Noi dovremmo avere una legge per vietare questo tipo di discriminazioni … ma fino ad oggi non ce l’abbiamo”.
Ovviamente, ciò che è in discussione non sono soltanto le contraddizioni interne al liberalismo ma anche il suo utilizzo assai insidioso per appropriarsi di un territorio. Si ritorna così all’essenziale. La vera fonte di ogni discriminazione è rappresentata dal regime di occupazione. Se il problema di istallazione di palestinesi resta un’ipotesi formale, essa ci ha permesso di mettere l’accento sulla società duale attuata a Gerusalemme-Est come in Cisgiordania, nel rispetto e mediante il rispetto della legalità imposta dall’occupante, in violazione del diritto internazionale.

  1. La documentazione UE su Gerusalemme-Est

 Per questo paragrafo, mi sono servito abbondantemente dell’introduzione di René Backmann al libro contenente la documentazione. Questo giornalista, redattore capo de le Nouvel Observateur, ha scritto un bellissimo libro (Un mur en Palestine) nel 2009. La sua dimestichezza con la documentazione, mi ha portato spesso a formulare, con le sue parole, le argomentazioni relative. Spesso!
Un diplomatico britannico, console generale del Regno Unito a Gerusalemme, ebbe per primo l’idea, all’inizio degli anni 2000, di redigere, con l’aiuto dei suoi colleghi rappresentanti i paesi dell’Unione europea, una specie di “stato delle cose” sistematico della situazione a Gerusalemme-Est. Per poter integrare i lavori dei diplomatici di stanza in Israele, con le informazioni raccolte da parte palestinese, fu richiesto un contributo dello stesso tipo ai capi dell’Ufficio dell’Unione europea a Ramallah, sede dell’Autorità palestinese.
Il metodo di lavoro adottato era assai informale. Gli scambi tra capi-missione portarono alla redazione di un progetto di testo, in inglese, affidato al diplomatico, che fece circolare il documento tra i suoi colleghi, raccolse proposte, suggerimenti, reticenze, opposizioni e produsse la versione finale, Dopo di che, questo documento validato dai rappresentanti dei 27 paesi dell’Unione, o almeno da coloro che si erano associati per redigerlo, venne trasmesso a Bruxelles.
Il rapporto del dicembre 2005 non entrava in particolari dettagli e conteneva relativamente pochi dati, ma presentava un quadro realistico della situazione sul terreno e dei rapporti di forza. E constatava soprattutto che la coniugazione delle politiche condotte da Israele nei diversi ambiti, riduceva le possibilità di raggiungere un accordo sullo statuto finale, che fosse accettabile dai palestinesi.

Siamo convinti che la prosecuzione dell’annessione di Gerusalemme-Est derivi da una politica israeliana deliberata”, scrivevano gli estensori del documento. “Le misure prese da Israele rischiano anche – aggiungevano – di radicalizzare una popolazione palestinese di Gerusalemme-Est, fino a quel momento relativamente tranquilla”.

Si pensi all’uso che una diplomazia europea coerente, creativa, audace avrebbe potuto fare di un simile documento. Soprattutto, nel quadro di negoziati sullo statuto di partner preferenziale dell’Europa, sollecitato dal governo israeliano. Si pensi anche a quale sostegno avrebbe potuto avere il campo della pace israeliano, oggi moribondo, da un’Europa, che avesse continuato ad essere sempre risoluta nel difendere l’esistenza e la sicurezza d’Israele, ma altrettanto decisa nel rammentare ai vari governi israeliani che i palestinesi non erano i soli ad avere dei doveri… Si pensi infine quale sostegno avrebbe rappresentato per l’Autorità palestinese, un’Europa generosa, capace di dimostrare che la partigianeria in favore d’Israele di cui l’accusano gli islamici, era di fatto contraddetta da una denuncia argomentata degli atti e dei progetti israeliani. Chissà che un impegno più risoluto dell’Unione europea (e degli USA) non avrebbe potuto spingere Israele a decisioni meno unilaterali e l’Autorità palestinese a opzioni più creative, e avrebbe potuto evitare non la crescita di Hamas e la successiva vittoria elettorale nel gennaio 2006, ma certamente un rapporto più equilibrato con l’Anp.

Tre anni dopo, i capi-missione di stanza in Israele, inviano un nuovo rapporto a Bruxelles. Dopo tre anni, gli insegnamenti che si possono trarre dal confronto tra il rapporto del novembre 2005 e quello del dicembre 2008, lasciamo poche speranze. Sia sull’evoluzione della situazione sul terreno, così come emerge dalle analisi dei diplomatici, sia sull’impegno dell’Unione europea, sempre generosa nella sua strategia di cooperazione, ma disunita, e perciò senza voce sul piano diplomatico. Redatto in inglese, come il rapporto 2005 e nella sostanza più lungo del quello, il rapporto 2008 non rileva alcun segno, da parte israeliana, di una volontà di rianimare il processo di pace. Al contrario. In tutti gli ambiti passati in rivista dai diplomatici (colonizzazione, infrastrutture di trasporto, costruzione del muro, demolizioni di case, statuto dei residenti, atteggiamento di fronte alle istituzioni palestinesi, rispetto delle libertà religiose), il rapporto del 2008, rivela una regressione e una presa di distanza sempre più chiara rispetto agli obblighi assegnati dalla Road ma e ribaditi nel corso della conferenza di Annapo1is, nel novembre 2007. L’esempio più chiaro di questo atteggiamento israeliano è rappresentato dalla politica di colonizzazione del governo Olmert, continuata ed amplificata da Benyamin Netanyahou e dalla sua coalizione di estrema destra, al cui interno sono presenti (ed attivi!) i coloni. Un documento reso pubblico il 2 marzo 2009 dal movimento La Pace subito, conferma del resto che Israele ha intenzione di raddoppiare il numero dei coloni in Cisgiordania. I piani di colonizzazione del governo Netanyahou prevedono, secondo questo documento, la costruzione di 70.000 alloggi nei prossimi anni, di cui 5.700 nei quartieri annessi di Gerusalemme-Est.

Secondo il rapporto europeo del 2008, che si fonda sulle ricerche di La Pace subito e sui dati dell’Ufficio centrale di statistica israeliano, 190.000 dei 470.000 coloni censiti nel 2008 nei Territori palestinesi occupati vivono all’interno di Gerusalemme-Est e 96.000 nelle colonie che circondano Gerusalemme. E la costruzione di colonie, a Gerusalemme-Est e intorno a Gerusalemme, continua ad un ritmo elevato, contrariamente agli obblighi ai quali Israele sarebbe tenuto dal diritto internazionale e dalla Road map. Uno degli insegnamenti principali che fornisce su questo punto il confronto tra i due documenti è l’analisi dell’evoluzione del settore “E-l”. E-1, che sta per “Est-1”, è il nome dato dai pianificatori israeliani a una zona di colline sassose, di forte pendenza e con burroni, che si estende su un area di una decina di chilometri quadrati, a est di Gerusalemme tra la corona delle località palestinesi che raccoglie El-Azariyeh, At-Tor e lssawiya, e la colonia di Ma’ale Adoumim, la più popolosa della Cisgiordania, dove risiedono 31.000 israeliani. Questo settore “E-1”  è destinato a prolungare verso ovest, Ma’ale Adoumim, e alla fine, ad attaccare il blocco di Ma’ale Adoumim, che copre una cinquantina di chilometri quadrati, a Gerusalemme. L’idea guida è quella di prolungare l’enclave di Gerusalemme fino ai confini della vallata del Giordano, la qual cosa comporterebbe la divisione in due della Cisgiordania e in particolare la strada tra due delle principali città palestinesi, Ramallah e Betlemme

Il rapporto del 2005 faceva già riferimento ai progetti degli urbanisti-colonizzatori israeliani per la zona “ E-1”. Alloggi per 815. 000 residenti, una zona di attività comprendente alberghi e un centro commerciale, un’università, un parco paesaggistico, un cimitero, una discarica e una costruzione destinata ad ospitare il quartier generale della polizia per la Cisgiordania. Quando il rapporto del 2005 era stato redatto, erano stati avviati soltanto pochi lavori di preparazione La cima di una collina era stata spianata ed era stata tracciata una pista per i camion e le macchine del cantiere. Ma, in seguito a fortissime pressioni diplomatiche, soprattutto americane, i lavori erano stati bloccati.

Tre anni dopo, la lettura del documento del dicembre 2008, mostra che le pressioni diplomatiche americane non erano risultate a lungo dissuasive. Infatti il quartier generale della polizia è stato completato ed è anche entrato in funzione nell’aprile 2008. Una parte dell’infrastruttura stradale del progetto « E-1 » è praticamente completata. I provvedimenti israeliani in corso nella zona di Ma’ale Adoumim-E-1, secondo gli estensori del rapporto, costituiscono una delle principali sfide al processo di pace israelo-palestinese. La continuazione della costruzione del muro e la realizzazione del piano E-1 determineranno una continuità territoriale israelianea tra il blocco di colonizzazione di Ma’ale Adoumim e Gerusalemme, dividendo in due la Cisgiordania e separando Gerusalemme-Est dal suo retroterra. La realizzazione di questo piano renderebbe impossibile lo sviluppo urbano ipotizzato dai palestinesi a Gerusalemme-Est, privando questa parte della città della maggior parte dei terreni disponibili per il suo sviluppo economico e demografico. Il 25 marzo 2009, mentre andavano avanti le trattative per la costituzione del governo Netanyahou, la radio dell’esercito israeliano ha rivelato che il capo del Likoud e il suo futuro ministre degli Esteri, Avigdor Lieberman, avevano concluso un accordo segreto che prevedeva la costruzione di 3.000 alloggi nella zona E-1

Dopo aver constatato e deplorato che i due “anelli” di colonie costruite intorno a Gerusalemme hanno continuato a svilupparsi, il rapporto 2008 evidenzia anche che il governo israeliano ha avviato la costruzione di una tramvia destinata a collegare le colonie di Pisgat Ze’ev (40.000 abitanti) e Neve Ya’acov (20.000 abitanti) al centro di Gerusalemme, includendo così nello schema urbanistico della città l’annessione di fatto delle terre della Cisgiordania sulle quali le colonie sono costruite. Il rapporto europeo non ne fa cenno, ma due imprese francesi, con l’avallo del governo francese, sono partner di questo progetto israeliano che se ne infischia delle Convenzioni di Ginevra, che definiscono i diritti e i doveri degli “Stati occupanti”. Nel capitolo sulle infrastrutture di trasporto, il rapporto 2008 parla anche della costruzione, ad est di Gerusalemme, di una strada di aggiramento che dovrebbe, alla fine, collegare, aggirando il muro di separazione e passando sotto la zona “E-1” con un tunnel, le località palestinesi situate a nord e a sud di Gerusalemme. L’obiettivo è, ancora una volta, chiarissimo e cioè quello di permettere in futuro al governo israeliano, di fronte alla comunità internazionale, di aver conservato la “continuità territoriale” della Cisgiordania. Pur avendo riunito Ma’ale Adoumim a Gerusalemme…

Dal momento che la lunghezza dei vari tronconi del muro di separazione in attività si è raddoppiata in tre anni, passando da 200 a 400 chilometri, il rapporto 2008, esamina più in dettaglio la realizzazione, e le conseguenze, di quest’altro grande progetto israeliano. Per constatare in particolare che quando il muro sarà finito (e la sua lunghezza sarà allora di 725 chilometri!), di fatto annetterà ben 80 colonie, e tra queste, anche le 12 situate alla periferia di Gerusalemme-Est. E così, i 385.000 israeliani che vivono nelle colonie a ovest, e cioè dalla parte “israeliana” del muro. Nella sola regione di Gerusalemme, il 3,9 % del territorio palestinese è già stato annesso di fatto dal tracciato del muro che “taglia” dalla Cisgiordania più di 280.000 palestinesi, tra i quali tutti quelli di Gerusalemme-Est. In aggiunta alla moltiplicazione di checkpoints e all’obbligo di ottenere un permesso per entrare a Gerusalemme, l’esistenza del muro ha trasformato la vita quotidiana dei palestinesi di Cisgiordania in un confronto permanente con la burocrazia poliziesca e militare israeliana, che obbliga ad esempio coloro che risiedono nelle regioni comprese tra il muro e la Linea Verde (si tratterà di circa 35.000 persone quando i lavori finiranno), a sollecitare un’autorizzazione di residenza per continuare a vivere a casa loro. Dal 2000, constatano gli autori del rapporto 2008, il numero degli studenti palestinesil dell’Università Al Quds, a Beit Hanina, è calato del 70 %. Un numero sempre decrescente di fedeli palestinesi cristiani e musulmani ha accesso ai Luoghi santi a Gerusalemme. Anche il tradizionale vino da messa di Betlemme, prodotto da 125 anni da un ordine cattolico, non è più autorizzato a superare il muro perché costituirebbe “un rischio per la sicurezza”.

La lezione essenziale della realtà, così come esiste sul terreno e come viene descritta da questi due documenti, è brutalmente semplice: tutto si svolge come se lo Stato d’Israele e i suoi governi che si succedono, lungi dall’avere per obiettivo di riavviare il processo di pace avviato dagli Accordi di Oslo o dalla Road map, abbiano deciso d’imporre, dall’inizio degli anni 2000, in particolare con la costruzione del muro e della barriera di separazione, e attraverso una molteplicità di iniziative, spesso spettacolari, altre volte appena percepibili se viste da lontano, una soluzione unilaterale del problema palestinese.

Questa soluzione si basa su di una concezione strategica e politica totalmente nuova: il muro e la barriera di protezione saranno domani, la frontiera tra il futuro Stato palestinese e lo Stato d’Israele. In altre parole, “il compromesso storico” accettato da Yasser Arafat, secondo il quale l’Organizzazione di liberazione della Palestina (OLP) accettava di costruire il suo Stato sulla Cisgiordania e la striscia di Gaza e cioè sul 22 % del territorio della Palestina mandataria non varrebbe più.
E’ sulla striscia di Gaza ed una parte soltanto della Cisgiordania, che questo Stato, sempre meno vivibile, con il procedere delle amputazioni, dovrebbe essere costruito. Sempre che venga costruito. Le colonie israeliane, almeno le più importanti di esse, non saranno né distrutte né consegnate all’Autorità palestinese. Esse costituiranno altrettante enclave strategiche collegate direttamente a Israele con una specifica rete stradale, conficcate come cunei nel cuore dello Stato palestinese da creare.
Propaganda palestinese? Estrapolazione azzardata? Paranoia militante? Purtroppo no ! Nell’agosto 2007, non è un rappresentante dell’OLP o dell’Autorità palestinese che ha fatto questa rivelazione a René Backmann, nel corso di una trasmissione di France Inter, ma l’ex ambasciatore d’Israele in Francia, Nissim Zvili. E un anno più tardi, come lo evidenzia il rapporto dei diplomatici, sarà il vice-primo ministro israeliano Haim Ramon, che dichiarerà: “La barriera è la nuova frontiera orientale d’Israele”. Da anni, ufficiali israeliani ripetono che la Linea Verde non è che una linea armistiziale, cosa vera del resto, che non è perciò sacra, e che nel quadro di un negoziato sullo statuto finale, scambi di territori potrebbero essere conclusi con i palestinesi.
Alla ricerca di soluzioni accettabili per la comunità internazionale, per ridurre la proporzione di non-ebrei tra la popolazione israeliana senza far ricorso alla pulizia etnica, (diffusa anche in altre regioni del mondo sia ben chiaro!), alcuni politici israeliani avevano anche ipotizzato di cedere ai palestinesi, come contropartita delle enclave costituite dalle nuove colonie, regioni d’Israele abitate da arabi israeliani. Va detto che questa ipotesi, che non teneva in nessun conto la volontà dei principali interessati, i palestinesi d’Israele, non era stata presa molto sul serio all’inizio. L’entrata nel governo israeliano dell’estremista Avigdor Lieberman, che sogna un Israele liberatosi del 20% dei suoi abitanti (i palestinesi), potrebbe provocare il ritorno di questo mercanteggiamento nel dibattito politico. Quello che i palestinesi si dichiaravano disposti a prendere in considerazione, nel quadro di un negoziato globale, era il principio di scambi limitati di territori di natura comparabile e di superficie equivalente, per permettere ad Israele di conservare le colonie vicine alla Linea Verde, e all’Autorità palestinese di ottenere terre destinate soprattutto a favorire una via di comunicazione tra la Cisgiordania e la striscia di Gaza. Ma le tra modeste rettifiche di frontiera, mutuamente accettate e l’annessione autoritaria da parte israeliana dal 3 al 12 % del territorio palestinese, ce ne passa!
O piuttosto ce ne passava ! Forti della protezione di George W. Bush e dei suoi consiglieri likudnik, evangelisti e neocons, i dirigenti israeliani hanno creato una nuova dottrina, che volta le spalle risolutamente allo spirito di Oslo, i cui pilastri sono costituiti dalla priorità assegnata alla forza, al rifiuto del dialogo, alla identificazione della rivendicazione nazionale palestinese, (anche in assenza di violenza) al terrorismo e alla politica dei fatti compiuti. Dottrina che ha ricevuto la benedizione ed il sostegno di George W. Bush nell’aprile del 2004. In una lettera al Primo ministro del tempo, Ariel Sharon, il cui testo era stato solennemente approvato dal Senato (95 voti contro 3) e dalla Camera dei Rappresentanti (407 voti contro 9) il presidente americano sottolinea che Israele, “Stato ebraico”, deve avere frontiere sicure e riconosciute, risultato dei negoziati tra le parti, basato sulle risoluzioni 242 e 338 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Ma, aggiunge George W. Bush, che “alla luce delle nuove realtà sul terreno che che comprendono i principali centri della popolazione palestinese esistente, non è realistico sperare che i risultati dei negoziati sullo statuto finale costituiscano un ritorno integrale alla linea armistiziale del 1949; tutti i tentativi precedenti per negoziare una soluzione con due Stati portano a questa conclusione”. In altri termini: le colonie più popolate e i l5 blocchi principali di colonizzazione costituiscono delle “nuove realtà sul terreno” che restano fuori dal campo del negoziato.
Da questo punto di vista, le discussioni che hanno preceduto la conferenza di Annapolis, il 27 settembre 2007, hanno fornito indicazioni eloquenti. Sulla questione centrale “dei termini di riferimento”, i palestinesi hanno ripetuto che intendevano attenersi alle basi fissate durante gli incontri di Oslo nel 1993, arricchite e precisate negli incontri successivi. Non soltanto le risoluzioni 242 e 338 dell’ONU dunque, ma anche parte delle conclusioni di Camp David (luglio 2000) e di Taba (gennaio 2001), oltre all’iniziativa di pace araba di Beirut (2002) e alla procedura definita dalla Road map di George W. Bush (2003).
Fin dall’ottobre 2007, un mese prima che si tenesse la conferenza, il presidente dell’Autorità palestinese, Mahmoud Abbas, si era premurato di precisare, in un’intervista diffusa dalla televisione palestinese che il futuro Stato di Palestina avrebbe dovuto comprendere integralmente la striscia di Gaza e la Cisgiordania (6205 chilometri quadrati). Ma per la parte israeliana, e con l’assenso americano, le basi del negoziato erano decisamente differenti. Un diplomatico israeliano importante, una settimana prima della apertura della riunione di Annapolis si espresse così: “Oggi, non è più questione di Camp David, di Taba o dei parametri di Clinton del dicembre 2000. Le circostanze e gli interlocutori non sono più gli stessi. Si ricomincia da zero o quasi”. A parte le inaggirabili risoluzioni 242 e 338, sempre ritualmente citate ma mai rispettate e la Road map, il cui calendario era da tempo scaduto, ma i cui meccanismi erano ancora accettati dalle due parti, la delegazione israeliana aveva messo al centro delle sue argomentazioni la lettera indirizzata da George W. Bush a Ariel Sharon nell’aprile 2004.
Nel settembre 2008, un personaggio della società politico-militaire israeliana, il generale Giora Eiland, che aveva presieduto il Consiglio nazionale di sicurezza dal 2004 al 2006, dopo aver servito per trentatre anni nell’esercito, in particolare al comando del dipartimento di pianificazione strategica, pubblica uno studio di 35 pagine nel quale si pronuncia chiaramente in favore di una frontiera completata da una barriera di sicurezza. E la nuova frontiera che egli propone nei due scenari studiati annette, come quella che è in costruzione, la maggior parte dei blocchi di colonizzazione della Cisgiordania. In contropartita, il generale Eiland propone diverse possibilità di scambio di territori, compreso un baratto triangolare Israele-Palestina-Egitto. Per Giora Eiland, la diffidenza, se non addirittura l’ostilità tra israeliani e palestinesi è tale che ogni negoziato sullo statuto finale deve prevedere l’esistenza di una barriera di sicurezza. Dopo il fallimento del processo di Oslo, la seconda Intifada e l’emersione potente di Hamas, l’opinione pubblica israeliana, sostiene il generale, è sempre meno favorevole al principio “la terra in cambio della pace”. Ed è quello che conferma un’inchiesta dell’Istituto Nazionale degli Studi Strategici (INSS) di Tel Aviv secondo il quale la percentuale della popolazione ebraica di Israele favorevole a questo principio è scesa tra il 1977 e il 2007 dal 56 % al 28 %.
Altri strateghi vanno ancora più lontano. In un documento reso pubblico nel 2007, tre ex-ambasciatori e un generale, direttore dell’Istituto di Difesa nazionale valutano che la frontiera costituita dall’insieme muro-barriera non sia sufficiente. Una frontiera difendibile dovrebbe comprendere, secondo loro, una linea di separazione spinta verso l’est, fino alle alture e alle “regioni vitali dal punto di vista militare”. Questa frontiera dovrebbe conservare a Israele il controllo della vallata del Giordano, comportare l’allargamento del corridoio Gerusalemme-Tel Aviv e la creazione di una zona di difesa di Gerusalemme. Questi progetti attirano poco l’attenzione, se non tra i palestinesi. Ma, a parte i palestinesi e i difensori dei diritti umani, chi se ne preoccupa? Di fatto, i dirigenti israeliani, incoraggiati dalla loro impunità quando ignorano il diritto internazionale, le risoluzioni dell’ONU e anche i loro stessi impegni, sono convinti che tutto ciò che utile alla sicurezza d’Israele sia loro permesso. Ed è proprio in virtù di tale convinzione che lo Stato Maggiore e il governo israeliano hanno scatenato nel 2002 l’operazione “Baluardo”, nel dicembre 2008 l’operazione “Piombo fuso”, contro la striscia di Gaza, nel corso della quale, in tre settimane, 1.330 palestinesi, per più della metà civili, e 13 israeliani, di cui 10 soldati, sono stati uccisi. Ufficialmente, si trattava di porre fine ai tiri di razzi e di mortai sul sud d’Israele, dalla striscia di Gaza, sotto il controllo di Hamas. L’esame attento della cronologia dei fatti ha mostrato che nella rottura del cessate-il-fuoco fissato nel giugno 2008, le responsabilità non erano certo del campo palestinese. Ma questo piccolo dettaglio è scomparso, seppellito dalla riprovazione che provocano in Europa e negli Stati Uniti le tesi ed i metodi di Hamas. La divisione tra i palestinesi, gli scontri tra al-Fatah e Hamas, l’esistenza di due entità territoriali palestinesi distinte, una, la striscia di Gaza (386 chilometri quadrati), sotto il controllo di Hamas, l’altra, la Cisgiordania (venti volte più grande della striscia!), sotto il controllo di al-Fatah, così come il rifiuto di una parte della comunità internazionale, tra cui l’Unione europea, d’intrattenere relazioni con Hamas, hanno svolto un ruolo importante nel fornire ad Israele argomentazioni che le hanno permesso di mettere in atto e di difendere le sue scelte unilaterali.
Nella visione mediatica del conflitto, estremamente approssimativa, la responsabilità israeliana, la scelta deliberata della forza contro il negoziato è stata eclissata dalla diffidenza, direi l’ostilità che suscita Hamas, di cui non si discutono mai le spesso ragionevoli argomentazioni, e di cui si dimentica di essere il legittimo rappresentante del popolo palestinese, avendo stravinto le elezioni nel 2006. Si sperava nell’arrivo al potere di Barack Obama, ma la canzone non è cambiata e nemmeno i ritornelli! Ci si aspettava uno sguardo americano più critico sulla politica israeliana, ma nulla di tutto questo è successo. Un solo esempio. Rispondendo a Benyamin Netanyahou, che ripeteva, appena eletto, il suo rifiuto circa la creazione di uno Stato palestinese, Barack Obama ha ricordato, subito imitato dal Segretario di Stato Hillary Clinton, che la soluzione per gli Stati Uniti si fonda sull’esistenza di due Stati. E’ stato tirato in ballo George Mitchell come inviato speciale del presidente in Medio Oriente, ma dopo due anni tutto è praticamente fermo, se si eccettua la colonizzazione! E l’Europa tace. I due documenti dei capi delle missioni diplomatiche a Gerusalemme e a Ramallah potevano far sperare forse in una riflessione. L’Europa ufficiale ha preferito tenerli nel cassetto.

  1. L’insabbiamento della documentazione UE

 Torniamo al 2005, quando i diplomatici di stanza in Israele spedirono il primo rapporto a Bruxelles. Qual era il loro intento? Almeno una parte dei suoi promotori speravano che questo “Rapporto su Gerusalemme-Est” avrebbe contribuito a tenere vivo un dibattito, in seno alla Commissione, o meglio ancora, nel Parlamento europeo, che portasse alla definizione di una politica comune in Medio Oriente. Secondo loro, in ogni caso, questo lavoro comune non doveva restare confidenziale. Una nobile ambizione democratica. Ma questi ottimisti dovettero ben presto ricredersi! Con sorpresa e anche delusione per alcuni di loro, fin dalla trasmissione a Bruxelles del rapporto del novembre 2005, Javier Solana, responsabile per la politica estera e della sicurezza comune, condusse l’offensiva contro la pubblicazione ufficiale del documento. La sua motivazione, secondo un diplomatico a conoscenza del dossier, era semplice, dal momento che il testo non raccoglieva un larghissimo consenso nelle capitali europee per essere pubblicato e soprattutto utilizzato come documento di lavoro a Bruxelles e a Strasburgo.
La Germania, che sistematicamente si rifiuta, per ragioni storiche evidenti, a formulare critiche troppo severe nei confronti d’Israele, ma anche, l’Italia e i Paesi Bassi in particolare, rifiutarono di farsi carico delle considerazioni e delle conclusioni del rapporto. Anche il ministro degli Esteri britannico, Jack Straw, nel corso di una riunione del Consiglio europeo, di cui stava assumendo la presidenza, ritenne opportuno non far proprio il documento e quindi di non pubblicarlo, per non interferire, questa la motivazione ufficiale, con il processo elettorale israeliano, Erano infatti previste elezioni legislative anticipate per la fine del mese di marzo 2006 in Israele. Si trattava di individuare il successore di Ariel Sharon, in coma dopo un ictus cerebrale, a gennaio. Le elezioni furono vinte, di pochissimo, dal partito Kadima il cui leader, Ehoud Olmert, che aveva assunto l’interim di Sharon, diventò Primo ministro.
Ma il documento non rimase a lungo “confidenziale”. Un quotidiano britannico l’aveva nel frattempo pubblicato sul suo sito Internet. E questa rivelazione aveva suscitato, oltre che una certa irritazione da parte israeliana e una visibile soddisfazione da parte dei palestinesi, diverse domande in Europa, e oltre, tra gli osservatori avvertiti della situazione in Medio Oriente. Per gli esperti del problema, giornalisti, diplomatici, membri delle ONG, il rapporto conteneva poche novità, se si eccettua un particolare importante: il documento dimostrava con chiarezza che le cancellerie europee disponevano di buone informazioni sulla realtà della vita quotidiana a Gerusalemme-Est e in Cisgiordania, sulla colonizzazione, sulle discriminazioni, sulla costruzione del muro di separazione, sulle demolizioni di case palestinesi e sul logorio burocratico dei palestinesi. E non era poca cosa!
Di fatto, questo rapporto dovuto alle osservazioni di testimoni tenuti, per le loro funzioni, ad un uso misurato delle parole, confermava buona parte delle critiche fatte ad Israele dall’Autorità palestinese. Dimostrava, ad esempio, e nel modo più chiaro possibile, che la parte palestinese non era la sola, e non ci voleva molto a capirlo, a non rispettare gli impegni contenuti nella Road map pubblicata nell’aprile 2003, sotto il patrocinio del “Quartetto” (Nazioni unite, Stati Uniti, Unione europea, Russia). Nelle disposizioni previste nella “Fase 1” della Road map, la parte palestinese doveva impegnarsi a porre termine alle violenze e al terrorismo. Alla parte israeliana veniva chiesto di mettere fine alle espulsioni, agli attacchi contro i civili, alle confische e/o demolizioni di case e di proprietà palestinesi, sia che si trattasse di misure punitive sia che fossero decisioni destinate favorire costruzioni israeliane. Il governo israeliano doveva anche “congelare” lo sviluppo delle colonie nei territori occupati e smantellare tutte le colonie “selvagge” create dopo marzo 2001.
Certamente l’Autorità palestinese, i cui servizi di sicurezza erano stati in gran parte distrutti dall’esercito israeliano durante l’“Operazione Baluardo” del marzo 2002, non era stata capace di porre termine alla violenza e al terrorismo. Ma il governo israeliano, che era perfettamente padrone delle sue scelte e dei suoi atti, non aveva rispettato nessuno dei suoi impegni della Road map. Quando il rapporto dei diplomatici era stato redatto, il muro di separazione costruito in assoluta illegalità all’interno della Cisgiordania, superava già i 220 chilometri di lunghezza. Quanto alla colonizzazione, non soltanto non era stata congelata ma, al contrario, il suo ritmo di crescita superava di gran lunga il tasso di crescita naturale della popolazione israeliana
Il rapporto 2008, che era destinato in principio al Dipartimento delle relazioni esterne dell’Unione europea, e cioè ai servizi di Javier Solana, resta ancora, un “documento di lavoro confidenziale” dallo statuto incerto. All’inizio, alcuni Stati-membri, fra i quali la Francia, il Regno Unito e la Spagna, non erano contrari a dare a questo documento maggiore visibilità, soprattutto all’indomani del viaggio di Hillary Clinton a Gerusalemme, dove aveva usato con i dirigenti israeliani un linguaggio almeno altrettanto critico rispetto a quello del documento. Ma una volta ancora, in mancanza di consenso, questo documento non ha potuto essere attribuito ai Ventisette e la sua pubblicazione “ufficiale” è stata respinta. Al Quai d’Orsay, il ministero degli Esteri francese, coloro che conoscono il dossier considerano il rapporto come una “banca dati”  seria, destinata a valutare l’impegno delle due parti rispetto alla Road map, e eventualmente a nutrire la discussione a Bruxelles per la definizione della politica dell’Unione europea.

Ufficialmente, questa politica si fonda sui principi enunciati dalla risoluzione 242 dell’ONU che chiede il “ritiro delle forze armate israeliane dai territori occupati”. Perché non ricordare con fermezza questa esigenza al governo israeliano? Perché non ricordargli anche che l’Europa ha sottoscritto le raccomandazioni contenute nel giudizio della Corte Internazionale di giustizia che dichiarava illegale la costruzione del muro? In base a quali precauzioni, a quali reticenze, l’Europa deve continuare a essere meno lucida e meno coraggiosa del giornalista israeliano Akiva Eldar che nel luglio 2006 scriveva su Haaretz: “Nelle nostre relazioni con i nostri vicini, la forza è il problema, non la soluzione …”?

 

  1. Conclusioni

Nelle mie intenzioni, esisteva ancora un paragrafo, dal titolo assai esplicito: “Le tappe del terrorismo di Stato israeliano” ma ho ritenuto di fermarmi qui, per non allontanare il lettore da quello che ho ritenuto essere l’obiettivo essenziale di questo scritto e cioè il processo di espropriazione del popolo palestinese nel punto nevralgico della Palestina, Gerusalemme. Ci sarà modo di riprendere l’argomento e concentrare l’attenzione sul terrorismo di Stato israeliano.
Dedicherò quindi quest’ultimo paragrafo, quello conclusivo, alla ricostruzione, soltanto per l’anno in corso il 2010, del balletto israelo-statunitense, con accompagnamento palestinese, sul “processo di pace”. Mi servirò della collezione di la Repubblica, dal 16 marzo al 9 novembre, giorno in cui spero di porre fine anche al mio lavoro su Gerusalemme-Est. Balletto che si ripete ormai da più di sedici anni!

Partiamo dalla fine. Dal 9 novembre.

Nuovi insediamenti a Gerusalemme ‘Così Israele distrugge i negoziati’. Sì a 1.300 alloggi mentre Netanyahu è negli USA. Protestano i palestinesi”.

Questo il lungo titolo a pagina 19. Di seguito riportiamo l’articolo di Fabio Sciuto, inviato di la Repubblica a Gerusalemme.

Con un tempismo destinato a mettere ancora più in chiaro qual è lo stato delle relazioni fra Stati Uniti e Israele, ieri la commissione per l’edilizia del ministero dell’Interno ha pubblicato il bando per la costruzione di mille e trecento nuove abitazioni a Gerusalemme-Est, contravvenendo alla esplicita richiesta di Washington di congelare i nuovi insediamenti per favorire il riavvio dei negoziati di pace con l’ANP. L’annuncio è venuto proprio mentre il premier israeliano Netanyahu è in visita in America ed è stato subito bollato come ‘molto deludente’ dal dipartimento di Stato USA. Immediata anche la reazione dei palestinesi che, per bocca del negoziatore Saeb Erekat, hanno accusato Netanyahu di voler ‘distruggere’ i colloqui.
La politica coloniale israeliana rappresenta, al momento, la principale ragione dello stop forzato ai negoziati di pace tra israeliani e palestinesi che non riprenderanno la trattativa se prima non ci sarà il blocco delle nuove costruzioni. E lo stallo del negoziato – dopo tante energie spese – è frustrante per l’Amministrazione Obama. Il programma approvato ieri dal comitato per l’edilizia della municipalità di Gerusalemme prevede la costruzione di 978 appartamenti a Har Homa e di altre 320 unità a Ramot, quartiere ebraico sempre nel settore est della città.
Nei primi mesi dell’anno, la pubblicazione di un altro piano per la costruzione di 1.600 alloggi a Gerusalemme-Est, avvenne durante una visita del vice presidente Usa Joe Biden che aveva l’intento di ricucire i tesi rapporti fra Israele e Stati Uniti per il rifiuto israeliano di attuare una moratoria degli insediamenti. Il fatto fu giudicato uno sgarbo diplomatico e causò una seria crisi fra i due paesi. Anche questa volta la pubblicazione del piano ha di fatto coinciso con l’incontro che Netanyahu ha avuto domenica sera con Biden a New Orleans. Incontro nel quale il premier è tornato a incalzare l’Amministrazione Usa per una opposizione più dura sull’Iran e il suo programma nucleare. Per Netanyahu
‘l’unico modo per assicurarsi che l’Iran non ottenga armi nucleari è una credibile minaccia militare’, affermazione sulla quale Biden ha glissato limitandosi a sottolineare che le attuali sanzioni contro Teheran hanno un ‘impatto misurabile’, diversamente da un’azione militare che potrebbe avere esiti devastanti in tutto il Medio Oriente”.

Dall’articolo di Fabio Sciuto emerge un dialogo fra sordi, con un premier israeliano all’attacco di un Obama in forte crisi di credibilità e battuto alle elezioni di medio termine. Torniamo ora al 15 marzo e vediamo i titoli relativi all’annuncio dei 1.600 alloggi cui accenna Sciuto, durante la visita di Biden.

15 marzo. “Colonie, contro Israele la rabbia Usa. Obama furioso, la Clinton attacca Netanyahu: ci hai offeso. Il premier si scusa”.

E il giorno dopo?

“Netanyahu: ‘Continuiamo a costruire’ Nuova sfida a Obama. L’ambasciatore in Usa: ‘Crisi di proporzioni storiche’”.

L’articolo comincia con la dichiarazione fatta da Netanyahu alla Knesset: “Le costruzioni a Gerusalemme-Est continueranno nella stessa maniera in cui sono andate avanti negli ultimi 42 anni”. Più chiaro di così!

17 marzo. Paginone centrale e due titoli.

“Colonie, l’ira palestinese, barricate contro la polizia. A Gerusalemme scontri con gli israeliani: arresti e feriti”

“Il Pentagono: l’intransigenza di Netanyahu mina i rapporti tra l’America e il mondo arabo. L’irritazione della Casa Bianca. Clinton: ‘Israele dia un segnale’”

20 marzo. “‘Stato palestinese in due anni’. Usa e Russia avvertono Israele. Martedì alla Casa Bianca vertice Obama-Netanyahu”

Da Gerusalemme, Alberto Stabile, parla di pace fatta fra Obama e Netanyahu, almeno secondo Fox New. Netanyahu e la Clinton si sono telefonati e mercanteggiando un po’ l’Amministrazione Obama finisce con l’accettare un pacchetto di misure reciproche, questa la proposta di Netanyahu, per ristabilire la fiducia con i palestinesi. Senza nessun impegno specifico e, soprattutto, nessun cambiamento di programma sulle costruzioni!

24 marzo. “Netanyahu avverte la Casa Bianca: ‘Negoziato fermo per un anno’. Su Gerusalemme non trattiamo. E parte un nuovo insediamento”

L’articolo di Angelo Aquaro, inviato a New York, comincia così: “Se i palestinesi non rinunceranno alla richiesta di fermare gli insediamenti, i colloqui di pace potrebbero slittare di un anno. Non poteva cominciare in modo peggiore l’atteso incontro alla Casa Bianca, novanta minuti faccia a faccia, tra Barak Obama e Bibi Netanyahu. […] ‘Non dobbiamo farci intrappolare da una richiesta illogica e irragionevole’”. Dichiara Bibi! E l’articolo continua: “Uno schiaffo dopo l’altro. Anche perché quella ‘richiesta illogica e irragionevole’ viene pure dagli Usa, che con tutto il Quartetto (Ue, Onu, Russia e Stati Uniti) hanno chiesto il blocco degli insediamenti”. E mentre i due sono a cena, “da Israele è arrivato l’affronto; il via libera alla costruzione di complesso di 29 nuove abitazioni che sostituiranno un vecchio albergo palestinese sempre a Gerusalemme-Est. Già la sera prima, durante il discorso all’Aipac, la lobby ebraica americana, Bibi aveva rintuzzato la richiesta di stop fatta davanti alla stessa platea da Hillary Clinton, che aveva invitato Israele a fare ‘scelte difficili ma necessarie per la pace’. ‘Gerusalemme non è una colonia, è la capitale d’Israele’ aveva tuonato il leader. ‘Il popolo ebraico costruì Gerusalemme 3000 anni fa e continua a farlo ora’”. E mi pare che basti. Altro che disgelo!

Si arriva così al tragico 31 maggio, quando la flottiglia Freedom, che recava aiuti umanitari ai palestinesi, rinchiusi in quel carcere a cielo aperto che è Gaza, viene assaltata dalla flotta israeliana. Risultato: nove morti tra i passeggeri della Mavi Marmara, la nave turca che guidava il convoglio.

Un paginone! E una doppia serie di titoli.

“Il blitz. Israele assalta le navi della pace dirette a Gaza con gli aiuti nove morti, oltre trenta feriti. I settecento attivisti portati a terra e arrestati”

“Paura di una nuova Intifada. Netanyahu nella tempesta, salta il vertice alla Casa Bianca. La stampa: ‘Rischiamo l’isolamento’”.

Netanyahu è in viaggio per il Canada ed esita pure a tornare indietro. Diamo la parola a la Repubblica:

Inversione di marcia più che giustificata, perché stavolta Israele rischia di pagare un prezzo molto alto. Le tragiche conseguenze dell’arrembaggio notturno hanno lasciato interdetti persino quei paesi europei che intrattengono rapporti amichevoli con Israele come l’Italia e la Germania i quali stavolta non hanno potuto sottacere la protesta.
Sarà difficile a questi paesi opporsi alla linea di condotta tracciata dall’alto Rappresentante dell’Ue per la Politica estera e la Difesa, Khateryne Ashton, che ha subito evocato l’esigenza di un’inchiesta internazionale(d’accordo in questo con il Segretario delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon), e la necessità di garantire al milione e mezzo di palestinesi che vivono a Gaza condizioni di vita più umane, spezzando il cordone sanitario che da quasi tre anni soffoca la Striscia.
Persino al di là delle previsioni degli organizzatori della flottiglia anti-blocco, i fatti di ieri notte potrebbero segnare una svolta nell’atteggiamento internazionale che finora ha garantito appoggio all’embargo messo in atto da Israele contro la popolazione di Gaza. Soprattutto dopo aver constatato che nessuno dei due obiettivi del blocco (la rivolta della popolazione contro Hamas e la riduzione della minaccia terroristica portata dalle milizie islamiche) può dirsi realizzata.
Dunque, per poter continuare a mantenere sbarrati i valichi di Gaza Israele avrà più che mai bisogno degli Stati Uniti, ma basta leggere il cauto comunicato emesso dalla Casa Bianca per rendersi conto che il tempo delle cambiali in bianco è scaduto
”.

Ma i giorni successivi stempereranno pian piano tutto, fino ad arrivare al 21 giugno, quando verrà fuori la notizia che gli Stati Uniti si ritengono soddisfatti. A luglio poi tornerà di nuovo l’entusiasmo, con Netanyahu che parla di Abu Mazen come suo partner, con Obama che si sbilancia addirittura sui tempi!

Il 22 agosto, a sorpresa,

Obama rilancia il processo di pace. Negoziati diretti Israele – palestinesi. A settembre gli incontri diretti dei due leader alla Casa Bianca. Il negoziatore palestinese Erekat: “Andremo ma non c’è lo stop alle colonie”. “Siamo disposti a trattare”. Netanyahu e Abu Mazen ‘costretti’ ad accettare l’invito.

L’articolo da New York di Federico Rampini si apre con notevole enfasi, se non con toni trionfalistici. “Barak Obama si mette in gioco sul terreno minatodel Medio Oriente. L’America rilancia il dialogo di pace tra Israele e Palestina, senza precondizioni, con scadenze ravvicinate: il 2 settembre a Washington il primo giro di contatti diretti e l’obiettivo di raggiungere l’accordo ‘entro un anno’. Cioè un risultato da incassare entro il primo mandato di Obama, facendo così della pace israelo-palestinese un elemento di bilancio di questa presidenza.
E’ un rischio che altri presidenti hanno preferito non correre, viste le delusioni di precedenti tentativi di mediazione. Questa Amministrazione ci riprova, pur avendo scarse garanzie, ma con grandi ambizioni. Il segretario di Stato Hillary Clinton ha annunciato ieri che i negoziati avranno per scopo quello di
‘risolvere tutte le questioni relative allo status finale’ di Israele e Palestina.

2 settembre. Netanyahu: “Abu Mazen partner di pace”. Obama: “possiamo farcela in un anno. Ma il premier israeliano non s’impegna sullo stop alle colonie. “Cediamo Gerusalemme-Est all’Anp”. Intervista-shock di Barak: “Un regime speciale per la Città Vecchia.

L’articolo di Angelo Aquaro comincia così: “Possiamo farcela in un anno: già troppo sangue è stato versato. Israeliani e palestinesi non devono lasciarsi sfuggire questa opportunità”. Barak Obama vede la pace possibile e rilancia il sogno di un nuovo Medio Oriente”.

Dunque a settembre ci si prepara agli incontri diretti, viene fissato un nuovo incontro per il 16, ma poi …

A ottobre, sempre peggio. Di novembre abbiamo già parlato.

Di seguito i titoli significativi dal 2 giugno al 16 ottobre.

2 giugno. La crisi. Israele sfida l’Onu: “Ipocriti”. La Nato: “Liberate i militanti”.

3 giugno. Netanyahu difende il blitz: “Era una flottiglia di terroristi”. L’Onu: un’inchiesta sulla strage. L’Italia vota no con Usa e Olanda. Abu Mazen: “Israele ha commesso un crimine”.

4 giugno. Il Vaticano a Israele: “Via il blocco di Gaza”.

7 giugno. Il Papa: “Occupazione ingiusta. Israele destabilizza la regione.

18 giugno. Gaza. Israele allenta l’embargo ma il blocco navale resta attivo.

21 giugno. La svolta d’Israele su Gaza: “Via libera a tutti i beni civili. Resta solo il blocco delle armi (!?)”. Gli Usa: siamo soddisfatti.

Nello stesso giorno Netanyahu incontra Blair rappresentante del Quartetto. Sempre gli stessi personaggi! E si preannuncia un incontro con Obama per il 6 luglio.

6 luglio. L’Amministrazione spera in concessioni che facciano tornare i palestinesi al negoziato. Netanyahu da Obama per ricucire. Alla Casa Bianca un vertice per superare i contrasti. “O le scuse o la rottura dei rapporti”. Ultimatum della Turchia a Israele. La replica: “Non le avrete”. Cieli negati ai voli militari.

7 luglio. Obama preme su Netanyahu “Colloqui diretti con i palestinesi”. Il premier israeliano: “Pronti a prenderci rischi”.

3 settembre. “Ci sono distanze incolmabili, remote le possibilità d’intesa”. L’ex negoziatore Usa Miller: troppa sfiducia tra le parti.

16 settembre. La Clinton chiede una svolta: “Israele fermi gli insediamenti”.

25 settembre. Israele, salta il compromesso sulle colonie. Netanyahu pronto a rallentare i nuovi insediamenti. I palestinesi: “Stop o niente negoziati”.

27 settembre. Israele, i coloni lanciano la sfida: “Costruiremo ancora, è casa nostra”. Scade il blocco degli insediamenti. Netanyahu: “Il dialogo continui”.

28 settembre. Colonie, gli Usa criticano Netanyahu. “Delusi per la ripresa dei cantieri. Gaza, uccisi tre palestinesi:”Raid israeliano”.

16 ottobre. Gerusalemme-Est, via a nuovi insediamenti. Netanyahu sblocca 240 alloggi. I palestinesi: ucciso il negoziato. Condanna degli Usa.

Il resto è silenzio!

Ottobre 2010

Giorgio Gaber – Se ci fosse un uomo (poesia cantata)

 

 

Giorgio Gaber

«Se ci fosse un uomo
un uomo nuovo e forte
forte nel guardare sorridente
la sua oscura realtà del presente.

Se ci fosse un uomo…

Forte di una tendenza senza nome
se non quella di umana elevazione
forte come una vita che è in attesa
di una rinascita improvvisa.

Se ci fosse un uomo.

Se ci fosse un uomo generoso e forte
forte nel gestire ciò che ha intorno
senza intaccare il suo equilibrio interno
forte nell’odiare l’arroganza
di chi esibisce una falsa coscienza
forte nel custodire con impegno
la parte più viva del suo sogno
se ci fosse un uomo.

Se ci fosse un uomo.

Questo nostro mondo ormai è impazzito
e diventa sempre più volgare
popolato da un assurdo mito
che è il potere.
Questo nostro mondo è avido e incapace
sempre in corsa e sempre più infelice
popolato da un bisogno estremo
e da una smania vuota che sarebbe vita
se ci fosse un uomo.

Se ci fosse un uomo.
Se ci fosse un uomo.

Allora si potrebbe immaginare
un umanesimo nuovo
con la speranza di veder morire
questo nostro medioevo
col desiderio che in una terra sconosciuta
ci sia di nuovo l’uomo al centro della vita.

Allora si potrebbe immaginare un neo rinascimento
un individuo tutto da inventare
in continuo movimento.
Con la certezza
che in un futuro non lontano
al centro della vita ci sia di nuovo l’uomo.

[parlato]
Un uomo affascinato da uno spazio vuoto che va ancora popolato.
Popolato da corpi e da anime gioiose che sanno entrare di slancio nel cuore delle cose
popolato di fervore e di gente innamorata ma che crede all’amore come una cosa concreta
popolato da un uomo che ha scelto il suo cammino senza gesti clamorosi per sentirsi qualcuno
popolato da chi vive senza alcuna ipocrisia col rispetto di se stesso e della propria pulizia.
Uno spazio vuoto che va ancora popolato.
Popolato da un uomo talmente vero che non ha la presunzione di abbracciare il mondo intero
popolato da chi crede nell’individualismo ma combatte con forza qualsiasi forma di egoismo
popolato da chi odia il potere e i suoi eccessi ma che apprezza un potere esercitato su se stessi
popolato da chi ignora il passato e il futuro e che inizia la sua storia dal punto zero.
Uno spazio vuoto che va ancora popolato.
Popolato da chi è certo che la donna e l’uomo siano il grande motore del cammino umano
popolato da un bisogno che diventa l’espressione
di un gran senso religioso ma non di religione
popolato da chi crede in una fede sconosciuta dov’è la morte che scompare quando appare la vita
popolato da un uomo cui non basta il crocefisso ma che cerca di trovare un Dio dentro se stesso.

Allora si potrebbe immaginare
un umanesimo nuovo
con la speranza di veder morire
questo nostro medioevo
col desiderio
che in una terra sconosciuta
ci sia di nuovo l’uomo
al centro della vita.

Con la certezza
che in un futuro non lontano
al centro della vita
ci sia di nuovo l’uomo».

 

Grazie a Giulia Stanghini
che ci ha suggerito di inserire questa poesia cantata tra le pagine scelte.

Carmine Fiorillo – Crisi è decisione vitale, giudizio totale

Il Pensatore

The Thinker, Musee RodinA. Rodin, Il pensatore.

Crisi viene dalla parola greca – eminentemente polisemica – krísis,[1]  la cui radice è collegata al verbo kríno, anch’esso ricco di molteplici significati.[2]
È ben vero che crisi, anche in greco antico, connota un significativo e improvviso cambiamento, in senso favorevole o sfavorevole, che avviene nel decorso di una malattia. Individua altresì un accesso improvviso, un fenomeno violento, per lo più di breve durata (crisi isterica, crisi nervosa, crisi di pianto; anche: crisi di rigetto). In senso figurato, con riferimento alla singola persona, si dice appunto essere in crisi, di chi viva un momento difficile (crisi di coscienza, crisi spirituale, crisi religiosa, crisi adolescenziale, crisi matrimoniale); con riferimento alla vita di una collettività (crisi sociale), il turbamento vasto e profondo di una società (si pensi, tra gli altri, a testo di Huizinga La crisi della civiltà). L’espressione crisi economica è ormai diventata nell’uso corrente semplicemente crisi. Si parla anche di crisi parlamentare, crisi ministeriale, crisi politica, crisi costituzionale, crisi istituzionale, crisi sindacale, crisi energetica, crisi ecologica, crisi culturale. È parola davvero inflazionata.
Domandiamoci perché nel tempo si è andata perdendo la consapevolezza del senso originario più pregnante di crisi, come decisione e giudizio, come «decisione vitale» e «giudizio totale»? Forse proprio perché la filosofia, come la poesia,[3] vorrebbe essere ridotta alla stregua di mera «comunicazione», una «informazione» come un’altra. Preferiamo, anche per la parola crisi, tornare alle radici e rifarci a Eschilo,[4]  a Sofocle,[5] a Platone: kríno tò aletés te kaì me,[6] a Omero,[7] a Senofonte .[8]
A chi le domandava se oggi si può parlare di “poesia in crisi” e di “poesia della crisi”, una delle più profonde voci poetiche del Novecento, M. Guidacci, rispondeva: «Per me ogni clausola determinativa aggiunta al nome “poesia” è fortemente riduttiva. Bisognerebbe accostare questi due termini: poesia e crisi; facendo sentire che è solo un accostamento nel tempo (con innegabili rispecchiamenti), ma non una fusione, la poesia resta crisi. A meno che non si ricorra, anche questa volta, al senso greco, crisi=decisione, giudizio; nel qual caso l’idea di poesia-crisi mi piace moltissimo: la poesia è una decisione vitale e un giudizio totale, tridimensionale sull’universo, poiché costituisce essa stessa un accrescimento di tutto ciò che esiste» (in: “Riscontri”, n. 3, luglio-settembre 1980, pp. 117-119).
Chi si pone delle domande e si interroga sui criteri di valore della filosofia e della poesia (momento valutativo della critica) oggi  è fatto oggetto di scherno. Crisi della filosofia? Crisi della poesia? Meglio parlare di cedimento catastrofico, a partire dagli intellettuali. Per la filosofia come per la poesia continua ad essere valido lo Stirb und Werde, il «muori e diventa» goetiano. Crisi è per me decisione, giudizio: la filosofia è decisione vitale, giudizio totale.

Carmine Fiorillo

Note

1  forza distintiva, separazione; scelta; elezione; giudizio, decisione, sentenza; esito, risoluzione, evento, riuscita.
2  distinguo, scevero, secerno, separo; scelgo, preferisco;  decido, giudico; fo entrare in fase decisiva o critica; stimo, penso, credo, giudico, dichiaro.
poíesis è l’arte poetica, la poesia, come ci dice Platone (Gorgia 502); poiéo significa: fo, fabbrico, costruisco, lavoro, fo con arte, compongo, scrivo in versi. In latino i versi erano chiamati carmina e la parola carmen è assimilabile al sanscrito karma. La radice sanscrita kri, da cui viene karma, si ritrova nel verbo latino creare e ha lo stesso significato del verbo greco poiéin, cioé fare, lavoro in cui si racchiude ad un tempo l’umano e l’arte, e da cui deriva poíhsis, poesia, un “fare” operoso che è conoscenza di sé e del mondo, canto “cultuale” che è una ri-creazione del cosmo.
4  «Nel giudizio degli Dei»; Eschilo, Agamennone 1288]; k. aftonon olbon [preferisco una felicità che non desta invidia; Eschilo, Agamennone 471].
5  «Quando si tratta di scegliere fra uomini giusti e virtuosi»; Sofocle, Filottete 1050].
6 «Distinguo il vero e ciò che non è tale»; Platone, Teeteto 150.
7 «Sceverare al soffio dei venti il grano e la pula»; Omero, Iliade 5, 501.
8«Distinguere i buoni dai cattivi»; Senofonte, Memorabilia 3, 1, 9.

Alessandro Monchietto, Andrea Bulgarelli – RIVOLUZIONE NEOLIBERALE. PER UNA CRITICA CONSAPEVOLE

Tratti generali ed originali della prassi neoliberale
ed esempio tedesco

El Lisickij, Senza titolo (1919-1920)

Questo saggio è già stato pubblicato

sulla rivista «Indipendenza»

Logo_Indipendenza_modificaton. 37, luglio/agosto 2014

Tra le tante verità con cui la crisi ci costringe a fare i conti, una delle principali riguarda la forza delle idee, o meglio dell’ideologia.

La capacità di resistenza dell’ideologia dominante, la tenuta del “pensiero unico” si sono dimostrate tali che, persino entro la peggiore crisi del capitalismo dagli anni Trenta a oggi, tutti i luoghi comuni caratteristici di quella ideologia hanno continuato ad operare, fuori tempo massimo. La “razionalità dei mercati”, lo Stato “che deve dimagrire”, la “necessità” delle privatizzazioni, le liberalizzazioni come “toccasana per la crescita”, la “deregolamentazione del mercato del lavoro” come ingrediente essenziale contro la disoccupazione: praticamente nessuno di quei luoghi comuni, che proprio la crisi scoppiata nel 2007 si è incaricata di smentire clamorosamente, ci viene risparmiato.

Di slogan in slogan, di frase fatta in frase fatta, il distacco dalla realtà è aumentato sino a diventare patologico. Sino a far suggerire, come terapia per i nostri problemi economici, un potenziamento delle stesse misure che li avevano creati.

Il medico che ha peggiorato le condizioni del paziente incolpa il paziente dell’inefficacia della cura, e gli prescrive una dose maggiore. Mentre è evidente che il problema consiste in quelle misure e non in una loro maggiore o minore implementazione. Ovviamente, la soluzione sarebbe cambiare terapia. Ma per far questo ci si dovrebbe affrancare dal ricettario liberista.

L’attenzione rivolta alla sola ideologia del laissez faire ha distolto l’ordinaria critica antisistema dall’esame delle pratiche e dei dispositivi incoraggiati, o esercitati direttamente, dai governi. È stata la dimensione strategica delle politiche neoliberiste ad essere paradossalmente trascurata nella critica antiliberista standard, nella misura in cui tale dimensione strategica è inclusa in una “razionalità globale” che è passata inosservata.

Se infatti il liberismo classico faceva riferimento alla necessità per la politica di praticare nient’altro che un’astensione volta a favorire la spontaneità intrinseca ai processi economici, il neoliberalismo chiede alla politica (all’intera società) non tanto di star ferma, quanto di costruire artificialmente e attivamente le condizioni di possibilità affinché la dinamica economica possa fare il suo «corso naturale».

Non ci troviamo di fronte ad una semplice ritirata dello Stato, ma ad un rinnovato impegno politico dello Stato, fondato su nuove basi, nuovi metodi e nuovi obiettivi. Il politico pertanto, lungi dallo sparire sopraffatto dall’economico, diventa la posta in palio, il terreno di gioco della razionalità neoliberale.

 

Il segreto dell’arte del potere –diceva Bentham– è fare in modo che l’individuo persegua il proprio interesse come se fosse il suo dovere e viceversa. La strategia neoliberista – fedele a tale principio – consiste nel creare il numero maggiore possibile di situazioni di mercato, nell’organizzare tramite privatizzazioni, messa in concorrenza dei servizi pubblici, “mercatizzazione” di scuole, ospedali, ecc. l’“obbligo di scegliere”, affinché gli individui accettino la situazione di mercato come “realtà”, come unica “regola del gioco”.

La “libertà di scelta” si identifica con l’obbligo di obbedire a una condotta massimizzatrice, in un quadro legale, istituzionale, relazionale, che è costruito in modo tale che l’individuo scelga “in piena libertà” ciò che deve necessariamente scegliere nel proprio interesse.

Ogni soggetto è portato a considerarsi e a comportarsi in tutte le dimensioni della sua esistenza come un portatore di capitale da valorizzare: studi universitari a pagamento, costituzione di un fondo pensione individuale, acquisto dell’abitazione, investimenti a lungo termine in titoli di Borsa, sono tutti aspetti che hanno lentamente eroso le logiche della solidarietà.

Ciò che è stata chiamata “deregolamentazione”, un termine equivoco che potrebbe far pensare che il capitalismo non abbia più alcuna regolamentazione, non è in realtà altro che un nuovo ordinamento delle attività economiche, dei rapporti sociali e dei comportamenti. L’idea centrale di questo orientamento è che la libertà concessa agli attori privati che beneficiano di una maggiore conoscenza dello stato degli affari e del proprio interesse, sia sempre più efficace dell’intervento diretto e della regolazione pubblica.

Gli Stati hanno abbondantemente contribuito alla creazione di un ordine che li ha sottomessi a nuovi vincoli, che li ha portati a comprimere salari e spesa pubblica, a ridurre i “diritti acquisiti” giudicati troppo costosi, a indebolire i meccanismi di solidarietà, eccetera.

Il calo delle imposte sui redditi più elevati e sulle imprese è presentato come un modo di incentivare l’arricchimento e l’investimento. Riuscendo a far dimenticare che il calo dei prelievi obbligatori per gli uni aveva necessariamente una contropartita per gli altri, i governi neoliberisti hanno strumentalizzato i “buchi” scavati nei budget per denunciare il costo “esorbitante” e “insostenibile” della previdenza sociale e dei servizi pubblici. Il bilancio statale diviene così uno strumento di disciplina dei comportamenti.

Questo vincolo è stato impiegato come disciplina sociale e politica per scoraggiare, a causa dell’inflessibilità delle regole stabilite, qualsiasi politica che cercasse di dare la priorità all’occupazione, che volesse soddisfare le rivendicazioni salariali o rilanciare l’economia e la spesa pubblica.

Il meccanismo è semplice: i governi abbassano la tassazione e poi prendono in prestito da coloro che decidono di non tassare. Gli interessi sul debito rendono così possibile un trasferimento di ricchezza a vantaggio dei detentori dei titoli di debito.

 

Un gran numero di ricerche, rapporti, saggi, ecc. –finanziati da think tank di stampo liberal-conservatore– cercarono nel corso degli anni di effettuare un bilancio dei costi e dei vantaggi dello Stato, per concludere con un verdetto inappellabile: le indennità di disoccupazione e i redditi minimi sono responsabili della disoccupazione, il welfare sanitario approfondisce il deficit e provoca l’inflazione dei costi, la gratuità degli studi ne intacca la serietà e porta al nomadismo degli studenti, le politiche di redistribuzione del reddito non riducono le diseguaglianze ma scoraggiano gli sforzi, le politiche urbane non hanno messo fine alla segregazione ma hanno appesantito la fiscalità locale.

Si tratta di porre in tutti i campi il quesito dell’utilità dell’interferenza statale nell’ordine del mercato, e di dimostrare che, nella gran parte dei casi, le soluzioni apportate dallo Stato creano più problemi di quanti non ne risolvono.

Ma la questione del costo dello stato sociale non si limita affatto alla sola dimensione contabile. Secondo molti polemisti, è sul terreno morale che l’azione pubblica può avere gli effetti peggiori. Lo Stato previdenziale ha deresponsabilizzato gli individui e li ha dissuasi dal cercare lavoro, dal terminare gli studi, dal prendersi cura dei propri figli, dal premunirsi contro le malattie dovute a pratiche nocive. Il rimedio consiste dunque nel mettere in moto meccanismi del calcolo economico individuale in tutti i campi e a tutti i livelli, ed il bilancio statale diviene uno strumento di disciplina dei comportamenti.

Il fatto è che l’intervento dello Stato previdenziale si basa su una concezione dell’individuo come “creazione dell’ambiente [ed esso non deve di conseguenza] essere ritenut[o] responsabile per il [suo] comportamento”(1). Si deve rovesciare questa rappresentazione e considerare l’individuo come pienamente responsabile.

Se l’individuo è il solo responsabile della propria sorte, la società non gli deve nulla. La vita è una costante “gestione dei rischi” che richiede una rigorosa astensione dalle pratiche pericolose, il controllo permanente di sé, una regolazione dei propri comportamenti che combini ascetismo e flessibilità.

La parola d’ordine della società del rischio è “autoregolazione”. Si devono sensibilizzare i malati, gli scolari e le loro famiglie, gli studenti, gli individui in cerca di occupazione, sobbarcandoli di una parte sempre crescente del “costo” che rappresentano.

La vita si presenta unicamente come risultato di scelte individuali. L’obeso, il delinquente o il cattivo scolaro sono responsabili della propria sorte. La malattia, la disoccupazione, il fallimento scolastico e l’esclusione sono considerati conseguenze di “calcoli sbagliati”.

Tali problematiche confluiscono in una visione contabile dei capitali che ognuno accumulerebbe e gestirebbe per tutto il corso della vita. Le difficoltà dell’esistenza, l’infelicità, la malattia e la miseria sono fallimenti di questa gestione, per difetto di lungimiranza, prudenza, risolutezza di fronte ai rischi.

Da qui il lavoro di “pedagogia” che va intrapreso perché ciascuno si consideri in possesso di un “capitale umano” da far fruttificare; da qui la messa in atto di dispositivi destinati ad “attivare” gli individui obbligandoli a prendersi cura di sé, a educarsi, a trovare un lavoro.

La caratteristica del neoliberismo è proprio quella di pensare il modello della razionalità economica come solo parametro possibile con cui interpretare tutte le dimensioni dell’esistenza umana. Gary Becker –Chicago boy divenuto Nobel per l’economia nel 1992– fu premiato precisamente per aver esteso l’analisi della microeconomia anche a quegli ambiti di comportamento che non rientrano nella logica di mercato (al non-economico potremmo dire).

Costui scrive: «Ogni condotta che accetta la realtà, è soggetta alla razionalità economica»2. Ogni condotta che accetta la realtà vuol dire ogni condotta che non sia follia: in altri termini, se non siete matti, la logica dei vostri atti rientra –e deve rientrare– nella razionalità economica.

 

La strategia neoliberista è consistita e consiste tuttora nell’orientare sistematicamente la condotta degli individui come se fossero sempre e dappertutto impegnati in relazioni di transazione e concorrenza su un mercato. Le misure di “responsabilizzazione” dei soggetti non sono tuttavia state esclusivo appannaggio dei governi conservatori o dei partigiani della “libertà dei mercati” alla Friedman-Becker. Hanno trovato alcuni dei migliori difensori nella sinistra europea, come prova la famigerata Agenda 2010 del cancelliere tedesco Gerhard Schroeder.

Per fare un esempio, la politica occupazionale portata avanti dall’allora ministro socialista Peter Hartz stabilì che l’aiuto dello Stato ai richiedenti impiego è strettamente condizionato alla loro docilità nell’accettare i lavori proposti. Secondo tale prospettiva la disoccupazione non sarebbe altro che un’inclinazione dell’agente economico all’ozio quando quest’ultimo è sovvenzionato dalla collettività, e sarebbe dunque “volontaria”.

L’indennizzo dei disoccupati non farebbe altro che creare “trappole del welfare”. La soluzione proposta non fu tuttavia sopprimere qualsiasi assistenza ai disoccupati, ma di fare in modo che l’aiuto conducesse ad una maggiore docilità dei lavoratori privi d’impiego.

Tali politiche mirano ad “attivare” il mercato del lavoro (penalizzando il lavoratore disoccupato) affinché costui sia incoraggiato a ritrovare un lavoro il più presto possibile, senza potersi accontentare troppo a lungo degli aiuti ricevuti.

 

L’individuo “in cerca di impiego” deve diventare soggetto-attore della propria impiegabilità, un self-entreprising che si prende carico di se stesso, ed i diritti alla previdenza divengono sempre più subordinati a dispositivi d’incentivazione e di penalizzazione (3).

Non si tratta più, come nel welfarismo, di ridistribuire i beni secondo un certo regime di diritti universali alla vita, ovvero sanità, istruzione, integrazione sociale e partecipazione politica. La lotta alle disuguaglianze, che era centrale nel vecchio progetto socialdemocratico, è stata rimpiazzata dalla “lotta alla povertà”, secondo un’ideologia dell’“equità” e della “responsabilità individuale” teorizzata ad esempio da alcuni intellettuali della “nuova sinistra” europea capeggiati dal blairiano Anthony Giddens.

Il programma politico neoliberista di Margaret Thatcher e Ronald Reagan all’inizio si presentò come un insieme di risposte ad una situazione giudicata “ingestibile”. Questa dimensione è perfettamente evidente nel rapporto della Commissione Trilaterale intitolato The Crisis of Democracy (4), un documento chiave che testimonia la coscienza dell’“ingovernabilità” delle democrazie.

La caratteristica prima del blairismo fu la ripresa dell’eredità thatcheriana, considerata non come una politica da invertire, ma come un fatto acquisito.

La missione che si attribuì il New labour fu portare risposte di centro-sinistra nel nuovo quadro imposto dal neoliberismo, considerato come un dato irreversibile. La parola chiave di tale linea politica era l’adattamento degli individui alla nuova realtà, piuttosto che la loro protezione contro gli azzardi di un capitalismo mondializzato e finanziarizzato. La politica della sinistra moderna dovrebbe aiutare gli individui ad aiutarsi da sé, ovvero a “cavarsela” in una competizione generale che non è mai messa in discussione in quanto tale.

 

Il neoliberismo, dal momento che ispira politiche concrete, nega di essere ideologia perché è la ragione stessa. È così che politiche molto simili fra loro possono adattarsi al modello delle retoriche più disparate, manifestando in questo modo la loro estrema elasticità. Vediamo così una delle cause del completo crollo dottrinale della sinistra nel corso degli ultimi anni. Se si ammette che i dispositivi pratici della gestione neoliberista siano i soli efficaci, se non i soli praticabili (e in ogni caso gli unici che si possono immaginare), si capisce come risulti impossibile opporsi ai princìpi che ne costituiscono il fondamento, o mettere effettivamente in discussione i risultati a cui conducono.

Non resta che la logica della persuasione retorica, ovvero denunciare a voce alta quello che a bassa voce si accetta.

 

Se le cose stanno così, come si spiega l’assenza di movimenti di protesta significativi? Il motivo dell’assenza di reazione, come recitava un articolo del Financial Times di qualche anno fa, va ricercata nel fatto che «il tenore di vita delle persone con redditi medio-bassi ha cominciato ad essere almeno in parte sganciato dall’andamento del reddito da lavoro» (5). Il risultato era la quadratura del cerchio, il sogno di ogni capitalista: un lavoratore che vede diminuire il proprio salario, ma che nonostante questo consuma come (e a volte più) di prima.

Per decenni, la risposta al pericolo della stagnazione economica è stata rappresentata dalla crescita del debito e della finanza. L’esplosione della finanza e del credito ha infatti svolto una triplice funzione:

1) mitigare le conseguenze della riduzione dei redditi da lavoro sui consumi;

2) puntellare i settori industriali afflitti da un eccesso di capacità produttiva;

3) fornire alternative più redditizie rispetto agli investimenti nel settore manifatturiero (6).

Da questo punto di vista, la finanza non è la malattia, ma il sintomo della malattia e al tempo stesso la droga che ha permesso di non avvertirla (e che quindi l’ha cronicizzata).

 

Tutte le politiche economiche e sociali hanno integrato come dimensione principale quest’adattamento alla globalizzazione, cercando di aumentare la reattività delle imprese, di diminuire la pressione fiscale sui redditi da capitale e sui gruppi privilegiati, di disciplinare la manodopera, di abbassare il costo del lavoro ed aumentare la produttività.

I dirigenti dei governi e degli organismi internazionali potranno così sostenere che la globalizzazione è “fatale” pur aprendosi continuamente alla creazione di questa presunta fatalità.

Si assiste così ad un ribaltamento completo della critica sociale: se fino agli anni Settanta la disoccupazione, le diseguaglianze sociali, l’inflazione, l’alienazione, tutte le “patologie sociali” erano messe in relazione con il capitalismo, dagli anni Ottanta sono ormai attribuite sistematicamente allo Stato.

Al contempo attori e oggetti della concorrenza mondiale, gli Stati sono sempre più soggetti alla ferrea legge di una dinamica della globalizzazione che in larga parte sfugge al loro controllo. La lotta contro l’inflazione diviene così la priorità delle politiche, mentre il tasso di disoccupazione si trasforma in semplice “variabile di aggiustamento”. Qualunque lotta per la piena occupazione viene perfino sospettata d’essere un fattore passeggero di inflazione.

La teoria friedmaniana del “tasso di disoccupazione naturale” viene largamente accettata dai responsabili politici di ogni colore.

 

Per chiarire la natura originale e rivoluzionaria del neoliberismo è utile analizzare un concreto caso, particolarmente significativo sia per la sua “purezza” paradigmatica che per la sua attualità: l’economia sociale di mercato. Questa espressione ricorre frequentemente nel dibattito politico odierno, di solito senza nessuna contestualizzazione storica e ideologica.

Spesso infatti la si utilizza in senso generico, per designare un ipotetico modello sociale a metà strada tra laissez-faire liberista e interventismo statalistico. Insomma, una “buona via di mezzo” che salvaguarda sia i meccanismi virtuosi del mercato sia le garanzie sociali del tradizionale Welfare State. Da questo punto di vista schierarsi a favore dell’economia sociale di mercato sembrerebbe quasi una questione di buon senso, cui sarebbero estranei solo i fondamentalisti del liberismo più anarchico e quelli della pianificazione spinta.

Ecco allora che una formula apparentemente vaga e “neutra” finisce addirittura nel Trattato di Lisbona, secondo il quale «lo sviluppo sostenibile dell’Europa» deve essere «basato (…) su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva» (7). Dal canto loro numerosi politici di tutti gli schieramenti hanno espresso la loro preferenza per questo modello; ad esempio Mario Monti è noto per esserne un convinto sostenitore, come ha avuto modo di ribadire in più occasioni (8).

 

In realtà le cose non sono così semplici. «Economia sociale di mercato» è un’espressione tecnica molto precisa, che designa le politiche neoliberiste varate in Germania a partire dall’immediato dopoguerra. A renderla celebre è infatti Ludwig Erhart, ministro dell’economia tedesco dal 1949 al 1963 nonché cancelliere dal 1960 al 1963 ed artefice, vero o presunto, del “miracolo economico tedesco” nella Repubblica federale di questi anni. Tuttavia, come vedremo, essa non è comparsa magicamente dal nulla, ma nasce nel contesto di una specifica corrente di pensiero, il cosiddetto ordoliberalismo.

Sorto intorno alla rivista Ordo nella Germania degli anni Trenta, l’ordoliberalismo è spesso usato come sinonimo di “Scuola di Friburgo”, la fucina del pensiero neoliberale tedesco. Sono inclusi in questa tendenza culturale economisti e filosofi quali Walter Eucken, Franz Böhm, Leonhard Miksch, Hans Großmann-Doerth e Wilhelm Röpke. Röpke e Eucken furono anche consiglieri personali di Ludwig Erhart, il quale rimase profondamente influenzato dal loro pensiero, tanto da essere a volte annoverato lui stesso tra gli ordoliberali.

Dunque è possibile parlare di una dottrina neoliberista tedesca, sebbene il neoliberismo sia tradizionalmente associato alla Scuola di Chicago e a quella di Vienna. Anzi, secondo il Michel Foucault delle splendide lezioni poi confluite nel volume Nascita della biopolitica (vedi bibliografia), l’ordoliberalismo esprime le caratteristiche peculiari del neoliberalismo ancor meglio del suo corrispettivo anglosassone, che per ragioni storiche conserva molti tratti del liberalismo classico. In ogni caso le due correnti si sono influenzate a vicenda, e si attribuisce a Friedrich von Hayek e a Ludwig von Mises il merito di avere agito da “ponte”. La teoria ordoliberale ha avuto in impatto decisivo sulle politiche economiche del dopoguerra, cedendo però il passo di fronte al fascino dello Stato “keynesiano” negli anni Sessanta. È solo con la svolta degli anni Ottanta che il neoliberalismo tedesco ha recuperato il suo antico prestigio, tanto da far parlare alcuni commentatori di “ombra lunga” dell’ordoliberalismo sulla gestione della crisi dell’eurozona da parte della Germania.

Nonostante la varietà di posizioni espresse dagli ordoliberali, possiamo individuare un nocciolo duro ricorrente, che per comodità sintetizziamo in tre punti:

1) Riduzione di tutti i possibili modelli socio-economici a due paradigmi fondamentali, quello basato sulla libera concorrenza e quello basato sulla pianificazione.

2) Necessità di preservare il regime di libera concorrenza attraverso opportune “politiche di cornice” da parte dello Stato.

3) Centralità della responsabilità individuale e dell’azienda nello sviluppo armonico della società.

Di seguito analizzeremo ognuno di questi tre punti.

La riflessione degli ordoliberali prende le mosse dalla storia recente del loro Paese e dell’Occidente in generale. Pur essendo inflessibili sostenitori del libero mercato quale unico ordinamento economico razionale, i neoliberali tedeschi degli anni Trenta devono prendere atto che la linea liberale non ha riscosso molto successo, soprattutto in Germania. A partire dalla seconda metà del XIX secolo si sono susseguiti una serie di modelli economici fondati sull’ingerenza sistematica dell’apparato statale nella sfera economica: il “socialismo” di Stato bismarkiano, l’economia centralizzata di guerra nel periodo 1914-1918, la social-democrazia e infine la dittatura nazional-socialista. Come se non bastasse, con il passare del tempo nei Paesi limitrofi alla Germania hanno preso volto due nuovi nemici: il comunismo sovietico e lo Stato assistenziale “keynesiano”.

Secondo gli ordoliberali esiste una costante che accomuna tutte le forme politico-sociali elencate: la pianificazione, ovvero l’intervento dello Stato nell’economia. Gli esiti nefasti di una simile “invasione di campo” sono la fissazione arbitraria dei prezzi, l’inflazione, la sottomissione della libera attività economica ai capricci di un apparato burocratico soffocante, la trasformazione del cittadino in suddito e così via; in una parola, la pianificazione uccide la vita materiale e spirituale della società, e per questo si configura come una vera e propria forma di totalitarismo. Si badi bene, questa diagnosi si applica a tutte le forme di pianificazione, tanto allo Stato democratico assistenziale quanto allo Stato-partito nazista o comunista. Le rispettive differenze sono secondarie. La radicalità di questa lettura arriva al paradosso di identificare i provvedimenti di Welfare del piano Beveridge con l’anticamera dell’autoritarismo e perfino del nazismo [9], dal momento che secondo gli ordoliberali il totalitarismo hitleriano è stato un effetto delle precedenti politiche “socialiste” della guerra 1914-1918 e della Repubblica di Weimar [10].

Fin qui, la “statofobia” ordoliberale non sembra scostarsi molto da quella comune a tutta la tradizione liberale. In realtà i dottrinari tedeschi giungono a conclusioni originali.

Innanzitutto sganciano la categoria di libero mercato da quella di capitalismo. Il libero mercato di per sé coincide con i meccanismi della concorrenza e non con un particolare tipo di società. Ispirandosi al pensiero di Max Weber gli ordoliberali sottolineano l’influenza determinante dell’“ambiente” culturale, politico, sociale sui meccanismi economici. Se l’“ambiente” non è adeguato, i meccanismi del libero mercato finiscono per essere distorti o neutralizzati. Questo non vale solo per per il “totalitarismo” della pianificazione, ma perfino per il “capitalismo”, che nella particolare accezione ordoliberale non è il marxiano “modo di produzione capitalistico”, ma solo una società di mercato degenerata. Il «capitalismo non è altro che quella forma guasta e arrugginita che l’economia di mercato ha assunto nella storia economica degli ultimi cent’anni» [11]. I suoi tratti fondamentali sono la formazione di monopoli privati in stretta alleanza con la burocrazia statale, la standardizzazione del consumo e della produzione, la “massificazione”, l’assorbimento del libero individuo in gigantesche compagini anonime, tutte caratteristiche che non a caso richiamano le società pianificate. Per inciso un simile “anti-capitalismo” neoliberista non è privo di importanti conseguenze ideologiche.

La degenerazione della società di mercato non va però attribuita ai meccanismi economici della libera concorrenza, che di per sé sono oggettivi, neutrali e quindi privi di contraddizioni di qualsiasi tipo. La colpa va attribuita piuttosto alla mancanza di adeguate politiche che intervengano sul contesto sociale in cui il libero mercato è incastonato.

Ecco allora in cosa risiede la peculiarità dell’ordoliberalismo, ed in generale del neoliberalismo, rispetto al liberalismo classico: la presa di coscienza che, senza un intervento attivo dello Stato, la logica della concorrenza e del mercato non può plasmare la società a propria immagine e somiglianza. L’efficacia del semplice laissez-faire è stata smentita dalla storia recente dell’Europa e riproporlo sarebbe una ingenuità. Questo perché le leggi della concorrenza non sono un “dato di fatto” che basterebbe assecondare, bensì un principio formale “ideale” che bisogna sforzarsi di raggiungere, sebbene non sia possibile realizzarlo nella sua purezza. In che modo?

 

La nozione di “politica di cornice” è una diretta conseguenza del rapporto che si instaura tra economia e “cornice” sociale. Infatti è proprio attraverso questo concetto che esso intende superare la contraddizione tra “statofobia” e consapevolezza che senza l’apporto attivo dello Stato ogni progetto liberale è destinato a fallire. Ecco allora che lo Stato liberale non dovrà adottare politiche qualsiasi, ma solo quelle che intervengono sul “quadro” della società senza alterare i meccanismi della concorrenza, che sono il vero fulcro del libero mercato, molto più dello scambio mercantile.

Quale è la differenza tra un intervento “buono” (di cornice) e uno “cattivo” (di pianificazione economica)? Come spiega Hayek [12] (ancora una volta in completa sintonia con i neoliberali tedeschi), un piano economico ha una finalità, ad esempio la potenza nazionale, il soddisfacimento di determinati bisogni ritenuti essenziali, eccetera; al contrario una politica liberale si limiterà a definire un quadro puramente formale, all’interno del quale gli attori della competizione economica possono muoversi liberamente, decidendo in autonomia quale priorità vogliono porsi o quali bisogni vogliono soddisfare.

Quando auspicano un simile ordinamento sociale, gli ordoliberali si situano nella tradizione tedesca del Rechtsstaat, che potremmo tradurre con “Stato di diritto”, in contrapposizione al Polizeistaat, lo “Stato di polizia”. In senso stretto lo Stato di diritto è quell’ordinamento istituzionale che prevede la separazione tra intervento legislativo e intervento amministrativo, dove cioè esiste una differenza tra le leggi, che sono universalmente valide, e le decisioni particolari della potenza pubblica, che invece sono legittime solo se si inscrivono nel quadro formale delle leggi. Gli ordoliberali si propongono di applicare il concetto di Rechtsstaat all’economia, stabilendo che gli interventi statali nell’economia potranno consistere solo nell’introduzione di princìpi formali. In una simile visione la dimensione giuridica assume un ruolo fondamentale e infatti Röpke scrive che «è opportuno fare dei tribunali (…) gli organi dell’economia» [13].

Gli interventi statali quindi dovranno necessariamente prendere la forma di leggi e non dovranno porsi altri fini se non l’adeguamento del quadro sociale al principio della concorrenza, che a sua volta è un principio formale e non un contenuto. Concretamente questi interventi di cornice alternano obiettivi cari alla tradizione liberale classica (ad esempio la stabilità monetaria) e misure che da allora sono diventate il “cavallo di battaglia” del neoliberalismo tedesco, in particolare la lotta ai monopoli e ai cartelli, ed in generale la regolazione della concorrenza. Un altro esempio molto importante, la previdenza sociale, sarà trattato nel prossimo punto.

Il taglio giuridico adottato dall’ordoliberalismo rischia di creare due malintesi. Il primo porterebbe a pensare che il “Rechtsstaat economico” sia sostanzialmente uno Stato che “interviene poco” in contrapposizione ad uno Stato che “interviene troppo”. In realtà la differenza tra ordinamento neoliberale e pianificazione è di carattere qualitativo e non quantitativo. Anzi, a conti fatti, lo Stato liberale potrebbe rivelarsi perfino più interventista di quello “totalitario”. Questo perché «più la legge lascerà gli individui liberi di comportarsi come vogliono (…) più, nello stesso tempo, le superfici di frizione tra queste diverse unità si moltiplicheranno (…) e più aumenteranno le occasioni di conflitto. (…) Di conseguenza, quanto più i soggetti economici saranno liberi (…) tanto più si moltiplicheranno inevitabilmente i giudici» [14]. Man mano che la logica concorrenziale si estende a tutti gli ambiti della società, lo Stato dovrà aumentare il suo intervento regolativo.

In secondo luogo non bisogna pensare che il progetto ordoliberale sia “neutro”, puramente formale. Al contrario esso punta a stabilire un preciso tipo di società, che trova nella centralità dell’individuo e nell’impresa la sua ragione d’essere.

 

In accordo con la tradizione liberale classica, l’ordoliberalismo individua nell’autonomia dell’individuo la sorgente e la meta di ogni politica responsabile ed avversa ogni forma di assistenzialismo proprio in quanto sostituirebbe la sua responsabilità con la mano di uno Stato-provvidenza. L’argomento è già stato affrontato esaustivamente nei paragrafi 7 e 8, e qui si vuole solo sottolineare in che modo si inserisce nel progetto complessivo del neoliberalismo tedesco.

In Germania la previdenza sociale è un tema caldo già negli anni Cinquanta, quando il notevole livello di benessere raggiunto fa domandare a molti se non sia possibile costruire un sistema di protezioni esteso a tutti i cittadini. Gli ordoliberali, con in testa Ludwig Erhard [15] (allora ministro dell’economia), si opposero fermamente a questa ipotesi, ammettendo però contemporaneamente che un certo livello di protezione era necessario. La loro posizione è sintetizzata nella formula di “politica sociale individuale”.

Se si parte dal presupposto che ogni cittadino è chiamato ad essere un imprenditore, anzi una vera e propria azienda, allora è chiaro che lo Stato non può sostituirsi al cittadino-impresa nella gestione della sua vita e dei relativi rischi (infortuni, malattia, vecchiaia…). Tuttavia non si può ignorare che l’attività economica comporta una serie di incognite (prime tra tutte il licenziamento o il fallimento) verso le quali anche l’individuo più lungimirante potrebbe non essere tutelato. Il timore verso queste incognite minaccia di scoraggiare i cittadini comuni, non dotati di capitali o risorse eccezionali, a partecipare al gioco economico, a essere loro stessi “aziende” sul mercato; al limite il sistema della libera concorrenza potrebbe perfino incepparsi per mancanza di partecipanti. Quindi lo Stato è chiamato a soccorrere l’individuo-azienda, non per garantire il suo benessere, compito questo che non gli spetta, ma unicamente per spingerlo a rientrare nell’arena della concorrenza il prima possibile. In altre parole il fattore “sociale” è rigorosamente subordinato ad obiettivi economici: siamo sempre nell’ambito della “politica di cornice”.

Al contrario delle forme più unilaterali di liberalismo, i pensatori della Scuola di Friburgo si sono sforzati di valorizzare la dimensione comunitaria della natura umana, ritenendola compatibile con la loro visione generale della società. Gli ordoliberali attaccano l’atomizzazione egoistica come sintomo del “capitalismo” (ovvero della società di mercato degenerata) ed auspicano una società organica, dove lo spazio tra l’individuo e il mercato e lo Stato sia occupato da una serie di corpi intermedi: la famiglia, il quartiere, la regione e, soprattutto, l’azienda. Infatti l’individuo trova la sua realizzazione proprio nell’azienda, l’istituzione che meglio di ogni altra condivide i suoi valori e le sue finalità: autonomia, intraprendenza, libera iniziativa.

La società ideale degli ordoliberali è caratterizzata da una imprenditorialità diffusa a tutti i livelli, senza che l’onnipresente principio della concorrenza ne vada ad intaccare l’armonia. Le loro simpatie vanno all’azienda di dimensioni medio-piccole piuttosto che ai “colossi” del capitalismo degenerato, ai centri urbani decentrati piuttosto che alle megalopoli terreno di coltura del socialismo e delle “classi pericolose”, alle autonomie locali invece che alle amministrazioni centralizzate.

Questo progetto è perfettamente compatibile con un umanismo dai lineamenti incerti (Röpke definisce il proprio pensiero «umanesimo economico»), spesso di matrice cattolica (quasi tutti gli ordoliberali erano vicini al cosiddetto cristianesimo democratico del Zentrum e della CDU). La retorica della “dignità della persona”, della società “a misura d’uomo”, dei diritti umani ricorre continuamente, senza che la sua compatibilità con i princìpi economici liberisti venga messa mai in discussione. Viceversa si osserva una curiosa e spesso virulenta ostilità nei confronti del razionalismo, in particolare quello della Rivoluzione francese. L’idea di modificare la realtà in base ai princìpi astratti della ragione (giustizia, uguaglianza, trasparenza dei rapporti sociali) ripugna agli ordoliberali. Anche questa parte del pensiero neoliberale, che è probabilmente la meno interessante, non è però priva di importanti conseguenze ideologiche.

 

Ritornando alla formula «economia sociale di mercato», abbiamo imparato che essa è meno generica di quanto non appaia a prima vista. L’attributo “sociale” non va inteso nella sua accezione comune, che indica politiche tese a favorire il benessere della popolazione, di solito “risarcendola” dei danni che una economia capitalistica inevitabilmente provoca (insicurezza del posto di lavoro) o prevenendoli (erogazione dei servizi fondamentali da parte dello Stato). Invece le politiche “sociali” dei neoliberali tedeschi sono semplicemente interventi sull’ambiente sociale per renderlo compatibile con la massima diffusione del principio di concorrenza.

In secondo luogo il peculiare “anti-capitalismo”(16) ordoliberale ci insegna che la critica di aspetti superficiali (e non sempre attuali) del capitalismo spesso, come la massificazione, il consumismo, i monopoli (oggi diremmo “multinazionali”), la standardizzazione della produzione, di per sé non esclude l’adesione entusiasta al capitalismo stesso. Non a caso la demonizzazione della burocrazia statale, percepita come un leviatano ingombrante e corrotto tout court, lo slogan “piccolo è bello”, il “decentramento” amministrativo, sono tutti cavalli di battaglia delle sinistre ex-socialdemocratiche ed ex-comuniste riciclate in apparati neoliberisti e, a volte, perfino delle loro stampelle elettorali “radicali”.

In conclusione possiamo affermare che il neoliberismo, lungi dall’essere un semplice proseguimento del liberalismo del XIX secolo, presenta tratti originali, che spesso sfuggono anche a chi si pone in un’autentica ottica anti-capitalistica. Per questo è assolutamente necessaria una revisione di tutte le analisi datate e fuorvianti, poiché senza una adeguata “bussola” teorica anche la prassi politica più benintenzionata rischia di porsi falsi problemi, o di scagliarsi contro muri già da tempo abbattuti dallo stesso capitalismo.

Il neoliberalismo ambisce a rappresentare la nuova ragione del mondo, di fronte alla quale qualsiasi critica è, ancor prima che inutile, impensabile, irrazionale. Il progetto neoliberale consiste in una serie di strategie che hanno come scopo la riconfigurazione della società, la sua trasformazione radicale. Se le cose stanno così, è inutile contrapporre ad un astratto laisser-faire liberista un altrettanto astratto interventismo statale, come se il problema fosse di natura prettamente quantitativa (intervenire tanto o intervenire poco?).

Al contrario chi ritiene che il capitalismo non sia l’ultima parola nella storia umana ha il compito di mettere al centro proprio la dimensione strategica, decisionale e, in una parola, politica. Anche una (auspicabile) rivalutazione della pianificazione e delle alternative al sistema della merce non può eludere questo nodo cruciale.

 

Alessandro Monchietto,
Andrea Bulgarelli

 

 

Bibliografia essenziale

Becker Gary, The Economic Approach to Human Behavior, University of Chicago Press, 1976.

Boltanski Luc; Chiapello Eve, Le nouvel esprit du capitalisme, Gallimard, 1999 (tr. it. di prossima pubblicazione per le edizioni Mimesis).

Crozier Michel; Huntington Samuel; Watanuki Joji, The Crisis of Democracy: Report on the Governability of Democracies to the Trilateral Commission, New York University Press, 1975.

Dardot Pierre, Laval Christian, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, 2013.

Donaggio Enrico (a cura di), C’è ben altro. Criticare il capitalismo oggi, Mimesis ed, 2014.

Erhard Ludwig, La politica economica della Germania, Garzanti, 1962.

Friedman Milton e Rose, La tirannia dello status quo, Longanesi, 1984.

Foucault Michel, Nascita della biopolitica, Feltrinelli, 2005.

Giacché Vladimiro, Titanic Europa. La crisi che non ci hanno raccontato, Roma 2012.

Giddens Anthony, La terza via. Manifesto per la rifondazione della socialdemocrazia, il Saggiatore, 1999.

Leghissa Giovanni, Neoliberalismo. Un’introduzione critica, Mimesis ed., 2012.

Michéa Jean-Claude, Il vicolo cieco dell’economia. Sull’impossibilità di sorpassare a sinistra il capitalismo, Elèuthera, 2004

Röpke Wilhem, Democrazia ed economia, Il Mulino, 2004.

 

 Note

1) M. Friedman, R. Friedman, La tirannia dello status quo, p. 138.

2) G. Becker, The Economic Approach to Human Behavior, p. 167.

3) Nel 2005 in Francia è stato istituito un sistema di penalizzazione che abbassa l’indennità di disoccupazione del 20% al primo rifiuto di una proposta di impiego, del 50% al secondo e del 100% al terzo.

4) I tre relatori della Commissione Trilaterale, Michael Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki, lamentano l’«eccesso di democrazia» comparso negli anni 60, ovvero a partire dalla crescita delle rivendicazioni egualitarie e del desiderio di partecipazione politica attiva delle classi più povere e marginalizzate. Ai loro occhi la democrazia politica può funzionare normalmente solo con un certo grado «di apatia e disimpegno da parte di certi individui e gruppi». Abbracciando i temi classici dei primi teorici neoliberisti, arrivavano a reclamare che si riconoscesse che «ci sono pure i limiti potenzialmente auspicabili all’ampliamento indefinito della democrazia politica» [cfr. M. Crozier, S. Huntington, J.Watanuki, The Crisis of Democracy].

5) J. Plender, Mind the gap. Why business may face a crisis of legitimacy, Financial Times, 8 aprile 2008.

6) «La finanza ha offerto un’ultima via di fuga alle imprese con problemi di redditività: consentendo loro di fare profitti non più con le attività tradizionali, ma attraverso operazioni finanziarie, ossia attraverso attività speculative. […] Se si esamina l’andamento dei profitti negli Stati Uniti si osserva che negli ultimi decenni la proporzione dei profitti derivanti da attività finanziarie è progressivamente cresciuta, sino a raggiungere il 40% del totale nel 2007, alla vigilia della crisi» [V. Giacché, Titanic Europa, pp. 34-35].

7) Trattato di Lisbona, Articolo 2, Paragrafo 3, Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea.

8) Particolarmente significativa è l’intervista per il Sole 24 Ore del 22 Agosto 2008. L’ex-premier osserva lucidamente che «oggi, il richiamo all’economia sociale di mercato, in particolare in Italia, dà a volte l’impressione di essere pronunciato con un’ispirazione opposta. Si è un po’ insofferenti verso la disciplina imposta dalle regole del bilancio pubblico o da quelle del mercato, e allora si “rivendica”, in contrapposizione alla prova non buona data di recente dal modello americano (…), la legittimità, anzi la necessità, di maggiori dosi di socialità e di discrezionalità politica». In queste poche frasi è racchiuso il senso profondo dell’economia sociale di mercato e della sua contrapposizione a qualsiasi assistenzialismo, per quanto moderato. Altro che “terza via” tra liberismo e socialismo!

9) Cfr. M. Foucault, Nascita della biopolitica, pp. 157-158. Scrive Hayek, in sintonia con la diagnosi ordoliberale: «Stiamo correndo il rischio di fare la stessa fine della Germania [nazista, nota mia]» (cit. da Foucault). Beveridge come alter ego di Goering!

10) In realtà oggi l’equazione tra “statolatria” e nazismo appare un pregiudizio. Al proposito possiamo trovare interessanti riflessioni in H. Marcuse, Ragione e rivoluzione. Notevole è la formulazione dello storico Kershaw, che ha parlato di «anarchia feudale» in riferimento all’hitlerismo.

11) W. Röpke, Democrazia ed economia, p. 82.

12) Cfr. Nascita della biopolitica, pp. 145-146.

13) Cit. in Nascita della biopolitica, p. 149.

14) Ivi, pp. 148-149.

15) Cfr. L. Erhard, Previdenza individuale per i rischi sociali, in La politica economica della Germania.

16) È interessante notare come molti neoliberisti possano vantare un discreto curriculum “anti-capitalista”. Ad esempio Hayek fu per un breve periodo membro del movimento fabiano (che nonostante le posizioni moderate era pur sempre di ispirazione marxista).

Andrea Bulgarelli, Alessandro Monchietto – SINISTRA E IDEOLOGIA DEL PROGRESSO

Vincent van Gogh, Contadini che piantano patate,

Vincent van Gogh, Contadini che piantano patate, 1884.

Questo saggio è già stato pubblicato

sulla rivista «Indipendenza»

Logo_Indipendenza_modificatoN. 38, novembre/dicembre 2015

Per oltre un secolo la sinistra si è pensata come lo spazio politico che per eccellenza incarnava l’idea di progresso e gli interessi del popolo. Il matrimonio tra una sinistra rivoluzionaria o riformista e l’ideologia del progresso è durato così a lungo perché si fondava su una particolare interpretazione della storia e del presente. Quali erano i suoi assunti? In un’epoca dominata da mutamenti senza precedenti, da una nuova concezione dell’individuo, del lavoro e della società stessa, il binomio progresso-emancipazione appariva solido e la lotta tra forze della conservazione e forze del progresso strutturava il dibattito politico e culturale. Nella misura in cui i nemici del “progresso” erano interessati non solo a ostacolare questi mutamenti ma anche a mantenere le classi popolari in uno stato di ignoranza e di miseria, l’esistenza di un “partito del progresso e del popolo” sembrava perfettamente legittima. La nostra tesi è che tale equazione, assai discutibile già in partenza, oggi sia totalmente insostenibile, e tra la causa della lotta contro l’oppressione e l’ideologia del progresso si sia scavato un fossato incolmabile, di cui bisogna prendere atto.

In questa occasione non ci interessa dare una definizione di “progresso”. Desideriamo solo offrire qualche spunto di riflessione per rendere la complessità di un concetto contraddittorio e scivoloso. Tuttavia, se dare una definizione “obiettiva” del concetto di progresso è una impresa forse impossibile, molto più fecondo è un esame della sua genesi storica. Ricostruzioni di questo tipo sono di solito appannaggio dei critici dell’ideologia del progresso, dal momento che per i suoi sostenitori l’immagine di un cammino che procede gradatamente dall’oscurità dell’ignoranza e del passato alla luce della ragione è più un dato di fatto che qualcosa da decostruire. Le interpretazioni più diffuse sono sostanzialmente due, anche se spesso si presentano mescolate e con numerose “variazioni sul tema”. La prima pone l’accento sulla tecno-scienza[1], e collega l’ideologia del progresso con la capacità sempre maggiore dell’uomo di manipolare la natura, con un aumento prodigioso della produzione di beni, nonché della soddisfazione (e creazione) di una gamma sempre più vasta di bisogni. In un contesto simile, che corrisponde grossomodo alla rivoluzione industriale, si può comprendere la nascita di una vera e propria fede nel miglioramento ineluttabile delle condizioni di vita dell’umanità, che però negli ultimi decenni si scontra con i limiti oggettivi dell’ecosistema terrestre, rendendola quantomeno discutibile. La seconda si concentra sulla cosiddetta secolarizzazione dell’escatologia cristiana e sulla sua visione della storia, che progredisce secondo un disegno divino dalla caduta del peccato originale alla gloria del Regno di Dio. Una volta perso il suo riferimento trascendente la tradizione escatologica avrebbe dato vita all’utopismo moderno (comunismo in testa) e al suo sogno di un “lieto fine” pre-determinato della storia, nei confronti del quale ogni epoca rappresenterebbe un gradino ascendente. Entrambe le interpretazioni sono a nostro avviso insoddisfacenti. La prima critica una visione meccanica e determinista del progresso industriale, stabilendo però un nesso causale altrettanto meccanico e determinista tra lo sviluppo tecnologico e la capacità dell’umanità di padroneggiarlo e di neutralizzarne gli aspetti distruttivi. Questo tipo di argomentazione spesso sembra accettare, rovesciandolo, proprio lo scenario che desidera negare, ovvero quello di una determinazione della storia ad opera delle forze impersonali della tecnica, di fronte alla quale l’uomo non è che un burattino inerme. Ciò non toglie, ovviamente, che oggi i rischi di una catastrofe ambientale siano reali e non immaginari; non si spiega però quale sia il nesso necessario tra l’ideologia del progresso, che nasce in un contesto storico preciso, e la natura sempre potenzialmente “ecofaga” e distruttiva dell’uomo[2]. Allo stesso modo la seconda non mostra in che modo un’unica dottrina religiosa, quella cristiana, non più “escatologica” di molte altre (da importanti branche del buddismo all’Islam, soprattutto sh’ita, all’ebraismo), abbia portato allo sviluppo dell’ideologia del progresso dopo quasi duemila anni, un arco di tempo così vasto da indebolire qualsiasi ricostruzione di “catene” causali. Senza contare che l’escatologia cristiana prevede non un miglioramento indefinito dello status morale dell’umanità, ma un suo graduale deterioramento, che rende necessario l’intervento divino diretto e il Giudizio finale.

Una terza vulgata ha elaborato una soluzione radicalmente diversa al problema. Ben lungi dall’essere l’inevitabile portato nefasto della tecno-scienza o della teologia cristiana, l’ideologia del progresso affonda le sue radici in un contesto storico ben preciso, quello della borghesia europea del Settecento, la classe che per prima volle emanciparsi dagli “errori” delle precedenti generazioni e soprattutto dai loro pregiudizi. Le tradizioni classica, cristiana e umanistico-repubblicana, per il resto così diverse, condividevano una concezione tragica della storia, dominata dalla consapevolezza della decadenza che attende ogni civiltà e dal prezzo che ogni miglioramento inevitabilmente richiede. «L’idea di progresso non ha mai fatto perno sulla promessa di una società ideale»[3] sostiene Christopher Lasch, che al tema ha dedicato un’importante opera, Il paradiso in terra. Il progresso e la sua critica. La sua autentica cifra sarebbe piuttosto “l’aspettativa di un miglioramento indefinito e illimitato”, secondo la quale tutto è incerto, tranne la certezza che il futuro sarà in qualche modo migliore del passato. La fiducia nel futuro rende obsoleta l’enfasi tradizionalmente posta dalla cultura europea (e non solo) sull’autocontrollo, sul senso del limite, sulla dignità della cultura e sull’arte, intese come luoghi privilegiati della riflessione sui problemi ultimi dell’esistenza e non come passatempi o divertimenti. «Il suo fascino originale e la sua duratura credibilità derivano dallo specifico assunto che gli appetiti insaziabili, in precedenza condannati come fonte di instabilità sociale e di infelicità personale, potessero trainare la macchina economica»[4]. Il capolavoro di Georges Sorel Le illusioni del progresso si concentra proprio sul passaggio dalla cultura “alta” del Seicento francese dei giansenisti, di Bossuet e di Pascal, dominata in modo ossessivo dal senso del peccato ma anche dal senso di serietà dell’attività letteraria e scientifica, alla società neo-aristocratica del Settecento, desiderosa soprattutto di svagarsi senza dover riconoscere la propria responsabilità nei confronti delle generazioni passate e di quelle future. Sorel affronta l’enigma del progresso partendo da un incipit apparentemente astruso, cioè “la disputa degli antichi e dei moderni”, un dibattito occorso nei primi decenni del XVII tra gli eruditi sostenitori della tradizione classica e chi invece propugnava la superiorità della letteratura moderna su quella antica. Secondo Sorel, originale interprete del metodo di Marx, dietro questa relativamente oscura diatriba si nasconde l’ascesa dell’assolutismo reale francese e il notevole miglioramento delle condizioni generali della società francese dell’epoca. I francesi dell’epoca «erano soprattutto colpiti dal vedere fino a che punto la maestà regale aveva potuto elevarsi al di sopra degli eventi contingenti» (p. 455) e si erano convinti che tale progressivo miglioramento non sarebbe mai finito, dispensando gli uomini e le donne dal pagare un tributo simbolico al passato. Per la prima volta si afferma l’idea che era legittimo «abbandonarsi alla felicità senza cercare di giustificare la propria condotta». Idea che per Sorel non avrebbe più abbandonato la cultura occidentale nei secoli successivi alla Querelle des Ancientes et des Modernes, insieme con la certezza della superiorità del futuro sul passato e l’insofferenza verso qualsiasi limite posto all’arbitrio individuale.

L’ipotesi capitalista non è che una delle molteplici varianti della metafisica del Progresso, così come sopra delineata. Alla stregua delle altre varianti, pretende anch’essa che la Storia abbia un senso e che il percorso prescritto agli uomini li porti inesorabilmente – per usare il vocabolario di Saint-Simon e di Comte – dallo stato teologico-militare allo stato scientifico-industriale. Quel che costituisce la differenza specifica dell’ipotesi capitalista è unicamente l’idea che il principio determinante della Storia sia, in ultima istanza, la dinamica dell’economia e, di conseguenza, il progresso tecnologico, in quanto condizione materiale fondamentale di tale dinamica.
Tutto ciò che intralcia la spinta in avanti di una società attraverso il movimento modernizzatore dell’economia, deve inevitabilmente essere percepito come un arcaismo inaccettabile, al quale ci si può aggrappare solo se si ha la sfortuna di essere uno spirito “conservatore”, o peggio ancora, “reazionario” (nel linguaggio saint-simonista, “retrogrado”).

A differenza dei liberali, i primi socialisti non avevano alcuna intenzione di abolire tutte le forme di solidarietà popolare tradizionale, né di attaccare le fondamenta del “legame sociale”. Il progetto socialista è infatti orientato, fin dalla nascita, dal desiderio che hanno i primi lavoratori moderni di proteggere – contro gli effetti disegualitari e disumanizzanti del liberalismo industriale – un certo numero di forme di esistenza comunitaria che essi intuiscono essere l’orizzonte culturale indispensabile di qualsiasi vita umana degna di questo nome.

Possiamo farci un’idea di un simile stato d’animo leggendo il monumentale studio di E. P. Thompson “Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra”. Secondo lo storico inglese, all’alba della rivoluzione industriale, i lavoratori manuali «avevano il senso di una posizione sociale perduta, correlata al perdurare di ricordi della “età dell’oro” [pre-industriale, nota mia]» (p. 297). Lunghi dall’essere assimilato con una visione reazionaria, esso era caratterizzato da un «profondo senso di egualitarismo» legato a «nozioni elementari di condotta umana e di solidarietà cameratesca». Il ricordo del “tempo perduto” della “Vecchia Inghilterra” (senza dubbio almeno in parte idealizzata) in cui era possibile guadagnarsi tranquillamente da vivere con il sudore della fronte, senza passare attraverso le tortuose mediazioni del capitale e la disciplina di fabbrica, conviveva però con un grande interesse per la cultura moderna. Thompson documenta con efficace e a tratti commovente dovizia di particolari la cultura parallela delle classi operaie, dove accanto al lavoro al telaio fiorivano lo studio delle scienze della natura, della matematica, della meccanica, oltre che dell’attualità politica. Questa convivenza di nostalgia – o perlomeno di rivendicazione – del passato e di passione per il presente minaccia al cuore il teorema del progressismo, basato sulla contrapposizione rigida tra passato e futuro.

Nel 1833 compare per la prima volta la parola «socialismo» in un articolo intitolato De l’individualisme et du socialisme, in cui il teorico socialista Pierre Leroux precisa: «…ci si è abituati a chiamare socialisti tutti i pensatori che si occupano di riforme sociali, tutti coloro che criticano e disapprovano l’individualismo, tutti quelli che parlano, in diversi termini, di provvidenza sociale e di solidarietà che riunisce non solo i membri di uno Stato ma l’intera Specie umana». Leroux afferma non soltanto che «la società non è il risultato di un contratto», ma che, «lungi dall’essere indipendente da ogni società e da ogni tradizione, l’uomo trae la sua vita dalla tradizione e dalla società».

Se questi pensatori si oppongono all’ideologia liberale, è soprattutto perché quest’ultima si fonda su una concezione della libertà individuale che conduce necessariamente, ai loro occhi, a dissolvere l’idea di una “vita comune”[5].

Questo sguardo sul passato non contraddiceva affatto l’internazionalismo o il senso dell’universale. I primi socialisti erano perfettamente coscienti che è sempre a partire da una tradizione culturale particolare che appare possibile accedere a valori veramente universali e che l’universale non può mai essere costruito sulla rovina dei radicamenti particolari. Per dirla con lo scrittore portoghese Miguel Torga, essi pensavano che «l’universale è il locale, meno le mura». «Dal momento che solo chi è effettivamente legato alla sua comunità d’origine – alla sua geografia, alla sua storia, alla sua cultura, ai suoi modi di vivere – è realmente in grado di comprendere coloro che provano un sentimento paragonabile nei confronti della propria comunità», scrive a riguardo Jean-Claude Michéa, «possiamo concluderne che il vero sentimento nazionale (di cui l’amore della lingua è una componente essenziale) non soltanto non contraddice ma, al contrario, tende generalmente a favorire quello sviluppo dello spirito internazionalista che è sempre stato uno dei motori principali del progetto socialista».

Il socialismo operaio si configura pertanto fin dall’origine come un rapporto eminentemente critico verso la modernità e soprattutto verso il suo individualismo devastante e rappresenta prima di tutto la traduzione in idee filosofiche delle prime proteste popolari contro i disastrosi effetti sugli uomini e sulla natura della modernizzazione liberale. Esso, così come il comunismo, non coincide dunque con la cultura della sinistra progressista, anche se storicamente ci sono state sovrapposizioni e convergenze a livello sia di dottrina politica che di blocchi sociali impegnati nella contesa politica. Lo studio di questo filone sotterraneo della storia europea (e non) può essere un prezioso antidoto non solo verso l’ideologia del progresso, ma anche verso interpretazioni che rovesciano il teorema progressista e idealizzano in blocco il passato, irrigidendolo in una sorta di utopia retrospettiva, senza peraltro chiarire a quale dei molti “passati” al plurale ci si debba conformare. La nostra proposta è radicalmente diversa. Essa parte non dall’idealizzazione di un passato veramente “tradizionale”, cui sarebbe doveroso tornare, contrapposto agli ultimi secoli di “modernità”. Come Lasch argomenta correttamente, il giusto approccio al passato non è quello della convenzione tradizionalistica, che si circonda di una «quieta atmosfera di venerazione», bensì quella della memoria, che «si circonda di oratoria, di dialettica, di dispute» (p. 121). Per noi si tratta quindi di mettere al centro la nozione di vita comune e le virtù (nel senso elementare e non moralistico di “capacità”) che la rendono possibile. In una simile ottica il passato non è un calderone indistinto da respingere o da accettare in blocco, ma una posta in gioco, un serbatoio di esperienze, di intuizioni e di forme di vita potenzialmente universali, germi di autentica “vita comune”. Significa anche essere coscienti che questi germi, lungi dall’essersi realizzati compiutamente nel passato o di essere scomparsi in epoca “moderna”, al contrario hanno continuato a svilupparsi, pur in mezzo a mille contraddizioni. Nel bellissimo 45° pensiero dei Minima moralia Adorno nota come nella dialettica di Hegel sopravvivesse qualcosa del «sano spirito di contraddizione» e «della testardaggine del contadino che ha appreso per secoli a resistere alla caccia e ai tributi dei potenti feudatari». Allo stesso modo noi riteniamo che molti degli ideali di libertà, uguaglianza e fratellanza degli ultimi secoli siano debitori di quel passato che per l’ideologia del progresso non è altro che oscurità e ignoranza.

 

Andrea Bulgarelli, Alessandro Monchietto

 

 

Note

[1]   Evitiamo di usare il termine “tecnica”, filosoficamente più denso.

[2]  Ricordiamo che numerose catastrofi ambientali sono state causate dall’uomo molto prima della rivoluzione industriale. Ad esempio l’arrivo degli antenati degli attuali abitanti della Polinesia 8.000 anni fa sembra abbia portato all’estinzione di circa metà delle specie indigene. Allo stesso modo le popolazioni mesoamericane ricorrevano a pratiche agricole talmente impattanti da minare la sopravvivenza stessa delle loro civiltà. Chiaramente gli sviluppi tecnologici successivi mettono nelle nostre mani strumenti più potenti e quindi più pericolosi di quelli a disposizione dei nostri predecessori.

[3]  C. Lasch, Il paradiso in terra. Il progresso e la sua critica, Feltrinelli 1992, p. 42.

[4]  Ibidem, p. 46.

[5] Questo perché per un liberale «tutte le forme di appartenenza o d’identità che non sono state liberamente scelte da un soggetto, sono potenzialmente oppressive e discriminanti» (Benjamin Constant); così anche la nozione di famiglia, di lingua materna o di paese d’origine.

Victor Nomero – L’alimentazione condiziona il nostro futuro? Sostenibilità e scelte alimentari

Copertina di Per una solidarietà globale

http://www.petiteplaisance.it/libri/231-240/235/int235.html

È appena stato pubblicato Per una solidarietà globale. Insostenibilità e antispecismo sarà l’etica a darci un futuro? di Moreno Fabbri: un breve, denso e documentato scritto, già pubblicato in rivista, unitamente alle congeneri riflessioni di Fulco Quilici e di Giuseppe De Rita, e riproposto con alcune integrazioni, con l’aggiunta di una sintetica bibliografia. Nel volumetto sono citati studi ed analisi che negli ultimi decenni hanno contribuito al dibattito sulla insostenibilità del modello socio-economico occidentale e sulle macroscopiche sperequazioni che caratterizzano la società globalizzata.

A fronte dei dati scientifici che accreditano alcuni degli scenari apocalittici da più parti paventati, si fa qui riferimento a diverse proposte di analisti e di studiosi da tempo impegnati ad individuare possibili scelte virtuose che, facendo appello ad una accresciuta coscienza individuale, siano capaci di imprimere un nuovo segno alle scelte di ciascuno per preservare e custodire la vita di ogni essere senziente e di tutto il pianeta.
In questi ultimi anni si è assistito ad un accresciuta attenzione verso le questioni della sostenibilità e dell’alimentazione che hanno trovato i loro momenti culminanti nell’Esposizione Universale attualmente in corso a Milano e nella recente enciclica papale Laudato si’.
Il volumetto, impreziosito da tre disegni di carattere bucolico di Vincent Van Gogh, con un particolare de L’albero della vita di Gustav Klimt in copertina, costa 4 Euro ed è reperibile nelle librerie telematiche o facendone direttamente richiesta all’editrice. info@petiteplaisance.it

1 9 10 11 12 13