Eraclito (535 a.C.-475 a.C.) / Ludwig van Beethoven (1770-1872) – L’armonia che unisce Eraclito a Beethoven.

Eraclito-Beethoven

 

Eraclito, olio su tavola di Hendrick ter Brugghen, 1628

Eraclito, di Hendrick ter Brugghen, 1628

«Da elementi che discordano si ha la più bella armonia».

Eraclito, Diels-Kranz 22 B 8

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Eraclito, fr. 24, in Id., I frammenti e le testimonianze, a cura di Carlo Diano, Mondadori, Milano 1993, p. 17. Il frammento corrisponde a Diels-Kranz 22 B 8.

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Particolare del viso del ritratto di Beethoven mentre compone la Missa Solemnis, eseguito da Joseph Karl Stieler, 1820

Particolare del viso del ritratto di Beethoven mentre compone la Missa Solemnis, eseguito da Joseph Karl Stieler, 1820

«Due forze, che hanno un uguale grado di certezza e di unitarietà
e nello stesso tempo sono parimenti originarie e universali,
ossia le forze di repulsione e di attrazione».

 

Autobiografia di un genio

Autobiografia di un genio

Ludwig van Beethoven, Autobiografia di un genio. Lettere, pensieri, diari, a cura di Michele Porzio, Mondadori, Milano 1966, p. 130.


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Parmenide di Elea (544 a.C./541 a.C. – 450 a.C.) – Diciamo che c’è un giusto e diciamo che c’è un bello e poi anche diciamo che c’è un vero; e nessuna mai di queste cose vedemmo con gli occhi, ma solo con la mente.

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«Diciamo che c’è un giusto e diciamo che c’è un bello
e poi anche diciamo che c’è un vero;
e nessuna mai di queste cose vedemmo con gli occhi,
ma solo con la mente».

 

Parmenide di Elea, Diels-Kranz 28 B 4, ed. it. I presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di Gabriele Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 1990, voI. I, pp. 271-272.


Erma di Parmenide. Museo archeologico di di Ascea marina (antica Velia)02

Erma di Parmenide. Museo archeologico di di Ascea marina (antica Velia).


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Vasilij Semënovič Grossman (1905-1964) – C’è un dono superiore rispetto a quello dei geni della scienza e della letteratura, dei poeti e degli scienziati. Il dono supremo dell’umanità è il dono della bellezza spirituale, della nobiltà d’animo, della magnanimità e del coraggio del singolo in nome del bene.

Vasilij Semënovič Grossman
Il bene sia con voi!

Il bene sia con voi!

«C’è un dono superiore rispetto a quello dei geni della scienza e della letteratura, dei poeti e degli scienziati. Tra le persone di taJento, se non di genio, tra i virtuosi delle fonnule matematiche, del verso poetico, della frase musicale, dello scalpello o del pennello, molti hanno un animo misero, debole, meschino, lascivo, avido, servile, cupido, invidioso; molti sono i molluschi, gli smidollati nei quali l’irritazione di una coscienza inquieta favorisce la nascita della perla. Il dono supremo dell’umanità è il dono della bellezza spirituale, della nobiltà d’animo, della magnanimità e del coraggio del singolo in nome del bene. È il dono di cavalieri e fanti timidi e senza nome che con le loro imprese fanno sì che l’uomo non si trasfonni in una bestia».

Vasilij Grossman, Il bene sia con voi! Appunti di viaggio, 10 [1962-1963), tr. di Claudia Zonghetti, Adelphi, Milano 2014, pp. 231-232.

 

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Vasilij Grossman nel 1945 tra le macerie di Berlino espugnata dall’Armata Rossa. Nato a Berdicev, in Ucraina, il 12 dicembre 1905, lo scrittore è morto di cancro a Mosca il 14 settembre 1964, lasciato senza cure e senza sostegno.

 

 

Nel 1960 Vasilij Grossman porta a compimento “Vita e destino”, subito confiscato dal KGB, e va incontro alla sorte del reietto. Alla stessa stagione e allo stesso universo di quel capolavoro, che descrive le manifestazioni del male e la sua sconfitta in nome della “bontà illogica” dei singoli, appartengono i racconti qui radunati. I ricordi e le testimonianze di prima mano del periodo bellico, che ruotano intorno al destino degli ebrei, ispirano le note drammatiche del “Vecchio maestro” e la dichiarazione di fede nella vita e nel “miracolo della libertà” che conclude “La Madonna Sistina”. “Fosforo” è una riflessione tristemente autobiografica sull’amicizia misconosciuta, mentre “Riposo eterno”, “Mamma”, “L’inquilina”,” In periferia” fotografano momenti diversi della lunga stagione sovietica, tra gli sconvolgimenti causati dal meccanismo delle repressioni staliniane e la corruzione morale che ne consegue, all’insegna dell’indifferenza e dell’egoismo. “La strada”, parabola sul modello tolstojano di Cholstomer, è il racconto delle disavventure di un mulo italiano sulle strade della Russia in guerra: la mostruosità di un mondo in cui Treblinka e il Gulag, nazismo e comunismo gareggiano in efferatezza colpisce in modo ancora più brutale se vista con gli occhi di un animale. E infine “Il bene sia con voi!”, dove le note di un viaggio in Armenia nell’autunno del 1961 si traducono in una sorta di luminoso poema.

 

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Vasilij Grossman e Primo Levi: dialogo fra testimoni


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Francesca Eustacchi – C’è oggi nella cultura occidentale un silenzio che urla: quello degli intellettuali che hanno rinunciato al loro ruolo. Si può e si deve utilizzare il sapere antico per riflettere sul mondo contemporaneo.

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Per la rinascita di un pensiero critico contemporaneo. Il contributo degli antichi

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Francesca EustacchiMaurizio Migliori, Per la rinascita di un pensiero critico contemporaneo. Il contributo degli antichi, Mimesis, 2017.

Francesca Eustacchi, dottoressa di ricerca in Philosophy and Theory of Human Sciences e cultrice della materia in Storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Macerata, autrice di saggi sui sofisti e Platone, con particolare attenzione ai problemi onto-gnoseologici, etici e politici.

Maurizio Migliori, già ordinario di Storia della filosofia antica, studioso di Platone; tra le sue molte pubblicazioni Il disordine ordinato. La filosofia dialettica di Platone, 2 vv., Brescia 2013; By the Sophists to Aristotle through Plato, E. Cattanei, A. Fermani, M. Migliori eds., Sankt Augustin 2016; Platone, Brescia 2017; La bellezza della complessità. Studi su Platone e dintorni, Pistoia, 2019.

C’è oggi nella cultura occidentale un silenzio che urla: quello degli intellettuali che hanno rinunciato al loro ruolo. Il pensiero critico appare appiattito sui luoghi comuni e sul dibattito politico immediato. Sembra scomparsa una riflessione teorica capace di affrontare la complessità dei problemi, di compiere analisi di lungo periodo, di cogliere le potenzialità e i pericoli insiti nell’attuale situazione, in sintesi, di analizzare “razionalmente” le tante questioni da troppo tempo rinviate. Questo volume riafferma la necessità di un pensiero che voglia conoscere criticamente la realtà, mostrando la ricchezza del contributo che gli antichi greci hanno offerto. Si può e si deve utilizzare il sapere antico per riflettere sul mondo contemporaneo. Si tratta di mettere in opera quell’atteggiamento critico che è la cifra della filosofia fin dalle sue origini: essa nasce dalla meraviglia, dalla sorpresa, dalla coscienza dell’instabilità che spinge ad uscire dal recinto del noto per addentrarsi senza esitazioni nell’ignoto, recuperando il valore dell’approccio razionale.


logo filosoficamenteFilosoficamente. Newsletter della Sezione di Filosofia e Scienze Umane
Dipartimento di Studi umanistici – Università di Macerata

Francesca EUSTACCHI, Πρός τι

Il problema del relativismo nei sofisti
e le argomentazioni non metafisiche di Platone

 

«Per chi intraprende cose belle, è bello anche soffrire,
qualsiasi cosa gli tocchi».
(Platone, Fedro, 274A8-B1).

***

«Io dico che bisogna operare seriamente con ciò che è serio,
con ciò che non è serio no.
Dio è per natura degno di seria attenzione,
perché in ciò consiste ogni beatitudine,
mentre l’uomo, come abbiamo detto prima,
è una specie di giocattolo costruito da dio
e il suo valore sta proprio in questo.
Di conseguenza ogni uomo e ogni donna
devono condurre la loro vita
giocando i giochi migliori,
l’opposto di ciò che si pensa oggi».
(Platone, Leggi, 803C2-8).

***

«Vincere se stesso
è la prima e più nobile di tutte le vittorie,
essere sconfitti da se stesso
è la cosa peggiore e insieme la più dannosa».
(Platone, Leggi, 626E2-4).

 

La conclusione del mio percorso di studi magistrali con una tesi in Storia della Filosofia Antica (Interferenze anima-corpo in Platone) mi aveva lasciato un senso di incompiutezza e il desiderio di approfondire quell’approccio multifocale, che da tempo a Macerata è utilizzato come chiave di lettura dei testi platonici e aristotelici e che avevo avuto modo di verificare nel corso dei miei studi. Questa visione polivoca, tesa a rendere ragione dell’evidente complessità del reale, mi affascinava e mi provocava con varie domande. Una di queste era di fondo e mi impegnava più delle altre: come evitare il relativismo e nel contempo riconoscere la coesistenza di giudizi, di verità e di prospettive diverse, a volte anche tra loro contrastanti, sulla stessa realtà? È possibile individuare una alternativa al binomio assolutismo-relativismo?
Questo interrogativo non mi sembrava lontano dal contesto dei dialoghi platonici, perché in essi il filosofo si confronta con i sofisti, generalmente considerati gli antesignani del relativismo. Da questa costatazione è nata la proposta per la ricerca: inizialmente mi ha mosso solo l’intuizione che questo dibattito del V-IV sec. a.C. poteva costituire un terreno privilegiato di indagine. In particolare, volevo approfondire quelle movenze argomentative che Platone mette in campo a livello gnoseologico, etico e politico, in risposta e contro quelle posizioni, definibili, in modo più o meno corretto, relativistiche; la scelta era quella di tralasciare la più conosciuta contrapposizione radicale basata sulla messa in campo di verità assolute o metafisiche (da qui il “non metafisiche” del titolo).
L’intento non è stato quello di paragonare antistoricamente il dibattito antico con quello contemporaneo sul relativismo, ma quello essenzialmente storico di comprendere meglio il primo. Ciò mi ha permesso poi di evidenziare nel dibattito antico anche quelle movenze teoriche che si ripropongono in quello attuale e che risultano utili per riflettere su quest’ultimo. Ho tenuto, però, presente una radicale diversità di prospettiva: il pensiero antico non è interessato, come quello moderno, a produrre paradigmi a cui il mondo fenomenico può o non può adattarsi, ma al contrario vuole spiegare la realtà, moltiplicando e arricchendo gli schemi, in modo da adattarli ad essa.
La duplice natura, storica e teoretica, della ricerca ha reso necessario un lavoro serrato sui testi, iniziato dal primo anno: i frammenti dei sofisti richiedono molta attenzione, una capacità che ho dovuto affinare, ritornando varie volte sui testi; altrettanta cura ha richiesto il contesto di riferimento (a volte non facilmente individuabile); l’uso, decisivo, della letteratura secondaria deve essere costantemente monitorato, per non correre il rischio di essere fuorviati da abitudini e/o mode interpretative.
Sul piano teoretico, è stato utile delimitare con precisione il tema del relativismo nei suoi molteplici aspetti, gnoseologici, ma anche etici e politici, affrontando alcuni snodi significativi del dibattito contemporaneo (Searle, Rorty Davidson, Kuhn, etc.). Questa indagine, che era stata pensata come operazione di chiarezza terminologica, mi ha permesso di individuare la differenza concettuale determinante, quella tra relativismo e relazione, che costituisce una delle chiavi teoretiche dell’intera ricerca. Grazie ad essa, ho potuto cogliere sia le diverse sfumature della sofistica sia l’elemento che le accomuna: la messa in gioco di molteplici relazioni a diversi livelli. Ciò ha portato a riconsiderare l’attribuzione ai sofisti della classica etichetta di relativisti e a sostenere che la maggior parte di loro non è affatto tale. L’homo mensura protagoreo non va letto, a mio avviso, come un criterio conoscitivo, ma come un anti-criterio, che, opponendosi all’assolutismo eleatico, delinea l’orizzonte umano in cui solo è possibile fare ricerca. Analogamente l’opuscolo gorgiano, Sul non essere, spazza via per autocontraddizione gli asserti dell’eleatismo, per valorizzare il terreno fenomenico.
Certo, la debolezza delle posizioni teoriche dei primi sofisti apre la strada al relativismo come possibile sviluppo, ma non come necessaria degenerazione. Il dibattito interno alla sofistica è infatti molto articolato: non solo ci sono tesi relativiste e non, ma, addirittura, posizioni anti-relativiste, ad esempio, nei Dissoi Logoi dove mai ce le aspetteremmo.
A partire da questa ricostruzione, è stato sorprendente scoprire che Platone tratta tutti i temi messi in campo dai sofisti, in un dialogo a volte esplicito, a volte solo alluso. In questa fase, soprattutto per l’interpretazione del pensiero platonico, è stato fondamentale potermi avvalere del confronto continuo con il prof. Migliori. È emerso così l’atteggiamento polivoco di Platone, che non si contrappone – esclusivamente o soprattutto sul piano metafisico – ai sofisti, ma assume posizioni differenti: critica e confuta i sofisti relativisti e immoralisti; rielabora e/o approfondisce le tesi dei grandi sofisti, a volte senza negarle, in quanto possono risultare, in una diversa contestualizzazione, accettabili.
In questo senso, la sofistica, come fucina di elementi tra loro diversi, ha prodotto molte riflessioni originali, che un filosofo dialettico come Platone ha saputo riconoscere, valutare e mettere a frutto. Il suo approccio è risultato teoreticamente esemplare da due punti di vista:

– perché attesta che al relativismo si può rispondere non tanto con la riaffermazione di posizioni rigide e assolute, quanto piuttosto con una strategia argomentativa molteplice che discute nel merito le questioni;

– perché mostra che è possibile trarre dalla valorizzazione delle strutture relazionali, messe in campo dai sofisti, un guadagno positivo per una migliore comprensione del reale.

In sintesi, questo lavoro mi ha permesso di fare un primo passo su un terreno complesso e ricco che spero di poter continuare ad approfondire negli anni prossimi.

 Francesca Eustacchi


Per dialogare con la filosofia antica


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Vincent Van Gogh (1853-1890) – Le opinioni non possono rendere più vera la verità.

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Lettere a Theo [1872-1890]

Lettere a Theo [1872-1890]

«Le opinioni possono far cambiare alcune verità acquisite tanto quanto un gallo sulla cima di un campanile può far cambiare direzione al vento. Non è il gallo che può far sì che il vento provenga dall’est o dal nord, né le opinioni possono rendere più vera la verità».

Vincent van Gogh, Lettere a Theo [1872-1890], ed. it. a cura di Massimo Cescon, Guanda, Milano 2014, p. 25l.

 

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Vincent Van Gogh (1853-1890) – Quando c’è convenzionalismo, c’è sempre la sfiducia e la sfiducia dà sempre luogo a ogni sorta di intrighi

Vincent Van Gogh (1853-1890) – Ho un grande fuoco nell’anima … qualcuno verrà a sedersi davanti a questo fuoco, e magari vi si fermerà

Vincent Van Gogh (1853-1890) – Preferisco la malinconia che aspira e che cerca

Vincent van Gogh (1853-1890) – La maggior parte della gente trova “troppo poca bellezza”. Continua sempre a camminare e ad amare la natura.


 


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Tzvetan Todorov (1939-2017) – La memoria del male, la tentazione del bene e il bisogno di metafisica. Perché il passato resti fecondo, bisogna accettare che passi attraverso il filtro dell’astrazione.

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Memoria del male, tentazione del bene

Memoria del male, tentazione del bene

 

Salvatore A. Bravo

Todorov,
la memoria del male, la tentazione del bene e il bisogno di metafisica

Il secolo trascorso ed il presente sono secoli senza metafisica: ogni limite è stato ed è trasceso in assenza di una definizione di bene e di male. Tali paradigmi sono liquidati come cianfrusaglie del pensiero, oziosi rompicapo senza soluzione. Il problema metafisico è annichilito, espulso dalle accademie, spesso pronunciato con parole appena udibili anche dalla chiesa. Le forme di totalitarismo sono proliferate in assenza di metafisica, nella loro metamorfosi, come l’essere polivoco di Aristotele, hanno un fondamento comune non riconosciuto: l’astratto. Ogni totalitarismo ambisce alla perfezione, vuole eliminare ogni differenza, la fatica del molteplice da cui rielaborare il concetto, i totalitarismi esigono la perfezione, calano sul mondo della vita una cappa astratta a cui ci si deve adattare. La perfezione non vuole dialogo, nega ogni principio ontologico fondato sulla parola, al suo posto campeggia l’ideale della perfezione, il quale si pone oltre ogni distinzione dialettica tra bene e male, è sottratto dallo spazio e dal tempo, luoghi cognitivi dove si viene a determinare il senso del bene e del male, dove l’uno ha significato nella presenza dell’altro. La perfezione non conosce dialettica, si ripiega su se stessa, si presenta nella forma dell’ipostasi dinanzi alla quale non si può che accettare senza consenso, senza concetto. Ogni totalitarismo assimila per espellere le differenze e presentarsi con il suo radicale monismo. La perfezione è nell’uno, il bene ed il male, invece, sono nella dualità perenne, vi è il bene dove vi è dualità, senza l’io che si incontra con il tu non vi è che il nulla, solo dall’incontro razionale nella dualità il bene si eleva dai singoli verso l’universale, il male resta sul fondo, lo sguardo del bene, mentre si magnifica sull’universale dev’essere puntato sul male, poiché permette la consapevolezza della differenza.

La storia e la resistenza al male
Todorov ha posto il problema del male al centro della sua storia filosofica. La storia è manifestazione della Spirito dell’umanità, nella storia l’universale si palesa nella contingenza: esperienza in movimento la storia consente di filtrare le esperienze, di cogliere nella concretezza delle vite la resistenza o il cedimento al male. Dinanzi al male si può fuggire oppure resistere. Molti hanno resistito al male, ricordare la loro testimonianza favorisce processi di identificazione e discernimento del bene e del male. La storia assume una valenza educativa e critica non sostituibile, in essa possiamo trovare e ritrovare le ragioni per resistere nell’esempio testimoniale degli eroi silenziosi, ma anche imparare, nelle differenze contestuali e dei quadri storici, a riconoscere il male:

«Mi resta qui da riunire alcune delle lezioni che ho creduto di poter trarre e domandarmi: che cosa ci insegnano sul futuro? La memoria stessa, innanzitutto. La scelta, innanzitutto. La scelta che si presenta davanti a noi non è fra dimenticare e ricordarsi perché l’oblio non deriva da una scelta, sfugge al controllo della nostra volontà ma fra differenti forme di ricordo. Non esiste dovere di memoria in sé; la memoria può essere mesa al servizio del bene come del male, utilizzata per favorire il nostro interesse egoista o la felicità altrui. Il ricordo può restare sterile, addirittura fuorviarci. Se si sacralizza il passato, ci si impedisce di capirlo e di trarne lezioni che concerneranno altri tempi e altri luoghi, che si applicheranno a nuovi protagonisti della storia. Ma se al contrario lo si banalizza, applicandolo a situazioni nuove, se vi si cerca soluzioni immediate alle difficoltà presenti, i danni non sono minori: non solo si traveste il passato, ma si disconosce anche il presente e si apre la via dell’ingiustizia. […]. Perché il passato resti fecondo, bisogna accettare che passi attraverso il filtro dell’astrazione».[1]

L’Umanesimo moderno
Nella storia ritroviamo l’effettualità del bene come del male. Riconoscere il male nella forma dell’illimitatezza razziale, sessista o economica consente un mutamento della coscienza, da quel momento nulla sarà come prima. Il male è l’illimitatezza che nega la razionalità dialogica, la negazione dell’alterità è rottura del limite, senza quest’ultimo si assimila l’altro, si mettono in pratica processi di cannibalizzazione violenta. Il bene è l’esercizio del limite, è la pratica di ascoltare la presenza dell’altro, capacità che esige la razionalità profonda in cui l’argomentazione logica si coniuga con l’empatia, con la percezione tutta carnale che lo sguardo dell’altro è su di noi e con noi:

L’Umanesimo moderno, un Umanesimo critico si distingue per due caratteristiche, senza dubbio entrambe banali, ma che traggono la loro forza dalla loro stessa compresenza. La prima è il riconoscimento dell’orrore di cui sono capaci gli esseri umani. L’umanesimo, qui, non consiste affatto nel culto dell’uomo, in generale o in particolare, in una fede nella sua nobile natura; no, il punto di partenza, qui, sono i campi di Auschwitz e della Kolyma, la prova più grande che ci sia stata in questo secolo del male che l’uomo può fare all’uomo. La seconda caratteristica è un’affermazione della possibilità del bene; non del trionfo universale del bene; non del trionfo universale del bene, dell’instaurazione del paradiso in terra, ma di un bene che conduce a prendere l’uomo, nella sua identità concreta ed individuale, a prediligerlo ed amarlo. Si rinuncia dunque a sostituirlo con un essere soprannaturale, Dio; o al contrario con le forze della natura subumana, le leggi della vita; o anche con i valori astratti scelti degli uomini, si chiamino prosperità, rivoluzione o purezza e, al di là, le leggi della storia».[2]

La testimonianza del bene
Il bene è nella storia, nei suoi innumerevoli esempi silenziosi ed eroici, Todorov tra le testimonianze presenti nel suo testo Memoria del male, tentazione del bene riporta il caso di Grossman lo scrittore di Vita e destino dedicato alla madre che dinanzi allo sterminio (Grossman era ebreo) seppe mantenere la sua umanità. È riuscita a resistere al male conservando la sua razionalità profonda, ha continuato a provare pietà anche per coloro che l’avrebbero uccisa. L’esempio della madre, il bene concreto che resiste al male, alla sussunzione, ha permesso a Grossman di continuare a credere nel bene, a resistere al male. Nella Russia sovietica ha vissuto l’esperienza della persecuzione, dell’isolamento, ma la fonte del bene è stato il ricordo della madre, ancora una volta per resistere al male è necessario ritrovare nella storia o nella nostra storia la fonte testimoniale che ci permette di resistere, perché il male per radicarsi esige il silenzio della ragione e della storia:

«Alla base della società totalitaria si trova, secondo Grossman, un’esigenza: quella della sottomissione dell’individuo. Il fine a cui aspira questa società non è infatti il benessere degli uomini che la compongono, ma l’espansione di un’entità astratta che si può designare come lo stato, e che si confonde anche con il partito, o addirittura con la polizia. Nello stesso tempo gli individui devono cessare di percepirsi come la fonte della propria azione, devono rinunciare all’autonomia e obbedire alle leggi impersonali della storia, compitate dai poteri pubblici, come alle direttive promulgate giorno dopo giorno dai vari servizi. Si può dire in questo senso che lo stato sovietico “ha come principio essenziale di essere uno stato senza libertà”». [3]

 

Il male nell’epoca della globalizzazione
Il male è sempre uguale vuole la sussunzione totale del soggetto. Oggi il male che minaccia il mondo è la globalizzazione nella forma dell’integralismo economicistico che vuole negare il destino dei popoli in nome dell’economia. L’omologazione dei popoli permette di ipostatizzare l’economia e specialmente indebolisce ogni resistenza: in assenza di sovranità nazionale il potere diffuso è divenuto impalpabile, è ovunque eppure sfugge ad ogni localizzazione, in tal modo si debilita la resistenza, si indebolisce la motivazione all’universale per favorire forme di atomismo planetario, le cui ingiustizie sono vissute come fatali, inevitabili:

«Noi ci rallegriamo del crollo dell’impero totalitario tedesco; ciò non significa che il dominio solitario degli Stati Uniti sia in sé augurabile. Il pericolo non è minore quando la superpotenza si accorge che in realtà le mancano i mezzi per giocare al guardiano della pace ovunque e che deve limitarsi a intervenire solo nelle situazioni in cui sono in gioco i suoi interessi vitali. Per queste ragioni l’equilibrio è preferibile all’unità. La globalizzazione economica a cui oggi assistiamo non deve essere seguita da una mondializzazione politica; gli stati o gruppi di stati autonomi sono invece necessari per contenere gli effetti negativi del movimento di unificazione».[4]

Il linguaggio del male
Dobbiamo imparare a riconoscere il male ed a vivere per il bene, la storia ci insegna ad individuare i sintomi del male. Todorov analizza il linguaggio del nazionalsocialismo, per comprendere come il male si diffonde mediante architetture linguistiche neutre, confondendo l’umano con il disumano:

«Un altro mezzo per dissimulare la realtà ed eliminare ogni traccia dalla memoria consiste nell’uso degli eufemismi. Presso i nazisti, essi sono particolarmente abbondanti riguardo al segreto centrale dello sterminio; il senso di certe formule celebri è ormai divenuto trasparente “soluzione finale”, “trattamento speciale”, ma anche all’epoca erano, esse erano sufficientemente suggestive (“il trattamento speciale è applicato all’impiccagione”. Non appena è conosciuto il loro senso segreto, esse chiedono di essere sostituite con nuove espressioni, ancora più neutre, che rischiano tuttavia di divenire inutilizzabili a loro volta: evacuazione, deportazione, trasporto; numerose circolari danno istruzioni precise al riguardo. Lo scopo di questi eufemismi è impedire l’esistenza di certe realtà nel linguaggio e, con ciò facilitare agli esecutori la realizzazione del loro compito».[5]

 

Il lessico del male continua ad operare, a confondere per poter veicolare con i suoi messaggi la manipolazione delle coscienze.
Il linguaggio attuale cela il male, i tagli alla spesa pubblica sono chiamati tagli lineari, gli esseri umani sono chiamati consumatori, finanche consumatori di cultura, gli alunni sono divenuti clienti, i lavoratori risorse o capitale umano, lo sfruttamento è denominato lavoro flessibile ecc. Il linguaggio quotidiano ci svela nei suoi eufemismi i processi di sottomissione cognitiva e delle coscienze, eppure malgrado il tamburellare della lingua unica, anche nel presente ci sono ragioni per resistere nell’esempio di persone anonime che resistono alla disumanità del nichilismo passivo imperante. La storia ed il presente anche hanno nei loro archivi nomi di uomini e donne che hanno resistito, non sono passati invano, per cui resistere è ricordare, ma anche capire il ripetersi di modelli simili, ma mai uguali. L’arretramento degli studi storici è un ulteriore sintomo del male che in nome della prestazione economica perfetta ed assoluta avanza ed a cui dobbiamo fare resistenza propositiva.

Salvatore A. Bravo

 

[1] Tzvetan Todorov, Memoria del male, tentazione del bene, Garzanti, Milano 2015, pag. 370.

[2] Ibidem, pp. 373-374.

[3] Ibidem, pag. 77.

[4] Ibidem, pag. 343.

[5] Ibidem, pag. 141.

 


Tzvetan Todorov (1939-2017) – La letteratura è pensiero e conoscenza del mondo psichico e sociale in cui viviamo. La letteratura amplia il nostro universo, apre all’infinto la possibilità di interazione con gli altri e ci arricchisce infinitamente.

 


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Jean-Paul Sartre (1905-1980) – L’essere umano non è nulla al di là del suo proprio progetto. Egli esiste solo nella misura in cui realizza se stesso.

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Existentialism an human emotions

Existentialism an human emotions

 

«L’essere umano non è nulla al di là del suo proprio progetto. Egli esiste solo nella misura in cui realizza se stesso: egli non è dunque nient’altro che l’insieme dei suoi atti, nient’altro che la sua vita».

 

Jean-Paul Sartre, Existentialism an human emotions, Citadel Press, New York 1957, p. 33.


Jean-Paul Sartre (1905-1980) – Il desiderio si esprime con la carezza come il pensiero col linguaggio. Il desiderio è coscienza. Nel desiderio e nella carezza che l’esprime, mi incarno per realizzare l’incarnazione dell’altro. Così, nel desiderio, c’è il tentativo di incarnazione della coscienza.

 


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Aldo Capitini (1899-1968) – Noi non abbiamo paura di questa parola, anzi ci diciamo senz’altro rivoluzionari, proprio perché non possiamo accettare che la società e la realtà restino come sono, con il male, che è anche sociale, ed è l’oppressione, lo sfruttamento, la frode, la violenza, la cattiva amministrazione, le leggi ingiuste.

Aldo Capitini 02

alta passione

 Aldo Capitini scrive nel 1956

«Noi non abbiamo paura di questa parola, anzi ci diciamo senz’altro rivoluzionari, proprio perché non possiamo accettare che la società e la realtà restino come sono, con il male, che è anche sociale, ed è l’oppressione, lo sfruttamento, la frode, la violenza, la cattiva amministrazione, le leggi ingiuste.
Piú volte fino ad oggi sono state fatte «rivoluzioni», e ci sono quelli che vogliono anche ora fare una rivoluzione. Noi non abbiamo paura di questa parola, anzi ci diciamo senz’altro rivoluzionari, proprio perché non possiamo accettare che la società e la realtà restino come sono, con il male, che è anche sociale, ed è l’oppressione, lo sfruttamento, la frode, la violenza, la cattiva amministrazione, le leggi ingiuste. Rivoluzione vuol dire cambiamento di tutte queste cose, liberazione, rinascita come persone liberate e unite. Ma sappiamo anche che noi non possiamo far tutto e subito; possiamo incominciare, unirci con chi è d’accordo con noi, lottare, sacrificarci, ma non possiamo con tutte le nostre poche forze (anche se, unendoci, siamo piú forti) liberare il mondo da tutto il male. E allora torneremo indietro? non faremo nulla? ci faremo prendere dallo scoraggiamento? lasceremo le persone sfruttate, i vecchi trascurati, i bambini affamati, gli uomini senza lavoro diventare banditi, pazzi, malati? Niente affatto: noi faremo ciò che potremo, faremo molti passi, raccogliendo le nostre forze per andare verso la salvezza e la luce giusta per tutti. […]
Ci vengono a dire che ci sono state altre rivoluzioni, inglese, americana, francese, russa, cinese. Ma noi rispondiamo che non vogliamo qui giudicare quelle rivoluzioni né i metodi che hanno usato né i risultati che hanno raggiunto; la storia deve mutare e oggi i nostri problemi li vediamo in un’altra luce; rispondiamo che la nostra rivoluzione, oggi qui e subito, ha qualche cosa di diverso, perché è fatta insieme con tutti, con l’animo nostro unito a tutti anche se non ci sono accanto, è rivoluzione per tutti e con tutti, non escludendo e non distruggendo per sempre e non dannando in eterno nessuno: è rivoluzione corale.
Se la nostra rivoluzione corale e totale, per la liberazione di tutta la società e di tutta la realtà, non può realizzarsi con le nostre mani in un colpo, faremo tutto ciò che potremo e resteremo aperti perché il resto avvenga fuori delle nostre forze. Se noi non possiamo togliere tutto il dolore, tutto il male, tutta la morte, cominceremo con l’amare tutti non dando noi il dolore, il male, la morte e con la fede che il resto del dolore, del male, della morte scomparirà. Se ci sforzeremo di usare mezzi puri e di tenere una coscienza onesta e amorevole, questa sarà l’offerta che facciamo e la garanzia che abbiamo che avverrà una liberazione totale. Per questo non ci accontentiamo di una piccola o grande riforma parziale, perché vogliamo un cambiamento totale. Una riforma parziale sarà utile: anche un aumento di salario per chi guadagni troppo poco, anche una casa a buon prezzo per chi abita nelle grotte (come ce ne sono in Italia), sono riforme sacrosante; ma a noi non bastano, perché vogliamo una liberazione totale, siamo rivoluzionari fino in fondo. Ma se non siamo riformisti facilmente contentabili, non siamo nemmeno rivoluzionari che credono di ottenere tutto con la violenza e l’assolutismo, e poi si accorgeranno che non basta».


Aldo Capitini
Un’alta passione, un’alta visione. Scritti politici 1935-1968, a cura di Lanfranco Binni e Marcello Rossi, Il Ponte, Firenze 2016, pp. 292-294

Lanfranco Binni, responsabile del Fondo Walter Binni, e Marcello Rossi, direttore de Il Ponte la “rivista di politica economia e cultura fondata da Piero Calamandrei”, hanno recentemente curato una ricca e approfondita raccolta di scritti politici di Aldo Capitini – il fondatore del Movimento Nonviolento e della rivista Azione nonviolenta – che coprono un arco temporale dal 1935 al 1968, anno della sua morte, dal titolo “Un’alta passione, un’alta visione”  (Il Ponte Editore). Ne pubblichiamo qui la premessa dei due autori.

Il volume cartaceo può essere richiesto presso Il Ponte libreria, mentre il sito web del Fondo Walter Binni mette a disposizione dei lettori la versione integrale in .pdf  

Questo volume di scritti di Aldo Capitini è un percorso di attraversamento diacronico della sua esperienza rivoluzionaria, teorica e tenacemente pratica, dall’antifascismo liberalsocialista degli anni trenta agli esperimenti di democrazia dal basso nell’immediato dopoguerra, alla decostruzione dell’ideologia cattolica e alla «rivoluzione nonviolenta» negli anni cinquanta, alla puntuale teorizzazione della «compresenza», della democrazia diretta e dell’«omnicrazia» negli anni sessanta.
I temi di Capitini, rimossi e deformati già nell’immediato dopoguerra, sono oggi attuali, da conoscere, da studiare e da sviluppare. Sono da riprendere le sue ricerche sulla «complessità» della realtà, sulla «compresenza» delle molte dimensioni del reale (il presente e il passato, la vita e la morte) in ogni singola esistenza; i suoi esperimenti di «nuova socialità» per una società di massimo socialismo e massima libertà, oltre le derive stataliste-staliniste e le imposture liberal-proprietarie; la sua puntuale polemica anticattolica per liberare la dimensione spirituale-mentale dai poteri confessionali; la sua prospettiva del «potere di tutti» come orientamento politico per il presente, contro i poteri oligarchici, politici, economici e culturali.
Al centro dell’intera esperienza umana, intellettuale, poetica, pratica di Capitini c’è la politica, una concezione della politica come intreccio di etica e creazione del valore, tensione alla trasformazione, alla liberazione rivoluzionaria della realtà. Tutti gli scritti di Capitini sono intimamente politici: è politica la sua elaborazione filosofica sulla «compresenza», è politica la sua poesia che nomina la realtà liberata qui e subito, è politica la sua libera ricerca religiosa, è piú che politica la sua concezione della politica, è piú che socialista la sua concezione del socialismo, è piú che libertaria la sua concezione della libertà.
I veri maestri agiscono a distanza e nel corso del tempo. Il tempo di Capitini è ora, nella fase della crisi della «democrazia» liberale (il sintomo) e della crisi strutturale del capitalismo (la malattia), della guerra globale e della devastazione del pianeta: «democrazia diretta», «omnicrazia», «compresenza», «realtà liberata» affermano oggi la loro urgenza teorica e di orientamento per la prassi rivoluzionaria.
I testi che abbiamo scelto e montato cronologicamente non costituiscono un’antologia, ma un percorso di attraversamento del «centro» delle idee e dell’azione di Capitini, nelle loro molteplici e costanti «aperture», per sollecitare un rapporto ulteriore con le sue opere, da leggere e studiare. Il titolo è di Capitini: in un articolo dell’autunno del 1945, Allarme per i giovani, 8 denuncia il clima di restaurazione di antiche dinamiche oligarchiche e di abbandono dei giovani, passata la tempesta della guerra e della Resistenza: «Nelle città, nei paesi e nelle campagne specialmente, vedo folle di giovani e di ragazzi inerti, che non hanno canzoni, non incontrano apostoli, non sanno come salutare, che grido lanciare, che non può e non deve essere piú quello di odio a un uomo e a un regime scomparsi. O dare tutto questo, un’alta passione, un’alta visione, o non ci meraviglieremo se dilagherà la tendenza a un individualismo scettico peggiore della morte».
Il libro è di Capitini, e inizia con la sua voce: lo scritto autobiografico Attraverso due terzi del secolo, scritto nel 1968 a due mesi dalla morte. Ci limitiamo a premettere un sintetico profilo della vita e delle opere, e una doverosa insistenza sul socialismo libertario di Capitini, il cuore e l’anima della sua stessa «religione aperta».

Lanfranco Binni (Fondo Walter Binni)

Marcello Rossi (Il Ponte Editore)


Salvatore Bravo – Aldo Capitini e la omnicrazia. L’apertura è sentire la compresenza dell’altro, sentire la propria vita fluire nell’altro, lasciarlo essere, amarlo per quello che è, liberarlo dalla paura del potere, della mercificazione.

 


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Stefano G. Azzarà e Andrea Bulgarelli – Intervengono all’incontro sul tema: «Esistono ancora destra e sinistra?». Riflessioni a partire dal confronto tra Domenico Losurdo e Costanzo Preve. Venerdì 1 febbraio ore 21, Libreria Comunardi, Torino.

Azzarà Preve Losurdo

Azzara Comunardi

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Venerdì 1 febbraio ore 21,

Libreria Comunardi, Via Bogino 2 , Torino.

 

Esistono ancora destra e sinistra?

Riflessioni a partire dal confronto tra

Losurdo nell'aprile 2011

Domenico Losurdo

e

Costanzo Preve

costanzo-preve_mr copia

Intervengono all’incontro

Stefano G. Azzarà (Università di Urbino)  e Andrea Bulgarelli (CIVG)

Stefano G. Azzarà – Domenico Losurdo (1941-2018), in memoriam.
Andrea Bulgarelli – «Costanzo Preve marxiano», intervista a cura di Luigi Tedeschi sul libro “Invito allo Straniamento” II.
Luigi Tedeschi intervista Andrea Bulgarelli, coautore con Costanzo Preve del libro “Collisioni – Dialogo su scienza, religione e filosofia”

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Anselm Kiefer – Il libro mi accompagna dalla più tenera infanzia. Il libro è per me un rituale, struttura il tempo e fa appello ad altri poteri rispetto a quelli della cultura.

Kiefer Anselm 01

Kiefer-Pistoia

«Quando ho saputo che avevate l’intenzione di accordarmi l’immenso onore di ammettermi fra i ranghi di voi professori, mi sono messo a studiare la storia della vostra università.
La storia ha sempre fatto parte del mio lavoro artistico. Dietro sollecitazione di Roland Barthes, ho ad esempio letto Jules Michelet, che è diventato uno dei miei scrittori preferiti.

Il libro mi accompagna dalla più tenera infanzia. Ha un’importanza capitale, tanto nella mia vita quanto nella mia pratica artistica. Ritengo che rappresenti il 60% della mia opera. D’altra parte, tengo un diario nel quale annoto giorno per giorno bozze d’idee da sviluppare, schizzi, citazioni da poesie, epifanie del quotidiano… progetti, o ancora il piano delle camere d’hotel nei quali soggiorno…
Il libro è per me un rituale, struttura il tempo e fa appello ad altri poteri rispetto a quelli della cultura. Al mattino, prima di iniziare a lavorare, spesso percorro la mia biblioteca. È lunga sessanta metri, e ciò mi permette di camminare come al Vaticano. Spesso trovo il libro di cui ho bisogno, qualche che sia il soggetto. È molto curioso, come si trova ciò che vi si cerca. Sono convinto che abbiamo un accesso ai nostri libri che non passa per l’intelletto, che transita altrove rispetto al cervello.
Quando, lavorando a un quadro, mi capita di non sapere più a che punto sono, o, per dirla altrimenti, quando sono in panne, mi siedo alla macchina per scrivere e scrivo “qualcosa”.
Questo “qualcosa”, questa cosa tratta dell’essenza, della monade di Leibniz. Quando sono di fronte alla tela bianca, il che è al tempo stesso stimolante e costernante, allora un vecchio problema filosofico mi ossessiona: perché  c’è qualcosa e perché non il nulla?».

Anselm Kiefer

Il 26 novembre 2014 l’Università di Torino ha conferito a Anselm Kiefer la laurea honoris causa in Filosofia. Il testo integrale della sua lectio magistralis, da cui è tratto il brano riportato sopra, si può leggere su Artribune del 4 dicembre 2014, nella traduzione di traduzione di Marco Enrico Giacomelli.

 

L'arte sopravviverà alle sue rovine

L’ arte sopravvivrà alle sue rovine

Anselm Kiefer

Traduttore: D. Borca
Editore: Feltrinelli, 2018

 

 

 

Kiefer è uno dei più noti e controversi artisti contemporanei. Con queste pagine chiunque può immergersi nell’universo titanico, profondamente riflessivo, della sua arte.

“Soltanto nell’arte ho fede, e senza di essa sono perduto. Non riuscirei a vivere senza poesie e senza quadri, non solo perché non so fare nient’altro, perché non ho imparato nient’altro, ma per ragioni quasi ontologiche. Perché diffido della realtà, pur sapendo che, a modo loro, anche le opere d’arte sono un’illusione.”

Anselm Kiefer ha fatto irruzione sulla scena artistica tedesca nel 1969 con una serie molto controversa di opere dedicate alla Seconda guerra mondiale, capaci di risvegliare dall’amnesia collettiva che regnava in Germania in quel periodo. Da quel momento, la produzione artistica di Kiefer ha espresso ogni volta il rifiuto per il limite, non solo nella sua monumentalità e nella potenza della sua materialità, ma anche nell’infinita ricchezza di risorse con le quali sonda le profondità della memoria e del passato. Tra dicembre 2010 e aprile 2011, Kiefer è stato il primo artista visuale a occupare la cattedra di Creazione artistica al Collège de France di Parigi, dove ha tenuto otto lezioni, seguite dai rispettivi seminari. Questo volume raccoglie le otto lezioni, insieme al discorso inaugurale con cui l’artista ha dato inizio al corso. In risposta all’invito del Collège de France, Kiefer attinge alla letteratura, alla poesia, alla filosofia e ai suoi ricordi personali, nel tentativo di districare e rivelare il processo di sedimentazione e rielaborazione dei temi che circolano, si incrociano e si aggregano per formare la costellazione della sua arte. Queste lezioni formidabili e preziose gettano luce sulla dimensione universale di un artista, la cui opera è attraversata dalla storia, dal mito – greco, assiro e germanico -, dalla religione, dal misticismo ebraico, dalle donne, dalla poesia. Una raccolta di scritti cruciali per la comprensione dell’arte di Anselm Kiefer.


Il grande carico

Il grande carico

Tela a tecnica mista, 4,60 x 6,90 m)

Uno degli aspetti che distinguono la riuscita di un’opera d’arte sta nella facoltà di quest’ultima di provocare e stimolare l’immaginazione di uno spettatore, e questo è ciò che caratterizza la grande tela realizzata da Anselm Kiefer, collocata sulla parete di fondo della sala di lettura dei Dipartimenti, e donata alla Biblioteca San Giorgio dalla Fondazione della Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, a godimento degli spettatori e dei lettori.

Sala di lettura dei Dipartimenti, Biblioteca San Giorgio Pistoia

Sala di lettura dei Dipartimenti, Biblioteca San Giorgio Pistoia

Il lavoro di Kiefer, materico ed evocativo, prende il titolo da un verso della poetessa austriaca Ingeborg Bachmann in cui si parla di una nave pronta a partire con un grosso carico (Die grosse Fracht, appunto).

“Il grande carico dell’estate è a bordo,
nel porto è pronta la nave del sole,
quando dietro di te saetta e stride il gabbiano.
Il grande carico dell’estate è a bordo.
Nel porto è pronta la nave del sole,
e sulle labbra della polena
si fa largo un sorriso da lemuro.
Nel porto è pronta la nave del sole.
Quando dietro di te saetta e stride il gabbiano,
arriva da Ovest l’ordine di affondamento;
ma tu annegherai con gli occhi aperti,
quando dietro di te saetta e stride il gabbiano.”

In Kiefer il carico prende corpo sotto forma di libri, stabilendo così un legame ideale e indissolubile con il luogo in cui l’opera è collocata. Come abilmente descrive Bruno Corà : “Lo scafo di piombo, rigidamente vincolato sulla tela dipinta mediante sottili cavi, sostiene sul suo ponte cataste di libri muti, anch’essi di piombo. L’enigmatico e insolito convoglio sembra veleggiare su una distesa di terra e fango, sotto un cielo che non si distingue dalla terra, senza un orizzonte, in un magma in cui insieme alla ruggine e alle emulsioni miste all’acrilico, si sovrappongono colate di piombo fuso, i cui incerti contorni rivelano una gestualità repentina …una turbolenza di modi, i cui effetti nell’immagine suggeriscono la mescolanza diluviale di terre, acque e cieli, senza possibilità di riferimenti orientativi”.
Il grande carico suscita nello spettatore il ricordo di una “nave da guerra-giocattolo-modello” e il sentimento spiazzante del doverla “trarre in salvo”, senza tuttavia conoscerne il perché o il verso dove, ma comunque sospinto da una tensione emozionale difficile da dimenticare, persa dietro ai ricordi e agli interrogativi che il convoglio insolito ed enigmatico porta sulla scena. Sembra divenire l’emblema di un trasporto essenziale attraverso un paesaggio immaginario, inquietante e insidioso, in cui è necessario riaffermare il diritto di cercare una risposta, di capire, sperando in quell’improvvisa e meravigliosa intuizione che talvolta ci dà la lettura.


I sette palazzi celesti

I sette palazzi celesti

 


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