Marco Aurelio (121-180) – Com’è breve il tempo dalla nascita alla dissoluzione. Che cosa dunque può accompagnarci nel vivere? Una sola e unica realtà: la filosofia.

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«Com’è breve il tempo dalla nascita alla dissoluzione, abisso prima della nascita, come ugualmente infinito dopo la dissoluzione» (IX, 32) .

«Il tempo della vita umana è un punto, la sua sostanza flusso, la sensazione è oscura, l’intero composto fisico facile a corrompersi, l’anima erramento, la sorte realtà indecifrabile, la fama incerta; per dire in breve, tutto quanto attiene al corpo è fiume, quanto riguarda l’anima è sogno e vanagloria, e la vita guerra e viaggio di uno straniero, oblio la fama presso i posteri»(II, 17)

«Che cosa dunque può accompagnarci nel vivere?
Una sola e unica realtà: la filosofia
» (II, 17).

Marco Aurelio, Pensieri.


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Omero – Come è la stirpe delle foglie, così quella degli uomini.

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«Come è la stirpe delle foglie, così quella degli uomini.
Le foglie il vento le riversa per terra, e altre la selva
fiorendo ne genera, quando torna la primavera;
così le stirpi degli uomini, l’una cresce e l’altra declina».

Omero, Iliade, VI, 180-184, traduzione di Guido Paduano, Mondadori, 2007

 

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Ritratto immaginario di Omero, copia romana del II secolo d.C. di un’opera greca del II secolo a.C. Conservato al Museo del Louvre di Parigi.

 


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Robert Walser (1878-1956) – Con grande attenzione e amore colui che passeggia deve studiare e osservare ogni minima cosa vivente. Dovremmo capire, e sentire, che colui che veramente esiste è solo l’uomo interiore.

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Robert Walser, La passeggiata, traduzione di Emilio Castellani, Adelphi, 1999.

 

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«Con grande attenzione e amore colui che passeggia deve studiare e osservare ogni minima cosa vivente: sia un bambino, un cane, una zanzara, una farfalla , un passero, un verme, un fiore, un uomo, una casa, un albero, una coccola, una chiocciola, un topo, una nuvola, un monte, una foglia, come pure un misero pezzettuccio di carta gettato via, sul quale forse un bravo scolaretto ha tracciato i suoi primi malfermi caratteri.

[…]

Guardavo attento a quanto v’era di più piccolo, di più modesto, mentre il cielo pareva inarcarsi alto e scendere profondo. La terra si faceva sogno; io stesso ero divenuto interiorità e procedevo come dentro di essa  […]. lo non ero più io, ero un altro, ma appunto perciò più che mai me stesso. Nella soave luce d’amore credetti di dover capire, o di dover sentire, che colui che veramente esiste è solo l’uomo interiore».

Robert Walser, La passeggiata, traduzione di Emilio Castellani, Adelphi, 1999

 

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Risvolto di copertina

La passeggiata (1919) è uno dei testi più perfetti di Walser, il grande scrittore svizzero che ormai, soprattutto dopo la pubblicazione delle sue opere complete, viene posto accanto a Kafka, a Rilke, a Musil – ammesso cioè fra i massimi autori di lingua tedesca del nostro secolo. Ma La passeggiata ha anche un significato peculiare in rapporto a tutta l’opera di Walser: è in certo modo la metafora della sua scrittura nomade, perpetuamente dissociata e abbandonata agli incontri più incongrui, casuali e sorprendenti, come lo è appunto ogni accanito passeggiatore – e tale Walser era –, che abbraccia amorosamente ogni particolare del circostante e insieme lo osserva da una invalicabile distanza, quella del solitario, estraneo a ogni rapporto funzionale col mondo. In un décor di piccola città svizzera, e della campagna che la circonda, il passeggiatore Walser ci guida, con la sua disperata ironia, in un labirinto della mente, abitato da figure disparate, dalle più amabili alle più inquietanti. Da Eichendorff a Mahler, il vagabondaggio è stato un archetipo ricchissimo della più radicale letteratura moderna. Tutta quella grande tradizione sembra condensarsi, quasi clandestinamente, nella Passeggiata di Walser, a cui lo scrittore ci invita col suo irresistibile tono: «Lei non crederà assolutamente possibile che in una placida passeggiata del genere io m’imbatta in giganti, abbia l’onore d’incontrare professori, visiti di passata librai e funzionari di banca, discorra con cantanti e con attrici, pranzi con signore intellettuali, vada per boschi, imposti lettere pericolose e mi azzuffi fieramente con sarti perfidi e ironici. Eppure ciò può avvenire, e io credo che in realtà sia avvenuto».

 

Winfried Georg Sebald, Il passeggiatore solitario, Adelphi, 2006

Winfried Georg Sebald, Il passeggiatore solitario, Adelphi, 2006


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Pablo Neruda (1904-1973) – Amo i libri esploratori, ma odio il libro ragno in cui il pensiero ha disposto filo velenoso.

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Ode al libro

Ode al libro

«Amo i libri
esploratori,
libri con bosco o neve,
profondità o cielo,
ma
odio
il libro ragno
in cui il pensiero
ha disposto filo velenoso
perché là s’impigli
la giovanile e svolazzante mosca».

Pablo Neruda, Odi elementari.

Traduzione di Antonio Melis

 

Odi elementari

 


Pablo Neruda (1904-1973) – È cosi che nasce la poesia: viene da altezze invisibili. Canto e fecondazione è la poesia: l’ho concentrata come prodotto vitale della mia stessa esperienza, circondato dalla folla adorabile, dall’infinita e ricca moltitudine dell’uomo.

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Angelo Magliocco – Il dualismo bìos/zoè e lo stato d’eccezione in Giorgio Agamben.

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Angelo Magliocco

Il dualismo bìos/zoè e lo stato d’eccezione in Giorgio Agamben

Il testo di Giorgio Agamben, Homo sacer (Einaudi), sviluppa parallelamente due concetti, a prima vista irrelati, dimostrando successivamente un loro legame basato sulla fungibilità di uno rispetto all’altro.
Il primo è il concetto di eccezione, di cui Agamben analizza le formulazioni sociali, assieme alle radici logico-matematiche delle nozioni di esclusione/inclusione; il secondo quello di nuda vita, di zoè, vita meramente considerata sotto l’aspetto biologico, in contrapposizione alla vita di relazione e di società, bìos.
La superiorità del bìos rispetto alla zoè, nell’accezione antica, risulta chiaramente dalla figura di diritto romano dell’homo sacer, che designa un individuo punito con l’espulsione dal consesso sociale, cui è stata sottratta qualsiasi fisionomia civilis e divina, lasciando un residuo costituito da pura biologia (zoè), puro respiro del corpo. Tale soggetto diventa a quel punto inefficace a palesare in società le sue qualità civiles, come anche a santificare il divinus come soggetto passivo di sacrificio umano, risultando inadatto persino a questo compito. L’unica caratteristica che gli resta è dunque la vivibilità, curiosamente legata a filo doppio al suo contraltare, l’uccidibilità: lo si lasci pur vivere, ma chiunque, se vuole, ne provochi senz’altro la morte. Questi non sarà considerato responsabile di omicidio, in quanto una responsabilità in tal senso deriverebbe dal complesso di legami sociali (bìos), rispetto a cui una pura zoè è su un piano di antecedenza.
Tale esclusione sociale, peraltro, è integralmente contemplata a un livello pregiuridico, e come tale è inclusa nell’ordinarietà del complesso di relazioni sociali. Agamben riflette allora sul fatto che il complesso sociale è, in un certo senso, costitutivamente bipartito, o sarebbe meglio dire bipartizionante, prevedendo già in anticipo al suo interno una linea di demarcazione tra individui che, appartenendovi, sono da considerarsi inclusi in esso e di altri che, sempre e ancora appartenendovi, sono da considerarvi esclusi. Ricorrendo a nozioni di insiemistica e di logica, egli afferma che l’appartenenza logica a un insieme non coincide con l’inclusione: è naturale che tutti gli individui, anche gli esclusi, appartengano al complesso sociale, ma, appunto, da esclusi. Se non appartenessero ex ante al complesso sociale, non ci sarebbe bisogno di definirne i criteri di esclusione, e pertanto non può che affermarsi che l’esclusione abbia una funzione intra-sociale di manovra sul corpo sociale stesso.
Il termine manovra rimanda a un manovratore. È prerogativa del sovrano, se assoluto, o negli Stati democratici del potere che ne incarna la volontarietà pregiuridica (cioè di determinare la validità del diritto stesso) esercitare questa manovra, che si attua concretamente attraverso lo stato d’eccezione. È prerogativa del sovrano stabilire quando e in che modo si eccepisce alle condizioni di normalità sociale del bìos ricadendo nella mera zoè. A parere di Agamben, da un lato è molto semplice rilevare l’applicazione di questo stato di decidibilità, sia ad individuum che ad classem, sotto la reggenza di un sovrano assoluto, dall’altro tale stato permane comunque, ed è anzi più surrettizio in quanto meno palese, anche laddove la struttura sociale abbia espressamente escluso il governo di una sola persona, reimpostando l’intero paradigma sociale attorno al concetto di uguaglianza democratica. Altre forme di governo del sociale, mai dichiaratamente tali, concorrono allora ad attuare lo stato d’eccezione, con modalità rinnovate, ma analoghe a quelle che da tempo immemore la figura latina ha codificato: un esempio odierno può essere la genetica, o peggio l’eugenetica (il governo della pura zoè e della sua normalizzazione), un altro del passato recente il campo di concentramento (in cui una classe di individui è stata codificata come in-civilis).
Agamben afferma che tutti gli Stati, odierni e non, vedono una deriva che va a estendere lo stato d’eccezione, come in una sorta di entropia in costante accrescimento. Pertanto, il rapporto suddito/sovrano, quale che sia la morfologia in cui si esprima (ad es. democratica o non), deve ripartire dalla presa di coscienza di questa sua funzione inerentemente eccepente, inerentemente de-bìo-logizzante, che tende a trasformare la politica in biopolitica, e in ciò il richiamo a Foucault e alle tematiche da questi affrontate appare pieno ed evidente.

Angelo Magliocco

 

 

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Angelo Magiocco,
Il dualismo bìos:zoè e lo stato d’eccezione in Agamben

 


Quarta di copettina

Ogni tentativo di ripensare le nostre categorie politiche deve muovere dalla consapevolezza che della distinzione classica fra zoé e bios, tra vita naturale ed esistenza politica (o tra l'uomo come semplice vivente e l'uomo come soggetto politico), non ne sappiamo piú nulla. Nel diritto romano arcaico homo sacer era un uomo che chiunque poteva uccidere senza commettere omicidio e che non doveva però essere messo a morte nelle forme prescritte dal rito. È la vita uccidibile e insacrificabile dell'«uomo sacro» a fornire qui la chiave per una rilettura critica della nostra tradizione politica. Quando la vita diventa la posta in gioco della politica e questa si trasforma in biopolitica, tutte le categorie fondamentali della nostra riflessione, dai diritti dell'uomo alla democrazia alla cittadinanza, entrano in un processo di svuotamento e di dislocazione il cui risultato sta oggi davanti ai nostri occhi. Seguendo il filo del rapporto costitutivo fra nuda vita e potere sovrano, da Aristotele ad Auschwitz, dall'Habeas corpus alle Dichiarazioni dei diritti, il libro di Agamben cerca di decifrare gli enigmi - prima di tutti il fascismo e il nazismo - che il nostro secolo ha proposto alla ragione storica. Fino a vedere, nel campo di concentramento, il paradigma biopolitico nascosto della modernità in cui città e casa sono diventate indiscernibili e la possibilità di distinguere tra il nostro corpo biologico e il nostro corpo politico ci è stata tolta una volta per tutte.

 

Indice

Introduzione. – Parte prima. Logica della sovranità.Parte seconda. Homo sacer.Parte terza. Il campo come paradigma biopolitico del moderno. – Bibliografia. – Indice dei nomi.

 


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Francesco Petrarca (1304-1374) – Frugati dentro severamente. Anche il conoscere molte cose, che mai rileva se siete ignoti a voi stessi?

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Secretum, Copertina di un'edizione del 1470

Secretum, Copertina di un’edizione del 1470.
Prima edizione originale tra il 1347 e il 1353.

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«Frugati dentro severamente [Excute pectus tuum acriterJ, e troverai che tutto ciò che sai, se lo paragoni a quanto ignori, pareggia la proporzione di un ruscello destinato a seccarsi per gli ardori estivi, confrontato con l’Oceano. Benché, anche il conoscere molte cose, che mai rileva se, quando bene abbiate apprese le dimensioni del cielo e della terra, l’estensione del mare e le orbite degli astri, le virtù delle erbe e delle pietre e gli arcani della natura, siete ignoti a voi stessi?».

Francesco Petrarca, Secretum o De secreto conflictu curarum mearum (“Riguardo al segreto conflitto delle mie angosce”).

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Francesco Petrarca (1304-1374) – Gloria effimera è cercar fama solo nel barbaglio delle parole: il mio lettore, almeno finché legge, voglio che sia con me. Non voglio che apprenda senza fatica ciò che senza fatica non ho scritto.

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Friedrich Hölderlin (1770-1843) – Che cosa sono i secoli di fronte all’istante in cui due esseri si presagiscono e si accostano? Ancor prima che uno sapesse dell’altra, noi ci appartenevamo

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«Che tutto cambi radicalmente!
Dalle radici dell'umanità germogli il nuovo mondo!».
 Iperione

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«Che cosa sono i secoli
di fronte all’istante
in cui due esseri si presagiscono e si accostano?».

***

E più oltre, parlando del suo rapporto con Diotima:

«Ancor prima che uno sapesse dell’altra, noi ci appartenevamo».

Friedrich Hölderlin, Iperione o l’eremita in Grecia, Bompiani, 2015.


Friedrich Hölderlin (1770-1843) – L’uomo che pensa deve agire, deve dispiegarsi. Egli può molto, stupenda è la sua parola che strasforma il mondo. Un potente anelito, con radici profonde, lo spinge verso l’alto.
Friedrich Hölderlin (1770-1843)– Dall’intelletto soltanto non può scaturire la filosofia, perché la filosofia è più della conoscenza limitata di ciò che esiste. Dalla ragione soltanto non può scaturire la filosofia, perché la filosofia è più della cieca pretesa di un progresso senza fine. Senza la bellezza dello spirito e del cuore, la ragione è soltanto come un supervisore.
Friedrich Hölderlin (1770-1843) – Quando un popolo ama il bello l’egoismo si scioglie. Se così non è, sempre più aridi e più desolati divengono gli uomini, cresce la sottomissione e con essa l’arroganza, l’opulenza cresce insieme alla fame e all’ansia per il cibo. Così il mondo intorno a noi diviene un deserto e il passato si sfigura in un cattivo auspicio per un futuro senza speranza.
Friedrich Hölderlin (1770-1843) – Dobbiamo uscire dalla pigra rassegnazione, dove non si vuole nulla, non ci sicura di nulla. L’originalità è intensità, profondità del cuore e dello spirito.

Pietro Canonica, L’abisso, 1909, Museo Canonica, Roma

Immagine in evidenza: Pietro Canonica, L’abisso, 1909, Museo Canonica, Roma.


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Immanuel Kant (1724-1804) – Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me.

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«Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente, fuori del mio orizzonte, io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza».

Immanuel Kant, Conclusione della Critica della ragion pratica [1788].


Cliccando sull’immagine e/o sulla didascalia si aprirà il file dell’intera pubblicazione
che potrà essere sfogliata .

 


Immanuel Kant (1724-1804)  – Nell’uomo esiste un tribunale interno: è la coscienza. Egli può magari cadere in un grado tale d’abbiezione da non prestare più alcuna attenzione a questa voce, ma non può evitare di udirla
Immanuel Kant (1724-1804) – Lo studente non deve imparare dei “pensieri”, ma a “pensare”. Non lo si deve “portare” ma “guidare”, se si vuole che in seguito sia capace di camminare da solo. Rovesciando questo metodo, lo studente acciuffa una sorta di ragione prima ancora che in lui si sia formato “l’intelletto” e s’appropria d’una “scienza” posticcia che in lui è soltanto appiccicata , non maturata.

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Marsilio Ficino (1433-1499) – Il lume dello spirito più copiosamente risplende per gli occhi: perché gli occhi sono sopra gli altri membri trasparenti e nitidi.

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Sopra lo amore

«E come il sole che è cuore del mondo, per il suo corso spande il lume, e per il lume le sue virtù diffonde in terra: cos1 il cuore del corpo nostro per un suo perpetuo movimento, agitando il sangue a sé propinquo, da quello spande gli spiriti in tutto il corpo: e per quelli diffonde le scintille de’ raggi in tutti i membri, massime per gli occhi: perché lo spirito essendo levissimo facilmente saglie a le parti del corpo altissime. E il lume dello spirito più copiosamente risplende per gli occhi: perché gli occhi sono sopra gli altri membri trasparenti e nitidi».

Marsilio Ficino, Sopra lo amore ovvero Convito di Platone [1544], trad. di Neri Dortellata, a cura di Giuseppe Rensi, Carabba, Lanciano 1914


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Lev Nikolàevič Tolstòj (1828 – 1910) – «Se lascio la vita con la coscienza d’aver sciupato tutto quanto mi fu dato e che ormai non c’è più nulla da fare, allora che sarà?». Ivan Il’ič è il personaggio dell’esteriorità. La sua è un’interiorità priva di ricerca, priva di interrogazione.

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Che cosa accade quando in una vita priva di risonanza interiore,

priva di raccoglimento

– di abitudine al raccoglimento presso di sé –

e dunque tutta consegnata all’esteriorità,

irrompe l’inatteso, l’altro come inatteso?

 

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La morte di Ivan Il’ič

«Gli era venuto in capo che quanto gli era fin qui sembrato assolutamente inammissibile, di aver cioè vissuto non come si doveva, potesse invece essere la verità. Gli era venuto in capo che i suoi timidissimi tentativi di ribellione a ciò che la gente altolocata stimava il bene, tentativi che subito aveva soffocato in sé – che essi soli potessero essere gusti, e tutto il resto essere sbagliato. Il suo ufficio, il suo modo di vivere, e la famiglia, e gli interessi mondani e professionali, – tutto poteva essere sbagliato. S’era provato a difendere davanti a se stesso quelle cose. E a un tratto sentiva tutta l’inconsistenza di ciò che difendeva. Non c’era niente da difendere.
“E se così è, – s’era detto – e se lascio la vita colla coscienza d’aver sciupato tutto quanto mi fu dato e che ormai non c’è più nulla da fare, allora che sarà?”. S’era così disteso supino e aveva ricominciato a considerare tutta le sua vita sotto un nuovo aspetto. E quando al mattino venne il domestico, e poi la moglie, e poi la figlia, e poi il dottore, – ogni loro gesto, ogni loro parola gli avevano confermato l’orribile verità che gli si era aperta la notte. In loro vedeva se stesso, le cose di cui aveva vissuto; e chiaramente intendeva che tutto ciò non era quello che avrebbe dovuto essere, ma solo un enorme, uno spaventoso inganno che nascondeva la vita e la morte».

 Lev Nikolàevič Tolstòj, La morte di Ivan Il’ič, trad, di Tommaso Landolfi, Rizzoli, 1989, pp. 85-86.

 

Ivan Il’ič è il personaggio dell’esteriorità,

totalmente assorbito in essa.

Ma poiché il personaggio non ha mai, fino a quel momento,

alimentato in sé un dialogo con se stesso,

ecco che l’interiorità che si vorrebbe edificare

è un’interiorità priva di ricerca, priva di interrogazione.

 

«Che cosa accade quando in una vita priva di risonanza interiore, priva di raccoglimento – di abitudine al raccoglimento presso di sé – e dunque tutta consegnata all’esteriorità, irrompe l’inatteso, l’altro come inatteso? Un racconto di Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič, mette in scena questo incontro dell’uomo esteriore con la figura estrema che nega ogni mondanità, ogni sociale convenzione, cioè la morte. Il giudice Ivan Il’ič: ha costruito le sue giornate, e il suo pubblico apparire, la sua sociale identità comme il faut, cioè così come occorre essere, come davvero ci si attende che uno sia, quando la vita è pensata come adeguazione piena ai costumi, alle convenzioni sul piano pubblico e alle convenienze sul piano privato. In tribunale, nei salotti, in famiglia Ivan Il’ič: è sempre all’altezza della situazione. Il suo stesso matrimonio è stato piegato alle convenienze, ma per essere all’altezza non è stato separato da quel tanto di amore che è pur necessario secondo le convenzioni sociali. Ivan Il’ič è il personaggio dell’esteriorità, totalmente assorbito in essa. Nessun turbamento, nessuna esitazione, nessuna debolezza in questa identità riuscita e sicura. Ma a un certo punto l’irruzione della malattia, e con essa, il rivelarsi della morte, del suo profilo, della sua attesa, comincia a sgretolare i contorni dell’esteriorità. Rivela, di colpo, l’inautentico di un’esistenza, la quale ha cancellato, o almeno rimosso, il rapporto con la morte, l’essere per la morte. Si mostra, per la prima volta, il disegno di un’interiorità come possibile spazio di un dialogo con l’altro, con la sua misteriosa presenza. Ma poiché il personaggio non ha mai, fino a quel momento, alimentato in sé un dialogo con se stesso, ecco che l’interiorità che si vorrebbe edificare è un’interiorità priva di ricerca, priva di interrogazione. Il racconto di Tolstoj si può leggere come una sorta di drammaturgia della coscienza: lo spazio della coscienza, riempito dai richiami delle sociali abitudini, si ritrova vuoto quando la malattia impone una nuova estrema relazione, quella con la morte. Il personaggio, nella sopravvenuta solitudine, percepisce che tutto continua al di fuori di lui, senza di lui, la moglie e la figlia continuano a uscire, a incontrare un mondo, forse quello che era il suo mondo, mentre lui è prigioniero di un nuovo ospite che implacabilmente, giorno dopo giorno, lo spoglia di ogni legame con gli altri, e persino con se stesso. Ivan Il’ič cade nel gelo di un’attesa che non può né riconoscersi come attesa né stemperarsi in un dialogo, un’attesa priva di pensieri. Estraneo all’esteriorità di un tempo, estraneo all’interiorità che il nuovo tempo esige».

Antonio Prete, Il cielo nascosto. Grammatica dell’interiorità, Bollati Boringhieri, 2016, pp. 50-52.


Lev Nikolàevič Tolstòj (1828-1910) – Tutti i grandi cambiamenti cominciano e si compiono nel pensiero
Lev Tolstoj (1828-1910) – L’elevazione del lavoro a virtù è altrettanto assurda come l’innalzamento del nutrirsi dell’uomo a dignità e a virtù. nella nostra società falsamente ordinata, esso è per lo più un mezzo che uccide la sensibilità morale …
Lev Tolstoj – Che cos’è l’arte: L’arte incomincia là, dove incomincia l’appena appena
Lev Nikolàevič Tolstòj (1828-1910) – In una società dove esiste, sotto qualunque forma, lo sfruttamento o la violenza, il denaro non può assolutamente rappresentare il lavoro. La semplicità è la principale condizione della bellezza morale.
Lev Nikolàevič Tolstòj (1828-1910) – Ogni uomo reca in sé, in germe, tutte le qualità umane, e talvolta ne manifesta alcune, talvolta altre, e spesso non è affatto simile a sé, pur restando sempre unico e sempre se stesso.
Lev Nicolaevič Tolstoj (1828-1910) – Non appena ho compreso l’essenza della ricchezza e del denaro, mi si è chiarito quanto in realtà sapevo già da molto.

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