Anaïs Nin (1903-1977) – Si scrive per creare un mondo nel quale valga la pena di vivere. Scriviamo per tentare di trascendere la nostra vita, per imparare a parlare agli altri.

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Ecrire pour ne pas perdre la main

 

Si scrive per creare un mondo nel quale valga la pena di vivere. Ho dovuto crearmi un mondo tutto mio scrivendo, come un clima, un paese, un ‘atmosfera, nel quale potessi respirare, regnare e rinascere ogni volta che la vita ha tentato di distruggermi. Scriviamo di noi per tentare di trascendere la nostra vita, per imparare a parlare agli altri, per raccontare il nostro viaggio nel labirinto. Se tu non percepisci la scrittura come un respiro, se tu non urli senza far rumore scrivendo, se tu non canti mentre scrivi, allora non scrivere, non ne hai affatto bisogno.

Anaïs Nin, Essere una donna (1935), citato in AA.VV., Ecrire pour ne pas perdre la main. Des lettres, dei mots, des pensées, Collection Vivre et l’écrire, Editions L’ Harmattan, Paris 1995, p. 135.



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Claudia Baracchi – Amicizia è disposizione verso il bene, verso il bene della vita, e non richiede conformismo. Tra amici similitudine e reciprocità vanno intesi alla luce di una propensione all’eccellenza, al perfezionamento della vita.

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Claudia Baracchi

Amicizia

Mursia, 2016

 

 

008   «L’amicizia sorge in seno all’estraneità, rivolgendosi all’esterno: cerca il rapporto non tanto con chi sta vicino, ma con chi viene da lontano. Ancora prima di designare l’approfondimento dell’intimità e della consuetudine, l’amicizia è il nome di un’apertura all’inconsueto.»

Affrontare il tema dell’amicizia nell’epoca di Facebook e dei social network richiede coraggio e perfino una certa impertinenza. La relazione amicale comporta fiducia, fedeltà, disponibilità alla condivisione profonda. Ebbene, assicurano i sociologi, mai questo atteggiamento fu più improbabile che nel nostro tempo di drammatica riconfigurazione antropologica. La ricerca sull’amicizia non può dunque prescindere dal pensiero antico: con profondità ineguagliata esso ne indovina le più ampie implicazioni, affettive quanto politiche. Le epoche successive non oseranno tanto, e l’amicizia scomparirà dal pensiero politico così come da ogni considerazione complessiva sull’essere umano. L’Autrice percorre gli snodi della riflessione antica, nella convinzione che abbia a che fare con mondi a venire.

 



«Per realizzare le nostre speranze e inostri sogni abbiamo bisogno di amici […] di chi crede in noi. [Gli amici] sono quelli che credono in noi e vogliono aiutarci».

 

Aung San Suu Kyi

 

 

049   «Amicizia» può significare molte cose, potremmo dire con Aristotele. Molte relazioni che vengono chiamate con questo nome sono di fatto rapporti strumentali, motivati da finalità varie […]. Ma come si presenta un’amicizia nel suo senso pieno […]?
Nella perfezione di cui parla Aristotele non dovremmo intendere un riferimento all’ideale, quanto invece l’amicizia come fine in sé: un’amicizia che non si riconduce a mezzo per fini determinati e non si instaura in vista dell’ottenimento di alcunché. Essa non volge ad alcun fine, se non il bene, che non è una cosa: l’amicizia è orientata al bene di sé e dell’amico. Ma essere fine in sé ed essere finalizzata al bene significa, per l’amicizia, la stessa cosa: essere il luogo dove non si persegue altro che la piena realizzazione, cioè la felicità, mia e dell’altro. Questo è il significato del bene: la vita vissuta bene. Dunque l’amicizia riuscita è la riuscita di ognuno.

 

 

014   I requisiti principali dell’amicizia sono la somiglianza, o affinità, e la reciprocità. Ma va detto subito che questi termini non indicano il conformismo, l’adeguamento alla convenzione, tanto meno la quantificazione e il calcolo. […] Gli amici non si assomigliano in qualche dettaglio marginale, nelle forme esteriori, o nella condivisione degli stessi vantaggi e privilegi. E quello che danno l’uno all’altro non si misura come negli scambi di beni ordinari, non è quantità a cui assegnare prezzo. Tra amici similitudine e reciprocità vanno intesi alla luce di una propensione all’eccellenza, al perfezionamento della vita: arete è il nome che i greci danno a questa postura esistenziale, usualmente tradotto in italiano come virtù.

 

018   Allora comune agli amici è la forma di vita, il modo di vivere, sia nell’invisibile interiorità sia nell’esteriorità dell’azione. È la disposizione verso il bene, verso il bene della vita, quel bene che è la vita stessa protesa al compimento, alla realizzazione felice. Nell’amicizia è magnificato al massimo l’intreccio del bene presente (l’eccellenza dell’amico) e del bene come tendenza, compito infinito, bene a venire. Osserva Aristotele che «la perfetta amicizia è tra esseri umani buoni e simili nei confronti della virtù; poiché, nella misura in cui sono buoni, si augurano l’un l’altro il bene, e siffatti esseri umani sono buoni in se stessi» (Etica Nicomachea, 1156b7-10).

 

035   Nel cuore di questa amicizia si trova la condivisione dell’eccellenza e il reciproco augurio di ulteriore compiutezza e accrescimento. Ed è proprio il movimento verso il bene (ciò che rende eccellenti nella psyche e nell’azione) ad essere eminentemente amabile e attraente nell’amico. […] Sono i participes curarum con cui ci confrontiamo, da cui riceviamo consiglio nell’affrontare passaggi e situazioni di non facile lettura. […] Nell’amicizia è il bene dell’altro che mi fa bene. […]

 

037   Desta perplessità, ai nostri orecchi tardo-moderni, tutto quello che riguarda il bene, e in particolare l’espressione: essere buoni. Il bene, la bontà, buono: categorie goffe, rese irriconoscibili da rivolgimenti epocali che ce le hanno restituite come formule inerti, principi moralistici risibili, quando non apertamente repressivi. Noi abitanti nella modernità tarda siamo a malapena in grado di intendere quello che dicono gli antichi: per loro essere buoni significa essere felici, sentirsi dischiudere nella vastità della vita, ricercandone l’inveramento. […] E per questo, nella nostra epoca tarda, termini o espressioni come «bene comune», «cittadinanza», «comunità», rischiano di perdere il senso concreto e la prossimità viva. Non riconoscendo il bene come realizzazione di sé in seno a un noi, crediamo di trovare libertà e felicità in comportamenti puramente arbitrari e sconnessi.

 

045   Oppure siamo connessi, ma non tra di noi, bensì alla macchina, e tramite «la macchina» comunichiamo globalmente, ormai ampiamente risucchiati fuori di noi, prosciugati, come gusci vuoti appesi ai terminali della rete. Ma, così intesa, la connettività è contraffazione della comunità degli amici, così come la «realtà aumentata» è contraffazione della pienezza della vita.[…]
Gli amici si assomigliano in quanto, essendo similmente rivolti verso il bene, lo perseguono, anelano ad esso, e in ciò si favoriscono a vicenda. Ma ognuno lo farà a modo suo. […] L’amicizia non richiede conformismo […].

 

059   Dunque gli amici condividono la loro disposizione verso il bene. Sono simili nella loro postura rispetto al bene, simili nell’essere implicati nell’amore per il bene.

Claudia Baracchi, Amicizia, Mursia, 2016, pp. 53 ss.

 

Claudia Baracchi

Claudia Baracchi



Claudia Baracchi, Ph.D. in Filosofia, docente di Filosofia antica e Filosofia continentale alla University of Oregon (1996-1998) e alla New School for Social Research di New York (1999-2009), dal 2007 insegna Filosofia morale e Filosofia della relazione e del dialogo all’Università di Milano-Bicocca. È membro fondatore della Ancient Philosophy Society. È docente a Philo-Scuola Superiore di Pratiche Filosofiche. È analista membro della Società di Analisi Biografica a Orientamento Filosofico (SABOF)


Claudia Baracchi – Incontrare l’antico può liberare risorse inattese per il pensiero, mettere a fuoco domande che non hanno cessato di riguardarci. E l’amicizia è il nome di un’apertura all’inconsueto.
Claudia Baracchi – L’universalismo moderno sorge nell’astrazione. Invece, per l’esperienza antica, l’universale sorge nell’ampliamento d’orizzonte capace di cogliere la tessitura complessiva. Il filosofo rivela l’umano proprio nello slancio dell’umano oltre se stesso, in quell’apertura al possibile e nel possibile. Così, l’esplorazione del possibile trasgredisce e rivolta i confini del noto.

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Claudia Baracchi

L’architettura dell’umano
Aristotele e l’etica come filosofia prima

Vita e Pensiero, 2014

Il secolo scorso ha variamente proclamato la fine della filosofia in quanto metafisica. Nel nuovo millennio si indovinano, a livello istituzionale, sintomi di una sempre più conclamata obsolescenza degli studi umanistici, e quindi della filosofia intesa come disciplina accademica ed esercizio puramente intellettuale. Eppure, nel gesto ampio di questo transito epocale, trovarsi di fronte ai testi antichi può essere occasione di esperienze sorprendenti. Vale a dire, avvicinarsi al testo nella sua materialità impervia, nell’effetto straniante della sua opacità, nella sua refrattarietà alla risoluzione interpretativa o manualistica, può liberare risorse inattese per il pensiero, mettere a fuoco domande che non hanno cessato di riguardarci – che interrogano l’umano, le sue vicende e possibili configurazioni, le scelte, i percorsi, l’ipotesi della felicità. Incontrare l’antico (Aristotele, per esempio) in questo modo implica coltivare l’intimità con ciò che ancora ci elude. Allora diagnosticare la fine, intravedere altri inizi, non significa superare, passare oltre, né ancora andare altrove. L’origine ci scruta enigmatica. Il suo mistero inconsumato ci sta davanti. Lungi dal comportare una deposizione o un ritorno, lo sguardo volto al passato si espone a ciò che nel passato resta impensato, inaudito. Forse è proprio cogliendo l’antico nel suo carattere insondabile che si vi può intravedere la possibilità inespressa, ciò che si annuncia ma resta in ombra: nella fine, in seme, il compito del pensiero a venire.


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Claudia Baracchi

Aristotle’s Ethics as First Philosophy

Cambridge University Press, 2007

In Aristotle’s Ethics as First Philosophy Claudia Baracchi demonstrates the indissoluble links between practical and theoretical wisdom in Aristotle’s thinking. Referring to a broad range of texts from the Aristotelian corpus, Baracchi shows how the theoretical is always informed by a set of practices, and specifically, how one’s encounter with phenomena, the world, or nature in the broadest sense, is always a matter of ethos. Such a ‘modern’ intimation can, thus, be found at the heart of Greek thought. Baracchi’s book opens the way for a comprehensively reconfigured approach to classical Greek philosophy.

Estratto:

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Pablo Picasso, Amicizia, 1908

Pablo Picasso, Amicizia, 1908

 

Raffaello Sanzio, Autoritratto con un amico, 1518-1520

Raffaello Sanzio, Autoritratto con un amico, 1518-1520

 

H. Matisse, amicizia

H. Matisse, Amicizia

Konstantin Makovskij, Amici, 1895

Konstantin Makovskij, Amici, 1895

 

Edgar Degas, Amici del pittore dietro le quinte, 1879

Edgar Degas, Amici del pittore dietro le quinte, 1879



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Charles Péguy (1873-1914) – «Il denaro è tutto, domina tutto nel mondo moderno». L’indifferenza è la riduzione di tutto a denaro. La dimenticanza consiste nell’incapacità di vivere la cultura come parte integrante dell’esistenza, come impegno quotidiano. Ecco il mondo delle persone che non credono più a niente.

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Lui è qui. Pagine scelte, Rizzoli, 2009

Lui è qui. Pagine scelte

Il mondo delle persone che non credono più a niente

a cura di Salvatore Bravo

SONO NELLA STANZA ACCANTO

 

 

L’amore non svanisce mai.
La morte non è niente, io sono solo andato nella stanza accanto.
Io sono io.
Voi siete voi.
Ciò che ero per voi lo sono sempre.
Datemi il nome che mi avete sempre dato.
Parlatemi come mi avete sempre parlato.   

Non usate un tono diverso.
Non abbiate un’aria solenne o triste.
Continuate a ridere di ciò che ci faceva ridere insieme.
Sorridete, pensate a me, pregate per me.
Che il mio nome sia pronunciato in casa come lo è sempre stato,
senza alcuna enfasi, senza alcuna ombra di tristezza.
La vita ha il significato di sempre.
Il filo non si è spezzato.
Perchè dovrei essere fuori dai vostri pensieri?
Semplicemente perchè sono fuori dalla vostra vista?
Io non sono lontano,
sono solo dall’altro lato del cammino.

 

 

Charles Péguy

 

 

Charles Peguy in un dipinto di Jean-Pierre Laurens

Charles Peguy in un dipinto di Jean-Pierre Laurens

 

 

L’indifferenza è la riduzione di tutto a denaro.

La dimenticanza consiste nell’incapacità di vivere la cultura come parte integrante dell’esistenza, come impegno quotidiano.

Il logorio del nichilismo economico sfregia l’umanità.

 Péguy racconta e denuncia il deserto crematistico che avanza.

Péguy denuncia il denaro come unica legge sociale riconosciuta.

La resistenza deve elaborare nuovi modelli di lotta mediati dalla lucida lettura della condizione attuale.

Charles Péguy (1873-1914) testimonia l’irriducibilità dei pensatori ad ogni tassonomia. Ha vissuto sulla soglia, sempre sul limitare, non ha mai voluto essere parte organica di un sistema, di un partito, di un’ideologia. Libertario per formazione e natura fino all’anarchia, la sua giovane vita ha attraversato la stagione del dubbio per giungere ad una spiritualità libera. La fede di Péguy non ha nulla di clericale, vi ha aderito dopo un lungo viaggio interiore. Homo viator e viandante, Peguy nella sua opera e nella sua vita ha posto il problema ontologico. Ogni soluzione facile o individualistica gli è sempre apparsa come negazione della natura umana la quale è espressa in modo completo solo nella relazione. La trinità e la relazione che ne è consustanziale ha nella comunità il suo riflesso speculare. La conversione è stata una scelta radicale in nome di un insopprimibile bisogno ontologico di relazione che si concretizza in senso orizzontale e verticale. L’essere umano reca con sé un’insoddisfazione ontologica, una mancanza d’essere che mentre lo tormenta e lo chiama alla soluzione del problema lo umanizza, lo trasforma gradualmente in un essere sempre più completo, in cui l’esistenza con la sua apertura all’essere, è il passaggio obbligato per trascendere ogni individualismo materialistico. La sua biografia è intessuta di solitudine, lotta e ripensamenti. Se una vita degna di essere vissuta è una vita dedicata alla ricerca la sua lo è stata pienamente. Visse da straniero, da pellegrino nella sua comunità, o meglio da esiliato. Constatava che ogni ideologia o istituzione è logorata da un grande male: l’indifferenza. Il male che ha incontrato, e che noi anche più fortemente viviamo, è l’assoluta dimenticanza dell’altro come di ogni grande tradizione storica e filosofica. La dimenticanza consiste nell’incapacità di vivere la cultura come parte integrante dell’esistenza, come impegno quotidiano. Il nichilismo invece è il trionfo della ragione strumentale: tutto è mezzo per l’affermazione di sé, e specialmente per ottenere denaro in nome di un narcisismo primario. L’irrilevanza, come direbbe Costanzo Preve, è la pratica del nichilismo. Péguy si confrontò con tale pratica. L’indifferenza è la riduzione di tutto a denaro. Il nichilismo contemporaneo ha perso la nobiltà del nichilismo filosofico o letterario tradizionale per divenire indifferenza verso prossimo, strumentalizzazione di ogni ente in vista del plusvalore. L’aspetto che gli mordeva era constatare quotidianamente in ogni ambito, la presenza pervasiva di tale logica che reifica ogni relazione compresa la duale relazione che ciascun essere umano ha con se stesso. Il logorio del nichilismo economico sfregia l’umanità al punto da indurla alla dimenticanza del prossimo come della tradizione in cui si è radicati. La persona con il suo mistero è sostituita dall’individuo, atomo calcolante. L’essere umano come algoritmo. La relazione e la comunità non consistono semplicemente in relazioni concrete da vivere nello spazio e nel tempo che condividiamo con gli altri, ma anche con l’invisibile regno dei pensatori e dell’umanità che ci hanno preceduti. L’indifferenza nichilistica si allarga nello spazio e nel tempo fino a ridurre l’essere umano a semplice presenza spaziale. L’indifferenza della contemporaneità è un’inquietante presenza assolutamente nuova, mai apparsa nella storia. Indifferenza in odore di mutazione antropologica:

«Subito dopo di noi comincia il mondo che noi abbiamo chiamato e continueremo a chiamare il mondo moderno. Il mondo che fa il furbo. Il mondo delle persone intelligenti, progredite, scaltrite, delle persone che la sanno lunga, alle quali non si può darla ad intendere. Il mondo di quelli che non hanno più niente da imparare. Di quelli che fanno i furbi. Che non si fanno imbrogliare, che non sono degli stupidi. Come noi. Vale a dire: il mondo delle persone che non credono più a niente, neppure all’ateismo, che non si danno, non si sacrificano mai. Precisamente: il mondo di quelli che non hanno una mistica. E se ne vantano. Non bisogna ingannarsi, e non è il caso di rallegrarsi né da una parte né dall’altra. […] La medesima incredulità, l’identica incredulità colpisce gli idoli e Dio, colpisce insieme i falsi dei e il vero Dio, gli dei antichi e il Dio nuovo, i vecchi dei e il Dio dei cristiani. La medesima sterilità inaridisce la città e la cristianità. La città degli uomini e la città di Dio. E questa è la sterilità moderna. Nessuno dunque si rallegri della disgrazia che colpisce il nemico, l’avversario, il vicino. Perché la stessa disgrazia, la stessa sterilità colpisce lui pure. Come mille volte ho ripetuto nei miei Cahiers, anche quando non erano ancora letti, la questione non è fra Repubblica e Monarchia, fra Repubblica e Regalità, soprattutto considerandole come forme politiche, come due forme politiche opposte, non è neppure fra il vecchio  e il nuovo regime francese, ma è nel fatto che il mondo moderno si oppone non solo al vecchio regime francese, ma ad ogni cultura precedente, ad ogni regime precedente, a ogni società precedente, alla cultura insomma e alla società. È infatti la prima volta nella storia        del mondo che un mondo intero vive e prospera, sembra prosperare contro ogni cultura».[1]

Il mondo dei furbi, degli scaltri è il mondo in cui la linea tra amici e nemici, tra militanti di ideologie diverse vien meno, poiché la sostanza nichilistica è comune a tutti. Possiamo intendere la soluzione di Péguy: l’indifferenza, il fanatismo del denaro alberga ovunque, per cui la lotta va praticata contro il sistema in generale. Dinanzi ad un fenomeno assoluto come il nichilismo economico, è necessario trovare nuove forme di lotta. Le lotte tradizionali appaiono inadeguate, perché l’inverno dello spirito alberga ovunque, per cui i singoli soggetti devono prendere atto della condizione storica e condurre una lotta titanica. Peguy non lotta solo non adeguandosi al sistema del denaro, ma lontano dalle logiche crematistiche pubbliche ed accademiche, racconta e denuncia il deserto crematistico che avanza. Le sue opere sono come messaggi in bottiglia, si spera che altri accolgano le parole per farne carne e sangue per la resistenza attiva. Il denaro sostanza del mondo separa senza appello. I ricchi ed i poveri paiono appartenere a mondi assolutamente diversi, più nulla li unisce perché ciò che conta è possedere denaro o non possederlo. Ricchi e poveri si confrontano senza possibilità di compromesso. L’umanità è misurata sul denaro. Gli esseri umani sono così resi stranieri gli uni agli altri:

«Nel mondo moderno, come ho dimostrato tante volte in questi stessi cahiers, non esiste, non regge, non conta alcun potere accanto al potere del denaro, non esiste, non regge, non conta alcuna distinzione in confronto all’abisso che separa i ricchi e i poveri, e queste due classi, malgrado le apparenze e malgrado il gergo politico e i paroloni di solidarietà, si ignorano come mai nel passato si sono ignorate. In modo infinitamente diverso, infinitamente più grave s’ignorano e misconoscono. Sotto le apparenze del gergo politico parlamentare c’è un abisso fra di esse, un abisso di ignoranza e di incomprensione, un abisso di non comunicazione. L’ultimo dei servi apparteneva alla stessa cristianità del re. Oggi non c’è più città. Il mondo ricco e il mondo povero vivono, mostrano di vivere, come due masse, come due strati orizzontali separati da un vuoto, da un abisso di incomunicazione. Il denaro è tutto, domina tutto nel mondo moderno, a tal punto, così completamente, così totalmente, che la separazione sociale orizzontale fra ricchi e poveri è divenuta infinitamente più grave, più radicale, più assoluta della separazione verticale di razza fra ebrei e cristiani. La durezza del mondo moderno riguardo ai poveri, contro i poveri, è divenuta così totale, così spaventosa, così empia sia riguardo agli uni che riguardo agli altri, sia contro gli uni che contro gli altri».[2]

Péguy irrompe nella contemporaneità, malgrado la rimozione dell’autore, denunciando l’attacco antropologico che il nichilismo economicistico sta operando: il denaro come unica legge sociale riconosciuta. Dinanzi alla normalizzazione della nientificazione sono necessarie nuove forme di lotta, nuove strategie. Gli intellettuali, come gli uomini di buona volontà, sono chiamati ad elaborare nuove dialettiche organiche alle mutazioni in opera, prima che l’irrimediabile si realizzi. La condizione attuale è l’umanità ridotta a massa: Péguy palesa che la lotta è tra masse disposte in senso orizzontale, ovvero è il denaro nella sua presenza o assenza a determinare la posizione delle masse divise lungo l’orizzonte specifico del denaro. Quindi tutti non credono più a niente, ogni nucleo della massa ambisce al possesso del denaro. Non vi sono differenze ideologiche. La lotta deve tener conto della mutazione avvenuta, nessuno crede a più a nulla, tutti vogliono ed esigono gli stessi obiettivi. Solo in tal modo è possibile comprendere le motivazioni per cui si tollera l’intollerabile ovvero: corruzione, violenza, collasso delle istituzioni e smantellamento dei diritti sociali. La condizione di “plebe” non è identificabile con una particolare fascia sociale, ma è trasversale. La plebe è l’assenza di consapevolezza assoluta, è l’orizzonte che si restringe ad una banconota, per cui, si è disponibili a sacrificare se stessi, la propria comunità, la propria storia, il paesaggio, in nome di una banconota in più. La plebe è l’intera popolazione, perché ha perso la coscienza di sé. La resistenza deve elaborare nuovi modelli di lotta mediati dalla lucida lettura della condizione attuale. È necessario prendere atto che stiamo assistendo ad una “Rivoluzione copernicana”, stiamo vivendo una nuova fase del nichilismo, in quanto in assenza di differenze, non è possibile distinguere, discernere l’evento storico in cui siamo. Il nichilismo come quotidiano, normalità, non è il nichilismo tradizionale che fungeva da critica sociale, ma la tragedia che nel tempo vissuto di ciascuno prende forma senza riuscire a capirla, ad identificarla. Non si può iniziale la trasformazione dalla presa d’atto dell’ospite inquietante, il nichilismo, ma che non inquieta, anzi è difeso in nome di una libertà assoluta e violenta. In ogni istituzione, luogo e canale comunicativo risuonano le nuove parole d’ordine: competizione e PIL. A tali parole non vi è risposta, o meglio, ci si adatta senza mediazione, a prescindere dalla posizione che si occupa nella catena produttiva. Ricominciare a pensare tali parole è il primo dovere di ogni resistenza al deserto che avanza.

Salvatore Bravo

[1] Charles Péguy, Lui è qui, Rizzoli, Milano, 1997, pag. 96.

[2] Ibidem, pp. 102-103.

 

 



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Giulio A. Lucchetta – La salvezza della città. Ethos e logos in democrazia. Tornare a credere nell’educazione e nella crescita culturale dei “cittadini” è l’unica premessa possibile all’esercizio della “buona politica”

La salvezza della città

La salvezza della città

Tornare a credere nell’educazione e nella crescita culturale dei “cittadini” è l’unica premessa possibile all’esercizio della “buona politica”: in questo senso, collante dell’intero lavoro che qui proponiamo sono i temi del linguaggio, della razionalità, dell’ethos, dell’ideale di una cittadinanza consapevole e “attiva” che ha il proprio modello di riferimento nella “città”.

Giulio LucchettaMaurizio De Innocentiis, La salvezza della città. Ethos e logos in democrazia, Carabba, 2012.



Altri libri di Giulio Lucchetta
La natura della sfera

La natura della sfera

La natura e la sfera. La scienza antica e le sue metafore nella critica di Razi

Milella, 1988

Il trattato sulla Metafisica del medico-filosofo persiano Abu Bakr Mahammad ibn Zakariyya’ al Razi (IX-X sec.) è un testo enciclopedico interamente dedicato alle dottrine naturalistiche dell’antichità. Partendo da questo ultimo approdo della traduzione del pensiero scientifico antico, l’autore di questo saggio, Giulio Lucchetta, studioso di filosofia antica, ripercorre a ritroso, operando il rinvenimento delle fonti ora esplicite ora implicite, la scia lasciata da alcune forme tipiche del sapere greco nell’attraversare l’età ellenistica e tardo-antica. Proprio il trattato di Razi in questione offre la possibilità di una incursione nelle tradizioni metaforiche della scienza di quelle età, attento com’è a rilevare le aprioristiche distinzioni e le pratiche analogiche da queste assunte per produrre leggi e previsioni. Così quella di Razi si presenta come una riflessione critica, forse epistemologica, sulle capacità di cogliere e raffigurare la realtà attraverso strategie linguistiche, più che sperimentali messe a punto dal sapere scientifico dell’antichità nella sua ricca seppur breve evoluzione.

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Scienza e retorica in Aristotele. Sulle radici omeriche delle metafore aristoteliche

il Mulino, 1990

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Le ragioni di Odisseo

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Le ragioni di Odisseo Pensiero,
azione e argomentazione nelle forme narrative dell’Odissea

Métis Editrice, 1996

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Sotto il segno di Boezio

Sotto il segno di Boezio

Sotto il segno di Boezio.
Memoria, tempo, sogno, scrittura e confronto dall’intellettualità

Troilo Editore, Bomba, 2001

 

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Allegoria. L'età classica

Allegoria. L’età classica

Allegoria. Vol. I. L’età classica

Autori: Giulio Lucchetta, Ilaria Ramelli

Vita e pensiero, 2004

 

L’allegoria come tentativo di razionalizzare la mitologia e, di conseguenza, la religione ebbe grande diffusione in Grecia fino dalle età più remote. Con l’avvento della filosofia essa assunse via via maggiore profondità e una più coerente strutturazione: l’allegoria divenne così allegoresi. è soprattutto a partire da questa trasformazione che Giulio Lucchetta e Ilaria Ramelli intraprendono la paziente e meticolosa ricostruzione della storia dell’allegoresi nel periodo classico (fino al I-II secolo d.C.) facendo emergere due principali linee di tendenza, rispettivamente a carattere stoico e aristotelico. La prima linea risulta senza dubbio predominante, al punto da poter affermare che l’allegoresi fu ‘una creazione degli Stoici’ e assunse da loro la varia e specifica terminologia che venne poi trasmessa a tutti gli allegoristi.
Questo libro costituisce un fondamentale strumento di ricerca sul tema dei rapporti fra religione e filosofia e sui complessi sviluppi della teologia greca; esso inaugura una serie di tre volumi che, avvalendosi del contributo di numerosi studiosi, intende coprire tutta la storia dell’allegoria antica: dall’allegoria classica (vol. I), a quella giudaico-alessandrina (vol. II), fino all’allegoria tardo-pagana e proto-cristiana (vol. III).

 

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Mente, anima e corpo nel mondo antico. Immagini e funzioni

Mente, anima e corpo nel mondo antico. Immagini e funzioni

 

Mente, anima e corpo nel mondo antico. Immagini e funzioni

Autori: Giulio Lucchetta, Ugo La Palombara
Opera Editrice, 2006

 

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Metafisica I. La sophia degli antichi. Volume II, linguaggio, mito, metafora in Aristotele

Metafisica I. La sophia degli antichi. Volume II, linguaggio, mito, metafora in Aristotele

 

Metafisica 1. La sophia degli antichi.
Vol. 1: Vailati traduce Aristotele.

Carabba, 2009

 

Questo volume inaugura la collana “Nuove prospettive sulla cultura dell’anima”, una serie di studi sui titoli, i traduttori, i curatori e i commentatori della collana “Cultura dell’anima” diretta da Papini dal 1909 al 1938 e che la Carabba ha iniziato a ristampare in anastatica dal maggio 2008 e che conta oggi già 60 titoli disponibili. Questo primo lavoro prende spunto dal numero 1 “Il primo libro della metafisica di Aristotele” tradotto e commentato da G. Vailati.

 

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Metafisica I. La sophia degli antichi. Volume II, linguaggio, mito, metafora in Aristotele

Metafisica I. La sophia degli antichi. Volume II, linguaggio, mito, metafora in Aristotele

 

Metafisica I. La sophia degli antichi.
Vol. 2: Linguaggio, mito, metafora in Aristotele.

Carabba, 2010

Con questo secondo volume Giulio Lucchetta termina il commento al numero 1 “Il primo libro della metafisica di Aristotele” tradotto e commentato da G. Vailati.

 

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Shoah e schiavitù

Shoah e schiavitù

 

Shoah e schiavitù. Storie di antica disuguaglianza e di rinnovati colonialismi

Carabba, 2011

Nel porre in parallelo le storie di sfruttamento schiavistico nel Congo per il reperimento di avorio e quelle nei lager per la produzione della gomma sintetica, Finkelstein suggerisce l’ipotesi che quanto si tentò di realizzare sotto il Nazismo non sia altro che una riproposta, nel Continente Europeo, del modo di produzione schiavistico realizzato in Età Moderna a scapito delle popolazioni indigene del Nuovo Mondo e, su più larga scala, in Africa durante il Colonialismo. D’altronde che il Vecchio Continente si fosse ormai assuefatto al modo eurocentrico di considerare altri popoli e altre etnie in funzione del mantenimento del proprio alto tenore di vita, ne dava prova lo sguardo non ancora ideologico di Conrad. Si trattava di poter costruire all’alba del Novecento un “altro da noi” di cui disporre dentro le pareti di casa: si interrogò l’ambiente scientifico alla ricerca di un avallo in tal senso e dagli antropobiologi fu posto in essere il concetto di “razza”. Anche in Italia, in ragione della promulgazione delle leggi razziali, non mancarono casi eclatanti di collusione tra Accademia e Regime, di cui si dà testimonianza. Risulta rilevante il ruolo ispiratore assunto da I Protocolli dei “Savi anziani” di Sion data la totale assenza di riscontri biologici, al punto che con modalità parascientifiche ci si spinse a rintracciare i contorni decisi della “razza” nell’ereditarietà di atteggiamenti psicologici. Ma il futuro sul quale già da allora ci eravamo incamminati non sembra meglio del nostro passato: sul filo dei processi di deculturazione rilevati da Latouche è possibile cogliere drammatiche analogie tra il testo dei Protocolli e quanto prospettato da Bradbury in Fahrenheit 451, come linee guida che all’interno del Mercato rendano inevitabile un generale destino da sfruttati. Il retroterra classicistico dell’Autore, infine, offre termini di paragone per cogliere le profonde differenze di questa rinnovata schiavitù che, in quanto rispecchiamento dei processi di produzione capitalistica, è in grado di parlarci delle differenti finalità perseguite dalle diverse forme di organizzazione e di subordinazione sociale.

 

***

 

2012 La salvezza della città

 La salvezza della città

La salvezza della città. Ethos e logos in democrazia

Autori: Giulio LucchettaMaurizio De Innocentiis

Carabba, 2012

Tornare a credere nell’educazione e nella crescita culturale dei “cittadini” è l’unica premessa possibile all’esercizio della “buona politica”: in questo senso, collante dell’intero lavoro che qui proponiamo sono i temi del linguaggio, della razionalità, dell’ethos, dell’ideale di una cittadinanza consapevole e “attiva” che ha il proprio modello di riferimento nella “città”.

 

***

 

Tuphlòs perì chromáton.
Parlare di natura a partire dal movimento: cause e privazione (Phys. I e II)

RIVISTA DI FILOSOFIA NEO-SCOLASTICA – 2015 – 4

Vita e Pensiero, 2015

According to Wieland and Düring, a narrow interpretation of the doctrine of four causes may engender a misunderstanding of Aristotleʼs theory of nature. Talking about nature we have to determine natural movements: for that, as Heidegger said, it needs to use potency in order to avoid the opposition between absolute being and not-being; but it is also necessary a large notion of accident. Then it should be crucial the role of privation, as contrary of matter or of form.

 

Rivista di Filosofia neo-scolastica

Rivista di Filosofia neo-scolastica


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María Zambrano (1904-1991) – La vita ha bisogno di rivelarsi, di esprimersi: se la ragione si allontana troppo, la lascia sola, se assume i suoi caratteri, la soffoca.

Maria Zambrano 027
La confessione come genere letterario01

La confessione come genere letterario

«La vita ha bisogno di rivelarsi, di esprimersi: se la ragione si allontana troppo, la lascia sola, se assume i suoi caratteri, la soffoca. Si tratta quindi di trovare il punto di contatto tra la vita e la verità: e tale punto di contatto si ottiene grazie a un’operazione della vita stessa, qualcosa che avviene al suo interno».

 

Maria Zambrano, La confessione come genere letterario (1943), tr. it. Bruno Mondadori, Milano, 1997, p. 45.

 

 

La confessione come genere letterario

La confessione come genere letterario


Maria Zambrano – La virtù della delicatezza
Maria Zambrano (1904-1991) – Il silenzio che accoglie la parola assoluta del pensiero umano diventa il dialogo silenzioso dell’anima con se stessa.
Maria Zambrano (1904-1991) – Saper guardare un’icona significa liberarne l’essenza, portarla alla nostra vita
María Zambrano (1904-1991 – Il punto dolente della cultura moderna è la sua mancanza di trasformazione della conoscenza pura in conoscenza attiva, che possa alimentare la vita dell’uomo di ciò che necessita.
María Zambrano (1904-1991) – L’amore è l’elemento della trascendenza umana. Originariamente fecondo, quindi, se persiste, creatore di luce, di vita, di coscienza. È l’amore a illuminare la nascita della coscienza.

 



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Giancarlo Chiariglione – Le forme informi della frontiera. Lo sguardo del cinema western sulla storia americana.

Giancarlo Chiariglione 01

 

295 ISBN

Giancarlo Chiariglione

Le forme informi della frontiera.
Lo sguardo del cinema western sulla storia americana.

indicepresentazioneautoresintesi

06 Conclusioni 01

 

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Nato come curiosità scientifica e trasformatosi ben presto in un divertimento popolare capace di influenzare mode, costumi e di creare identità, il cinema ha spesso anche riflettuto sulla storia con la S maiuscola.

Il genere western, nello specifico, non solo ha permesso di ricostruire le traumatiche vicende che hanno portato alla colonizzazione del selvaggio Ovest; ultimo ed estremo Eden (anche spirituale) del Nuovo Mondo, ma ha anche anticipato o suggerito alcune inquietanti trasformazioni della società occidentale tardo-moderna che le oligarchie al potere pretenderebbero di estendere al resto del pianeta. In questo senso, dopo che lo spazio terrestre è stato mappato, cartografato e scandagliato in ogni suo angolo e una volta che il sistema capitalista è riuscito a persuadere le masse a proposito del suo carattere fatale, le nuove frontiere diventano gli schermi del cinema, quelli delle televisioni, dei computer, dei telefoni cellulari su cui scorrono senza requie valori, simboli e immagini del nuovo mercato universale. O addirittura il corpo umano, il quale viene sempre più industrializzato grazie a scienze quali la robotica, la genetica, la bioinformatica e la nanotecnologia.

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Hollywoodland

Hollywoodland

 


Giancarlo Chiariglione

Laureato con lode in Lettere Moderne nel 2005 presso l’Università di Torino con una tesi sul cineasta e scrittore Sam Peckinpah intitolata “Il cinema di Sam Peckinpah tra la fine del mito della frontiera ed una riflessione sulla violenza e sulla società contemporanea americana”, diventata poi il saggio “Il cinema di Sam Peckinpah nell’America degli anni sessanta e settanta. Un universo di violenza e di nostalgia” edito da L’Harmattan Italia. A partire da questa pubblicazione, ha iniziato a collaborare con giornali e riviste (online e cartacee) anche piuttosto importanti. Per Heos.it, settimanale di scienza, politica e cultura della Gazzetta di Verona, ha realizzato gli articoli “Cesare Lombroso e le origini della criminologia biologica” e “Alberto La Marmora, il generale scienziato che disegnò la Sardegna”. Per il quotidiano Paneacqua (http://www.paneacqua.info/), ha scritto diversi articoli su alcune manifestazioni culturali e artistiche torinesi di grande interesse. Per la rivista Slavia, ha scritto il saggio “Stanislavskij, Mejerchol’d e Vachtangov: l’altra rivoluzione russa” (ripreso dalla nota rivista Teatro di Nessuno che di recente ha pubblicato anche il saggio “L’opera di Tatiana Pavlova al crocevia delle trasformazioni teatrali italiane del primo Novecento”). L’approfondimento di tematiche socio-politiche ed economiche attraverso la settima arte è infine proseguito con la testata giornalistica Cabiria (www.cabiriamagazine.it/) e con la rivista Persinsala (www.persinsala.it/) che ha pubblicato scritti come “Sidney Lumet, il regista della coscienza americana”, “La rivoluzione di Gillo Pontecorvo”, “Alle radici del cinema politico italiano: Il caso Rosi” e “Grillo, Coluche e il potere sovversivo della cultura popolare” (gli ultimi tre segnalati da Treccani.it alla voce documenti, foto e citazioni) e con Quaderni di CinemaSud, noto periodico di cultura cinematografica e politica fondato nel 1958 da Pier Paolo Pasolini. Infine, per il Prof. Eusebio Ciccotti, preside del Liceo Scientifico Statale Ettore Majorana di Roma, docente di Storia e Critica del Cinema presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Foggia e Dottore di ricerca in Letterature Comparate (Roma Tre), ha realizzato il saggio “Glengarry Glen Ross e Americani: il lato oscuro del capitalismo secondo Mamet” che ha trovato ospitalità sulle pagine del periodico Il Lettore di provincia (Vol. 139) della Angelo Longo Editore.


Giancarlo Chiariglione – La caricatura e il suo doppio ovvero: Elio Petri e i nodi del cinema politico italiano
Giancarlo Chiariglione – Vincitori e vinti. Il cinema e la rappresentazione degli italiani nei due conflitti mondiali.
Alessandro Alfieri – Dal simulacro alla Storia. Estetica ed etica in Quentin Tarantino.

“Il pensiero e il suo schermo”, filosofia e cinema per la Petite Plaisance


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Javier Heraud (1942-1963) – Non rido mai della morte. Semplicemente succede che non ho paura di morire tra uccelli e alberi. Vado a combattere per amore dei poveri della mia terra, in una pioggia di parole silenziose, in un bosco di palpiti e di speranze, con il canto dei popoli oppressi, il nuovo canto dei popoli liberi.

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Javier Heraud

Javier Heraud in una foto del periodo universitario.

 Javier Heraud

 1942 – 1963
Non rido mai della morte.
Semplicemente succede che non ho paura di morire tra uccelli e alberi.
Vado a combattere per amore dei poveri della mia terra,
in una pioggia di parole silenziose,
in un bosco di palpiti e di speranze,
con il canto dei popoli oppressi,
il nuovo canto dei popoli liberi.
 ***

a cura di Fernanda Mazzoli

 

Scarica e stampa il file PDF di 17 pagine:

Fernanda Mazzoli, Javier Heraud


 

Poesías completas y Cartas

Poesías completas y Cartas

Aveva vent’anni Javier Heraud, una borsa di studio per la cinematografia a Cuba e la consapevolezza «che la poesia è un lavoro difficile / dove si perde o si vince / al ritmo degli anni autunnali»[1]. Gli scaturiva copiosa dalle mani nelle notti passate a scrivere, come un fiore lasciato cadere a terra, ma sapeva che il tempo l’avrebbe costretto ad impastare «parole silenziose» e «fuochi fulminei» in un paziente «lavoro da vasaio». Non gliene lasciarono il tempo: rientrato in patria nel 1963 come componente dell’Esercito di liberazione popolare, fu ucciso dalla polizia mentre cercava di penetrare in territorio peruviano, seguendo il corso del Madre de Dios, un fiume che attraversa la foresta alla frontiera tra Bolivia e Perù.

 

Poèsias completas

Poèsias completas

Ventun’anni, due raccolte poetiche, gli studi letterari e, poi, cinematografia all’Avana, un viaggio a Mosca, invitato al Forum Internazionale della gioventù, e un soggiorno a Parigi, studente all’Alliance française:[2] la breve vita di Javier Heraud sta racchiusa in poche righe che ci consegnano il mistero della sua inaspettata e tragica morte.

Legge una sua poesia a18 anni

Legge una sua poesia a18 anni.

 

All' Alliance française

All’Alliance française.

 

Il padre, accorso incredulo da Lima a Puerto Maldonado, la cittadina di frontiera dove fu portato il corpo del giovane poeta, sapeva che il figlio «era seriamente impegnato nella ricerca di una vita utile e di creazione», ma ignorava che pensasse ad altro che studiare cinematografia.

 

Con il padre, ad una premiazione scolastica

Con il padre, ad una premiazione scolastica

 

Difficile delineare con precisione quei giorni convulsi intorno al 15 maggio 1963: tante le contraddizioni che emergono dai rapporti ufficiali e dalle ricostruzioni giornalistiche. Sembra che Heraud sia rientrato in Perù con un gruppo di altri sette studenti decisi a lottare come guerriglieri dell’Ejercito de Liberacion Nacional contro il governo militare giunto al potere con un colpo di stato. Dopo avere attraversato la foresta del Madre de Dios, gli otto giovani, sfiniti dopo una giornata di marcia, sarebbero stati sorpresi dalla polizia a Puerto Maldonado, capoluogo di questa regione di fitte foreste, grandi laghi e ricchi corsi d’acqua. Alcuni di loro sarebbero riusciti a scappare, Javier e un altro avrebbero cercato scampo nel fiume dove un generoso barcaiolo li avrebbe accolti sulla sua imbarcazione, una canoa di tronco d’albero. Inseguiti dalle lance della polizia e coinvolti in una sparatoria, i tre finirono crivellati di colpi, dopo avere alzato bandiera bianca in segno di resa.

Javier Heraud in un viaggio fatto nella città di Huánuco

Javier Heraud in un viaggio fatto nella città di Huánuco.

Il padre, in una lettera inviata una decina di giorni dopo l’accaduto a un giornale della capitale, dichiarò, in base ad alcune testimonianze orali raccolte sul posto, che poliziotti e civili, aizzati contro i due giovani, avevano sparato dall’alto del fiume per un’ora e mezzo con pallottole da caccia grossa, anche dopo che il compagno di Javier aveva sventolato uno straccio bianco. Sul corpo del poeta, in effetti, furono trovati trenta colpi di pallottola, fra cui alcuni di un proiettile esplosivo usato in zona per la caccia grossa.

El viaje

El viaje

Ancora più difficile ricostruire l’itinerario politico e morale che condusse, in una manciata di anni, il geniale studente, promesso ad un brillante avvenire, primo al concorso di ammissione alla facoltà di lettere della Pontificia Universidad Catolica del Perù nel 1958, vincitore nel 1960 del concorso “Giovane poeta del Perù” con la raccolta poetica El viaje, giovanissimo professore di inglese e castigliano presso l’Istituto Industriale di Lima (il più giovane insegnante che il suo Paese abbia conosciuto), a morire in un angolo sperduto della foresta equatoriale, «impotente, su una canoa di tronco d’albero, nudo e senza armi nel mezzo del fiume Madre de Dios, alla deriva, senza remi», come scrisse il padre nella sua circostanziata lettera di denuncia a La prensa di Lima.

Dovettero prendervi parte le sue naturali disposizioni, quella bontà, gentilezza e purezza d’animo, quella generosità e quel candore che familiari ed amici, fra cui Mario Varga Llosa,[3] gli riconobbero in una serie di testimonianze pubblicate dopo i tragici fatti che lo videro protagonista e che sembrano dettate tanto dall’intento di consegnarne il ricordo a quanti non ebbero il tempo di conoscerlo, quanto alla necessità tutta personale di fare i conti con quella morte assurda e imprevista. Al di là di questo tributo dell’amicizia, non restandoci di lui che qualche centinaio di versi, è lì che lo cerchiamo.

 

Ha avuto però inizio molto prima:
accadde in aprile (crudele e morbido aprile)
quando una mattina ci trovammo d’accordo.
Come finirà tutti potranno saperlo.
(Sono stufo e non finisco questa poesia).
Ma vado a combattere ed in battaglia
per amore del mio paese, dei miei paesaggi,
per amore dei poveri della mia terra,
per amore di mia madre, del suo affetto,
per amore di mio padre, della sua durezza,
per amore dei fratelli e degli amici,
per amore della vita e della morte,
per amore delle cose di tutti i giorni,
per amore dei giorni dell’autunno,
per amore dei freddi dell’inverno.

 

Il Poema especial, di cui è qui proposto solo un frammento, trova perfetta corrispondenza in una lettera scritta per la madre e lasciata all’Avana, alla moglie di un compagno, la quale avrebbe dovuto consegnargliela in caso di morte del poeta. «Voy a la guerra por la alegría, por mi patria, por el amor que te tengo, por todo en fin» («Vado in guerra per la gioia, per la mia patria, per l’amore che ho per te, per tutto, insomma»), spiega Javier alla madre, comunicandole la sua intenzione di tornare in Perù per aprirvi un fronte di guerriglia. Le scrive perché conosca tutto l’amore che nutre per la sua famiglia e per testimoniarle la sua riconoscenza per averlo cresciuto «onesto e giusto, amante della verità e della giustizia», le scrive perchè lei non soccomba al grande dolore della sua morte, ma riempia il vuoto con la gioia e la speranza di un paese cambiato, anche grazie al sacrificio del figlio. Sono le parole di un giovane uomo consapevole di avere potuto attingere alla ricchezza degli affetti familiari, alla sollecitudine di un’educazione attenta e che vuole rendersene degno, dedicando la sua vita a «servire la mia gente e il mio paese». Sono parole in cui sembra di ritrovare il tono, raramente eroico e quasi sempre intimo e dimesso, dei giovani partigiani della Resistenza italiana che si congedano dalla vita, scrivendo a casa qualche parola di conforto, di spiegazione, di rivendicazione pacata della dignità della loro scelta. Per troppo amore Javier Heraud prese le armi , un amore che lo premeva da tutte le parti e gli chiedeva un’enorme assunzione di responsabilità per rispondere alla sua vocazione universale. È una concezione religiosa della vita che il frammento ci restituisce e non tanto per la formazione cattolica del giovane poeta folgorato a Cuba da «nuovi soli di salvezza», ma per il legame viscerale, fisico con il mondo nelle sue diverse manifestazioni dove paesaggi, uomini e cose si incontrano e fondono in un sentimento unitario che chiede un impegno totale ed una risposta urgente. È sin troppo facile trasformare un ragazzo caduto da guerrigliero in un angolo remoto della foresta amazzonica in un eroe, congelato per sempre nella sua impossibile avventura.

Il Poema especial dovrebbe giustamente evitarci questa tentazione: niente di più prosaico dell’«amore delle cose di tutti i giorni», niente di più comune dell’affetto per una madre, niente di più tradizionale dell’amore per il proprio paese. È nell’intima rispondenza agli affetti radicati sin dall’infanzia che l’amore di Heraud diventa sentimento universale.

Prima della partenza per Avana.

Prima della partenza per L’Avana.

 

Si era iscritto due anni prima al Movimiento Social Progressista, di orientamento socialdemocratico, aveva preso parte alle manifestazioni contro Nixon, ma l’anno successivo se ne era andato, perché «non è sufficiente chiamarsi rivoluzionari per esserlo». Certo, l’incontro con Castro[4] a Cuba, dove aveva ottenuto una borsa di studio, poté affrettare la sua decisione, poté alimentare la sua speranza che fosse possibile rivivere sul suolo peruviano l’impresa rivoluzionaria che nell’isola caraibica aveva messo in scacco il corrotto regime di Batista e i suoi padrini statunitensi. Contingenze che giocarono sicuramente un ruolo, fornendo il momento e la forma ad un’esigenza preesistente, descritta dal padre come impegno per «una vita utile e di creazione», che traeva la propria linfa prima ancora che da una teoria rivoluzionaria da un preciso sentimento dell’esistenza, da una profonda adesione dell’io individuale alle leggi eterne della natura – le stagioni, le albe e i tramonti, l’impeto dei fiumi, il cielo solcato dai condor, la terra seminata di grano – e alle ragioni di quelli che «todo losufre», di tutto soffrono.

 

La mia casa

1

La mia stanza è una
mela,
con i suoi
libri,
con la sua
buccia,
con il suo letto
morbido per
la notte dura.
La mia è
la stanza di tutti,
vale a dire,
con il suo
lumetto che
mi permette di ridere
di fianco a Vallejo,
che mi permette di vedere
la luce eterna di
Neruda.
La mia stanza, alla
fine,
è una
mela,
con i suoi libri,
le sue carte,
con me,
con il suo
cuore.

 

2

Dalla mia finestra nasce
il sole quasi ogni
mattina.
Sulla mia faccia,
sulle mie mani,
nel dolce
clamore della pura luce,
la schiudo gli occhi alla
notte morta,
alla tenera
speranza di
un continuare a vivere
ancora un giorno,
per
aprire gli
occhi davanti alla
luce eterna.

 

La sua terra, «mi triste patria», i diseredati, Lenin, addormentato sulla Piazza Rossa, che «sorveglia la marcia del suo popolo» (Plaza Roja, 1961), ma anche i suoi libri, le sue carte riempite di versi notturni e i suoi poeti, primo tra tutti Cesar Vallejo, la cui tomba Javier Heraud visitò nel corso del suo soggiorno parigino nel 1961 e sui cui passi percorse la capitale francese, come lui attento alla vita segreta delle vie, delle statue, degli alberi .

 

 

Poesia

 

 

Ho attraversato i giardini del Lussemburgo ogni giorno.
Dovevo andare a lezione a Raspail
(ed era la strada più breve).
E in pieno autunno.
Le foglie ingiallivano a terra
e i bambini giocavano con l’acqua,
straordinarie gare con le barche.
E in pieno autunno mi sedevo
su una panchina ad aspettare Dégale,
davanti al busto di Verlaine
e qualche volta sgranocchiavo una pesca.
Le foglie cadevano e io come se niente fosse,
nei giardini del Lussemburgo, a Parigi, in autunno,
nell’ottobre del 1961.

 

Javier Heraud possedeva la facoltà eminentemente poetica di trasformare un luogo determinato in un luogo dell’anima, una circostanza contingente in un evento denso di significati che rimbalzano sul lettore, innalzandolo alla stessa esperienza. Questa trasmutazione, che realizza la magia alchemica della poesia, si avvale di una lingua nitida, luminosa, di parole semplici, quotidiane che vivono al ritmo delle «cose di tutti i giorni», alle quali sanno dare un respiro grande quanto il cuore dell’uomo, quando sa ascoltare il respiro del mondo e guardare alla vita intorno a lui con sguardo fraterno.

Una lingua precisa, fatta di nomi e di pochi, scarni aggettivi che si stagliano anche graficamente nel verso, quasi a volere abbracciare ed afferrare l’essenza delle cose .

 

 

Poesia

 

 

La valle di
Tarma è grande.
Ma più grande
è il mio cuore
quando lo guardo,
ma più vasto
è il mio petto quando
ispiro aria, e aria,
cielo e condor,
martedì e giovedì,
più grande del
fiume è l’uomo,
più grandi della
valle sono gli occhi
di tanti viandanti
intorno.

 

Quanto al suo cuore – l’unico regno cui aspirasse, il suo cuore che cantava, parlava e piangeva[5] sigillava un giuramento di fedeltà al proprio mondo interiore che si traduceva in pietà vivissima, capace di cogliere la vita – e il suo dolore – ovunque, anche nelle cose.

 

La mia casa morta

 

1

 

 

Non buttate giù la mia casa
vecchia, avevo detto.
Non buttate giù la mia casa.

 

2

Avevamo una pergola
e due porte sulla strada,
un giardino all’entrata
piccolo ma grande,
un melo che è seccato
ora per le urla
e il cemento.
Il pesco e l’arancio
erano morti da prima,
ma avevamo ancora
(come non ricordarlo!)
un albero di melagrane.
Melagrane che sbucavano
dal suo tronco,
rosse,
verdi,
l’albero si confondeva
con il muro,
e di fianco
sulla strada,
un tronco che
ogni anno
dava le more,
che in autunno riempiva
di foglie le porte
della casa.

 

3

Non buttate giù la mia vecchia casa,
avevo detto,
lasciatemi almeno
le melagrane
e le more,
le mie mele e le mie

grate.

 

5

È vero, non lo nego,
le pareti cadevano a pezzi
e le porte non chiudevano
bene.
Ma hanno ucciso la mia casa,
la mia camera da letto con la
lunga finestra mattiniera.
E non è restato niente
del melograno,
le more non
imbrattano più le mie scarpe,
del melo vedo soltanto
oggi,
un triste tronco che
piange i suoi frutti
e i suoi bambini.

 

6

Il mio cuore è rimasto
con la mia casa morta.
[…]

 

Il lungo componimento, strutturato in sei parti, registra un tono apparentemente narrativo che si fa, in realtà, malinconica e tenera evocazione di un personale paradiso perduto (per la speculazione edilizia, per l’ingresso nell’età adulta, per l’incontro di entrambi gli elementi, forse), la cui modestia è misura umanissima della sua luminosa e fuggente bellezza. Questo ragazzo che scommise tutto su un futuro radicalmente nuovo, coltivava singolarmente l’arte del ricordo, amava Proust e, durante il soggiorno in Francia, si recò in pellegrinaggio a Combray e al luogo simbolo della Recherche dedicò una poesia.

Eppure, anche fra le more e i melograni della vecchia casa , il poeta sapeva che la morte gli era compagna. E conclude:

 

[…]
è anche chiamare
un po’ più vicino la morte
(che era con me
tutti i pomeriggi
nella mia casa vecchia,
nella mia casa morta).

 

Presagio di una fine prematura o tributo di maniera a uno dei topoi più frequentati dalla letteratura? A vent’anni è lecito giocare con suggestioni romantiche e gli esempi, anche fra gli autori da lui amati, non gli mancavano certo. Eppure, il personale rapporto di questo ragazzo con la morte è segnato da una maturità che rinvia, ancora una volta, al suo sentimento della vita come piena assunzione di responsabilità e meditata accettazione di un destino voluto.

 

Elegia

 

 

Tu hai voluto riposare
in una terra morta e nell’oblio.
Credevi di poter vivere solo
nel mare e sulle montagne.
Poi hai scoperto che la vita
è solitudine fra gli uomini
e solitudine fra le valli.
I giorni che scorrevano
nel tuo petto erano soltanto indizi
di dolore tra le tue lacrime. Povero
amico. Non sapevi nulla e non piangevi nulla.

 

Non rido mai
della morte.
Semplicemente
succede che
non ho
paura
di
morire
tra
uccelli e alberi.

 

Non rido mai della morte.
Ma qualche volta ho sete
e chiedo un po’ di vita,
a volte ho sete e ogni
giorno faccio domande e, come sempre
accade, non ottengo risposte
ma una sghignazzata profonda
e nera. L’ho già detto, non ho
mai riso della morte,
ma ne conosco il bianco
volto, la tetra veste.

Non rido mai della morte.
Eppure, conosco la sua
casa bianca, conosco la sua
bianca veste, conosco
il suo umido silenzio.
È ovvio, la morte ancora
non mi ha fatto visita,
e vi domanderete: cosa
conosci, allora? Non conosco niente.
Anche questo è sicuro.
So, però, che quando
arriverà io sarò ad aspettarla,
sarò ad aspettarla in piedi
oppure seduto a colazione.
La guarderò dolcemente
(perché non si spaventi)
e siccome non ho mai riso
della sua tunica, l’accompagnerò,
solitario e solitario.

 

poesia completas

Javier, non ancora ventenne, aveva già scritto la pagina della propria morte, una morte conosciuta, accettata come una costola della propria vita. Se in filigrana si intravede un discreto gioco di rimandi con il Vallejo di Pedra negra sobre una pedra blanca («Me moriré en París con aguacero / un día del qual tengo ya el recuerdo». [Morirò a Parigi in un giorno di pioggia / un giorno che già mi ricordo]), qui il rapporto con questa morte conosciuta, invece di essere ripetizione obbligata di qualcosa che è già avvenuto è disponibilità a una presenza tanto riservata, quanto inevitabile, è amore di un destino scelto in piena consapevolezza. Vida y muerte sono un’endiadi costante del mondo poetico di Heraud («las puertas incansables de la vida, las puertas inagotables de la muerte» [le porte instancabili della vita, le porte inesauribili della morte])[6], l’una tracima nell’altra in un fluire ininterrotto che, riconoscendo la seconda come parte integrante della prima, finisce per superarne la negatività. «No deseo la victoria ni la muerte / no deseo la derrota ni la vida, / sólo deseo el árbol y su sombra, / la vida con su muerte» (non desidero la vittoria, né la morte / non desidero la sconfitta né la vita, / solamente desidero l’albero con la sua ombra, / la vita con la sua morte), confessava in una poesia che reca in esergo una breve citazione dalla Bhagavad-Gita.[7]

Il ragazzo che era pronto a morire fra uccelli e alberi (questa starordinaria premonizione ricorre per ben due volte nei suoi versi) e che seppe aspettare la morte in piedi, nel bel mezzo della foresta equatoriale, per amore del Perù e degli oppressi, ma anche di un’infanzia amata e di una casa perduta, il ragazzo che aprì con altri trenta compagni un fronte di guerriglia perché tutti potessero guardare dalle loro finestre la luce eterna e le foglie d’autunno e i cespugli di more ed esserne lieti, quel ragazzo che si buttò risolutamente nel fiume della vita e poi nel Madre de Dios, quel ragazzo sapeva che «la vita / è solitudine fra gli uomini». Recita l’epilogo della raccolta El viaje:

 

Sono soltanto
un uomo triste
che esaurisce le sue parole.

 

Finite le parole, gli restava la vita: così l’amico Sebastián Salazar Bondy provò a spiegare la decisione di Heraud di lasciare Cuba e tornare in patria per accendervi il fuoco della guerriglia. Tuttavia, a differenza del suo coetaneo Rimbaud, non prese congedo dalla poesia per sparire nella solitudine dell’Harar[8] e diventare estraneo a se stesso, continuò a misurarsi con essa, ad accoglierne «un relámpago maravilloso / una lluvia de palabras silenciosas, /un bosque de latidos y esperanzas, /el canto de los pueblos oprimidos, / el nuevo canto de los pueblos liberados» («un lampo meraviglioso, / una pioggia di parole silenziose, / un bosco di palpiti e di speranze, / il canto dei popoli oppressi, / il nuovo canto dei popoli liberi»).[9] Credeva fermamente, con tutta la forza di un animo generoso, puro e retto, che la poesia dovesse essere un’arma di liberazione e la naturale forma di espressione dell’uomo liberato e riteneva che il suo preciso dovere fosse di servire incondizionatamente questa esigenza di emancipazione che si poneva all’incrocio di un breve, ma intenso percorso politico, intellettuale ed esistenziale.

Così, «armados con palabras y fusilos, / armados con ansias nuevas» («armati di parole e fucili, / armati di ansie nuove»),[10] fece la sua scelta, di poeta, di uomo, di militante, che dalla consapevolezza di vago sapore romantico della propria ineliminabile solitudine giunge alla precoce maturità di una scelta di vita estrema che affonda le proprie radici in un sentimento di ritrovata fraternità umana.

Il gruppo di incauti ed inesperti guerriglieri (malgrado un periodo di addestramento a circa 2.000 metri di altitudine sul Monte Turquinio)[11] se ne andò «a la alegría», a portare felicità al popolo peruviano costretto al silenzio, ai «sus tristos niños», alle «sus calles despobladas de alegría»[12] («ai suoi tristi bambini, alle sue strade senza gioia»), partì a rifare il mondo, insomma, più che a lottare contro il governo golpista.

E Javier ritrovò, per il suo ultimo viaggio, uno scenario ben familiare al suo mondo poetico: un ancho río, un gran fiume.

 

 

El río, di Javier Heraud. Editorial Peisa

El río, di Javier Heraud. Editorial Peisa

 

 

La sua vivace immaginazione ne aveva già percorso i meandri impetuosi dalla sorgente alla foce in una lunga composizione, El río – recante in epigrafe un verso dell’amato poeta spagnolo Antonio Machado («la vida baja como un ancho río» [«la vita scende come un ampio fiume»]) – che, ancora adolescente, lo aveva consacrato poeta.

Nell’ultima stanza, l’irruente ed imprevedibile fiume giunge alla fine di un viaggio che lo ha portato a scendere per monti e valli, ad attraversare campi, pascoli e città, ora benevolo, ora distruttivo, sempre maestoso e sovranamente indifferente.

 

Verrà il tempo
in cui dovrò
sboccare
sull’oceano,
mescolare le mie
limpide acque con le sue
acque torbide,
che dovrò
zittire il mio canto
luminoso,
che dovrò far tacere
le mie grida furiose,
all’alba di tutti i giorni,
che schiarirò i miei occhi
con il mare.
Verrà il giorno,
e nei mari immensi
non vedrò più i miei campi
fertili,
non vedrò i miei alberi
verdi,
il mio vento intorno
il mio cielo chiaro,
il mio lago scuro,
il mio sole,
le mie nubi,
non vedrò nulla,
nulla,
unicamente il
cielo azzurro,
immenso,
e
tutto si dissolverà in
una pianura d’acqua,
dove non saranno canti o poesie,
solo piccoli fiumi che scendono,
fiumi abbondanti che scendono a unirsi
nelle mie nuove acque luminose,
acque
spente.

 

 

Sul Madre de Dios, il grande fiume amazzonico, la vita e la morte incrociarono i loro passi per l’ultima volta per Javier Heraud, enfant prodige della poesia peruviana, vincitore di svariati concorsi scolastici, insegnante più giovane del Perù, figlio amatissimo di una famiglia della borghesia di Lima, guerrigliero per amore della pienezza della vita. Tacitato il suo canto, messo fuori uso il suo povero fucile con cui sperava di «abrir nuevos soles salvadores» («aprire la strada a nuovi soli di salvezza»)[13] ai più diseredati, attorno a lui si confusero l’azzurro del cielo e l’azzurro delle acque e gli alberi e gli uccelli.

… alla fine morirò
in una sera qualsiasi
fra uccelli
e alberi.

(da Recuento del año, 1961)

 

suo manoscritto

Suo manoscritto.

 

La tomba del poeta a Puerto Maldonado, Perù, frontirta con la Bolivia

La tomba del poeta a Puerto Maldonado, Perù, frontiera con la Bolivia


Le traduzioni sono a cura di Julia Maciel, salvo quella di El río.

 

Bibliografia:

 

  1. Dalton, J. Heraud, F. Urondo, Tre poeti assassinati, 1978, Vallecchi, Firenze, a cura di Julia Maciel; a quanto mi risulta, sola traccia lasciata nell’editoria italiana da Heraud, del quale si propongono e traducono solo alcune poesie.
tre poeti assassinati

Tre poeti assassinati.

El río (di cui ho presentato solo la parte finale, perché è piuttosto lungo) è nella traduzione di Franco Sotgiu (ambientalista e micologo), che ho leggermente rimaneggiato: francosotgiu.1.blogspot.com/2012/10/javier-heraud-il-poeta-guerrigliero.html

Tutte le altre citazioni provengono da sue poesie /lettere non tradotte in italiano e trovate su: https: //www.marxists.org/espanol/heraud//poemarios/index.htm,

  1. Heraud, Poesías completas y Cartes, Biblioteca peruana, 1976, consultabile in rete.

 

 

Cecilia Heraud Pérez, Entre los rios01a

Cecilia Heraud Pérez [sorella del poeta], Entre los rios.


 

[1] Javier Heraud così scrive nella poesia Arte poética, 1962; in Id., Poesía completa, Lima, Peisa, 1989:

En verdad, en verdad hablando,
la poesía es un trabajo difícil
que se pierde o se gana
al compás de los años otoñales.

(Cuando uno es joven
y las flores que caen no se recogen
uno escribe y escribe entre las noches,
y a veces se llenan cientos y cientos
de cuartillas inservibles.
Uno puede alardear y decir
“yo escribo y no corrijo,
los poemas salen de mi mano
como la primavera que derrumbaron
los viejos cipreses de mi calle”)
Pero conforme pasa el tiempo
y los años se filtran entre las sienes,
la poesía se va haciendo
trabajo de alfarero,
arcilla que se cuece entre las manos,
arcilla que moldean fuegos rápidos.

Y la poesía es
un relámpago maravilloso,
una lluvia de palabras silenciosas,
un bosque de latidos y esperanzas,
el canto de los pueblos oprimidos,
el nuevo canto de los pueblos liberados.

Y la poesía es entonces,
el amor, la muerte,
la redención del hombre.

Madrid, 1961 – La Habana, 1962

[2] L’Alliance française è un ente privato che ha uno statuto simile a quello di un’associazione. La sua missione è di promuovere la lingua francese e le culture francofone all’estero, attraverso una fitta rete di sedi.

[3] Cfr., Mario Vargas Llosa entrevista a Javier Heraud. Fuente: Entrevista realizada en Radiodifussion-Télévision Française. París, 1 de setiembre de 1961. http://copypasteilustrado.com/2014/03/22/mario-vargas-llosa-javier-heraud-entrevista-poesia-paris-radio/ [http://www.librosperuanos.com/autores/articulo/00000002323/Mario-Vargas-Llosa-entrevista-a-Javier-Heraud].

[4] Dopo l’incontro con Fidel Castro, «l’uomo della rivoluzione, semplice, normale e cordiale», scrive: «vi a Fidel de piedra movediza escuché su voz de furia / incontenible hacia los enemigos. Y recordé mi triste patria, mi pueblo / amordazado, sus tristes niños, sus calles despobladas de alegría [«Ho visto Fidel, dalle sabbie mobili, ho sentito la sua voce di rabbia incontenibile verso i nemici. E ho ricordato la mia triste patria, il mio popolo imbavagliato, i tristi bambini, le loro strade spopolate di gioia]».

[5] «mi unico reino es mi corazón cantando, / …es mi corazón hablando, / mi corazón llorado» (Khrisna o los deseos).

[6] Las llaves de la muerte (Le chiavi della morte).

[7] Khrisna o los deseos (Khrisna o i desideri).

[8] Harar, l’ultimo rifugio di Arthur Rimbaud, il luogo da dove sognava di tornare «con membra di ferro, la pelle scura, l’occhio furente» e da cui invece ripartì in fin di vita su «una barella coperta da una tenda», è una remota cittadina sull’altopiano etiopico che sovrasta i deserti dell’Ogaden e della Dancalia.

[9] Arte poética.

[10] Poema especial.

[11] Il Pico Turquino, 1.974 metri, è il punto più alto di Cuba, nel cuore della Sierra Maestra.

[12] Explicacion.

[13] Poema especial.


Fernanda Mazzoli – Intorno alla scuola si gioca una partita decisiva che è quella della società futura che abbiamo in mente. La scuola può riservarsi un ruolo attivo, oppure scegliere la capitolazione di fronte al modello sociale neoliberista.
Fernanda Mazzoli – Alcune considerazioni intorno al libro «L’AGONIA DELLA SCUOLA ITALIANA» di Massimo Bontempelli
Farnanda Mazzoli – Il libro «No alla globalizzazione dell’indifferenza» di Giancarlo Paciello. Un’agguerrita strumentazione intellettuale capace di affrontare e dissolvere le nebbie ideologiche. Rivendicazione di un «universalismo universale» fondato su una comune natura umana. Rivendicazione di una «ecologia integrale». Defatalizzazione del mito del progresso.
Fernanda Mazzoli – Una voce poetica dimenticata: Isaak Ėmmanuilovič Babel’. Fondare la rivoluzione sull’anima umana, sulla sua aspirazione al bene, alla verità, al pieno dispiegarsi delle sue facoltà. La rivoluzione non può negare la spiritualità, l’esperienza interiore dell’uomo, i suoi fondamenti morali.
Fernanda Mazzoli, César Vallejo (1892-1938) – Occorre spezzare la barriera secolare che esiste fra l’intelligenza e il popolo, fra lo spirito e la materia, e ciò deve avvenire orizzontalmente, non verticalmente, cioè spalla contro spalla.


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Aldo Giorgio Gargani (1933-2009) – Noi abbiamo una nascita che è determinata dall’atto di procreazione. Ma poi c’è la nascita che noi ci diamo a noi stessi. La realtà dell’essere nostro deve essere raggiunta attraverso un processo mediante il quale bisogna reinventarsi per mezzo della scrittura per diventare alla fine quello che si è.

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Il testo del tempo

Il testo del tempo

«Noi abbiamo una nascita che è determinata dall’atto di procreazione dei nostri genitori, e che è poi modellata dalle autorità parentali, famigliari, sociali, culturali e da tutte queste istanze noi siamo resi di colpo responsabili senza per così dire averlo richiesto. Ma poi c’è una nuova nascita, che non è quelle recepita dall’esterno e che è precisamente la nascita che noi ci diamo a noi stessi raccontando la nostra storia, ridefinendola con la nostra scrittura che stabilisce il nuovo stile secondo il quale noi esigiamo di essere compresi dagli altri. […] La realtà dell’essere nostro deve essere raggiunta attraverso un processo paradossale mediante il quale bisogna reinventarsi per mezzo della scrittura per diventare alla fine quello che si è».

Aldo Giorgio Gargani, Il testo del tempo, Laterza, 1992, pp. 3-5.



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Federico García Lorca (1898-1936) – Il “duende” brucia il sangue, estenua, rompe gli stili, ama il bordo, la ferita, e si avvicina ai luoghi dove le forme si fondono in un anelito superiore alle loro espressioni visibili.

Federico Garcia Lorca _Duende
Gioco e teoria del duende

Gioco e teoria del duende

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Logo-Adobe-Acrobat-300x293  Federico García Lorca, Teoria e gioco del duende

***

Per cercare il duende non c’è mappa né esercizio. Si sa
solo che brucia il sangue come un tropico di vetri, che
estenua, che respinge tutta la dolce geometria appresa,
che rompe gli stili, che si appoggia sul dolore umano
inconsolabile […]
Concordo con Goethe che, parlando di Paganini, ci fornisce
la definizione del duende: «Potere misterioso che tutti sentono e che nessun filosofo spiega».

***

 

 

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F. G. Lorca, Autoritratto a New York.
 ***
Federico García Lorca, Gioco e teoria del duende , Adelphi, Milano, 2007, p. 16. Il testo di riferimento è stato tratto da Federico García Lorca, Prosa in Obras completas, a cura di Miguel García – Posada, Galaxia Gutenberg/Círculo de Lectores, Barcelona, 1997, vol II, pp. 150-162, a sua volta debitore, per questa conferenza, all’edizione critica Federico García Lorca, Conferencias, a cura di Christopher Mauer, Alianza, Madrid, 1984, vol. II, pp. 89-109.
 ***

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Edizione postuma (1940) di Poeta en Nueva York.
Si noti il nome di Antonio Machado sul frontespizio.

 


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Gioco e teoria del duende


Il duende non è abilità. Non è ostentazione. Non può essere appreso con lo studio e l’applicazione. Ma è potenza creatrice pura, la cui forza non si esaurisce in un’azione razionale o performativa. Non è tecnica. «Il duende» dice García Lorca «è un potere e non un agire, è un lottare e non un pensare». Il duende è ascolto e ricerca, con mani tese e unghie affilate, delle presenze oscure della psiche. Forze che attraggono l’artista, come fossero magneti.
Luisella Ferrario
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  L’ANIMA MITICA DEL DUENDE IN FEDERICO GARCÍA LORCA

 

 


Federico García Lorca (1898-1936) – «Libri, Libri!»: Chi non è percorso da un minimo anelito di sapere non conosce amore, né conosce una scintilla di pensiero, e neppure una fede o una minima ansia di liberazione, prerogative imprenscindibili per tutti gli uomini degni di tale nome
Federico García Lorca (1898-1936) – Parole sul teatro: Il teatro è uno degli strumenti più espressivi e più utili per la formazione di un paese, ed è il barometro che ne segna la grandezza o la decadenza.
Federico García Lorca (1898-1936) – Poeta a New York: «La luce è sepolta da catene e rumori in sfida impudica di scienza senza radici: qui non esiste domani né speranza possibile. Le monete a sciami furiosi penetrano e divorano bambini addormentati: sanno che vanno nel fango di numeri e leggi, nei giochi senz’arte, in sudori senza frutto».
Federico García Lorca (1898-1936) – La poesia è qualcosa che cammina per le strade. Il teatro è sempre stato la mia vocazione. Adesso sto lavorando a una nuova commedia. Gli uomini non riusciranno mai a immaginarsi l’allegria che esploderà il giorno della Grande Rivoluzione. Non è vero che sto parlando proprio come un socialista?


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Andrea Bajani – Bisognerà prima o poi tornare al “coltivare”, quando si nomina la scuola. Bisognerà ricordarsi del contadino metaforico che coltiva di nascosto dentro l’etimologia della parola Cultura, e che dentro la scuola dovrebbe trovare terra fertile.

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La scuola non serve a niente

La scuola non serve a niente

 

Da molti anni lavoro nelle scuole e con le scuole. Da molti anni incontro insegnanti che interpretano il loro ruolo a seconda della propria storia e della propria indole. Negli ultimi anni lo sconforto è aumentato, complici le picconate sistematiche di governi che intervengono sull’istruzione con avvilenti tagli di budget travestiti da riforme epocali. Ho incontrato molti insegnanti sfiniti e amareggiati che hanno rinunciato a cavare i loro ragni dai buchi di edifici scolastici in sfacelo. Tra i loro argomenti incontrovertibili c’è lo stipendio, una paga che rispecchia l’attribuzione di un ruolo vicario, superfluo, nella costruzione del paese. E ne ho incontrati molti contenti comunque di fare quel mestiere, con la passione per la loro materia e la consapevolezza della natura vivificante di una relazione quotidiana con i ragazzi. Ho incontrato professori che leggevano moltissimo. Ne ho incontrati troppi che non leggevano affatto perché «non c’è tempo», perché tanto con i programmi ministeri ali eccetera eccetera. Ho condiviso gite di classe con professori magnetici, trascinatori, carismatici. Altre con professori al traino che – a vederli camminare insieme ai ragazzi dentro i musei, con le loro biografie troppo pesanti – ti si stringeva il cuore e ti montava la rabbia: li vedevo evaporare a ogni passo che facevano annoiati accanto ai quadri.
Certo è che ho incontrato molti Professori della Testimonianza, e mi pare che non si possa che ripartire da loro. Insegnanti che in classe erano fuochi che divampavano sopra la cattedra. Ne ho incontrati alcuni che compravano libri a proprie spese per regalarli ai ragazzi, che organizzavano concorsi letterari, che invitavano a scuola autori di romanzi perché raccontassero ai ragazzi il mistero di una cosa che nasce e diventa una storia. Ho partecipato a lezioni che mettevano i brividi per eccentricità, coraggio e profondità. Professori che testimoniavano il proprio essere insegnanti, e per questo non avevano paura di passare il testimone del loro sapere ai ragazzi. Ne ho visti molti che entravano in classe e facevano il proprio mestiere nell’unico modo possibile: accendendo gli occhi nell’esercizio, come si suol dire, della propria funzione, inducendo i ragazzi a desiderare per se stessi i medesimi occhi, sapendo che l’unica strada era quella che passava per Foscolo, gli aminoacidi o Ramsete III. Soprattutto, ho visto che cosa succede a un ragazzo quando un professore fa davvero testimonianza del proprio essere Prof: alza la testa quasi contro la propria volontà, contro la propria stessa accidia, spalanca gli occhi, ammira, adora, alza la mano e poi parla. E il professore lo ascolta. E poi li ho visti uscire da scuola insieme, ragazzi e Professori della Testimonianza: li ho visti camminare vicini […].

Nell’epoca dell’evaporazione del professore, non resta dunque che provare a essere professore per quel che si può. Per amore del proprio paese, del proprio lavoro, e dei ragazzi seduti dietro i banchi. Fare dono di sé […]. Con le poche energie che si hanno e con quel poco o tanto che si riesce a fare in un’aula, stinti e delegittimati da tutto. Però non basta. […]

Bisognerà prima o poi tornare al coltivare, quando si nomina la scuola. Non tanto per sostituirla con la manualità del lavoro nei campi sotto cieli aperti, quanto piuttosto per ragioni contrapposte. Ovvero. Bisognerà ricordarsi del contadino metaforico che coltiva di nascosto dentro l’etimologia della parola Cultura, e che dentro la scuola dovrebbe trovare terra fertile. E dunque da quel contadino metaforico bisognerebbe imparare prima di tutto il Tempo: l’attesa, la difesa, la dilatazione, l’interruzione, l’accelerazione. Poi, a seguire, lo Spazio: l’inclinazione, l’esposizione, la tensione, la torsione, lo slancio. E infine ricordarsi che c’è anche il cielo, da qualche parte, sopra la testa dei ragazzi.

Andrea Bajani, La scuola non serve a niente, Laterza, 2014, pp. 41-43, 45.


 I libri di Andrea Bajani

***

Qui non ci sono perdenti

Qui non ci sono perdenti

Pequod, 2003

Eddie, bambino prodigioso, va a scuola, è pure bravo, ma soprattutto corre, corre sempre, si allena sempre, si supera sempre, si migliora. E vuole diventare nero. Anzi, negro. Come il suo idolo. Per sorpassare il suo idolo: l’uomo più veloce del mondo. Sua madre è una mamma. Anzi, una mammona. Col cronometro in una mano, perfida e inflessible a comandare gli allenamenti di Eddie, e col bazooka nell’altra, follemente esplosiva nel respingere gli attacchi dei giornalisti. Di Enzo Braghi, soprattutto. Che vuol portare Eddie, caso umano per eccellenza, dentro al bouquet dei suoi programmi televisivi.

 

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Mi spezzo ma non m'impiego

Mi spezzo ma non m’impiego

Einaudi, 2006

Li chiamano lavoratori precari e invece sono turisti instancabili, viaggiatori sempre pronti a partire per una nuova eccitante vacanza dalla disoccupazione. Sono i lavoratori “atipici”, diventati ormai cosi tanti da potersi considerare i più tipi tra i lavoratori in circolazione. Sono gli ex co.co.co., i neo co.pro., le Partite Iva, gli interinali, i tempi determinati. Sono trentenni che vivono come adolescenti tra altri adolescenti, ragazze che nascondono la gravidanza per non perdere il lavoro, uomini e donne non più giovani che finiscono in un call center a dire “Buongiorno sono Marco”.

 

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Cordiali saluti

Cordiali saluti

Einaudi, 2008

La sua vita in azienda è fatta di giornate passate a scrivere lettere di licenziamento, guardando i colleghi “in esubero” che ripongono gli oggetti personali dentro piccole scatole e si avviano lentamente verso casa. La sua vita fuori dall’ufficio, invece, è l’invenzione di una paternità: un ciclone messo in movimento da Martina e Federico, che sono troppo piccoli per diventare grandi e aspettano il ritorno del padre dall’ospedale. Dopo tante parole sprecate per congedare la gente, bisognerà trovarne di intatte per spiegare a loro due che non tutte le cose finiscono, e non tutti i saluti sono degli addii. Un romanzo feroce e malinconico, un ironico abbecedario della vita aziendale, e della vita in generale.

 

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Domani niente scuola

Domani niente scuola

Einaudi, 2008

In un momento come questo in cui l’universo degli adolescenti viene studiato soltanto col cipiglio perplesso degli entomologi, con l’atteggiamento diagnostico degli psicologi o con la verve scandalistica dei cronisti, Andrea Bajani ha deciso di calarsi tra i ragazzi delle nuove generazioni. È ritornato prima tra i banchi di scuola (a Torino, Firenze e Palermo) e poi in gita di classe a distanza di 15 anni dal suo esame di maturità. Il risultato è un reportage ironico sull’Italia dei teenagers, raccontato da un infiltrato, poi diventato in qualche modo ostaggio dei ragazzi, tra chiacchiere sul pullman, foto di classe e improbabili discoteche turistiche.

 

***

 

La mosca e il funerale

La mosca e il funerale

Nottetempo, 2012

Nessun famigliare piange al funerale del nonno, né gli uomini vestiti da guardia del corpo, né le donne travestile da girasoli. Solo un vecchietto si dispera, nelle ultime file, ma nessuno sa chi sia. Il nipote bambino si annoia, ragiona su quello che vede, e s’inventa spiegazioni stralunate per capire la vita e la morte. Questo racconto di Bajani si avvolge e svolge inarrestabile: una scrittura continua che procede per associazioni e salti, senza permettere mai allo scrittore di alzare le mani dalla tastiera, e al lettore di alzare gli occhi dal foglio.

 

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Presente

Presente

Einaudi, 2012

Autori: Andrea Bajani, Michela Murgia, Paolo Nori e Giorgio Vasta

 

Quattro scrittori alle prese con un gioco serissimo: passandosi il testimone della nostra tragicomica esistenza nazionale – e intrecciandola al loro privato – danno vita a un impasto unico, un diario a staffetta che racconta gli aspetti più impensati di quello che chiamiamo “presente”. Così, domandandosi se sia vero che i bambini amano leccare i pavimenti, scopriamo che nella lingua italiana i tempi verbali sono molti più di quelli che possiamo immaginare. E se qualcuno prova a elencare le infinite sfumature che può avere la mancanza, qualcun altro si interroga sul momento esatto in cui ha smesso di cercare di far bella figura. Intanto, fuori dalla finestra, scorrono le istantanee di un Paese che cerca la propria direzione all’interno di un mondo che cambia. Andrea Bajani, Michela Murgia, Paolo Nori e Giorgio Vasta raccontano il 2011, un anno della loro e della nostra vita. Ciascuno indaga con curiosità ogni fenomeno che vede (o sente) accadere, e ne distilla materiale narrativo incandescente. Attraverso una cronaca quotidiana, appassionata, ironica e sentimentale, un mese dopo l’altro si compone il disegno collettivo di un tempo intimo e civile. Presente diventa cosi un diario pubblico che parla a e per tutti noi.

 

***

 

La gentile clientela

La gentile clientela

Feltrinelli, 2013

Sono le dieci di sera, dentro e fuori del Museo di Anne Frank, ad Amsterdam. Per tutto il giorno, come ogni giorno dell’anno, migliaia di persone si sono assiepate davanti alla casa nascondiglio di Anne Frank, per poterla visitare. Sono turisti da tutto il mondo arrivati fin lì con le guide in mano: bambini che reclamano i mulini a vento invece del solito museo, adolescenti annoiati, maestre di scuola con in borsa il diario più popolare del mondo, famiglie, single, cani sciolti. Sono le dieci di sera, e si avvicina l’ora della chiusura. Uno dopo l’altro, i visitatori si avviano verso l’uscita, mentre una voce, in tutte le lingue, avvisa la gentile clientela che è giunto il momento di recuperare giacche e borse e avviarsi verso la porta che si affaccia su Prinsengracht 263. Eppure, nonostante i richiami, ci sono tre persone che non raggiungono l’uscita. Sono un padre e una bambina che si sono persi, e un ragazzo arrabbiato con i genitori e col mondo. Le porte si chiudono, e loro restano lì, dentro quel posto in cui si è nascosta la Storia, e in cui ora sono loro a essere intrappolati. Soltanto loro tre, tra i fantasmi di ieri e le loro presenze in carne e ossa di oggi. E la notte sembra non finire mai. Con l’adattamento di Sergio Ferrentino.

 

***

 

Mi riconosci

Mi riconosci

Feltrinelli, 2013

“Mi riconosci” è la storia di un’amicizia. Uno scrittore maturo e uno scrittore giovane hanno camminato in equilibrio sul filo di un’intesa trasognata e terrena. L’hanno fatto senza rete, tenendosi d’occhio. Insieme sono riusciti a guardare dentro il mistero delle parole. Per un tempo più o meno lungo sono stati amici, come possono esserlo uno scrittore maturo che ama l’impertinenza dei giovani e uno scrittore giovane più incline a proteggere che a essere protetto. Poi un giorno arriva la malattia, e la corda su cui camminavano comincia a tremare. È in quel momento, quando il filo lascia cadere il più vecchio, che il giovane comincia a raccontare. Perché solo raccontando dell’altro, del suo funambolismo, e della sua caduta, può sperare di non perdere l’equilibrio. “Mi riconosci” è un ballo intorno all’abisso delle parole, del nonsenso, del sogno. È la storia della nostalgia di essere vivi che i due scrittori hanno condiviso, e che ora è colmata di gesti, di oggetti che prendono vita, di case che fanno i dispetti, di bambini che sanno scombinare le carte, di sorrisi irriverenti, sardonici, pieni di luce. “Mi riconosci” è l’omaggio, commovente e stupefatto, di Andrea Bajani alla memoria di Antonio Tabucchi.

 

***

 

È bellissimo il vostro pianeta

È bellissimo il vostro pianeta

EDT, 2014

Mi preme prima di tutto rassicurare chiunque abbia smarrito qualcosa o qualcuno. La vostra pena è finita: è tutto qui, sul Pianeta dal quale stendo questa mia Relazione. Se negli ultimi anni vi siete chiesti che fine abbiano fatto i vostri dirimpettai, la vostra ingenuità, la dolcezza dei vostri coniugi; se vi siete domandati che ne è della ragazza che lavorava all’edicola, o del cameriere che serviva nella trattoria dove andate con i suoceri ogni domenica. E se tutte queste perdite vi sembrano intollerabili, se vi aggirate per la città come madri alla ricerca di figli i cui telefonini suonano a vuoto, se tutto questo avviene: state tranquilli, sono tutti su questo Pianeta comunemente chiamato Berlino.

 

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La scuola non serve a niente

La scuola non serve a niente

Laterza, 2014

Un ragazzo di quindici anni che non vuole andare più a scuola è un fallimento per tutti. Dietro ci sono degli insegnanti, una famiglia e un paese che lo lasciano andare. La scuola di oggi racconta di un paese scollato, che non riesce a tenere insieme insegnanti in crisi di legittimazione e ragazzi asserragliati nelle ultime file. È il ritratto di un’Italia di solitudini raccolte dentro la stessa penisola. La scuola, invece, è nata perché quelle solitudini venissero ricucite con un alfabeto uguale per tutti. Perché la scuola non serve a qualcosa, ma è necessaria per essere in grado di immaginare un paese migliore.

 

***

 

 

La pantera sotto il letto

La pantera sotto il letto

Orecchio Acerbo, 2015

Autori: Andrea Bajani, Mara Cerra

Un papà e la sua bambina di fronte alla notte. In quella casa di montagna, circondati dal silenzio, la bambina sa bene che nel buio tutto sparisce e così ha stretto un patto con il padre: per non essere inghiottita dalla notte, potrà tenere una vecchia padella sotto il letto per eventuali pipì notturne. Il sonno non arriva e al suo posto invece, puntuale, il bisogno impellente. Sotto il letto, tuttavia, la bambina non trova solo la padella: una pantera, nera e misteriosa come la notte, la sta aspettando. Guardarla negli occhi è un po’ come guardare la notte: entrambe fanno paura, ma entrambe si possono esplorare. I grandi credono che basti una lampadina per riavere indietro il mondo che l’oscurità ha rapito, ma anche il papà, durante quella notte magica, dovrà darle ragione: oltre la porta di casa davvero non c’è più nulla. Ma la bambina ha guardato negli occhi la pantera e ora conosce il mistero del buio. E allora sarà facile e bello cavalcare la notte con la sua padella, come farebbe con una tavola da surf sopra il mare. Età di lettura: da 7 anni.

 

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La vita non è in ordine alfabetico

La vita non è in ordine alfabetico

Einaudi, 2015

Il giorno in cui il maestro insegna ai bambini l’alfabeto è la fine e l’inizio di un mondo. La fine di un mondo in cui le cose succedevano e basta, e l’inizio di uno in cui possono essere messe in fila indiana in forma di parole. La vita intera passa attraverso le molteplici combinazioni di quelle ventuno lettere: sorprese, delusioni, imprevisti, nascita e crescita, persino la morte. Trentotto storie brevi, trascinanti e poetiche, piene di profonda leggerezza. Ciascuna di loro, una parola. Ciascuna di loro, il mondo. Sono epifanie scovate quasi per caso negli interstizi del quotidiano: lo smarrimento di una donna di fronte alla rottura di un braccialetto dei desideri, l’impossibilità di resistere dal prendere a calci un pallone che rotola per strada, il sollievo con cui si consegna a uno sconosciuto la propria storia sapendo che non lo si vedrà mai più, il piacere perverso di rimettere in circolazione una banconota falsa ricevuta chissà dove. Andrea Bajani compone una commedia umana in miniatura, in cui ogni piccolo gesto può diventare una chiave per capirsi, e rendersi conto che la felicità, alla fine, sta dentro la piega che di colpo prendono le cose.

 

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Ogni promessa

Ogni promessa

Einaudi, 2016

«Un libro speciale che nello spazio di un romanzo produce una sorta di commedia umana concentrata».Antonio Tabucchi

Ogni sera Pietro si china sulla pancia di Sara per sapere se dentro c’è qualcosa che nasce, e ogni sera lei aspetta di poter dare un nome al loro futuro insieme. Ma la speranza rimane un’attesa, e l’attesa spacca tutto come una crepa nel muro. Fino a quando ogni cosa si sfalda e sul tavolo della cucina resta soltanto un foglio, o meglio una bomba che si prepara a esplodere. “Telefonato tua madre, è morto Mario”. E poco sotto una domanda scritta di fretta: “Mario?” Mario è il nonno di Pietro, ma più che un parente è lo scheletro nell’armadio di una famiglia. Tornato folle dalla campagna di Russia, vissuto dentro una clinica eppure morto per tutti, per lui la guerra non è mai finita. Ora fa la sua comparsa morendo per davvero. L’estate si apre quel giorno con un duplice addio, spalancata come una casa vuota e piena di strade possibili. La prima è un viaggio a ritroso, con in tasca il peso di un segreto che Pietro e Sara si sono nascosti tanto a lungo da non poterlo dimenticare. La seconda è un viaggio sul Don, carico di tutte le storie che Mario non ha mai raccontato. Con una scrittura tesa e tersa fino alla poesia, Andrea Bajani ci racconta la responsabilità e la difficoltà di ricordare. La memoria è una trama forata, i fili si slacciano e si disperdono nell’ordito di una realtà vissuta al presente. Ma è proprio li, tra le omissioni e le mancanze, che forse si annida un senso. Lungo quelle strade deviate, dove si affacciano risposte impreviste a domande mal poste.

 

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Se consideri le colpe

Se consideri le colpe

Einaudi, 2016

Lui è uno dei tanti italiani che atterrano a Bucarest, ma spinto fin laggiù da un motivo diverso da tutti gli altri. Gli uomini che scendono dall’aereo prima di lui hanno scarpe dalla punta quadrata e cravatte con il nodo troppo largo: sono in cerca di fortuna, hanno trasferito lì le aziende, tirato su capannoni e comprato fuoristrada per mettere le mani su donne e denaro. Lui deve seppellire una madre che non è mai stata sua per davvero, se non in un’infanzia – magica nel ricordo – di pazza allegria: una donna carica di sogni, che un giorno di molti anni prima si è lasciata alle spalle lui e tutto il resto per seguire un progetto improbabile e una passione mal riposta. Una storia d’amore totale all’orizzonte di un mondo che scambia per oro tutto quello che luccica.

 

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Un bene al mondo

Un bene al mondo

Einaudi, 2016

Finalista del Premio Letterario Corrado Alvaro e Libero Bigiaretti 2017

 

«C’è l’amore, e c’è la meraviglia. Insomma, tutto ciò per cui vale la pena raccontare la vita».Michael Cunningham
«Facciamo esperienza diretta, in queste pagine, di quello stato di grazia della lingua invocato da Cristina Campo come supremo criterio di giudizio».Emanuele Trevi, La Lettura
«È semplicemente letteratura, come capita raramente di leggere. La meraviglia nelle parole, oltre le parole stesse. Toccante, doloroso, fiabesco».Marco Belpoliti, L’Espresso

 

Un bene al mondo racconta di un paese sotto una montagna, a pochi chilometri da un confine misterioso. Un paese come gli altri: ha poche strade, un passaggio a livello che lo divide, e una ferrovia per pensare di partire. Nel paese c’è una casa. Dentro c’è un bambino che ha un dolore per amico. Lo accompagna a scuola, corre nei boschi insieme a lui, lo scorta fin dove l’infanzia resta indietro. E ci sono una madre e un padre che, come tutti i genitori, sperano che la vita dei figli sia migliore della loro, divisi tra l’istinto a proteggerli e quello opposto, di pretendere da loro una specie di risarcimento.
Ma nel paese, soprattutto, c’è una bambina sottile. Vive dall’altra parte della ferrovia, ed è lei che si prende cura del bambino, lei che ne custodisce le parole. È lei che gli fa battere il cuore, che per prima accarezza il suo dolore. Un bene al mondo è una storia d’amore e di crescita di un’intensità e di una poesia travolgenti. È una storia universale, perché racconta quanto può essere preziosa la fragilità se non la rifiutiamo. Basta cercarsi su una mappa, disseminare parole per trovarsi, provare altre strade e magari perdersi di nuovo.
Viviamo tutti, sempre, nel momento in cui l’infanzia finisce. E non c’è punto piú intenso da cui possa nascere un romanzo. Dentro questa storia ci sono un bambino come tanti, un dolore che l’accompagna come il piú fedele degli amici e una bambina sottile che si prende cura di loro. Ci sono le ferite degli adulti, stretti tra richieste di risarcimento e protezione. C’è soprattutto la scoperta che la fragilità è una ricchezza.

 

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Promemoria

Promemoria

Einaudi, 2017

Come il titolo dichiara, questo libro si propone come un promemoria di cose da fare, una serie di indicazioni scritte alla lavagna: «Sale grosso multa carta da regalo | posta bollettino tacchi da pagare. | Dopo l’esame delle feci guarnizione | andare Verano per la cremazione». Fin dalla prima poesia, nel coacervo delle cose pratiche si insinua un filo di inquietudine, l’amore e la morte fanno capolino a scombinare tutti i giochi. È la vita, sempre capovolta, che si presenta inaspettata. Così a poco a poco dalle cose pratiche si passa a questioni esistenziali sempre piú cogenti: impasse e rincorse sentimentali, angosce del vivere e del morire, e queste indicazioni operative con i verbi all’infinito diventano paradossali, comiche e tragiche nello stesso tempo. Qualcosa di infantile, il culto della sapienza infantile, e del suo stupore, c’è sempre nei libri di Bajani, e anche in questo: il sottilissimo bilico tra il riso e il pianto, la levità venata di tristezza, la semplicità gonfia di sentimenti complessi. La scrittura dei romanzi di Bajani è sempre stata caratterizzata da una particolare elaborazione ritmica e da un’intensa concentrazione emotiva. Il passaggio alla poesia avviene dunque in modi quasi naturali, per intensificazione di caratteristiche già presenti nella prosa dello scrittore. In piú, ogni pagina di questo libro offre una sorpresa, uno scatto, un salto mentale, un cortocircuito tra immaginazione, riflessione ed emozione, e qui Bajani entra di diritto nella migliore tradizione poetica moderna.

 



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