Salvatore Bravo – Il disorientamento gestaltico e le parole valigia. Le parole valigia e lo spettacolo sempre in scena reificano il soggetto umano riducendolo a semplice funzione del gioco perverso della produzione.

Bravo Salvatore 026

Il disorientamento gestaltico e le parole valigia

 

 

Il capitalismo assoluto non ha solo il monopolio della violenza, ma consolida la «gabbia d’acciaio» attraverso il controllo delle parole.
Noi siamo il nostro linguaggio, il linguaggio ci precede, attraverso di esso diamo significati al mondo, ordiniamo gerarchie, stabiliamo priorità: il mondo è un ordito di parole.
Il monopolio delle parole è dunque il mezzo di controllo delle menti come delle conseguenti scelte. Il linguaggio come essere del mondo, del vivere l’esperienza dell’esserci. Le parole sono la struttura della «gabbia d’acciaio»: l’ordine capitalistico delle parole investe il soggetto per farne un in-dividuo, un atomo, che vive contemporaneamente nella separazione-astrazione. Nel mentre si restringono gli spazi d’azione del pensiero e della prassi, si allargano gli spazi della «gabbia d’acciaio». La libertà – come movimento su larga scala – è inversamente proporzionale agli spazi liberi del pensare. La grande illusione è la libertà fondata sul movimento, sullo spostamento all’interno di spazi sempre più vasti, ma i cui paesaggi sono implacabilmente uguali: ovunque albergano le parole del turbocapitalismo. Si può permettere il libero spostamento, poiché tanto si torna a casa con le stesse parole, con gli stessi concetti, con gli stessi bisogni. La globalizzazione rafforza a livello ideologico il capitalismo assoluto con la patente della libertà che non spaventa, della libertà che non conosce il dubbio, della libertà in cui non vi è inquietudine. Un fine generale-universalistico non esiste, vi è solo il rafforzamento dell’eguale.
Il viaggio rappresentava un’importante esperienza formativa, il divertimento era divertere (ovvero, secondo l’etimologia, cambiare strada): si assaporavano altre parole, altri sguardi, ci si fermava per condividere altre possibilità comunitarie. Il ritorno segnava il momento in cui l’esperienza vissuta diventava parte della comunità in cui si era radicati.
La “libertà” al tempo della globalizzazione è invece regno dell’eguale, la partenza ed il rientro non comportano spostamenti gestaltici, non vi sono nuove parole significanti, nuove prospettive e rappresentazioni, ma solo un’ innumerevole quantità di immagini da propinare e fagogitare bulimicamente per soddisfare la propria vanità e ammaliare i conoscenti di turno con la narrazione dei viaggi organizzati.
Lo spettacolo, così, si autoriproduce senza nulla imporre: la società dello spettacolo è un enorme accumulo di immagini e spettacoli dal forte plusvalore. Il capitalismo digitale ha fatto dell’immagine la sua verità e la sua merce.
Naturalmente in un’epoca di contrazione delle parole, sempre più stereotipate (riproducenti slogan, e imperativi categorici del consumo e del fare per il fare), non sorge la domanda se l’immagine è la verità, se il suo retroscena celi innominabili interessi ed ingiustizie. Il ritorno è così uguale alla partenza, si è solo rafforzato il velo di Maya dell’immagine che separa, divide, atomizza soggetti come le parole usate. Il sole non tramonta mai sulla passività.
Dunque le parole in questo caso ordinano l’esperienza ma non l’esperienza vissuta. Walter Benjamin distingueva l’esperienza dall’esperienza vissuta, la prima è puramente passiva, la seconda è mediata dal simbolico. Le parole del capitalismo assoluto educano alla passività, mediante l’esemplificazione dei concetti, contenuti minimi, didattica breve, conoscenze specialistiche, problem solving. Le parole devono essere lo strumento con cui si accede al mondo per saccheggiarlo legalmente. Il tramonto dell’occidente è il tramonto delle parole, al loro posto solo immagini mute e mutile:

«Lo spettacolo si presenta contemporaneamente come la società stessa, come una parte della società, e come strumento d’unificazione. In quanto parte della società, è espressamente il settore che concentra ogni sguardo e ogni coscienza. Per il fatto stesso che questo settore è separato, esso è il luogo dello sguardo ingannato e della falsa coscienza; e l’unificazione che realizza non è altro che il linguaggio ufficiale della separazione generalizzata».[1]

Le immagini sono percepite ma non vissute. Per essere vissute devono essere ricostruite nella loro genesi olistica, invece si configurano come fotogrammi dell’astrazione, il cui significato resta a livello descrittivo denotativo. La passività è dunque un mondo di esperienze descritte con le stesse parole. Un immenso accumulo di stimoli visivi non guardati, ma percepiti e mostrati come l’ultimo trofeo per “amici” e “conoscenti”.
Il disorientamento gestaltico trova un alleato imprescindibile nelle parole valigia. Le parole – nel pulviscolo motorio – hanno perso ogni aderenza alla realtà, il loro significato è mosso da una sterile polisemia che disorienta ed annichilisce il significato reale. Parlare, argomentare, diventa inutile poiché ciò che è detto significa sempre altro. L’inautentico separa, avvilisce le energie creative. Società schizoide che spinge verso patologie mentali con i suoi terribili e perenni messaggi contradditori. Lewis Carroll in Attraverso lo specchio descrive le parole doppie, contratte, per cui significano parzialmente e vagamente qualcosa da un corno e altro dall’altro corno. È un mondo doppio in cui il vero ed il falso si confrontano senza la possibilità di accertare con sicurezza la verità. Platonismo del falso. Le parole hanno perso il mondo e con esso la verità. Significano quello che vogliono:

«Quest’ultimo verso è troppo lungo per una poesia; – ella aggiunse, quasi ad alta voce, dimenticando che Unto Dunto [Humpty Dumpty] la sentiva. – Non chiacchierare così sola, – le disse Unto Dunto, guardandola per la prima volta, – ma dimmi come ti chiami e che fai. – Mi chiamo Alice, ma… – Hai un nome molto sciocco! – la interruppe con impazienza Unto Dunto. – Che cosa significa? – Forse che un nome deve significare qualche cosa? – domandò Alice dubbiosa. – Altro che! – disse Unto Dunto con una breve risata: Il mio nome significa la forma che ho io … fra parentesi una forma graziosa e bella. Con un nome come il tuo si può avere qualunque forma o quasi». [2]

Si vive in un mondo in cui anche il vero è falso. Lo specchio è lo sdoppiamento, la divisione come fondamento del reale. Tutto può essere interpretato in mille modi, tutto è lecito e legittimato nel regno dell’irrilevanza. Il pensiero e l’essere si sono scissi, per cui la faglia irrompe nelle relazioni tra i soggetti, rendendo la comunicazione impossibile, delirio collettivo che, ritornando alla «gabbia d’acciaio», la vuole intrascendibile. Non vi è uscita senza i significanti che corrispondono al significato. La libertà ha come sostanza le parole ritrovate nel loro senso. Se le parole dicono altro rispetto al loro significato, ogni fiducia e razionalità decade. Le sbarre divengono mura, ma non si ha la rappresentazione delle mura, della prigione. Ogni comportamento teoretico è scoraggiato nella «gabbia d’acciaio», lo spettacolo – per andare perennemente in scena – deve restringere il campo della rappresentazione a puro rispecchiamento-adeguamento, senza speranza. Nella caverna di Platone (VII libro della Repubblica) la possibilità dell’uscita dalla caverna è garantita dalla struttura razionale del cosmo e dell’essere, la lingua conserva il senso profondo del fenomeno, mentre nella «gabbia d’acciaio» il politeismo etico, la cultura delle parole valigia rendono il soggetto debole, lo destrutturano in assenza di significati certi e razionali. Ci si lascia trascinare dal nichilismo passivo, si perde il senso di sé. Il proprio io come affermava Hume è un palcoscenico in cui avviene tutto ed il contrario di tutto. In tali condizioni la prassi è neutralizzata. Parola valigia è chiamare riforma del lavoro la controriforma, inclusione per omologazione, sviluppo per saccheggio del pianeta, lavoro flessibile per sfruttamento, alleanze per trasformismo… L’elenco è lungo e minaccioso, poiché come detto, destabilizza, indebolisce, deprime. La «gabbia d’acciaio» si cementifica con le parole valigia. L’esperienza storica attuale si trasforma così in ipostasi, in destino fatale e letale.
Dobbiamo dunque ridare significato alle parole per ridare dignità alle persone, per ritrovarci persone e non semplici replicanti di parole incomprensibili. Dobbiamo contrapporre alla confusione ideologica la chiarezza dei significati senza i quali ogni via di uscita ci è preclusa. Senza le parole non possiamo conoscere noi stessi. La maieutica è logos, pratica delle parole contro ogni sofistica.
Se le parole tacciono, se il loro significato è manipolato, con esse si perde il soggetto umano. Pensare è rappresentare ciò che non è percettivamente presente. Le parole valigia e lo spettacolo sempre in scena reificano il soggetto umano riducendolo a semplice funzione del gioco perverso della produzione.

L’esodo, l’uscita dalla «gabbia d’acciaio»» necessita della profondità di senso delle parole.

Salvatore Bravo

[1] G. Debord, La società dello spettacolo, Millelire, Stampa Aternativa, 1995, p. 6.

[2] Lewis Carroll, Attraverso lo specchio, capitolo VI. http://sabian.org/looking_glass6.php Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò o semplicemente Attraverso lo specchio (titolo originale Through the Looking-Glass, and What Alice Found There, ) è un romanzo fantastico del 1871 scritto dal matematico e scrittore inglese Charles Lutwidge Dodgson con lo pseudonimo di Lewis Carroll, come seguito de Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie. Il personaggio di Humpty Dumpty in Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò è protagonista di uno dei dialoghi più celebri dell’intero romanzo. Inoltre, Humpty Dumpty rivela ad Alice il suo approccio all’uso delle parole: “quando io uso una parola […] essa significa esattamente ciò che io voglio che significhi. […] Con impenetrabilità intendevo dire che di quel soggetto ne abbiamo avuto abbastanza e tanto varrebbe che tu mi dicessi cosa vuoi fare dopo”. All’osservazione di Alice che le parole possono avere tanti significati, Humpty Dumpty replica “quando faccio fare a una parola un simile lavoro […] la pago sempre di più”. Humpty Dumpty vuole “comandare” le parole per dar loro il significato che preferisce.

‘That last line is much too long for the poetry,’ she added, almost out loud, forgetting that Humpty Dumpty would hear her.
‘Don’t stand chattering to yourself like that,’ Humpty Dumpty said, looking at her for the first time, ‘but tell me your name and your business.’
‘My name is Alice, but —’
‘It’s a stupid name enough!’ Humpty Dumpty interrupted impatiently. ‘What does it mean?’
Must a name mean something?’ Alice asked doubtfully.
‘Of course it must,’ Humpty Dumpty said with a short laugh: ‘my name means the shape I am — and a good handsome shape it is, too. With a name like yours, you might be any shape, almost.’
‘Why do you sit out here all alone?’ said Alice, not wishing to begin an argument.
‘Why, because there’s nobody with me!’ cried Humpty Dumpty. ‘Did you think I didn’t know the answer to that? Ask another.’
‘Don’t you think you’d be safer down on the ground?’ Alice went on, not with any idea of making another riddle, but simply in her good-natured anxiety for the queer creature. ‘That wall is so very narrow!’
‘What tremendously easy riddles you ask!’ Humpty Dumpty growled out. ‘Of course I don’t think so! Why, if ever I did fall off – which there’s no chance of – but if I did – ‘ Here he pursed up his lips, and looked so solemn and grand that Alice could hardly help laughing. ‘If I did fall,’ he went on, ‘the King has promised me – ah, you may turn pale, if you like! You didn’t think I was going to say that, did you? The King has promised me with his very own mouth – to – to – ‘
‘To send all his horses and all his men,’ Alice interrupted, rather unwisely.

 

 

 

 



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Costanzo Preve (1943-2013) – «Il convitato di pietra». Il nichilismo è una pratica, è la condizione del quotidiano senza la mediazione della coscienza, senza la fatica del concettualizzare

Preve Costanzo 026

Il convitato di pietra

Il convitato di pietra

***

Ieri ero triste.
Pensai:
forse il nostro movimento tramonta
per cento anni, non per sempre, ma
per cento anni sì, ed
è proprio qui che noi viviamo.
Oggi lo so: io
ero triste
soltanto ieri.

Bertolt Brecht

 

Il libro viene reso fruibile gratuitamente in formato PDF cliccando qui.

***

Recensione di Salvatore Bravo

Il nichilismo è una pratica,
è la condizione del quotidiano
senza la mediazione della coscienza,
senza la fatica del concettualizzare

***

L’ospite inquietante, il nichilismo, è raffigurato da Costanzo Preve, nel suo libro Il convitato di pietra. Saggio su marxismo e nichilismo, con la metafora della statua che nel Don Giovanni di Mozart è muta, non risponde, e avvolta nella sua indifferenza non proferisce parola: è un’inquietante presenza che suscita terrore. Nell’opera di Mozart la statua si presenta da don Giovanni: lo invita a confessare i suoi peccati per poi sprofondarlo all’inferno con sé. Il convitato di pietra solo alla fine svela la sua terrifica realtà senza speranza. A giochi fatti, quando ormai il pensiero è arretrato, ogni corrispondenza tra significato e realtà ha lasciato il posto semplicemente al nulla. Parla, ma le sue parole sono inutili, hanno perso valore e realtà: ogni confessione senza la solidità dei significati, è puro virtuosismo lessicale, mera posa interna al silenzio delle domande e delle risposte.

Il nichilismo è una pratica, è la condizione del quotidiano senza la mediazione della coscienza. La fatica del concettualizzare, in questo caso, è la porta stretta attraverso cui è possibile l’uscita senza fuga dalla pratica del nichilismo. La premessa maggiore che ha consentito al nichilismo di radicarsi e radicalizzarsi, di essere parte della carne di tutti, fino a renderci “convitati di pietra” – creature atomizzate e dunque irreali – trova nella caduta di ogni teleologia storica una delle ragioni più profonde ed ultime. “La morte di dio” si ripete e si rafforza con la caduta delle storicistiche verità-certezze. La pratica nichilistica ha la sua profondità nei disincanti che hanno rafforzato il trionfo degli automatismi. La ragione-coscienza, dinanzi alla caduta degli dei, è arretrata a pura dimensione procedurale: al pari di qualsiasi automatismo essa ripete se stessa nel sistema produzione capitalistico ed ex-comunista, per rendere l’essere umano parte dell’ingranaggio senza alcuna difesa. Si diventa di pietra nella pratica del nichilismo e si è estranei al dolore del mondo: ogni responsabilità politica arretra per lasciare spazio all’ingranaggio, ad un mondo disabitato dagli esseri umani, ma abitato dai consumatori nella attuale globalizzazione. Weber ha ben descritto l’automatismo nichilistico, declinabile in modo polimorfo:

«È questo automatismo l’elemento strutturale essenziale per comprendere la nozione weberiana di disincanto, che non è dunque mai una semplice “visione del mondo” fra le altre. Weber scrisse a suo tempo che chi aveva bisogno di visioni del mondo non aveva che andare al cinema, e fu in questo un buon profeta, se pensiamo che oggi l’automatismo televisivo cui è sottoposto per molte ore al giorno l’individuo contemporaneo non ha più lo scopo di veicolare attivamente delle forme di etica sociale conformistiche e repressive (come opinavano ancora i francofortesi), ma semplicemente di autoriprodurre una forma di consumazione passiva dell’immaginario».[1]

L’automatismo nichilistico non conosce sponde ideologiche o steccati, esso è comune alla pluralità dei sistemi vigenti nel Novecento. Non ne era esente il comunismo storico (socialismo cosiddetto “realizzato”) novecentesco con il suo capitalismo di Stato. La forma era differente, ma la sostanza era (ed è) identica in entrambi i sistemi. Per strappare il comunismo dalla caduta nichilistica, è necessario, secondo Preve, far saltare la distinzione tra comunismo e socialismo, in quanto – all’interno di questa dicotomia – il socialismo è il momento piegato all’economicismo mentre il comunismo è rimandato ad un futuro senza tempo, alla falsa e degenerata utopia (distopia invero) di una liberazione-emancipazione oscillante tra messianesimo e scientismo. L’esodo nel cattivo infinito del tempo che verrà, si ripiega su stesso divenendo semplice attualità dell’economicismo burocratico senza speranza:

«Proponiamo dunque di abolire la parola (ed il concetto) di “socialismo”, e di mantenere soltanto la parola “comunismo”, in modo che il termine comunismo possa perdere le connotazioni religiose e nichilistiche che inevitabilmente assumerebbe se fosse impiegato per connotare l’esito messianico e salvifico della storia».[2]

Dinanzi all’inarrestabile deserto che avanza, al nichilismo che come sabbia occupa ogni spazio, anche il più recondito, non si può certo piegarsi alla soluzione heideggeriana: dinanzi all’ineluttabile forza della tecnica, Gestel, non resterebbe che sperare in un impossibile dio che porti la salvezza. L’operazione intellettuale di Preve è invece quella di rivolgersi a Marx per far riemergere aspetti non sufficientemente codificati dal semplicismo della critica filosofica del Novecento. Si tratta di immergersi nei testi per trarne aspetti che sono d’ausilio nel confronto e nella lotta contro l’avanzante deserto del nichilismo. La terra sommersa da far emergere del pensiero di Marx – di ascendenza hegeliana – è il rapporto tra genere ed individuo, nel quale lo stesso Marx era rimasto impigliato:

«La teoria sommersa di Marx rimane dunque tale perché Marx teme da un lato che un’esplicita affermazione della centralità del tema del “genere” possa sembrare troppo filosofica e troppo poco scientifica, e non ha risolto dall’altro il problema della determinazione delle forme di coscienza (che invece Hegel aveva saputo risolvere). Il comunismo diventa allora necessariamente un’utopia, perché tipico della proiezione ideologica utopica è lo spostamento infinito di un futuro che si allontana mano a mano che si avvicina».[3]

Il cattivo infinito è l’effetto dell’assenza di chiarezza tra genere, individuo e, dunque, processo di emancipazione. Il cattivo infinito si ripiega su se stesso – e dunque evita gli effetti collaterali – mediante forme di ontogenesi, rassicuranti ma destinate al fallimento ed a facilitare gli esiti nichilistici. Il genere produce forme di vita sempre nuove (essenza generica dell’essere umano), ma è esposta all’esito nichilistico, perché ogni determinazione rischia di cadere in forme di alienazione, in forme di soddisfazione circoscritte nel presente. Il comunismo, quale condizione emancipata e disalienata, si pone in un tempo indeterminato quale luogo in cui tale processo all’involgarimento è reso impossibile: di qui la necessità di utilizzare categorie scientifiche per ordinare la teleologia materialista. Costanzo Preve – senza cadere in forme tradizionali di umanesimo – fa appello al comunismo della finitudine, il cui centro è la responsabilità attiva della coscienza. Il comunismo della finitudine non fa appello ad ideali baconiani, a prometeiche certezze: esige l’attività della coscienza in relazione alla comunità, non subisce le condizioni storiche, elabora piuttosto modelli di partecipazione storicamente fondati:

«Definiremo questa interpretazione “comunismo della finitudine” (o della “finitezza”, se lo si vuole, ma preferiremmo mantenere questo latinismo), per sottolineare la necessità di liberarsi da ogni concezione titanica e prometeica del “genere umano”, premessa per una ricollocazione dell’orizzonte comunista in un agire che deve essere inevitabilmente singolarizzato per riacquistare un senso non troppo “metafisico”».[4]

Il comunismo a cui guarda Costanza Preve è l’autogoverno dei liberi lavoratori associati, i quali determinano la produzione in funzione dei bisogni reali. La produttività avanzata consente la vigile libertà delle coscienze:

«In secondo luogo, il comunismo è l’autogoverno dei produttori divenuti finalmente capaci di scegliere liberamente e democraticamente dei bisogni sociali da soddisfare, sviluppando nel tempo libero le loro forze umane creatrici. Il “regno della libertà”, in cui la coltivazione delle facoltà umane diventa un “fine in sé”. In questo modo l’intersoggettività dei produttori associati si costituisce in istanza realizzatrice delle possibilità create sulla base “alienata” del modo di produzione capitalistico, ed occupa congiuntamente i ruoli di destinatario e di soggetto della teoria critica rivoluzionaria».[5]

Preve legge Marx attraverso la lezione lucacciana: non è sufficiente che vi siano le condizioni storiche per la rivoluzione, è necessario che la coscienza – in un atto di autoriflessione – diventi il veicolo consapevole e comunitario della Rivoluzione, di un altro modo di esserci e produrre. Il nichilismo nega la mediazione umana, ente tra gli enti. L’irrilevanza comporta il trionfo della tecnica sull’umano, la sua ipostatizzazione. Il comunismo – come categoria ideologica antinichilistica – deve lavorare per l’agere in una prospettiva storica non infetta dal cattivo infinito, ovvero rinunciando ad ogni velleità previsionale di tipo messianico (Bloch) o tipo scientifico (positivismo). Il comunismo della finitudine rinuncia alla previsione introducendo il possibile e con esso la responsabilità umana nel presente. La storia non fluisce fatalmente verso il comunismo con il presunto inevitabile passaggio dal capitalismo al comunismo secondo la inesistente cosiddetta ferrea legge della storia, ma nella storia è presente la variabile umana che sola può pensare e realizzare il rivoluzionario mutamento strutturale.

Salvatore Bravo

 

[1] Costanzo Preve, Il convitato di pietra. Saggio su marxismo e nichilismo, Vangelista, 1991, pp. 110-111.

[2] Ibidem, p. 143

[3] Ibidem, p. 152

[4] Ibidem, p. 220

[5] Ibidem, p. 224


Costanzo Preve – Recensione a: Carmine Fiorillo – Luca Grecchi, «Il necessario fondamento umanistico del “comunismo”», Petite Plaisance, Pistoia, 2013

Costanzo Preve – Introduzione ai «Manoscritti economico-filosofici del 1844» di Karl Marx.

Costanzo Preve – Le avventure della coscienza storica occidentale. Note di ricostruzione alternativa della storia della filosofia e della filosofia della storia.

Costanzo Preve – Nel labirinto delle scuole filosofiche contemporanee. A partire dalla bussola di Luca Grecchi.

Costanzo Preve – Questioni di filosofia, di verità, di storia, di comunità. INTERVISTA A COSTANZO PREVE a cura di Saša Hrnjez

Costanzo Preve – Capitalismo senza classi e società neofeudale. Ipotesi a partire da una interpretazione originale della teoria di Marx.

Costanzo Preve – Elementi di Politicamente Corretto. Studio preliminare su di un fenomeno ideologico destinato a diventare in futuro sempre più invasivo e importante

Costanzo Preve – Religione Politica Dualista Destra/Sinistra. Considerazioni preliminari sulla genesi storica passata, sulla funzionalità sistemica presente e sulle prospettive future di questa moderna Religione

Costanzo Preve – Invito allo Straniamento 2° • Costanzo Preve marxiano ci invita ad un riorientamento, ad uno “scuotimento” associato a un mutamento radicale di prospettiva, alla trasformazione dello sguardo con cui ci si accosta al mondo.

Costanzo Preve (1943-2013) – Prefazione di Costanzo Preve alla traduzione greca (luglio 2012) de “Il Bombardamento Etico”. Un libro che è ancora più attuale di quando fu scritto, sedici anni or sono.

Costanzo Preve – Marx lettore di Hegel e … Hegel lettore di Marx. Considerazioni sull’idealismo, il materialismo e la dialettica

Costanzo Preve (1943 – 2013) – «Il ritorno del clero. La questione degli intellettuali oggi». La ricerca della visibilità a tutti i costi è illusoria. L’impegno intellettuale e morale, conoscitivo e pratico, deve essere esercitato direttamente. Saremo giudicati solo dalle nostre opere.

Costanzo Preve (1943-2013) – Il Sessantotto è una costellazione di eventi eterogenei impropriamente unificati. Il mettere in comune questi eventi eterogenei è un falso storiografico.



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Epitteto (50-130 d.C.) – Gli eventi dolorosi che possono accadere al nostro corpo non possono raggiungere ciò che noi siamo nella nostra essenza: la nostra scelta di vita. Se desideri essere filosofo, preparati subito al fatto che si rida di te, che la gente ti schernisca.

Epitteto 001

Dedico questi pensieri alle mie tre figlie,

                     Lilith, Chiara e Costanza

250px-Escaping_criticism-by_pere_borrel_del_caso    …… C. F.                     Il secchio e il vento   …  Logo Adobe Acrobat

 

Essere zoppo è un impedimento per la gamba, ma non per la scelta di vita.

Gli eventi dolorosi che possono accadere al nostro corpo non possono raggiungere ciò che noi siamo nella nostra essenza: la nostra scelta di vita.

Se desideri essere filosofo, preparati subito al fatto che si rida di te,
che la gente ti schernisca

Manuale di Epitteto

Manuale di Epitteto

 

«La malattia è un impedimento per il corpo, ma non per la scelta di vita, a meno che non sia proprio la scelta di vita stessa a volerlo. Essere zoppo è un impedimento per la gamba, ma non per la scelta di vita» (p. 157).

«Se vuoi progredire, sopporta di apparire stolto e insensato, per quanto concerne le cose esteriori. Non voler apparire sapiente; e se alcuni ti considerano qualcuno, diffida di te stesso. Sappi infatti che non è facile conservare la tua scelta di vita in una disposizione conforme alla natura e nello stesso tempo occuparsi delle cose esteriori. Ma è necessario che, se ti prendi cura di una di queste cose, trascuri l’altra» (p. 161).

«Se desideri essere filosofo, preparati subito al fatto che si rida di te, che la gente ti schernisca, che si dica: «Guardalo, ce lo ritroviamo improvvisamente filosofo!». «Da dove ha preso questo sopracciglio arrogante?». Tu però non avere il sopracciglio arrogante, ma attieniti a quanto ti sembra il meglio, come se fossi stato collocato dal dio in questo posto. E ricordati che, se resti stabile nel tuo atteggiamento, gli stessi che ridevano di te prima ti ammireranno dopo. Ma se ti lasci vincere da loro, rideranno doppiamente di te» (p. 171).

Manuale di Epitteto. Introduzione e commento di Pierre Hadot, Trad. dal fancese di Angelica Taglia, Einaudi, 2006.

 

 



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Johan Huizinga (1872-1947) – Viviamo in un mondo ossessionato. Un notevole intorbidamento della facoltà pensante si è impossessato di molte menti. Si tratta di atrofia della coscienza intellettuale.

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La crisi della civiltà

La crisi della civiltà

«Noi viviamo in un mondo ossessionato. E lo sappiamo. Nessuno si stupirebbe se, un bel giorno, questa nostra demenza sfociasse in una crisi di pazzia furiosa, che, calmatasi, lascerebbe l’Europa ottusa e smarrita; i motori continuerebbero a ronzare e le bandiere a sventolare, ma lo spirito sarebbe spento.
Dappertutto il dubbio intorno alla durevolezza del sistema sociale sotto cui viviamo; un’ansia indefinita dell’immediato domani; il senso del decadimento e del tramonto della civiltà.
Queste non sono soltanto angosce che ci colgano durante le insonnie notturne, quando è bassa la fiamma vitale. Sono, anzi, meditate prospettive, fondate sulla constatazione dei fatti e sul giudizio.
La realtà c’incalza.
Vediamo distintamente come quasi tutte le cose, che altra volta ci apparivano salde e sacre, si siano messe a vacillare: verità e umanità, ragione e diritto» (p. 11).

«Si tratta di atrofia della coscienza intellettuale. II bisogno di pensare esattamente e obiettivamente, quanto si può, intorno alle cose afferrabili dalla ragione, e di vagliare criticamente il pensiero stesso, si fa più debole. Un notevole intorbidamento della facoltà pensante si è impossessato di molte menti. Ogni delimitazione di confine tra le funzioni logiche, quelle estetiche e quelle affettive, è intenzionalmente negletta. Nel pronunciare un giudizio, qualunque ne sia l’oggetto, si tira in ballo il sentimento, senza che la ragione reagisca criticamente, anzi coscientemente, in contraddizione con esso. Viene proclamato intuizione ciò che, in realtà, non è altro che una scelta intenzionale per ragione affettiva. Si confondono le suggestioni dell’interesse e del desiderio con la convinzione fondata su una conoscenza. Per giustificare tutto ciò si chiama necessaria resistenza alla dittatura della ragione ciò che, in realtà, è una rinuncia al principio logico» (p. 54).

 

Johan Huizinga, La crisi della civiltà, Giulio Einaudi Editore, 1938. L’edizione originale di questo volume fu pubblicata nell’ottobre 1935 ad Haarlem (Olanda)

 



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Lu Xun (1881-1936) – La speranza è come una strada e le strade si formano quando gli uomini, molti uomini, percorrono insieme lo stesso cammino.

Lu Xun 001

«Lu Xun fu un pioniere della rivoluzione culturale cinese. Egli non fu solo un grande letterato, ma anche un grande pensatore e un grande rivoluzionario». Mao Tse Tung

 

La falsa libertà

La falsa libertà

«La speranza, in se stessa, non si può dire che esista o non esista. È come per le strade che attraversano la terra. Al principio sulla terra non c’erano strade: le strade si formano quando gli uomini, molti uomini, percorrono insieme lo stesso cammino».

Lu Xun

Lu Xun, September 1930.

Lu Xun, Settembre 1930.

 

La vera storia di Ah Q e altri racconti

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La vera storia di Ah Q

La vera storia di Ah Q

The True Story of Ah Q

The True Story of Ah Q

Diario di un pazzo

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Fuga sulla luna

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Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Coloro che sono privi della conoscenza di ogni cosa che è, e che non hanno nell’anima alcun chiaro modello, non possono rivolgere lo sguardo verso ciò che è più vero e non possono istituire norme relative alle cose belle e giuste e buone.

Platone 001

I farisei sono ciechi e guide di ciechi. E quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso! (Matteo, 15, 14)

Pieter Bruegel il Vecchio, La parabola dei ciechiPieter Bruegel il Vecchio, La parabola dei ciechi, 1568.

Platone, Repubblica

Platone, Repubblica

«Dal momento che filosofi sono coloro i quali sono in grado di afferrare ciò che resta sempre invariato nella sua identità, mentre coloro che ne sono incapaci e si limitano a errare nel molteplice e nel mutevole filosofi non sono, chi dei due dovrà essere guida della città? […] Questo poi è chiaro, se si debba scegliere un cieco o un uomo dalla vista acuta per farlo guida di qualunque cosa […] Ti sembra allora che ci sia una qualche differenza fra i ciechi e quanti in realtà sono privi della conoscenza di ogni cosa che è, e che non hanno nell’anima alcun chiaro modello e non possono, alla maniera dei pittori, rivolgere lo sguardo verso ciò che è più vero, sempre riferendosi ad esso e osservandolo nel modo più rigoroso possibile, in modo da istituire anche quaggiù le norme relative alle cose belle e giuste e buone?».

Platone, Repubblica, VI, 484c-d.


Platone, «Filebo» – Senza possedere né intelletto né memoria né scienza né opinione vera, tu saresti vuoto di ogni elemento di coscienza
 


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Eugène Minkowski (1885-1972) – È lo slancio vitale che dà un senso alla vita e costituisce quanto vi è in essa di più essenziale. Questo slancio sempre vivo crea l’avvenire e non può essere racchiuso in una sezione trasversale della coscienza, e si tende, come un arco, oltre tutte le sezioni di questo genere.

Eugène Minkowski 03
Il tempo vissuto

Il tempo vissuto

«È lo slancio vitale che dà un senso alla vita e […] costituisce quanto vi è in essa di più essenziale» (p. 42).

«La psicologia sarebbe tentata di ricondurre il fenomeno […] a una rappresentazione dello scopo da raggiungere, a un sentimento positivo che rende questo scopo desiderabile[…]; questo insieme di elementi darebbe luogo, in tempi più o meno brevi e dopo aver attraversato stadi intermedi, a un altro insieme, composto, questo, dalla constatazione – sia mediante la percezione sia in altro modo – della presenza dello scopo ricercato e da un senso particolare di sollievo che ci annuncia il completamento della nostra azione.

Direi che in queste costruzioni c’è tutto, tranne l’essenziale. Manca lo slancio personale, questo slancio sempre vivo che crea l’avvenire e che non potrebbe essere racchiuso, senza costrizione, in una sezione trasversale della coscienza; questo slancio che si tende, come un arco, oltre tutte le sezioni di questo genere che il pensiero spaziale tenta di sostituirgli, le unisce, le anima, le organizza in un tutto indivisibile, fa sì che tutte insieme esse costituiscano la tendenza dell’io completo verso la realizzazione di uno scopo» (p. 43).

«Il conosci te stesso, dal momento in cui è stato formulato per la prima volta dal genio umano, è sempre parso all’umanità pieno di senso. Purtuttavia, se quelli che ci vengono rappresentati come elementi coscienti, e più particolarmente i motivi dei nostri atti, venissero ad allinearsi gli uni accanto agli altri nella nostra coscienza, il conosci te stesso non sarebbe che un’illusione, poiché ciò che la nostra coscienza ci farebbe in tal modo conoscere dovrebbe possedere per sua stessa natura il carattere dell’indiscutibile, oppure, cosa quasi inconcepibile, se non avesse questo carattere, sprofonderemmo fatalmente in uno scetticismo dissociante, non avendo ragione di considerare come più validi i moventi sostituiti a quelli riconosciuti come falsi. E solo perché esiste una dimensione in profondità che ogni movente isolato ci appare subito come qualcosa di relativo e poco attendibile, e che affondare il nostro sguardo in fondo al nostro essere, per tentare di scoprirvi la verità, ha un senso, e un senso molto profondo per noi.

Nello stesso tempo vediamo che se il conosci te stesso ci prescrive di diffidare di quanto vi può essere di convenzionale, di meschino, di falso in noi, esso non ci invita a scoprire dietro questa facciata altri motivi che, rimasti inconsci, sarebbero i veri motivi delle nostre azioni; esso cerca solo di rimetterci in contatto con l’inconscio, con la sorgente stessa della nostra vita, da cui non può non scaturire il nostro vero slancio, cioè la nostra tendenza verso il bene. In fondo, ogni motivo che è conscio e come tale si afferma, è per questo stesso fatto un movente ingannevole, poiché il motivo vero non può che confondersi con l’inconscio. La virtù riconosciuta e affermata cessa di esserlo e la maschera della falsa modestia non riesce a salvare colui il quale, dietro questa maschera, nasconde il suo orgoglio di uomo virtuoso. Poiché dirigere lo sguardo verso il proprio intimo non vuoi dire scoprire e affermare ciò che vi è rimosso, ma farne scaturire il nostro slancio in tutta la sua purezza» (pp. 51-52).

«Quando, mediante il mio slancio personale, realizzo qualche cosa, la situazione che così si è creata non si esaurisce affatto nella constatazione: “ho raggiunto ciò che mi proponevo di raggiungere” o anche “ho fatto qualcosa, ho compiuto un’azione”. Questa è solo una parte e la parte meno importante di ciò che ho davanti a me. Nello stesso tempo vedo che la cosa fatta è un’opera, ovviamente nel senso più ampio del termine, opera che, pur restando mia, va a integrarsi in un insieme completamente diverso da quello dal quale sembra essere uscita in quanto opera mia, e ben più possente, ben più grande di essa. L’opera ha sempre una portata, un carattere oggettivo, o meglio trans-soggettivo, ed è questo il senso stesso di un’opera personale» (pp. 54-55).

Eugène Minkowski, Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia, Einaudi, 2004.

Eugène Minkowski – Il tempo vissuto – L’azione etica apre l’avvenire davanti a noi perché resiste al divenire: è la realizzazione di quanto vi è di più elevato in noi
Eugène Minkowski (1885-1972)  – La morte, mettendo fine alla vita, la inquadra interamente, in tutto il suo percorso. È la morte che trasforma il succedersi o la trama degli avvenimenti della vita in “una” vita. Non è nel nascere ma è col morire che si diventa un’unità, “un uomo”.
 


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Pablo Ruiz y Picasso (1881-1973) – Il senso della vita è quello di trovare il vosto dono. Lo scopo della vita è quello di regalarlo.

Scritti

P. Picasso, Scritti

 

 «Il senso della vita è quello di trovare il vosto dono.

Lo scopo della vita è quello di regalarlo».

Pablo Ruiz y Picasso
 


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Charles Chaplin (1889-1977) – Ti criticheranno sempre. Quindi vivi, fai quello che ti dice il cuore e vivi intensamente ogni giorno della tua vita prima che l’opera finisca.

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Chaplin, la mia autobiografia

C. Chaplin, La mia autobiografia

«Ti criticheranno sempre, parleranno male di te e sarà difficile che incontri qualcuno al quale tu possa piacere così come sei!
Quindi vivi, fai quello che ti dice il cuore, la vita è come un’opera di teatro, ma non ha prove iniziali: canta, balla, ridi e vivi intensamente ogni giorno della tua vita prima che l’opera finisca».



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Elias Canetti (1905-1994)– Lo scrittore è il custode delle metamorfosi. Questa la sua legge: «Nessuno sia respinto nel nulla, neanche chi ci starebbe volentieri. Si indaghi sul nulla con l’unico intento di trovare la strada per uscirne, e questa strada la si mostri ad ognuno».

Elias Canetti 003
La coscienza delle parole

La coscienza delle parole

Nessuno sia respinto nel nulla, neanche chi ci starebbe volentieri.

 

 

Si indaghi sul nulla con l’unico intento di trovare la strada per uscirne, e questa strada la si mostri ad ognuno.

 

 

Si perseveri nel lutto e nella disperazione per imparare la maniera di farne uscire gli altri, ma non per disprezzo della felicità, che compete alle umane creature, benché esse la deturpino e se la strappino a vicenda.

[…] Da quando abbiamo affidato alle macchine il compito di predire il nostro futuro, le profezie hanno perso ogni valore. Quanto più ci separiamo da noi stessi, quanto più ci consegniamo a istanze senza vita, tanto meno riusciamo a padroneggiare quello che accade. Il nostro crescente potere su tutto, su ciò che è vivente e su ciò che non lo è, e in special modo sui nostri simili, si è trasformato in un contropotere che solo in apparenza riusciamo a controllare. […]

Forse val la pena di riflettere se esista qualcosa che gli scrittori […] possano fare per rendersi utili nell’attuale situazione del mondo in cui viviamo. […]

Lo scrittore è il custode delle metamorfosi, e lo è in due sensi. Innanzitutto egli farà propria l’eredità letteraria dell’umanità, nella quale le metamorfosi abbondano. Solo oggi ci rendiamo conto di questa ricchezza, dal momento che sono state decifrate le scritture di quasi tutte le antiche civiltà. […].

Di metamorfosi, infatti, che è il tema che qui ci interessa, in queste tradizioni ce n’è un’infinità. Potremmo passare tutta la nostra vita a raccoglierle e a metterle in atto, e non credo affatto che sarebbe una vita mal spesa. Tribù che contano talvolta poche centinaia di esseri umani ci hanno lasciato una ricchezza che certo non meritiamo […]. Essi hanno salvaguardato fino alla fine le loro esperienze mitiche e la cosa strana è questa: quasi nulla ci è utile e quasi niente ci riempie di speranza più di queste antiche e incomparabili creazioni poetiche scritte da uomini che sono finiti nella più amara miseria dopo essere stati da noi cacciati, truffati e rapinati. Gli uomini che noi abbiamo disprezzato per la loro modesta civiltà materiale e che da noi sono stati sterminati ciecamente e spietatamente, sono gli stessi uomini che ci hanno tramandato un’eredità spirituale inesauribile.

[…] La vera salvaguardia di questo patrimonio, la sua resurrezione per la nostra vita, è compito degli scrittori. Li ho già definiti i custodi delle metamorfosi, ma essi lo sono anche in un altro senso. In un mondo impostato sull’efficienza e sulla specializzazione, che altro non vede se non le vette a cui mirano tutti in una sorta di angusta tensione per la linearità, che indirizza ogni energia alla fredda solitudine di queste vette e invece disdegna e cancella le cose più vicine, il molteplice, l’autentico, tutto ciò che non serve ad arrivare in cima, in un mondo che sempre di più vieta la metamorfosi in quanto essa si pone in contrasto con il fine universale della produzione, che non esita a moltiplicare dissennatamente gli strumenti della propria autodistruzione e cerca nel contempo di soffocare quel poco che ancora l’uomo possiede delle qualità ereditate dagli antichi e che potrebbe servirgli a contrastare questa tendenza, in un mondo cosiffatto […] appare di un’importanza addirittura cruciale che alcune persone continuino malgrado tutto a esercitare questa capacità di metamorfosi.

Questo, secondo me, è il vero compito degli scrittori.

Grazie a una capacità che una volta era di tutti e che ora è condannata all’atrofia, capacità che essi ad ogni costo hanno il dovere di conservare, gli scrittori dovrebbero tenere aperte le vie di accesso tra gli uomini. Dovrebbero essere capaci di diventare chiunque, anche il più piccolo, il più ingenuo, il più impotente.

La loro brama profonda di vivere le esperienze degli altri non dovrebbe mai essere orientata dalle finalità che costituiscono la nostra vita normale e per così dire ufficiale, essa dovrebbe essere completamente esente dall’intento di ottenere successi o riconoscimenti, dovrebbe essere una passione a sé stante, la passione appunto della metamorfosi.

È chiaro che gli scrittori dovrebbero essere sempre pronti ad ascoltare, ma questo da solo non basta, perché oggi c’è un numero straripante di persone che quasi non sono più capaci di parlare e che si esprimono con le frasi dei giornali e dei mass media e sempre più dicono tutti le stesse cose, che pure in realtà non sono le stesse cose. Solo grazie alla metamorfosi, assunta nel significato più radicale che qui ho dato a questa parola, sarebbe possibile sentire ciò che un uomo è al di là delle sue parole, la vera sostanza di un essere vivente non è possibile coglierla se non in questo modo. È un processo enigmatico, di cui praticamente non è ancora stata esplorata la natura, eppure non c’è altra maniera di accedere davvero a un’altra persona. Si è tentato di definirlo in vari modi, si è parlato per esempio di empatia o immedesimazione, ma […] preferisco «metamorfosi» […]. Sono dunque incline a ravvisare la vera missione dello scrittore nel suo esercizio ininterrotto della metamorfosi, nel suo bisogno stringente di calarsi nelle esperienze di uomini di ogni tipo, di tutti, ma specialmente di quelli che sono meno considerati, nel far uso di questa capacità senza mai stancarsi e in un modo che non sia intristito o paralizzato da schemi preordinati. […]

Se qui prescindo totalmente da ciò che si suol chiamare successo, e addirittura ne diffido, ciò è legato a un pericolo che ciascuno conosce per averlo sperimentato di persona. L’intenzione di ottenere il successo, così come il successo in sé, hanno un effetto limitante. Chi intraprende una certa strada con l’idea di raggiungere un obiettivo, sente la maggior parte delle cose che non servono ad avvicinarlo alla meta come un’inutile zavorra. Egli se ne libera per essere più leggero, non può preoccuparsi del fatto che forse si sta liberando della parte migliore di sé, ciò che gli importa è il punto a cui è arrivato, da quel punto si libra verso un punto più alto, e il suo progresso lo misura a metri. La posizione per lui è tutto, è stata stabilita dall’esterno, non è lui che l’ha creata, e neanche ha preso parte alla sua genesi. La vede e cerca di raggiungerla, e per quanto un simile sforzo possa essere utile e necessario in molti campi della vita, per lo scrittore come noi lo abbiamo in mente sarebbe solo uno sforzo distruttivo. Questi, infatti, deve prima di tutto far posto in se stesso, sempre più posto. Posto per il sapere, di cui si appropria senza uno scopo preciso, e posto per gli esseri umani che conosce e accoglie in sé mediante la metamorfosi. Per quel che riguarda il sapere, egli potrà conquistarlo solo ripercorrendo nel loro nitido profilo i processi che determinano la struttura più intima di ogni branca del sapere. […]

Lo scrittore è l’essere più vicino al mondo ogni volta che reca in sé il caos, e tuttavia egli sente la responsabilità di questo caos (è il tema da cui siamo partiti), non lo apprezza affatto, nel caos non si trova a suo agio, non si sente un fenomeno perché fa posto in se stesso a tante cose contraddittorie e sconnesse, quel caos lo odia e non rinuncia alla speranza di poterlo dominare per gli altri e dunque anche per sé.

Se vuole dire qualche cosa che abbia un certo valore riguardo al mondo in cui viviamo, lo scrittore non può né scansarlo né allontanarlo da sé. Ma […] non dovrà abbandonarsi alla mercé del caos e anzi […] dovrà saperlo contrastare e opporre ad esso la forza impetuosa della speranza.

Ma che cosa può essere questa speranza, e perché mai essa ha un valore soltanto se trae alimento dalle metamorfosi che lo scrittore attua in se stesso, con gli uomini del passato grazie alle sollecitazioni derivanti dalla lettura, e con i contemporanei grazie alla sua disponibilità per il mondo attuale che lo circonda?

Intanto c’è la potenza delle figure che lo hanno investito e che, una volta insediatesi in lui, non cedono il posto. Sono figure che reagiscono attraverso di lui, come se di esse fosse fatto il suo essere. Queste figure sono la sua molteplicità, articolata e consapevole, e siccome vivono dentro di lui, rappresentano la sua resistenza alla morte. Già appartiene alle qualità dei miti tramandati per via orale che essi siano detti e ridetti. La loro vivacità è pari alla loro determinatezza, ai miti è concesso di non modificarsi. Solo considerandoli uno per uno si può scoprire in che cosa consista la loro vitalità, e forse ci si è soffermati troppo poco sul perché debbano essere continuamente ripetuti.

[…] Intendo sottolineare una cosa sola: il senso di certezza e di perentorietà che si trae dal mito, esso è così e non potrebbe essere che così. Quale che sia il contenuto del mito di cui veniamo a conoscenza, per quanto inverosimile debba apparirci in altri contesti, noi nel mito non lo mettiamo in dubbio, qui esso assume una sua indeformabile e irripetibile configurazione.

Questa riserva di certezze, gran parte delle quali sono giunte fino a noi, è stata adoperata per gli abusi più peregrini. […] Il rifiuto dei miti, che è un tratto caratteristico della nostra epoca, è spiegabile appunto in base ad ogni sorta di abusi che di questi miti sono stati fatti. Essi sono visti come menzogne perché se ne conoscono soltanto le strumentalizzazioni, e scartando queste si scartano anche i miti in quanto tali. Le metamorfosi che ancora essi testimoniano sono ritenute indegne di fede. […]

Ma ciò che a prescindere dai loro specifici contenuti costituisce la peculiarità dei miti è la metamorfosi che in essi si attua. Grazie alla metamorfosi l’uomo è diventato quello che è. […] Ho detto che può essere scrittore solamente colui che sente la responsabilità […]. È una responsabilità per la vita che si sta distruggendo, e non bisogna vergognarsi di dire che questa responsabilità è nutrita dalla pietà. La pietà non ha alcun valore se viene proclamata come sentimento generico e indeterminato. Essa esige la concreta metamorfosi in ogni singolo essere che vive e che c’è. Nel mito e nelle opere letterarie che ci vengono tramandate lo scrittore apprende ed esercita la metamorfosi. Ma egli non vale nulla se non l’applica incessantemente al mondo che lo circonda. La vita che lo pervade mille volte, e di cui egli percepisce separatamente ogni singola manifestazione, non si compendia in lui in un mero concetto, ma gli dà l’energia di contrapporsi alla morte e di attingere così a una sorta di universalità.

Non può essere compito dello scrittore lasciare l’umanità in balìa della morte. Apprenderà con sgomento, lui che non si chiude di fronte a nessuno, che la morte sta assumendo in molti uomini un potere crescente.

Anche se dovesse apparire a tutti un’impresa disperata, egli a questo si ribellerà, e mai, in nessun caso, sarà disposto a capitolare. Sarà suo vanto opporre resistenza ai banditori del nulla, che sempre più numerosi allignano tra i letterati, e suo vanto combatterli con mezzi diversi dai loro. Lo scrittore vivrà, secondo una legge che non è stata tagliata su di lui, ma è lo stesso la sua legge. Eccola:

Nessuno sia respinto nel nulla, neanche chi ci starebbe volentieri.

 

 

Si indaghi sul nulla con l’unico intento di trovare la strada per uscirne, e questa strada la si mostri ad ognuno.

 

 

Si perseveri nel lutto e nella disperazione per imparare la maniera di farne uscire gli altri, ma non per disprezzo della felicità, che compete alle umane creature, benché esse la deturpino e se la strappino a vicenda.

Elias Canetti, La missione dello scrittore. Discorso tenuto a Monaco di Baviera nel gennaio 1976, trad. di Renata Colorni, in Id., La coscienza delle parole, Adelphi, 1990, pp. 381-396.

Risvolto di copetina

«In questo volume sono presentati in ordine cronologico i saggi che ho scritto fra il 1962 e il 1974. A un primo sguardo potrà sembrare un po’ strano trovare qui riunite figure come Kafka e Confucio, Büchner, Tolstoj, Karl Kraus e Hitler, catastrofi terrificanti come quella di Hiroshima e considerazioni letterarie sulla stesura dei diari o sulla genesi di un romanzo. Ma io mi sono appunto occupato man mano di queste cose, poiché solo in apparenza esse sono fra loro incompatibili. Il pubblico e il privato non sono più separabili ormai, si compenetrano a vicenda in modi che in passato sarebbero apparsi inauditi. I nemici dell’umanità hanno acquistato potere rapidamente, sono assai prossimi alla meta finale, la distruzione della terra, è impossibile non tener conto di loro e ritrarsi nella esclusiva contemplazione di modelli spirituali che ancora possono avere per noi un certo significato. Questi sono diventati più rari, molti che potevano bastare alle epoche passate non hanno in sé una ricchezza sufficiente, il campo che abbracciano è troppo limitato per poter essere utili anche a noi. Tanto più importante diventa dunque parlare dei modelli che hanno retto perfino alla mostruosità di questo nostro secolo». Così scriveva Elias Canetti presentando la prima edizione di questo volume (1974). E spiegava poi che, unica eccezione, era incluso nel libro il suo discorso su Hermann Broch, tenuto a Vienna nel 1936, soprattutto perché in esso aveva formulato i «tre comandamenti» dello scrittore. Essi ci mostrano, nella loro congiunzione, il nodo inestricabile dei rapporti fra lo scrittore e il suo tempo: esserne «l’umile e devotissimo schiavo», avere la «ferma volontà» di darne una «visione d’insieme» e, infine, opporvisi, essere «contro il suo specifico odore, contro il suo aspetto, contro la sua legge». A distanza di quarant’anni, nel discorso di Monaco che chiude questo volume, Canetti offriva poi una definizione che implica quei «tre comandamenti» e schiude l’accesso a tutta l’opera sua, oltre che a questo libro stesso: lo scrittore come «custode delle metamorfosi», erede della capacità mitica di aprire in sé un vasto spazio dove ospitare le figure più contrastanti. Figure che, per lo scrittore, «sono la sua molteplicità, articolata e consapevole, e siccome vivono dentro di lui, rappresentano la sua resistenza alla morte».

Elias Canetti – Ci sono libri che si posseggono da vent’anni senza leggerli …
Elias Canetti (1905-1994)– L’opera sopravvive perché contiene pura quantità di vita e lo scrittore coinvolge tutti coloro che sono con lui nell’immortalità dell’opera.
Elias Canetti (1905-1994) – È intrinseco alla mia natura rifiutare e odiare ogni morte. L’intima natura del potente consiste nel fatto che costui odia la propria morte, soltanto la propria però, mentre la morte degli altri gli è non solo indifferente, ma perfino necessaria.
Elias Canetti (1905-1994) – Eliot non è un vero poeta, è un giocatore di birilli. Come tanti critici d’arte, come tanti critici-critici. È diventato un poeta solo perché a lui il cuore batte meno che ad altri, e vuole compensare con la chiarezza ciò che gli manca in fatto di passione.


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