Salvatore Bravo – Il pensiero corporante all’epoca del capitalismo assoluto, con la sua promessa dell’Eden restituisce soltanto un corpo esausto e violento, come nel mito della caverna di Platone. Si immilla la frustrazione. Il capitalismo oggi esige che l’uomo lotti contro se stesso oltre che contro gli altri.

Platone_Mito della caverna

caverna

Il pensiero corporante all’epoca del capitalismo assoluto


Sommario

Corpo, feticcio idolatrato

Necessità della mediazione simbolica e sua elusione

La promessa dell’Eden restituisce solo un corpo esausto

Si immilla la frustrazione

Il capitalismo oggi esige lotta contro se stessi, rancore rivolto contro di sé

I pensieri devono essere inquieti, pensieri di distruzione e reificazione

La violenza è diventata spettacolo

La violenza è legalizzata

Il corpo dello studente come tempio imprenditoriale

Corpo che vive nel sogno dopato dell’immagine: corpo divenuto violento

Corpo legato ai ceppi come nel mito della caverna di Platone

Körper o Leib


Illustrazione del mito platonico della caverna in un'incisione del 1604 di Jan

Illustrazione del mito in un’incisione del 1604 di Jan Saenredam.
I prigionieri immobilizzati davanti al muro, incapacitati nel guardare indietro,
fissano la parete e vedendo delle ombre,
in realtà modellini proiettati dalla luce di una torcia,
credono che esse siano vere figure umane.


 

 

Corpo,  feticcio idolatrato
Il tramonto del pensiero è il tramonto dell’Occidente. La genealogia del tramonto è la decadenza del corpo. Negli ultimi decenni assistiamo all’esaltazione del corpo, divenuto feticcio idolatrato. Il corpo vissuto è gradualmente anestetizzato dalla violenza delle immagini e degli stimoli: da quelli acustici ai gustativi. È un tripudio di stimolazioni. Non vi è però nulla di dionisiaco nella bacchiche foglie dell’Occidente, ma solo la disintegrazione del corpo vissuto.

Necessità della mediazione simbolica e sua elusione
Gli stimoli, per poter divenire pensiero, come pure processo di buone pratiche politiche, necessitano della mediazione simbolica, del tempo della sedimentazione, tempo in cui il corpo vissuto si ascolta vivere, dà voce umana alle mere stimolazioni nervose, nomina le immagini per concettualizzarle. Sono passaggi lenti e genealogici, che portano alla riconfigurazione del corpo vissuto. Se si parte dall’assunto spinoziano-nietzscheano che il pensiero è il corpo vissuto, per cui ogni appello a ipostasi come l’anima, la coscienza, il corpo, ed annessi dualismi non sono che esemplificazioni rassicuranti, comprendiamo la decadenza teoretica dell’Occidente.

La promessa dell’Eden restituisce solo un corpo esausto
Il corpo dell’Occidente – nell’epoca del capitalismo assoluto – è un corpo tormentatissimo, sottoposto ad una violenza perenne. Il peso di questa continua violenza molto spesso non è avvertito poiché l’azione perenne del potere economico sul corpo non è mai sospesa: si vive inseguiti, agguantati dal mercato, il quale promette l’Eden e restituisce un corpo esausto, spossato per il continuo saccheggio sensoriale.

Si immilla la frustrazione
Corpo efficiente, competitivo, i cui pori sono la porta d’ingresso della violenza capitalistica. Corpo che non deve invecchiare, deve vivere nel sogno dell’eterna giovinezza che si materializza con l’attività cosmetica e chirurgica. Corpo da incubo perché angoscia e toglie il respiro: il paradiso non è mai raggiunto, ma è sempre un nuovo desiderio indotto, spostato in avanti. Corpo che guarda il sogno realizzato degli altri corpi. Lo sguardo diventa bilioso e rancoroso. Le parole che corrono lungo la stimolazione perenne “Godimento infinito” “Senza limiti” sono il sedimento di pensieri anticomunitari e crematistici. Corpo in attività perenne in cui istinti e passioni si frammentano in una temporalità caotica e cronologica. È il tempo della successione-ripetizione. Il corpo – proiettato nell’orizzonte degli istinti e della loro soddisfazione fuori di sé, nel tempo che verrà – vive l’esperienza del godimento frustrato una, dieci, cento, mille volte … Si immilla la frustrazione.

Il capitalismo oggi esige  lotta contro se stessi, rancore rivolto contro di sé
Se il pensiero è esperienza del corpo, in questo contesto, che non necessita dei grafici di sociologi o di altri professionisti dell’analisi del Capitale, i pensieri conseguenti non sono che rabbia, rancore, pensieri non liquidi ma vettori dell’atomismo sociale.
Il ritorno ad una condizione hobbesiana realizzata: tutti contro tutti. Ma, dovremmo aggiungere: ognuno contro se stesso.
La grande novità del capitalismo assoluto, della violenza che si espande, e che pervade capillarmente ogni spazio, è la lotta contro se stessi, il rancore che si rivolge contro se stessi. Non si è mai all’altezza delle richieste del mercato, dell’ideale di perfezione corporale dell’esigente mercato che – mentre promette di venderti il paradiso – in realtà ti fa comprare l’inferno. Non una volta, ma ogni giorno, ogni ora, il tempo diviene il luogo degli inferni quotidiani.

I pensieri devono essere inquieti, pensieri di distruzione e reificazione
Dietro la volgarità, l’aggressività dei cattivi pensieri che abitano la cronaca, non vi è che la violenza del capitale che ha fatto del corpo vissuto un veicolo del corpo violenza, i cui pensieri non sono che il riflesso della caverna del Capitale assoluto in cui vive il corpo, della gabbia d’acciaio che stringe le sue maglie. Gli artigli del capitale stringono ed il corpo – che voleva godere – soffre, diviene esso stesso violenza, non ha che pensieri violenti. L’affermazione secondo cui il corpo non è che la tomba dell’anima, è pienamente realizzata. Il corpo è divenuto caverna, e nel buio della caverna i pensieri non possono che essere inquieti, pensieri di distruzione e reificazione, che si materializzano in atti linguistici, nell’incapacità di accettare la sconfitta, l’errore, il limite, e che tendono a realizzarsi nella soppressione dell’altro.
Corpo vorace eppure fragile, che trasmette al mondo la violenza che ha subito. Le cronache ci presentano lo stupore della violenza diffusa, crimini sempre più sadici: la violenza è distruzione del corpo di coloro che hanno negato la soddisfazione del sogno.

La violenza è diventata spettacolo
Non vi sono analisi teoretiche, non si utilizzano categorie del pensiero filosofico per capire: si invoca sempre più controllo, senza capire.
Anzi, la violenza è diventata spettacolo, attrae telespettatori che vogliono vivere il brivido del sensazionale; si vendono merci per acquietare i corpi squassati dall’eterna insicurezza, dal timore di essere aggrediti. Si guarda il mondo attraverso una feritoia, perché l’alterità è divenuta il potenziale aggressore. Tutto avviene in modo fatale ed esiziale: non vi sono spiegazioni, solo il destino muove la violenza che passa, plasma, organizza i corpi di sudditi senza speranza.

La violenza è legalizzata
La violenza è legalizzata. L’iperattività con cui la formazione è presentata nella offerta formativa delle scuole, non è che violenza organizzata. La formazione della cosiddetta “buona scuola” è l’esperienza del corpo scisso da sé. Le continue attività, lo spostamento da un luogo a un altro per competere, il mostrarsi in selfie pedagogico, sono il file rouge dell’attività formativa pubblica e privata.

Il corpo dello studente come tempio imprenditoriale
Lo studente non deve mai sospendere l’esecuzione della produzione, la sua formazione all’annichilimento del pensiero teoretico, perché il corpo dev’essere educato ad avere pensieri performativi. L’assenza di contenuti è questione ritenuta assai relativa, necessario è il corpo che non può che viversi come corpo teso alla lotta, dunque corpo come tempio imprenditoriale, in cui scrivere ed inscrivere la violenza del Capitale. Il resto è complementare. Il corpo è il supporto del pensiero, e per supporto si devono intendere le pratiche sociali: i linguaggi, le posizioni spaziali a cui il corpo è costretto, la tensione emotiva che lo attraversa perché dev’essere sempre teso all’attacco ed alla difesa.

Corpo che vive nel sogno dopato dell’immagine: corpo divenuto violento
Se si analizzano le pratiche del Capitale assoluto, si possono capire le ragioni della violenza diffusa del corpo divenuto veicolo di morte, luogo dove si mette in atto la logica del Capitale. Le miserie dell’abbondanza passano per le guerre che scuotono il corpo.

Corpo legato ai ceppi come nel mito della caverna di Platone
Il corpo è dunque legato ai ceppi come nel mito della caverna di Platone, costretto a sognare il falso. Un corpo che vive nell’oscurità, nel sogno dopato dell’immagine, non può che divenire violento: non a caso nel mito della caverna lo schiavo liberato è ucciso dagli schiavi. Essi non hanno pensiero teoretico, perché il loro supporto, il corpo, è al centro delle pratiche delle violenze che lo hanno formato e deformato e pertanto i loro pensieri sono puntuti, sciabole rancorose pronte a puntare ed uccidere chiunque smentisca o sia pronto a far vedere loro, improvvisamente, l’avvilimento, l’umiliazione a cui sono stati sempre sottoposti:

«Non avrebbe gli occhi pieni di tenebra, venendo all’improvviso dal sole? […] E se dovesse discernere nuovamente quelle ombre e contendere con coloro che sono rimasti sempre prigionieri, nel periodo in cui ha la vista offuscata, prima che gli occhi tornino allo stato normale? E se questo periodo in cui rifà l’abitudine fosse piuttosto lungo? Non sarebbe egli allora l’oggetto di riso? E non si direbbe di lui che dalla sua ascesa torna con gli occhi rovinati e che non vale neppure la pena di tentare di andar su? E chi prendesse a sciogliere e condurre su quei prigionieri, forse che non l’ucciderebbero, se potessero averlo tra le mani e ammazzarlo?» (Platone, La Repubblica, Libro VII, 517; Mito della caverna).

Körper o Leib
Le parole di Platone ci riportano al compito della filosofia: rifondare il pensiero teoretico nel regno del pensiero che ha come supporto il corpo mercificato. I tempi non possono che essere lunghi, il passaggio non può avvenire in modo improvviso, e non può che essere l’effetto di un lungo percorso. Siamo dinanzi ad un bivio: Körper o Leib. Merleau Ponty definiva il corpo vissuto come carne del mondo senza la quale ogni comunità è disintegrata, persa nell’abbaglio dell’atomismo sociale. Il futuro ed il presente implicano la responsabilità di tutti tra corpo morto o corpo vissuto nella relazione con l’altro e con se stessi. I pensieri ed i modelli sociali con le loro pratiche non saranno che una conseguenza delle scelte a cui tutti siamo chiamati.

Salvatore Bravo

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Albert Schweitzer (1875-1965) – L’ideale è per noi quello che è una stella per il marinaio. Non può essere raggiunto, ma rimane una guida.

Albert Schweitzer01
Filosofia della civiltà

Filosofia della civiltà

Albert Schweitzer, Filosofia della civiltà, Fazzi, 2014.

La sensazione di vivere in un’epoca di decadenza e confusione, in cui l’uomo sembra aver smarrito le proprie certezze sul senso dell’esistenza e del suo ruolo nel mondo, è un malessere trasversale a ogni periodo storico, e in particolare per gli intellettuali è sempre stato motivo di profonda inquietudine. Ma quello che a proposito di questa “nausea” scrive Albert Schweitzer, premio Nobel per la Pace e filosofo di raro acume, suona per noi oggi quanto mai intimo, come qualcosa che ci riguarda da vicino. Negli ultimi secoli l’umanità ha conosciuto un progresso che non ha precedenti nella storia, ma allo stesso tempo ha smarrito il senso di cos’è la civiltà, e il “peccato originale” alla base di questo vuoto è il fallimento della filosofia, che non è stata in grado di attendere a quella che fin dagli albori del logos è stata la sua vocazione: fondare, giustificare e diffondere una visione del mondo che permettesse di avere chiaro l’orizzonte di cosa ha valore e cosa no, di cosa ha senso e cosa no. Dopo l’avvento delle scienze naturali, che sembravano in grado di descrivere il mondo meglio di quanto tutta la storia del pensiero avesse fatto fino a quel momento, la filosofia si è ridotta in uno stato di sudditanza, convincendosi che il suo ruolo fosse esaurito, e da pensiero attivo è diventata storia della filosofia, una galleria di nature morte che non affrontano più le questioni fondamentali su cui gli individui dovrebbero riflettere.


Albert Schweitzer (1875-1965) – Nella maturità dobbiamo lottare per continuare a pensare liberamente e a sentire così profondamente come facemmo in gioventù.


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Eduardo Galeano (1940-2015) – … è all’orizzonte … Per quanto io cammini potrò mai raggiungerla …? A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare.

Eduardo Galeano 01
Paarole in Cammino 02

Paarole in Cammino

 

«Lei è all’orizzonte. […] Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare».

 

E. Galeano, Finestra sull’utopia, in Parole in cammino.


Eduardo Galeano – «Non accettiamo il tempo presente come destino. Un altro mondo è possibile»


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Marcello Zanatta – Concetto basilare dell’etica, il bene entra, in modo tematico o implicito, nella riflessine di tutte le filosofie dell’antichità e riveste anche una fondamentale dimensione ontologica.

Marcello Zanatta 01
Bene

Bene

 

Concetto basilare dell’etica, il bene entra, in modo tematico o implicito, nella riflessine di tutte le filosofie dell’antichità. La sua rilevanza, tuttavia, non è soltanto di ordine morale, ma in Platone e nei Neoplatonici riveste anche una fondamentale dimensione ontologica, e in Aristotele è oggetto pure di un’indagine metafisica. In questo libro la nozione del bene è presentata in tutte le fasi del pensiero filosofico antico e con tematico riferimento ai loro principali esponenti. Lo si analizza così nel Presocratici, nei Sofisti, in Socrate, in Platone, in Aristotele, in Epicuro, negli Stoici (antichi, del periodo di mezzo e del periodo romano), nei rappresentanti dello scetticismo che più marcatamente ne hanno trattato, nei Neoplatonici. In ognuno di questi filosofi e nel quadro delle corrispondenti linee di pensiero il bene è analizzato altresì nelle valenze che assume in rapporto con altre basilari figure della filosofia, quali il conoscere, la virtù, la fel icità, la prassi e poi la sostanzialità e le sue condizioni. Ne emerge una presentazione ampia e articolata, corredata da una nutrita bibliografia.



Altre pubblicazioni di Marcello Zanatta

 

Anima

Anima

Dell'interpretazione di Aristotele

Dell’interpretazione di Aristotele

Homo moriens

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Identità, logos e verità in Heidegger

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Introduzione alla filosofia di Aristotele

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La forma del corpo vivente

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La ragione verisimile, Saggio sulla Poetica di Aristotele

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La teoria aristotelica della percezione

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Lineamenti della filosofia di Aristotele

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Profilo storico della Filosofia antica

Profilo storico della Filosofia antica

Sapienza e filosofia prima in Aristotele

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Storia della filosofia antica

Storia della filosofia antica

 

 



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Giuseppe Ungaretti (1888-1970) – Sdegno e coraggio di vivere sono stati la traccia della mia vita. Volontà di vivere nonostante tutto, stringendo i pugni, nonostante il tempo, nonostante la morte. Vi arriva il poeta e poi torna alla luce con i suoi canti e li disperde.

porto sepolto

Il porto sepolto, 1916

Vi arriva il poeta
e poi torna alla luce con i suoi canti
e li disperde

Di questa poesia
mi resta
quel nulla
d’inesauribile segreto

 

 

 

 

 

Vita di un uomo

Vita di un uomo

Non sono il poeta dell’abbandono alle delizie del sentimento, sono uno abituato a lottare, e devo confessarlo – gli anni vi hanno portato qualche rimedio – sono un violento: sdegno e coraggio di vivere sono stati la traccia della mia vita. Volontà di vivere nonostante tutto, stringendo i pugni, nonostante il tempo, nonostante la morte. Giuseppe Ungaretti, da Note a L’allegria; in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Milano.

 

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Il porto sepolto di Alessandria d’Egitto.

Museo sottomarino di Alessandria di Egitto.

 

 

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Salvatore Bravo – L’assenza di futuro è il nichilismo dell’assoluto presente. Il trionfo dell’immediato-astratto forma individui e non persone. Il radicamento nell’attimo fa del soggetto un ente che si piega alle circostanze.

Giovanni Gentile 01

 

 

 

La riforma della dialettica hegeliana

La riforma della dialettica hegeliana

L’assenza di futuro è il nichilismo dell’assoluto presente. La contemporaneità è il luogo dell’astratto, dell’immediato scisso da ogni legame con se stessi e con la comunità. Il naturale fondamento dell’umanità – ovvero, la relazione – perisce sotto i colpi della scure dell’indifferenziazione delle scelte. Il silenzio del futuro è dunque sradicamento dal presente. L’umanità globalizzata vive la condizione del ritiro dal mondo, misticismo edonistico che favorisce la globalizzazione della reificazione. In assenza di radicamento, di empatia, di reciprocità con e nella comunità, il futuro diviene pura espressione verbale: il futuro – per esserci – esige il presente nella sua vitalità emotiva e razionale. La reificazione, e il gioco alla riduzione ad un presente onnivora-mente consumato, ha divorato il futuro. La condizione umana diviene pura presenza, pubblico passivizzato di uno spettacolo non scelto, ma semplicemente subìto nel chiasso della esemplificazione. Coloro che hanno cercato un asse verso il futuro scompaiono dal teatrino mediatico della pseudo-discussione “culturale”, dal circo mediatico che rende omaggio soltanto al nichilismo linguistico delle vuote parole, della volgarità di massa, delle evanescenti meteore della cultura-spettacolo. Tutto pur di cancellare dall’orizzonte la necessità di una prassi comunitaria e l’esigenza stessa di futuro altro possibile. Il modo più efficace per ottenere tale risultato è rendere ogni persona individuo-atomo. Si lotta con gli altri e per gli altri, la vita è prassi nella comunione delle idee, ma ancor più profondamente nella comunione della carne vissuta. Il fondamento è annichilito con le armi dello stordimento di massa: competizione, crematistica, culto del corpo spettacolo: la prospettiva del futuro non può che collassare. Il trionfo dell’immediato-astratto forma individui e non persone.
Scomparsi dall’orizzonte mediatico, vi sono autori che continuano a offrirci concetti per capire il presente ed aprire alla prospettiva della trasformazione.
Giovanni Gentile non è assente dal circo mediatico per la sua adesione al fascismo. In realtà, una lettura di questo autore meno stereotipata ed omologata, ci porta al ragionevole sospetto che su di lui pesi la fatwa liberista. Filosofo della prassi e della comunità intendeva l’essere umano come soggetto creativo, responsabile della prassi, in cui la dimensione del presente è concretamente colta nel suo darsi verso il futuro:

«Lo svolgimento spirituale, in cui consiste, è questa progressiva autodeterminazione dell’Io: nella quale ogni momento è un’affermazione in nuova forma dell’Io stesso, e però una negazione, un reale annullamento dell’Io nella forma in cui era prima determinato: un passare dal non essere all’essere di un Io determinato: e, poiché un io non determinato non è nulla, si può anche dire che sia un passare dal non essere all’essere dell’Io. La nostra vita è un continuo morire del vecchio io, un nascere continuo del nuovo, in cui il vecchio bensì permane, ma rinnovato e trasfigurato». [i]

L’attualismo gentiliano, dunque, è prassi, trasformazione, il presente ed il passato nella concretezza non sono distinguibili, ma sono il libero fuoco del pensiero che rende ubertoso il futuro. La libertà è pensiero nel quale sono integrati i piani della persona. Nel concreto i piani non sono geometricamente distinguibili. L’essere umano gentiliano ha sul fondo la lezione di Vico: l’umanità esprime al massimo il suo potenziale creativo nell’unità dello spirito. La storia è lo scenario in cui l’essere umano realizza pienamente la sua umanità:

«Ora non posso tracciare tutta la storia del progresso del soggettivismo. Ma non posso non accennare che G. B. Vico ha, per questo rispetto, il merito di avere benché oscuramente, affermato, di contro all’analisi cartesiana, la necessità tutta moderna di quella sintesi che egli scolpiva nella celebre frase: verum et factum convertuntur; di avere primo, con entusiasmo che ha del religioso, additato nello sviluppo eterno del mondo delle nazioni, che lo sviluppo dello spirito, la stessa realizzazione di quella che egli diceva Provvidenza divina: unificando il divino e l’umano, e risolvendo, per conseguenza, l’immobilità e l’eternità pura di quello nel processo storico, ed eterno in quanto storico, di questo; di aver insomma inaugurato la nuova metafisica, che è filosofia dello spirito, anticipando di un secolo il movimento del pensiero, quale si svolse poi gradatamente in Germania». [ii]

Il regno dell’astratto è il trionfo del cartesianesimo: analisi senza sintesi. La divisione è il mezzo con il quale si effettua il dominio dell’incomprensibile. Il presente risulta adialettico, nella divisione lo sguardo olistico si eclissa per lasciare spazio all’integralismo della violenza di una parte sulle altre. L’assoggettamento economico del mondo e delle persone, vive e prolifera nella separazione. La dinamicità della coscienza è così occultata, resa presenza, oggetto dei processi. Il soggetto necessita della coscienza di sé per potersi porre come soggetto della storia, deve poter ricostruire il processo complesso del quotidiano per vivere la propria presenza come attore di un possibile cambiamento. Affinché ciò si possa materializzare è necessario che il soggetto sia autocoscienza, Gegenstand, consapevole di aver posto il mondo e dunque responsabile di un eventuale processo di riforma. «La Filosofia è il proprio tempo appreso in pensieri», affermava Hegel in Lineamenti di Filosofia del diritto. Se invece si vive l’esperienza della separazione, se il mondo semplicemente è sempre esistito e con esso le forme sociali, la coscienza è ente tra gli enti, oggetto di manipolazione senza speranza, senza futuro, senza presente, senza storia.

L’aumento delle merci è proporzionale alla negazione dell’essere umano. Il radicamento nell’attimo, nel cogliere l’occasione per il risultato, fa del soggetto ente che si piega alle circostanze, ne è trascinato via, sviluppando in tal modo una estrema adattabilità agli eventi fino alla dimenticanza di sé. La divisione è abitudine alla morte. La vita, per Giovanni Gentile, è unità. Anche la morte, per il filosofo dell’attualismo, è un atto di vita in quanto si muore a qualcuno.

La filosofia forma alla vita, essa stessa è un corpo vivo, le cui parti ritrovano il loro senso nella loro relazione imprescindibile come la vita:

«La filosofia appunto perciò è una; e si trasformi, s’atteggi variamente, e si particolarizzi quanto si voglia, resta sempre la filosofia come appunto quello sforzo di fissare l’essere nella sua organica natura, in ogni momento della coscienza, nella sua vittoria sul non essere. Quel ritmo vitale dell’essere, che la filosofia si sforza di conoscere, se è il ritmo dell’essere vivo della coscienza nostra, deve essere il ritmo della natura che si rispecchia nell’animo nostro, il ritmo dello spirito, alla cui formazione assistiamo interiormente, spettacolo insieme e spettatori, il ritmo del conoscere e dell’operare: di tutto ciò che è di tutto l’essere. Perciò ogni filosofo, ogni sistema ha un principio e un complesso di dottrine speciali, in cui quel principio viene esplicato, e ciascuna delle quali perderebbe tutto il suo significato e la sua stessa consistenza se volesse considerarsi indipendentemente dal principio». [iii]

La filosofia di G. Gentile è attualismo perché concretezza della vita contro ogni positivismo scientista. Filosofia della vita contro ogni rigor mortis delle parti. L’ostilità nei suoi confronti, ad un approfondito esame, non può essere ridotta alla sua adesione al fascismo, piuttosto problematica, ma rientra nell’attuale ostracismo contro gli autori che hanno posto la coscienza e la prassi quale sostanza del loro pensiero. La concretezza con il suo operare è osteggiata per favorire l’ipostatizzazione dell’immediato, perché si viva nella tragica e bugiarda negazione non solo del futuro, ma specialmente dell’analisi complessiva dei fenomeni sociali. Il Regno animale dello Spirito di Hegel può presentarsi, così, come l’unico modello possibile, eternizzato dalla mortificazione generale e dall’espulsione di ogni atteggiamento teoretico. La caverna diviene gabbia d’acciaio. Contro di essa l’attualismo di G. Gentile ha ben reso paleso quanto il pensato rivissuto è pensiero concreto in quanto ridivenuto attuale e come tale combustibile per il pensiero pensante, agere, nuovo inizio e come tale già prassi, e quindi apertura verso il futuro:

«Un pensiero nostro, ma già pensato, non si ripensa se non in quanto si rivive nel pensiero attuale; è cioè solo e in quanto esso non è il pensiero di una volta, distinto dal pensiero presente ma lo stesso pensiero attuale, almeno provvisoriamente. Sicché pensare un pensiero (o porre il pensiero oggettivamente) è realizzarlo; ossia negarlo nella sua astratta oggettività per affermarlo in un’oggettività concreta, che non è di là dal soggetto, poiché è in virtù dell’atto di questo». [iv]

L’attualismo, filosofia della prassi, ha nell’atto la sua legge teoretica. L’atto è l’unità della coscienza viva pensante che si sottrae al fatalismo per essere nel mondo, per vivere la responsabilità dell’agire politico. Nell’anomia generalizzata delle passioni tristi, G. Gentile rompe con la decadenza della fine delle grandi narrazioni per sfidarci ad un altro modo di esserci nella storia.

Solo con la forza plastica di grandi autori possiamo cominciare a ritrovare la via che ci conduce fuori dalla “gabbia d’acciaio”. Perché questo accada dobbiamo superare l’ostacolo epistemologico indotto da una società in cui si può trasgredire in ogni ambito, ma non si può pensare con coscienza di sé, perché tale coscienza è sostituita con il semplice “sentire.”

Salvatore Bravo

[i] Giovanni Gentile, La riforma della dialettica hegeliana, Sansoni, Firenze 1954, pag. 261

[ii] Ibidem, pag. 115.

[iii] Ibidem, pag.110.

[iv] Ibidem, pag. 184.

 



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Gianluca Giachery – Recensione a «Esistenza, ragione, storia. Pietro Chiodi (1915-1970)». La radicalità etica e l’attualità della riflessione del filosofo e comandante partigiano.

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269 ISBN

indicepresentazioneautoresintesi

Giuseppe Cambiano, Cesare Pianciola (a cura di), Esistenza, ragione, storia. Pietro Chiodi (1915-1970), Pistoia, Editrice Petite Plaisance. 2017, pp. 160, ISBN 978-88-7588-195-5, euro 15,00.

«Tutti tacquero. Max riprese: – Conosci il tedesco? – Lo so leggere ma non saprei parlarlo. – Che libri leggi in tedesco? – Sto leggendo Heidegger. – Max si rivolse all’agente della Gestapo dicendo: – Dev’essere uno scrittore comunista. Vero? – L’altro guardò l’ufficiale italiano dicendo: Ja, ja –. Questi annuì col capo».

Si tratta dell’interrogatorio subito da Pietro Chiodi, filosofo e comandante partigiano (1915 -1970), nella caserma di Bra il 22 agosto del 1944, dopo la sua cattura, e riportato in Banditi, una delle testimonianze sulla guerra partigiana più rilevanti della nostra letteratura, in anni in cui sia la storia che la letteratura (non solo quelle insegnate nelle scuole) hanno perso gran parte del loro potenziale, appunto, educativo e progettuale. Ancora un’altra annotazione di Chiodi, tratta sempre da Banditi:

«Carcere di Bra, 22 agosto 1944:
– Come ti chiami?
– Chiodi Pietro.
– Che mestiere facevi?
– Il professore.
– Quanti anni hai?.
– Ventinove».

Filosofo impegnato, allievo di Abbagnano, fraterno amico di Leonardo Cocito (il geniale professore di letteratura del Liceo di Alba, antifascista e impiccato dai nazi-fascisti), professore e Maestro di Beppe Fenoglio, primo traduttore italiano di Heidegger (la sua traduzione di Esse e Tempo rimane, tutt’ora, ineguagliata), fine studioso di Kant ma anche dell’esistenzialismo di matrice sartreana, Pietro Chiodi è una di quelle figure di intellettuale che poco si adatta a qualsiasi etichetta specialistica. Piuttosto, pur nell’approfondimento di alcune tematiche di carattere squisitamente filosofico-teoretico, egli non ha mai perso di vista la dimensione dell’impegno politico-culturale nella società, trasformando lo studio e l’insegnamento in materia viva, nel pieno rigore del pensiero critico kantiano.
La dimensione dell’impegno, l’amore per il dibattito, il polemos e la discussione, oltreché una appassionata dedizione alla ricerca, allo studio e all’analisi dei testi filosofici caratterizza la figura complessiva del filosofo di Corteno Golgi, nel volume curato da Giuseppe Cambiano e Cesare Pianciola. Volume che, oltre a contenere saggi di studiosi che si soffermano sulle differenti direzioni del pensiero di Chiodi, ci consegna una preziosa testimonianza di Aida Ribero, compagna del filosofo, e un saggio dello stesso Chiodi, del 1957, dal titolo “Alcune riflessioni a proposito dello scritto di Antonio Giolitti, Riforme e rivoluzione, a voler ribadire la sua costante attenzione al tema dell’impegno civile.
Chiodi è stato anche un instancabile traduttore di opere filosofiche: dalla Critica della ragion pura agli Scritti morali di Kant, a testi di Heidegger, Jaspers, Löwith, Carnap, Weber, Tatarchiewicz. Tutto ciò a dimostrare – come viene evidenziato nel saggio di Gianluca Garelli, Filosofia e traduzione in Pietro Chiodi – che, per il filosofo, il confronto diretto con il testo costituiva un vero e proprio lavoro intellettuale di comprensione e di esplicazione ermeneutica.
È Cambiano a delineare un profilo attento e critico di Chiodi, ripercorrendo i temi centrali (tutti uniti da un rigore teoretico) della sua ricerca: dall’influenza e dialogo continuo con Abbagnano (grande ed esemplare figura di riferimento della scuola filosofica torinese), fino agli studi centrali dedicati ad Heidegger, in un confronto serrato con la fenomenologia husserliana; dal “rirorno a Kant” (Chiodi aveva dedicato la propria tesi di laurea – andata dispersa – al filosofo di Königsberg), agli studi su Sartre e il tema dell’alienazione, per immergersi, poi, nel “dibattito sull’esistenzialismo” che, tra la metà degli anni ‘50 e gli anni ‘70, coinvolse personaggi eminenti del panorama culturale e filosofico italiano, tra cui Anronio Banfi, Remo Cantoni, Enzo Paci, Abbagnano e lo stesso Chiodi.
Come Abbagnano, scrive Cambiano, anche Chiodi cerca l’anti-Hegel, e lo trova in Heidegger. «Per Chiodi, come del resto per Abbagnano, Hegel rimarrà sempre l’eroe negativo. Per valutare gli aspetti positivi o i limiti di qualsiasi filosofia il confronto con Hegel apparirà sempre determinante. Ciò vale anche per il pensiero di Heidegger» (p. 9).
L’Heidegger di Essere e Tempo costituisce per Chiodi un punto di apertura e, contemporaneamente, di differenziazione rispetto alla Lebensphilosophie, poiché restituisce al Dasein la centralità dell’esistenza, quindi, al suo carattere fondamentalmente ontologico. Tuttavia, rileva Chiodi, assolutizzando la struttura stessa del Dasein, Heidegger non può che fallire nel progetto iniziale di Essere Tempo, avvitandosi continuamente nel tentativo di esplicare le forme attraverso cui si rivela lo stesso Dasein. Per questo, nonostante l’attenzione a quella prima, fondamentale opera heideggeriana, Chiodi dedicherà negli anni ‘50 saggi penetranti sul pensiero del “secondo Heidegger”, in quel percorso che da Sentieri interrotti (Holzwege) , tradotto dallo stesso Chiodi, porta a definire la “Svolta” (Kehre) heideggeriana. Si tratta, tuttavia, effettivamente di una “svolta”? È il problema posto da Chiodi.
Lo studio di Heidegger è strettamente connesso all’emergere del confronto di Chiodi con l’esistenzialismo e, in particolare, con Sartre. A questa tematica, Pianciola dedica un saggio accurato e approfondito, che ripercorre la genesi dell’attenzione da parte di Chiodi al pensiero sartreano. Per Chiodi, scrive Pianciola, «Sartre ha avuto il merito di aver tentato un incontro tra esistezialismo e marxismo come critica della ragione dialettica, cioè come analisi delle condizioni di un uso valido e non mistificato dei concetti marxistici di prassi, dialettica, alienazione» (p. 72). In tal senso, come per Heidegger e per altri pensatori, Chiodi propone sempre una disamina attenta e critica dell’opera del filosofo francese, rilevando, nella scrittura filosofica sartreana, alcune cesure che contraddistinguono il passaggio da L’essere e il nulla alla Critica della ragione dialettica. Pianciola sottolinea come, da un lato, per Chiodi la categoria di “progetto” viene ripresa ne L’essere e il nulla da Heidegger in una prospettiva coscienzialista, mentre nella Critica della ragione dialettica, «il progetto è prassi in situazione» (p. 73); d’altro canto, la categoria stessa di relazione assume una duplice valenza nelle due opere: nella prima viene ripreso il Mit-Sein heideggeriano come costitutivo dell’essere, mentre nella Critica la reciprocità diviene la «struttura formale originaria dell’esistenza» (ivi). È evidente, in questo caso, la trasformazione del pensiero sartreano in direzione di una maggiore attenzione alle dinamiche dei gruppi (il “collettivo”), in quanto espressione delle modalità politiche del soggetto di agire nella società, per prendere consapevolezza della propria condizione di sfruttamento e alienazione.
Tra prassi, dunque, alienazione e permanenza del primato della coscienza nel pensiero sartreano, Chiodi, rifacendosi a Kierkegaard, fa emergere la categoria della «possibilità», proprio perché, secondo il filosofo, non è possibile scardinare completamente il negativo che rimane costantemente come un’ombra nella radicalità dei processi umani. Qui, per Chiodi, rileva ancora Pianciola, si chiarifica e puntualizza il ruolo della filosofia (e del filosofo): «La filosofia delinea campi di significati, di valori, di possibilità, deve indicare ciò che minaccia l’umanità dell’uomo, invitare all’azione per combattere le condizioni che lo degradano» (p. 78). Una direzione, questa, decisa e trasparente anche nei confronti dei limiti dello stesso ruolo euristico della filosofia, che fa emergere la radicalità etica e l’attualità della riflessione di Pietro Chiodi.

Gianluca Giachery

 


Testo già pubblicato su “Paideutika”. Quaderni di formazione e cultura, 27, Nuova serie, Anno XIV, 2018.


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Cosa vuol dire Paideutika?

Letteralmente essa è la menzione al plurale dell’aggettivo verbale derivato dal greco paideuo (istruisco, educo, formo), da cui anche paideia (educazione, cultura, istruzione, conoscenza). cui Paideutika nomina tutto ciò che ha a che fare con la formazione dell’uomo.
Così Paideutika intende sviluppare una critica serrata delle pratiche di assoggettamento formativo a partire esattamente dal nesso formazione/cultura. E di farlo nel segno di una tradizione fenomenologica che, con accentuata attenzione esistenziale, non potrà che immergersi nelle infinite forme della vita di cultura – dalla filosofia alle scienze umane, dall’arte alla letteratura, dalle scienze sociali e politiche a quelle dell’educazione – per rivendicare, oggi, l’urgenza di un pensiero radicale. Un pensiero capace di reagire, con metodo decostruttivo, alla confortevole e levigata illibertà che sempre si annida nelle formule retoriche ed edificanti del pedagogismo corrente.


Alcune pubblicazioni di
Gianluca Giachery

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Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900) – Un’educazione che faccia intravedere alla fine del suo corso un impiego, o un guadagno materiale, non è affatto un’educazione in vista di quella cultura che noi intendiamo, ma semplicemente un’indicazione delle strade che si possono percorrere per salvare e difendere la propria persona, nella lotta per l’esistenza.

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La filosofia nell'epoca tragica dei Greci e Scritti dal 1870 al 1873

La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e Scritti dal 1870 al 1873

 

«La vera cultura disdegna […] contaminarsi con un individuo bisognoso e pieno di desideri: essa sa sgusciare accortamente dalle mani di colui che vorrebbe impossessarsi della cultura come di un mezzo per i suoi fini egoistici. E quando qualcuno crede di averla afferrata, per ricavarne in qualche modo un guadagno, e sfruttandola placare i bisogni della sua vita, essa allora corre via subitaneamente, a passi impercettibili e con atteggiamento di disdegno.
Di conseguenza, amici miei, non scambiate questa cultura, questa dea eterea, raffinata, dal piede leggero, con quell’utile domestica che talvolta viene anche chiamata ‘la cultura’, ma non è altro se non la serva e la consigliera intellettuale delle necessità della vita, del guadagno e della miseria. Un’educazione, peraltro, che faccia intravedere alla fine del suo corso un impiego, o un guadagno materiale, non è affatto un’educazione in vista di quella cultura che noi intendiamo, ma semplicemente un’indicazione delle strade che si possono percorrere per salvare e difendere la propria persona, nella lotta per l’esistenza».

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Friedrich Wilhelm Nietzsche, Über die Zukunft unserer Bildungsanstalten (1872); trad. it., Sull’avvenire delle nostre scuole, ne La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e Scritti dal 1870 al 1873, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1980, vol. III, tomo II, p. 164. Il testo completo delle cinque conferenze si può leggere alle pp. 79-206 di questo volume.


Friedrich Nietzsche (1844-1900) – Scrivi col sangue: imparerai che il sangue è spirito


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Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900) – Chi si sente completamente in accordo con questo presente, e lo assume come qualcosa ‘che si comprende da sé’ non è da noi certo invidiato. Tra costoro e i solitari, stanno tuttavia in mezzo i combattenti, cioè coloro che sono ricchi di speranza.

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La filosofia nell'epoca tragica dei Greci e Scritti dal 1870 al 1873

La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e Scritti dal 1870 al 1873

 

«Chi si sente completamente in accordo con questo presente, e lo assume come qualcosa ‘che si comprende da sé’ (‘selbstverständlich’), non è da noi certo invidiato, né per questa fede né per questa parola di moda ‘che si comprende da sé’, formata in modo scandaloso; chi invece, giunto all’opposto punto di vista, è già disperato, non ha più bisogno di combattere, e non appena si arrenderà alla solitudine, sarà senz’altro solo. Tra costoro ‘che si comprendono da sé’ e i solitari, stanno tuttavia in mezzo i combattenti, cioè coloro che sono ricchi di speranza».

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Friedrich Wilhelm Nietzsche, Über die Zukunft unserer Bildungsanstalten (1872); trad. it., Sull’avvenire delle nostre scuole, ne La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e Scritti dal 1870 al 1873, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1980, vol. III, tomo II, p. 84. Il testo completo delle cinque conferenze si può leggere alle pp. 79-206 di questo volume.


Friedrich Nietzsche (1844-1900) – Scrivi col sangue: imparerai che il sangue è spirito


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Pier Paolo Pasolini (1922-1975) – La società dei consumi ha profondamente trasformato i giovani. Non si tratta più, come all’epoca mussoliniana, di una irreggimentazione scenografica, ma di una irreggimentazione reale che ha rubato e cambiato loro l’anima. Questa ‘civiltà dei consumi’ è una civiltà dittatoriale.

Pier Paolo Pasolini 50
Scritti corsari

Scritti corsari

Questo nuovo fascismo, questa società dei consumi […]
ha profondamente trasformato i giovani, li ha toccati nell’intimo,
ha dato loro altri sentimenti, altri modi di pensare, di vivere,
altri modelli culturali.
Non si tratta più, come all’epoca mussoliniana,
di una irreggimentazione superficiale, scenografica,
ma di una irreggimentazione reale
che ha rubato e cambiato loro l’anima.
Il che significa, in definitiva, che questa ‘civiltà dei consumi’
è una civiltà dittatoriale.
Insomma, se la parola fascismo significa la prepotenza del potere,
la ‘società dei consumi’ ha bene realizzato il fascismo.

 

 

P. P. Pasolini, Fascista (1974), in Scritti corsari (1975), Prefazione di P. Di Stefano, Edizioni Corriere della Sera, Milano 2015, pp. 282-283.


Pier Paolo Pasolini – Amo la vita
Pier Paolo Pasolini (1922-1975) – Marilyn. Quella bellezza l’avevi addosso umilmente
Pier Paolo Pasolini (1922-1975) – Il potere di oggi manipola i corpi in un modo orribile. Li manipola trasformandone la coscienza, cioè nel modo peggiore, con valori alienanti e falsi, i valori del consumo, che compiono quello che Marx chiama un genocidio delle culture viventi.
Pier Paolo Pasolini (1922-1975) – Nel teatro la parola vive di una doppia gloria, mai essa è così glorificata.

 



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