Salvatore Bravo – Marx lettore di Spinoza. «Lo scopo della filosofia non è altro che la verità. […] In un ordinamento politico non è mai possibile, se non con tentativi destinati a fallire miseramente, voler imporre a uomini di diverse e opposte opinioni l’obbligo di parlar e esclusivamente in conformità alle prescrizioni emanate dal sommo potere».


Salvatore Bravo

Marx lettore di Spinoza

Comprendere Marx significa spostarsi in modo sincronico nella sua complessiva impostazione teorica. Vi sono cesure, ma specialmente linee di continuità che vanno rintracciate per ricostruire il senso dell’opera marxiana nella sua ispirazione umanistica. Il comunismo abbozzato nel cantiere Marx ipotizza il soggetto emancipato dalle strutture di sussunzione materiale e formale, non più né obbedientedisobbediente, in quanto vive la pienezza delle sue possibilità e del suo conatus in un quadro politico senza le forme gerarchiche dell’obbedienza nella forma dello Stato, della proprietà capitalistica e della religione. La trinità dell’obbedienza non può che produrre negazione e alienazione.

Marx lettore spinoziano, dunque, in quanto il soggetto può relazionarsi al mondo in modo fecondo per ricrearlo soltanto se perviene a se stesso dopo un lungo processo dialettico nel quale ha vissuto, pensato e razionalizzato la liberazione dalle mordacchie delle superstizioni e della naturalizzazione del sistema capitale. Ogni feticismo è una forma di religione irriflessa e dunque non riconosciuta.

Nella formazione di Marx il Quaderno Spinoza del 1841 è rilevante non solo per comprendere la genealogia delle opere della maturità, ma l’opera giovanile può essere d’ausilio per capire il comunismo marxiano, nel quale importante – quanto e anche più dell’abolizione della proprietà privata – è il soggetto liberato dall’obbedienza che diviene soggetto attivo della storia. La proprietà privata è il ceppo che gerarchizza e ordina l’obbedienza associata e rafforzata dalla sovrastruttura con le sue manifestazioni culturali e sociali. La religione è il mezzo più potente con cui insegnare ideologicamente l’obbedienza e proiettare la speranza in un tempo sovrastorico.

Nel Quaderno Spinoza il commento marxiano al Trattato teologico-politico e alle lettere di Spinoza destruttura la religione, rendendola intellegibile, smascherando la sua essenza ideologica e il suo essere funzione del potere. Nei rapidi passaggi dell’opera, Marx (che pur avrà comunque un rapporto lui stesso controverso con la filosofia), specifica che la filosofia è radicale nella sua essenza, perché cerca, vuole e dimostra la verità. La filosofia non scende a compromessi, perché la verità non la si può accogliere parzialmente: in tal caso è già menzogna. La religione è obbedienza e pratica della pietà che non trasforma il mondo, ma lo conserva con le sue piaghe dolenti e le sue contraddizioni:

«[25] Resta infine da dimostrare come tra la fede, o teologia, e la filosofia non esista alcun rapporto né alcuna affinità, cosa che non può fingere di non sapere nessuno che conosca il fondamento e lo scopo di queste due discipline, le quali sono tra loro totalmente diverse. Lo scopo della filosofia, infatti, non è altro che la verità; mentre quello della fede [come abbiamo diffusamente dimostrato] è solamente l’obbedienza e la pietà. I fondamenti della filosofia, per di più, sono le nozioni comuni, sicché essa deve essere ricavata dalla sola natura; mentre i fondamenti della fede sono i racconti e la lingua, ed essa deve essere tratta soltanto dalla Scrittura e dalla rivelazione (§ 348)». 1

 

Disobbedire per esserci

La disobbedienza non è un atto di protesta: con essa piuttosto l’essere umano riconquista la sua natura e la sua dignità. La libertà è prassi non scissa dalla teoria, il pensiero è potenza creatrice incoercibile e non in toto controllabile: il potere dunque non può cancellare definitivamente la libertà. Si può fingere di obbedire per calcolo opportunismo o vigliaccheria, si possono ripetere le parole del potere, riprodurre atti e comportamenti, ma nessun potere può impedire il pensiero, vero baluardo della “naturale libertà” dell’essere umano che attende di venire al mondo non per semplice stimolazione delle circostanze storiche, ma per l’interazione tra condizioni storiche ed azione-reazione del soggetto. Dove vi è l’umanità l’impossibile è possibile:

«[36] Se, dunque, nessuno può rinunciare alla propria libertà di giudicare e di pensare quello che vuole, ma ciascuno è, per diritto incontestabile della natura, padrone dei suoi pensieri, da ciò deriva che in un ordinamento politico non è mai possibile, se non con tentativi destinati a fallire miseramente, voler imporre a uomini di diverse e opposte opinioni l’obbligo di parlar e esclusivamente in conformità alle prescrizioni emanate dal sommo potere (§ 420). 2

Il potere può costringere alla temporanea obbedienza, ma non può conquistare interamente l’essere umano, il quale con il pensiero resiste al controllo. Da un punto di vista fenomenico può obbedire, ma l’atto di obbedire, l’obbedienza carpita o concessa non significa che sia stato sconfitto e conquistato.

 

Potere e pensiero

Il potere nella nostra contemporaneità quantifica il numero degli ubbidienti per poter usare la quantificazione quale mezzo di persuasione coercitiva verso gli indecisi. Ma in realtà il potere, anche quando trionfa con i grandi numeri è più fragile di quanto si possa ipotizzare. Tra gli ubbidienti vi è un grande numero di persone già propense alla disobbedienza non appena il dominio allenti la sua morsa. I dubbi serpeggiano anche tra i più disponibili all’obbedienza. Non è possibile trasformare l’essere umano in automa meccanicamente passivo. La psiche e l’intelligenza restano potenzialmente libere, anche se si obbedisce per costrizione, disperazione o indifferenza. Marx sembra dirci che non dobbiamo disperare. Oltre l’omologazione c’è vita, e più vita di quanto le nostre singole e fragili intelligenze possano immaginare.

La libertà – conformemente al pensiero spinoziano – è un processo nel quale si incontrano stratificazioni di libertà e qualità diverse di libertà. Certo, si deve ammettere l’esistenza di gruppi umani che “pensano” – erroneamente ritengono – di agire autonomamente, ma in realtà sono parlati e agiti dal potere, è una possibilità dell’umano; ma non è l’unica e la coscienza, comunque, è sempre una variabile dinamica pronta a evolversi e/o ad involversi. Il rivoluzionario non deve arretrare dinanzi all’obbedienza gregaria, ma deve agire più fortemente per l’emancipazione, perché l’obbedienza è un dato storico e culturale:

«[53] Dal fatto che l’uomo agisca secondo la sua deliberazione, non si deve dunque concludere che egli operi secondo il proprio diritto, anziché secondo quello dello Stato (§ 374)». 3

Marx attraversa i secoli per parlarci e suggerirci che la storia non è chiusa e l’omologazione è solo apparente. La potenza del pensiero lavora per la storia e per un nuovo inizio anche quando la storia sembra una palude la cui acqua appaia immobile, senza alcuna crespatura. Il pensiero è discrepante e divergente, accumula e si carica di onde di esperienze; può temporaneamente rimuoverle, ma esse si riattivano in circostanze storiche favorite da innumerevoli atti di disobbedienza, apparentemente innocui e di poco conto, i quali preparano la “grande storia”. Le tempeste della storia possono essere precedute da decenni intrisi di un apparente generale insensibile distacco, in cui i piccoli gesti di una quotidianità pur desiderosa di cambiamento rimangono silenti, ma preparano il vento della storia. Le storie dei singoli possono passare e cadere nella transitoria dimenticanza del tempo, ma i gesti e le parole restano, si moltiplicano, prendono forma nelle circostanze preparate da un silenzio carico di esperienze e linguaggi insopprimibili. Nessuna forma di alienazione, quindi, potrà mai cancellare il pensiero dei popoli che si vorrebbero tenere alla catena:

«La svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose. Il lavoro non produce soltanto merci; produce se stesso e l’operaio come una merce, e proprio nella stessa proporzione in cui produce in generale le merci». 4

Se il potere avesse la possibilità di trasformarsi in dominio assoluto, la storia e il mondo già sarebbero diventati immense macchine di sfruttamento per produrre profitto. Tra i meccanismi della macchina, invece, sopravvive l’essere umano, che può pensare ed ascoltare l’alienazione che lo costringe ad una esistenza disumana.

Il dolore vissuto è già individualità potenzialmente pronta all’esodo.

Pertanto il pensiero è fonte di resistenza collettiva inesauribile che apporta il nuovo nelle acque apparentemente stagnanti dell’omologazione.

Salvatore Bravo

1 K. Marx, Quaderno Spinoza, Bompiani 2022, Capitolo XIV: Che cosa sia la fede e …

2 Ibidem, Capitolo XX: Della libertà di insegnamento.

3 Ibidem, Cap XVII Della Repubblica ebraica.

4 K. Marx, Manoscritti economico filosofici del 1844, il lavoro estraniato.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – “Dentro-Fuori”– “Inclusione-Esclusione”. Un esempio del modo in cui avviene il controllo e l’espulsione ce lo offre quanto è accaduto al giornalista Manlio Dinucci. «il manifesto» ha espunto un suo articolo sulla guerra in Ucraina e ha eliminato la sua rubrica dal quotidiano.

Salvatore Bravo

«Dentro-Fuori» – «Inclusione-Esclusione»

Un esempio del modo in cui avviene il controllo e l’espulsione ce lo offre quanto è accaduto
al giornalista Manlio Dinucci.
il manifesto ha espunto un suo articolo sulla guerra in Ucraina e ha eliminato la sua rubrica dal quotidiano

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La società binaria del turbocapitalismo ha la sua linea di confine, coloro che sono oltre la linea dell’inclusione sono persi nel silenzio, sono cancellati dall’ordine del discorso. Coloro che sono sospinti oltre, perché non allineati, non hanno il diritto di proferire parola. Hanno peccato contro il sistema capitale, il quale ha divorato ogni differenza ed oggi questa è la nuova religione che chiede ai sudditi di inginocchiarsi e, specialmente, di diventare clero orante che esalta la nuova divinità e a cui tutto si può chiedere. Se si è disposti all’olocausto di sé sull’altare del capitale, si è ripagati in proporzione ai propri meriti. La religione atea ha il suo inferno e il suo paradiso, ma tutti sono egualmente dannati.
In questi giorni di guerra, in cui il vero protagonista è il capitalismo, possiamo verificare la verità dell’inclusione e dell’addomesticamento alla divisione dentro-fuori ottenuto con il green pass. L’inclusione nell’epoca del capitale è utilizzata in ogni istituzione come la sovrastruttura culturale per giustificare, a livello ideologico, la struttura economica. La parola “inclusione” fa parte del lessico che ammicca al gergo della sinistra, ora usato dalle oligarchie e dai sostenitori del capitale per ricoprire ciò che è immondo con il velo di Maya intessuto di belle parole, sullo stile del celeste impero. L’inclusione, se si segue la traccia della parola, è un atto di confinamento all’interno: si “deve stare dentro”. Il celeste impero favorisce lo stare dentro, esige che si faccia pubblica confessione della propria fede nella religione del capitale. Un esempio del modo in cui avviene il controllo e l’espulsione ce lo offre quanto è accaduto al giornalista Manlio Dinucci, che su il manifesto ha pubblicato un articolo in cui affermava che la Russia ha reagito ad un’implicita aggressione. Non solo l’articolo è stato espunto, ma è stata eliminata anche la rubrica personale del giornalista.1 La sua voce può apparire solo se è organica alla versione del ministero della verità. Il giornalista ha detto addio alla sua collaborazione con il giornale “notoriamente di sinistra e di opposizione”. Anche in questo caso il sistema inclusivo pone le condizioni per oltrepassare “liberamente” la linea di confine dell’inclusione nella speranza che si scompaia nell’indeterminato.
La violenza è la sostanza del regime capitale, violenza polimorfa, in quanto utilizza varie modalità per normalizzare il linguaggio e neutralizzare il logos, il quale notoriamente è plurale e dialettico. Si susseguono episodi di espulsione, quindi, al fine di normalizzare l’opinione pubblica, ed indurla a ragionare secondo le categorie dentro-fuori, inclusione-esclusione.


Normalizzazione del pensiero unico

Si giunge a tale depauperamento della democrazia dopo trent’anni di guerra del modo di produzione capitalistico contro ogni forma di opposizione al capitale di tipo politico, filosofico, letterario e spirituale. L’abitudine all’espulsione dei dissidenti, associata all’ipnosi di massa, conduce all’indifferenza verso le sorti di ogni cittadino oggetto di tale dinamica di dominio. Il momento massimo di tale perversa rieducazione dell’essere umano è stato ed è il green pass. Con la tessera verde i cittadini hanno imparato a ragionare secondo confini geografici binari: c’è chi è dentro ed usufruisce di diritti formali, c’è chi è fuori e non usufruisce di nessuno diritto, al punto che vengono tagliate le condizioni per la sopravvivenza. Il dominio ha il diritto di concedere a chi è dentro la momentanea sopravvivenza, a chi è fuori la morte. Coloro che sono dentro sentono il sibilare della spada di Damocle dell’espulsione, per cui la parola “inclusione” appare minacciosa, in quanto indica la possibile espulsione, se non si acconsente “liberamente” all’ordine del discorso. Il sistema include a punti, l’obbedienza è premiata con l’inclusione meritocratica, in quanto i più ligi alla virtù dell’obbedienza possono avere in cambio carriera e successo, coloro che tiepidamente dicono il loro “sì” fatale hanno la sopravvivenza assicurata. Tutto è precario, pertanto l’obbediente di oggi può essere espulso dal ministero della verità in qualsiasi momento.
Obbedire è diventata la virtù del sistema capitale, ma pur in questa condizione di successo assoluto, il modo di produzione capitalistico mostra le due fessurazioni e la sua interna corruzione storica e strutturale. Se il sistema necessita di atei devoti dogmaticamente obbedienti ciò è dovuto, si può ipotizzare, al fatto che è eroso da innumerevoli contraddizioni sociali e produttive. Il sistema è sempre sul punto di perdere consenso, propone modelli sociali impossibili, spinge all’atomismo competitivo impoverendo una larga parte della classe media. Il processo di animalizzazione dell’essere umano, l’homo novus che deve consumare la sua biografia tra consumi e desideri illimitati, non si concretizza in senso assoluto. Nicchie di resistenza si diffondono, mentre le nuove generazioni sono affette da depressioni diffuse, anche in età infantile. Il capitale vorrebbe curare i sintomi di questa generazione alienata e sofferente senza intaccare il sistema, vive di miti e di onnipotenza, non vede che se stesso, come affermava Costanzo Preve, per cui è incapace di autocorreggersi.
Abbiamo tutti, in questo momento di crisi, l’occasione di capire e di uscire dal torpore e dal fatalismo quotidiano. La prima disobbedienza con la quale dobbiamo riconquistare la dignità che ci è stata sottratta è nel mettere in epochè la versione ufficiale per verificare versioni, immagini e parole: aude sapere, kantianamente dobbiamo riprenderci il coraggio di pensare dialetticamente per riaprire il campo di possibilità della storia e trascendere il filo spinato del confine. Bisogna ricominciare dalla ragione critica per imparare la disobbedienza interiore la quale deve trasformarsi in uso pubblico della ragione nei luoghi di lavoro e nelle nostre comunità degli affetti. La forza della ragione critica e pubblica non è nell’apparire nei media, ma è specialmente nella prassi quotidiana:

 

«Un’ultima osservazione. La società contemporanea è basata sulla diversificazione simbolica dell’offerta religiosa. Gli adolescenti isolati di fronte allo schermo luminoso del loro computer sono la base sociale odierna del rapporto individuale con l’assoluto, e quindi anche con Dio. Non si tratta più del vecchio libero esame di Lutero, ma del nuovo isolamento informatico. Le adunate urlanti dei papa-boysnon sono lo strumento per la rottura di questo isolamento. Come disse a suo tempo Heidegger, il collettivismo è solo l’individualismo posto al livello della totalità. È necessaria una vera e propria rifondazione della ragione, che parta dall’individuo e dalla sua interiorità e poi risalga al livello della società, tenendo conto però che finché la società non diventa comunità tutto è destinato a ricadere in basso al punto di prima».2

 

Alla tetragona realtà del capitale, si deve opporre la disobbedienza della ragione etica, la quale non cerca il proprio interesse privato, ma la vitalità comunitaria senza la quale ogni esistenza è solo un atomo oggetto della forza di gravità del modo di produzione capitalistico.

Salvatore Bravo

 

L’animalizzazione dell’essere umano nel capitalismo
indicepresentazioneautoresintesi


Note


1 “L’8 marzo – dopo averlo per breve tempo pubblicato online – il Manifesto ha fatto sparire nottetempo l’articolo di cui sotto anche dall’edizione cartacea, poiché mi ero rifiutato di uniformarmi alla direttiva del Ministero della Verità e avevo chiesto di aprire un dibattito sulla crisi ucraina. Termina così la mia lunga collaborazione con questo giornale, su cui per oltre dieci anni ho pubblicato la rubrica L’Arte della guerra” (Manlio Dinucci)


Qui a seguire l’articolo censurato.

Ucraina, era tutto scritto nel piano della Rand Corp, di Manlio Dinucci

Il piano strategico degli Stati uniti contro la Russia è stato elaborato tre anni fa dalla Rand Corporation (il manifesto, Rand Corp: come abbattere la Russia, 21 maggio 2019). La Rand Corporation, il cui quartier generale ha sede a Washington, è «una organizzazione globale di ricerca che sviluppa soluzioni per le sfide politiche»: ha un esercito di 1.800 ricercatori e altri specialisti reclutati da 50 paesi, che parlano 75 lingue, distribuiti in uffici e altre sedi in Nord America, Europa, Australia e Golfo Persico. Personale statunitense della Rand vive e lavora in oltre 25 paesi.
La Rand Corporation, che si autodefinisce «organizzazione non-profit e non-partisan», è ufficialmente finanziata dal Pentagono, dall’Esercito e l’Aeronautica Usa, dalle Agenzie di sicurezza nazionale (Cia e altre), da agenzie di altri paesi e potenti organizzazioni non-governative.
La Rand Corp. si vanta di aver contribuito a elaborare la strategia che permise agli Stati uniti di uscire vincitori dalla guerra fredda, costringendo l’Unione Sovietica a consumare le proprie risorse nell’estenuante confronto militare. A questo modello si è ispirato il nuovo piano elaborato nel 2019: «Over-extending and Un-balancing Russia», ossia costringere l’avversario a estendersi eccessivamente per sbilanciarlo e abbatterlo.
Anzitutto – stabilisce il piano – si deve attaccare la Russia sul lato più vulnerabile, quello della sua economia fortemente dipendente dall’export di gas e petrolio: a tale scopo vanno usate le sanzioni commerciali e finanziarie e, allo stesso tempo, si deve far sì che l’Europa diminuisca l’importazione di gas naturale russo, sostituendolo con gas naturale liquefatto statunitense.
In campo ideologico e informativo, occorre incoraggiare le proteste interne e allo stesso tempo minare l’immagine della Russia all’esterno.
In campo militare si deve operare perché i paesi europei della Nato accrescano le proprie forze in funzione anti-Russia. Gli Usa possono avere alte probabilità di successo e alti benefici, con rischi moderati, investendo maggiormente in bombardieri strategici e missili da attacco a lungo raggio diretti contro la Russia. Schierare in Europa nuovi missili nucleari a raggio intermedio puntati sulla Russia assicura loro alte probabilità di successo, ma comporta anche alti rischi.
Calibrando ogni opzione per ottenere l’effetto desiderato – conclude la Rand – la Russia finirà col pagare il prezzo più alto nel confronto con gli Usa, ma questi e i loro alleati dovranno investire grosse risorse sottraendole ad altri scopi.
Nel quadro di tale strategia – prevedeva nel 2019 il piano della Rand Corporation – «fornire aiuti letali all’Ucraina sfrutterebbe il maggiore punto di vulnerabilità esterna della Russia, ma qualsiasi aumento delle armi e della consulenza militare fornite dagli Usa all’Ucraina dovrebbe essere attentamente calibrato per aumentare i costi per la Russia senza provocare un conflitto molto più ampio in cui la Russia, a causa della vicinanza, avrebbe vantaggi significativi».
È proprio qui – in quello che la Rand Corporation definiva «il maggiore punto di vulnerabilità esterna della Russia», sfruttabile armando l’Ucraina in modo «calibrato per aumentare i costi per la Russia senza provocare un conflitto molto più ampio» – che è avvenuta la rottura. Stretta nella morsa politica, economica e militare che Usa e Nato serravano sempre più, ignorando i ripetuti avvertimenti e le proposte di trattativa da parte di Mosca, la Russia ha reagito con l’operazione militare che ha distrutto in Ucraina oltre 2.000 strutture militari realizzate e controllate in realtà non dai governanti di Kiev ma dai comandi Usa-Nato.
L’articolo che tre anni fa riportava il piano della Rand Corporation terminava con queste parole: «Le opzioni previste dal piano sono in realtà solo varianti della stessa strategia di guerra, il cui prezzo in termini di sacrifici e rischi viene pagato da tutti noi». Lo stiamo pagando ora noi popoli europei, e lo pagheremo sempre più caro, se continueremo ad essere pedine sacrificabili nella strategia Usa.

 

2 Costanzo Preve, Considerazioni introduttive sugli attuali dibattiti fra laicismo, scienza, filosofia e religione, Petite Plaisance Pistoia, pag. 22

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Metafisica e Guerra. Senza fondamento metafisico non vi è verità-bene.



Salvatore Bravo

Metafisica e guerra.
Senza fondamento metafisico non vi è verità-bene

La guerra di questi giorni necessita di una lettura storica e filosofica. La lettura storica ricostruisce gli eventi in modo olistico, mentre la filosofia deve svolgere un lavoro archeologico. La guerra non è uno stato di eccezione, è la normalità dell’Occidente capitalistico. Da Hobbes fino a giungere al tempo presente la guerra si svolge all’interno dei confini degli Stati o tra gli Stati. Ogni guerra è un episodio della storia della crematistica divenuta “la storia” dell’Occidente planetario. Lo scopo di ogni atto di guerra personale o collettivo è il perseguire interessi privati o lobbistici, è la potenza della dismisura che guida intenzioni, gesti, parole e armi. Bisogna far emergere il non detto, il paradigma all’interno del quale ci si muove, si pensa e si agisce. La ragione strumentale è ormai azione priva di limiti ed è supportata dal pensiero debole, che crede nel solo calcolo utilitaristico e nella logica computazionale.

La verità è dunque soltanto un accidente del passato: senza fondamento metafisico non vi è verità-bene, per cui la ragione strumentale da frammento dell’attività umana è divenuta totalità illimitata. La guerra tra Ucraina e Russia è un evento interno alla storia del nichilismo europeo e planetario che persegue l’onnipotenza economica. Senza fondamento veritativo (che dona concretezza alla vita dei singoli), si perseguono soltanto obiettivi sempre più astratti e onnipotenti per incidere nella realtà che sfugge tra i sogni di grandezza che si sviluppano nelle pieghe della disperazione. Le oligarchie, per toccare la vita e sentire di esistere, devono avere come obiettivo ambizioni sempre più elevate e onnipotenti. Si coniugano due livelli, che si intersecano: la crisi della metafisica ha comportato la rinuncia alla ragione oggettiva, tale condizione ha incentivato lo sviluppo della razionalità strumentale la quale ha comportato l’economicismo e l’accumulo smisurato. Le oligarchie internazionali esprimono massimamente i due piani, sono il punto apicale dell’eclisse della ragione oggettiva. La tragedia attuale è nella generalizzazione di tale cultura antimetafisica. I popoli sono addestrati a credere ciecamente nella ragione strumentale, guardano con ammirazione invidiosa la potenza delle oligarchie, non scorgono l’impotenza che li caratterizza, ma solo il farsi padroni e signori della vita dei popoli. I popoli sono ingannati e turlupinati della ragione metafisica. Le oligarchie negli ultimi decenni hanno agito neutralizzando il dibattito pubblico ed eliminando i corpi medi nei quali la dialettica costituiva il katechon all’onnipotenza distruttrice della razionalità strumentale. La condizione attuale è ulteriormente complicata dalla presenza pervasiva dei media in possesso degli oligarchi che sterilizzano il dibattito, e hanno sostituito la pluralità delle posizioni ideologiche e prospettiche, sostanza della democrazia, con la pluralità delle immagini ampiamente manipolate. Le immagini, con il loro silenzio, hanno sostituito il logos e il dialogo, per cui si ha la percezione di essere in democrazia, ma in realtà è solo il suo cavo esoscheletro. Dinanzi al nuovo episodio della storia del nichilismo tecnocratico in corso, vi è un’urgenza metafisica non colta e rimossa. Senza verità-bene nulla potrà cambiare, e qualora le circostanze portassero ad una rapida pace o al compromesso diplomatico, resterebbe irrisolto il fondamento metafisico del problema. Senza una rivoluzione culturale e metafisica continueremo ad essere all’interno di un percorso distruttivo planetario a livello biologico e culturale.

La razionalità strumentale non comprende e conosce che l’accumulo e l’utile, per cui è azione di devastazione antropologica e ambientale ordinaria con dei picchi di tensione nei quali si può scorgere la verità non detta della condizione storica attuale. Le guerre permettono di fessurare la realtà del potere e di guardare, all’interno, la verità in cui siamo implicati. La lettura storica delle ragioni delle parti in causa, se è scissa dall’ermeneutica filosofica, rischia di condurci ad un semplicismo che non individua la profondità del problema. Bisogna guardare la tempesta che muove l’intero bosco della vita e dei popoli e non solo i singoli alberi che cadono con il loro fragore.

Solo il frammento che rimanda alla totalità può liberarci dalla cecità della ragione strumentale. I suoi innumerevoli dati sono utili per comprendere la contingenza attuale, ma non sufficienti per cogliere il problema nella sua inquietante profondità.

Senza la verità e il bene nessuna alternativa è progettabile. Alla cultura del frammento che cela la ripetizione ossessiva dello stesso in forme nuove, dobbiamo opporre il frammento in relazione alla totalità per poterne svelare la verità e cambiare percorso che punta direttamente verso l’abisso. Necessitiamo di strumenti metafisici e di una nuova metodologia di indagine per comprendere che nel frammento di tale guerra è racchiusa la verità dell’intero. Far emergere tale verità è l’esodo che dobbiamo organizzare dalla cultura totalitaria delle oligarchie. La metafisica nella percezione della maggioranza e delle accademie è solo un residuo inutile del passato, invece, solo essa ci può restituire il riorientamento gestaltico per un nuovo inizio:

«L’Intero dell’essere, dunque, si trova come riprodotto nel frammento anche attraverso la predicazione dell’unità, così come il frammento ha proiettato la propria ombra sull’intero dell’essere attraverso la richiesta della determinatezza della predicazione. E infatti, come è impossibile, cioè autocontraddittorio, pensare al “fondo” dell’essere quale molteplice. Così è impossibile, cioè autocontraddittorio, porre qualcosa senza porla nella sua unità. Porre qualcosa vuol dire pensarla, pensare qualcosa vuol dire l’unità di un molteplice».1

La guerra ci restituisce il dramma metafisico in cui siamo. Il frammento non pensato nella sua unità e relazione diviene illimitato e, dunque, assimila e cancella la totalità per diventare la verità artificiale e relativistica senza fondamento. Senza la chiarezza del problema metafisico si rischia di non individuare il nemico sociale che tutto muove, il quale non è solo nemico di classe, ma è problema e dramma etico derivante dalla crisi dei fondamenti. Il nemico circola nei popoli con la cultura del frammento e con la ragione strumentale che conosce solo mezzi senza finalità onto-assiologiche. I popoli sono colonizzati dalle oligarchie, in quanto si nutrono dello stesso linguaggio bellicoso e proprietario.

Il vero lavoro metafisico deve partire dalla guerra che vive nei nostri comportamenti quotidiani per elevarsi ad un piano di consapevolezza comunitaria per trascenderla in una nuova progettualità metafisica. Le vie di uscita dalla crisi metafisica possono essere plurali, ma ciò che è irrinunciabile è riportare il frammento alla totalità nelle sue relazioni e rimandi, poiché la sola cultura analitica non può che portarci all’irrazionalità di uno stato di guerra perenne, in quanto le parti sono irrelate e dunque destinate al conflitto:

«In fondo, le vie d’accesso o di fuoriuscita di una città sono molteplici e l’importante è rappresentarne il senso interale, almeno nel nostro caso rispettandone la complessità di struttura».2

1 Carmelo Vigna, Il frammento e l’intero. Indagini sul senso dell’essere e sulla stabilità del sapere, Vita e Pensiero, Milano 2000, pag. 201.

2 Ibidem, pag. 426.


Picasso, Guernica, 1937

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Salvatore Bravo – Con il viaggio interiore di Pinocchio, e attraverso i simboli che attorniano il burattino, l’autrice osa sfidare l’immaginario pietrificato del nostro presente.

In copertina: Marc Chagall, Self-portrait with muse (dream), 1918 [Autoritratto con musa (sogno)].

indicepresentazioneautoresintesi


 In viaggio con Pinocchio
di Fernanda Mazzoli

Con il viaggio interiore di Pinocchio, e attraverso i simboli che attorniano il burattino,
l’autrice osa sfidare l’immaginario pietrificato del nostro presente.

Il Pinocchio di Fernanda Mazzoli è un viaggio tra letteratura di formazione, archetipi e critica sociale, è un processo cairologico come il titolo del saggio ci indica: In viaggio con Pinocchio. Nessun viaggio è mono-tono, ma comporta una serie di aspetti che l’autrice magistralmente tiene assieme in una sintesi armonica ed organica. Il viaggio con Pinocchio non termina mai con la subitanea lettura del libro di Collodi, ma continua più in profondità proprio dopo la comprensione del testo. Se il lettore ha vissuto le metamorfosi di Pinocchio, nelle trasformazioni ritrova se stesso e, specialmente, dinanzi a lui si apre un campo aperto di possibilità: deve scegliere il percorso migliore che lo riporta a se stesso, dopo i processi di reificazione in cui ha rischiato di perdersi. Il saggio di Fernanda Mazzoli osa sfidare l’immaginario pietrificato del nostro presente con Pinocchio ed i suoi simboli. Senza attività di simbolizzazione non vi è significato, per cui il nostro presente riposa nel “niente”. Rinunciando al viaggio interiore la politica è solo un far carriera e la comunità una giustapposizione di individui senza profondità e prassi. Non a caso dopo l’interessante prologo si sofferma sulla rilevanza della figura della fata Turchina, la quale è il logos, perché è la personificazione del fatum, da fari, ovvero di ciò che è stato annunziato. La fata preordina il percorso, è il concetto che prepara la prassi, fino a far coincidere teoria e prassi. Il logos è la fata Turchina, e senza logos non vi è formazione, non vi è crescita qualitativa, ma solo tempo cronologico senza speranza. Il tempo del viaggio è processo che deve maturare al contatto consapevole con il negativo. Pertanto la strada che il burattino deve svolgere per passare dallo stadio legnoso al corpo vissuto è segnato dalla fioritura del legno. Il legno non è materiale inerte, in esso scorre la vita in potenza che deve portare in atto i suoi germogli interiori fino alla completa trasformazione. Nulla è banale in un processo di crescita, ma tutto è meravigliosamente eccezionale:

«La banalità qui non è di casa: è storia, piuttosto, di una contrastata acquisizione della coscienza di sé e del mondo che si fa strada attraverso mille peripezie di carattere iniziatico».[1]

Il viaggio di Fernanda Mazzoli non si limita a cogliere i rapporti tra il testo di Collodi e la letteratura di formazione, rintraccia nel percorso interno al saggio elementi di divergenza e convergenza con il genere picaresco, ma è presente, anche, una lettura critica e sociale del romanzo. Nell’Italia che si avvia verso la sua prima rivoluzione industriale riemerge l’utopia dell’arricchimento facile con il Gatto e la Volpe e il desiderio utopico ed antico di un’abbondanza che  si autoproduce senza l’intermediazione del  lavoro:

«È il vagheggiamento di un’abbondanza che nasce direttamente da se stessa, senza l’intermediazione del lavoro, ad animare le strabilianti narrazioni, ora divertite, ora ingenuamente partecipi, messe in scena dalla letteratura dotta  e da quella popolare».[2]

Il romanzo ci induce a guardare al presente, da esso si dipanano piani di temporalità: vi è l’eternità dei simboli, il tempo coevo di Collodi e il nostro tempo. Il paese della Cocaigne è accostato al mondo debordante di merci dei nostri ipermercati, ma in essi la Cocaigne non è sogno, ma disincanto, perché senza il denaro nulla è possibile; si può solo guardare, ma si è respinti nel grigiore dell’impotenza e della frustrazione:

«Un grande centro commerciale che esibisce sui propri scaffali, accuratamente disposte, merci di ogni tipo e per tutti i gusti e che basta allungare per cogliere, fare proprie e soddisfare tutte le brame, potrebbe essere la versione moderna di Cocaigne».[3]

Pinocchio alla fine della sua iniziazione comprende che la crescita non è l’accumulo dell’individuo proprietario, ma è la luce interiore dei legami di significato senza i quali nulla ha senso. Il burattino ci insegna a non cadere nella trappola degli ipermercati e delle miserie dell’abbondanza. Solo la crescita qualitativa e la chiarezza del bene liberano dai processi di alienazione. Il bene è discreto e silenzioso, ed è Geppetto nel romanzo che testimonia la profondità del bene con la sua vita al limite della miseria, ma incentrata nel dono di sé, nella cura e nella misura:

«Se non modello, Geppetto identifica però un ideale di vita, fondato sulla misura, l’onestà, la sobrietà e il senso del dovere, che Pinocchio farà suo».[4]

In questo tempo bellicoso, il saggio di Fernanda Mazzoli non è fuga dalla realtà, ma ci è di ausilio per riscoprire ciò che è fondamentale per ogni comunità umana degna di essere definita tale: i processi di formazione e germinazione della vita, i quali non terminano con l’adolescenza, ma sono i tempi veri ed autentici di tutta l’esistenza. Il prezzo da pagare è la separazione dall’inautentico per una superiore qualità di vita. Ciò può avvenire in ogni periodo della vita, per cui Pinocchio è l’eterno nella condizione umana:

«È il prezzo da pagare per diventare se stessi, separazione dopo separazione, per raggiungere un’unità più alta, una forma che emerge dal caos dell’indistinto e conquista una sua faticosa libertà».[5]

[1] Fernanda Mazzoli, In viaggio con Pinocchio, Petite Plaisance, Pistoia 2022, pag. 76.

[2] Ibidem, pag. 57.

[3] Ibidem, pag. 66.

[4] Ibidem, pag. 42.

[5] Ibidem, pag. 86.


Pieter Bruegel the Elder, Luilekkerland (“The Land of Cockaigne “), oil on panel (1567; Alte Pinakothek, Munich).jpg
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo, Lo studio di Luca Grecchi sulle tracce della filosofia è un esercizio di critica sociale e di defatalizzazione./Letture.org, Intervista a L. Grecchi: «Come può esserci una filosofia prima della filosofia?».


A seguire:
Introduzione di Daniela Lefèvre-Novaro
Sommario del volume
Intervista a L. Grecchi: 5 domande all’autore da parte di Letture.org.

Salvatore Bravo

Lo studio e la ricostruzione storica di Luca Grecchi
sulle tracce della filosofia è un esercizio di critica sociale e di defatalizzazione

 

Verità e bene nella pratica filosofica

Vi sono studiosi che non si adattano alle mode accademiche, ma sono fedeli al loro destino. Praticare la filosofia significa avere la chiarezza del fine della stessa. La filosofia è scienza della verità, è attività veritativa che soppesa le opinioni con la forza dialogica delle argomentazioni per uscire dalla palude del conformismo nichilistico. Il presente ci offre un numero notevoli di studiosi, anche di valore, che si sono cadavericamente adeguati alla filosofia nella forma dell’epistemologia o del multiculturalismo. Spesso tali scelte – che negano la filosofia nel suo senso più profondo e nella sua tradizione più antica – sono dovute a pressioni culturali e sociali. In questo contesto gli studiosi che si sottraggono all’omologazione rassicurante sono preziosi, perché ci rammentano il fine autentico della filosofia e ci ricordano che adeguarsi è una scelta: è sempre possibile intraprendere la via più difficile.
La filosofia vive nei filosofi, per cui essa è sempre ad un bivio in cui bisogna scegliere se intraprendere la via dell’opinione o la via della verità. Luca Grecchi è in cammino sul sentiero della verità e le sue pubblicazioni testimoniano il suo percorso. Il suo ultimo testo, La filosofia prima della filosofia. Creta, XX secolo a.C.-Magna Grecia, VIII secolo a.C. (Morcelliana, Brescia 2022) non è una semplice ricostruzione genetica della filosofia, quale pratica della verità nel rispetto della natura comunitaria degli esseri umani. La filosofia difende la buona vita e il bene testimoniandoli, per cui la ricostruzione storica di Luca Grecchi sulle tracce della filosofia è un esercizio di critica sociale e di defatalizzazione. Il presente è senza speranza, la categoria della necessità regna, per cui l’attuale modello economico e sociale è giudicato come unico e senza alternative. Luca Grecchi attraverso l’analisi documentata degli albori della filosofia nella società cretese palesa che il presente è esperienza storica non assoluta, e specialmente, il futuro è condizione di possibilità progettante, solo se ci si rivolge al passato per esplorare modelli sociali ed economici nei quali il fine è il benessere dell’essere umano e non il profitto. Per mettere in atto tale prassi è necessario porre al centro la filosofia. Essa è analisi critica della totalità: il metodo dialettico concettualizza la totalità per saggiarne la qualità. Senza l’esame critico della totalità il presente si eternizza negando la prassi e la responsabilità etica e storica dell’essere umano:

«La filosofia, infatti, si occupa principalmente di due contenuti, ossia la verità e il bene, di cui nessuna altra scienza si occupa».[1]

La filosofia ha il compito – che si storicizza nel tempo – di porre un argine alla deriva crematistica, nella quale l’essere umano è solo un mezzo per il profitto e non un fine. Se si vive in una totalità in cui si è solo degli enti da consumare e usare all’occorrenza, l’infelicità e l’alienazione sono generali. La filosofia è anche pratica politica, non è l’anima bella che si rifugia nella turris eburnea dell’astratto, ma è concretezza etica sin dalle origini:

«Nell’VII secolo, dunque, la crematistica ricerca del vantaggio privato, era già presente nei processi dominanti della riproduzione sociale della realtà cittadina. Vi era tuttavia la consapevolezza che essa andava tenuta a freno dalle strutture pubbliche della nascente polis. Al crescere della pervasività della crematistica sul piano sociale cercarono infatti di rispondere le strutture politiche della polis, e, poco dopo, le strutture culturali della philosophia».[2]

 

Civiltà cretese e comunitarismo

L’essere umano per natura è comunitario. Anche l’attuale individualismo presuppone la comunità, solo che essa è intesa e vissuta come mezzo e non come fine. L’individualismo comporta la cattiva vita, poiché l’alterità è uno strumento per soddisfare necessità e per estorcere profitto. La filosofia fa emergere la verità del contesto storico per compararlo al bene, ovvero alla comunità in cui l’essere umano è il centro disinteressato di ogni attività e non una semplice comparsa in funzione del profitto. Non bisogna cadere nella trappola di coloro che affermano che la pianificazione comunitaria dell’economia sia possibile solo vi è una società poco sviluppata.
Luca Grecchi palesa la differenza tra la civiltà cretese e le civiltà orientali, in cui vigeva la gerarchizzazione del potere e la comunità era asservita al potere della casta sacerdotale. Condizioni storiche simili possono sviluppare diversi modelli politici. A tal fine la filosofia è fondamentale, poiché il comunitarismo presuppone una adeguata riflessione teoretica. L’architettura della civiltà cretese comporta una visione dell’essere umano e della totalità in cui è implicato. Il fine è il bene di tutti, pertanto l’economia non è crematistica e saccheggio dell’altro, ma equa distribuzione dei beni conservati nei magazzini di stoccaggio. La centralità è il cortile, spazio aperto in cui si svolgono le attività sociali ed in cui si impara la condivisione e la si organizza:

«Il cortile centrale inoltre rappresenta il cuore dei Palazzi cretesi, in quanto fu verosimilmente il luogo della comunicazione politica e della distribuzione economica dei beni, dunque il luogo fondamentale della comunità».[3]

L’architettura non è neutra, ma è l’oggettivazione della teoretica che guida la comunità. L’architettura ha la prima radice nel sostrato silenzioso ed essenziale della visione del mondo di una civiltà. Se guardiamo all’urbanistica delle nostre città (con la privatizzazione di ogni spazio), non è difficile dedurre che è l’interesse privato a condurre ogni azione e a determinare l’isolamento atomistico che deprime le energie creative e plastiche di ogni cittadino. Nella civiltà minoica la centralità del cortile è il segno della consapevolezza che il benessere dev’essere di ognuno, altrimenti non vi è che lotta e “animalizzazione indotta” dell’essere umano:

«Non vi è dubbio, insomma, che i Palazzi minoici siano stati strutture polifunzionali, ospitanti sia attività economiche che assemblee civili, sia feste sportive che cerimonie religiose. Ciò nonostante, la funzione primaria di tali Palazzi – la funzione essenziale – rimase quella economico-politica di coordinamento della pianificazione produttiva-distributiva dei beni necessari alla vita».[4]

 

La comunità come esperienza e aspirazione non cointingente

La fine della civiltà minoica non ha comportato la scomparsa nel nulla dell’esperienza cretese, ma essa rivive in taluni aspetti nella civiltà omerica, pur in condizioni storiche molto modificate e diverse. Non a caso nei testi omerici ritroviamo due parole (idion e demion) che segnalano la prevalenza etica e qualitativa del pubblico-comunità sul privato. L’idion è colui che si dedica solo ai propri interessi privati, per cui rompe il vincolo solidale con la comunità tutta:

«L’utilizzo dei termini idion e demion per indicare privato e pubblico era, del resto, già frequente nei poemi omerici, a riprova di una riflessione su questi temi che non poteva essere acerba».[5]

La società omerica, pur bellicosa, conserva la condivisione comunitaria; non a caso i guerrieri pongono al centro (es meson) il bottino per dividerlo. Il mettere al centro è un residuo vivo del passato che non trascorre, è il germe che sarà pensato e porterà alla polis. L’esperienza cretese non scompare con la civiltà minoica, ma la si ritrova ripensata nelle diverse condizioni storiche nelle civiltà geograficamente limitrofe. Nella polis si ha l’espressione massima di tale visione comunitaria, poiché la città è organizzata per il dialogo comunitario, per cui gli spazi pubblici sono la manifestazione della chiarezza concettuale del bene che deve integrare la città con la natura e gli dèi:

«Oltre alla pianificazione degli spazi pubblici (edifici, piazze, santuari, necropoli, ecc.) e degli spazi privati (ripartizione della terra urbana e agricola, ecc.), la progettualità originaria delle apoikiai prevedeva che, nel territorio, ampi spazi dovessero sempre rimanere di uso comune. Si tratta dei cosiddetti saltus, ovvero spazi agricoli occupati dalle foreste e dalle estensioni di altura, necessari per il pascolo estivo, il legname e la caccia. Inoltre, in pressoché tutte le poleis di Magna Grecia e Sicilia erano sempre assicurate le cosiddette “aree di rispetto”, definibili come aree libere situate a ridosso delle mura urbane, disponibili per vari utilizzi comunitari».[6]

Il percorso che dalla civiltà cretese porta alla polis è un messaggio che giunge fino a noi e ci invita a guardare, pensare e vivere il presente con lo sguardo della civetta che è in ogni essere umano:

«L’uomo ha necessità di vivere bene, e per ottenere questo risultato deve costituire all’interno della physis, ossia della realtà che lo ospita, un contesto comunitario in cui realizzare un’esistenza armonica, caratterizzata da rispetto e cura verso sé stesso, gli altri uomini, la natura e il divino».[7]

Leggere il testo di Grecchi è esperienza teoretica, poiché ci conduce con il suo stile discreto a riscoprire il passato per comprendere il presente, in modo da riportare la possibilità della prassi dove vige l’annientamento del solo profitto.

Salvatore Bravo

***

[1] Luca Grecchi, La Filosofia prima della filosofia. Creta, XX secolo a.C.-Magna Grecia, VIII secolo a.C., Scholé Morcelliana, Brescia 2022, pag. 15.
[2] Ibidem, pag. 116.
[3] Ibidem, pag. 73.
[4] Ibidem, pag. 89.
[5] Ibidem, pag. 115.
[6] Ibidem, pag. 135.
[7] Ibidem, pag. 156.





Intervista  pubblicata il 18 gennaio 2022 su “Letture.org


  • Prof. Luca Grecchi,
    Lei è autore del libro La filosofia prima della filosofia. Creta, XX secolo a.C. – Magna Grecia, VIII secolo a.C. edito da Morcelliana: come può esserci filosofia prima della filosofia?


La domanda è legittima, e la risposta doverosa. Il libro inizia infatti spiegando questo titolo strano, il che si può fare grazie alla coppia concettuale potenza/atto, tematizzata per la prima volta da Aristotele. Detta in modo semplice, la filosofia è un’attività che esiste da sempre in potenza nell’uomo, dato che, per natura, l’uomo – sintetizzo qui le tre caratteristiche essenziali che a mio avviso definiscono la filosofia – necessita, per realizzarsi compiutamente: a) di rapportarsi all’intero, ricercandone il senso; b) di conoscere con verità, agendo per il bene; c) di relazionarsi dialetticamente alla realtà, ponendosi continuamente domande e cercando di formulare risposte, a loro volta da vagliare. Posto che in potenza la filosofia esiste da sempre nella natura umana, essa ha tuttavia iniziato ad esistere in atto solo in un certo luogo ed in un certo momento – poi vedremo dove e quando –, poiché solo in quel luogo ed in quel momento si sono per la prima volta verificate le condizioni, naturali e sociali, favorevoli alla sua nascita.

Cerco di spiegarmi con un esempio. Un uomo e una donna, per natura, hanno sempre in potenza, se si uniscono, almeno in un certo periodo del loro ciclo vitale, la possibilità di procreare. Affinché la procreazione non resti una potenzialità ma si realizzi in atto, occorrono però molte condizioni (che l’uomo e la donna siano fecondi, che vi sia fra loro un’attrazione, che l’interazione della loro genetica non ostacoli la formazione del feto, ecc.). Nel caso mio e di mia moglie, già nei primi giorni dopo il concepimento di nostra figlia Benedetta, si erano verificate queste condizioni, senza che lo sapessimo. Benedetta c’era già, insomma, ma ancora non eravamo consapevoli della sua esistenza. Allo stesso modo, in base a quanto cerco di argomentare nel libro, a partire almeno dalla Creta palaziale del XX secolo a.C., la filosofia in un certo senso c’era già – per quanto non ancora compiutamente formata –, anche se non se ne conosceva l’esistenza; ciò in quanto le sue tre caratteristiche essenziali, che ho poco sopra sintetizzato, cominciarono a formarsi proprio in quel momento ed in quel luogo.

L’obiezione prevalente, tuttavia, che riceverò dagli storici della filosofia antica, immagino si condenserà nella seguente domanda: non è eccessivo andare indietro di 15 secoli nel ricercare l’origine della filosofia rispetto a quanto normalmente si fa, dato che la nascita della stessa è solitamente attribuita al VI-V secolo, coi Presocratici e con Platone? A questa domanda risponderei nel modo seguente: è eccessivo solo in rapporto a quello che si è finora fatto. Così, tuttavia, come non è eccessivo per un neonatologo analizzare un neonato facendo riferimento a tutte le condizioni biologiche del concepimento, all’intero periodo della gestazione e in generale alle varie fasi del processo procreativo, anziché partire solo – come si faceva una volta – dal momento della sua nascita, per lo stesso motivo non è eccessivo, a mio avviso, studiare la filosofia facendo riferimento alle condizioni originarie del suo concepimento, a tutto il periodo della sua gestazione e in generale alle varie fasi della sua “procreazione”. Indubbiamente, con la filosofia si parla di 15 secoli anziché di 9 mesi, e di un processo che riguarda molte generazioni anziché pochi individui, il che rende tutto più complesso. Penso però che sia doveroso considerare tale processo nella sua interezza: dalla cultura minoica del XX secolo alla cultura classica del V secolo vi è una continuità, che nel testo è mostrata in vari modi, la quale deve essere valutata compiutamente se si desidera comprendere in maniera adeguata la nascita della filosofia.

Nel volume ho utilizzato ripetutamente una analogia vegetale – poco fa ho usato quella umana –, assimilando la filosofia a una piantina, uscita dal terreno nel VI-V secolo, e di cui, al massimo, è stata ipotizzata l’esistenza di radici un paio di secoli prima, con la poesia di Omero. La cultura omerica, tuttavia, dipende strettamente dai cosiddetti “secoli oscuri” che l’hanno preceduta (XI-IX), i quali sono, a loro volta, la risultanza del crollo dei regimi micenei (XVII-XII), che ebbero come modello – per quanto senza assimilarne compiutamente la cultura – proprio la civiltà minoica cretese (XX-XV). Possibile, alla luce di quanto ho qui sintetizzato, continuare a studiare la piantina della filosofia considerando solo, al più, i 2 centimetri (secoli) delle sue radici fino a Omero, quando è assai verosimile, per i legami ora esposti, che esse siano lunghe almeno 15 centimetri (secoli) fino a Creta? Mi sembra semplicemente che finora, siccome è molto difficoltoso scavare in profondità, si sia scavato solo in superficie, o spesso addirittura non si sia scavato, essendosi limitati – me compreso – a studiare solo la parte della piantina fuoriuscita dal terreno (ossia la filosofia quando ha iniziato ad essere nominata, coi Presocratici e con Platone), riducendo però di molto, in questo modo, le possibilità di comprensione della stessa.

Mi conceda un’ultima analogia – di quelle che fanno sorridere gli studenti a lezione –, stavolta di genere animale, per par condicio con quelle umana e vegetale utilizzate prima. In una gita ad un parco zoologico di qualche anno fa con mia figlia, ho appurato che la lunghezza delle gambe di una giraffa adulta è di circa 150 centimetri. Sarebbe ben rappresentata, a suo avviso, una giraffa con solo 20 centimetri di gambe? Senza considerare i secoli di cui si occupa questo libro, la filosofia rimane disegnata come una giraffa con le gambe di 20 centimetri. Per quanto la parte più importante di una giraffa sia verosimilmente costituita dal tronco e dal collo, con le gambe così corte essa non è raffigurata in maniera corretta. Ciò nonostante, da secoli, continuiamo a rappresentare la filosofia in questo modo, con tutto quello che ne consegue. Nel libro mostro in merito che molti errati luoghi comuni sulla nascita della filosofia (ad esempio il suo presunto sorgere nelle “colonie”, senza che si specifichi bene questo termine), si originano proprio a causa della mancata analisi delle sue condizioni di base. Per questo motivo ritengo che i futuri manuali di Storia della filosofia dovrebbero essere integrati, nelle loro prime pagine, non col contenuto di questo libro, ma col contenuto di questi secoli. Nutro tuttavia, in merito, poche speranze: lo specialismo accademico non accetta di aprirsi a novità così grandi. La mia proposta sarà per lo più considerata come il testo eccentrico di uno studioso “originale”; o, ancor più probabilmente, sarà ignorata.


  • In che modo, nel XX secolo a. C., a Creta ebbe inizio
    il processo che condurrà alla costituzione della polis
    e alla fioritura della philosophia?


Creta è un’isola grande circa come le Marche, più o meno equidistante fra l’Europa, l’Asia e l’Africa. Per la sua bellezza, fin dal Neolitico, fu abitata da popoli diversi, non esclusivamente da gente ellenica. Solo nel seguito la sua grande civiltà, grazie anche alla mediazione micenea, plasmò la cultura ellenica costituendone la matrice originaria. Lei mi chiede però, giustamente, come sia stato possibile, a partire dai primi insediamenti organizzati dell’Età del Bronzo, giungere progressivamente fino alla costituzione delle poleis ed alla successiva fioritura della philosophia, che è effettivamente un prodotto delle poleis elleniche.

Ebbene, pensi alle tre caratteristiche essenziali della philosophia cui abbiamo accennato sopra: il rivolgimento all’intero; la ricerca della verità e del bene; l’approccio dialettico alla realtà. Pensi a una situazione originaria, in cui vari gruppi di persone vennero ad abitare diverse parti dell’isola cercando di costituire aggregati stabili in cui vivere in maniera armonica. Come ragionarono e come agirono questi gruppi? Essendo nuclei comunitari, come lo sono quasi sempre i nuclei che viaggiano cercando di formare contesti abitativi permanenti, essi in sostanza seguirono – naturalmente senza esserne consapevoli – i tre orientamenti costitutivi della philosophia: a) si rapportarono all’intero, ossia alla natura (scelta di un luogo con corsi d’acqua potabile, con la giusta vicinanza al mare, con luoghi coltivabili nelle vicinanze, ecc.), al divino (scelta dei riti più adatti ad unire la comunità, a rispettare tutte le divinità care ai rispettivi gruppi, a garantire l’armonico svolgimento della vita sociale, ecc.) e all’umano (scelta di modalità economiche comunitarie, di una legislazione attenta alle esigenze di tutti, delle modalità migliori per favorire le espressioni culturali, ecc.). In questo modo essi realizzarono anche, implicitamente, b) una ricerca della verità e del bene, che fu posta in essere in un continuo confronto, ossia c) in maniera dialettica.

A Creta, insomma, rispetto alle coeve civiltà orientali, molto più gerarchiche, autoritarie e dogmatiche, si crearono forse i primi contesti cittadini comunitari di cui abbiamo notizia, i quali scelsero – verosimilmente, per quanto ho potuto ricostruire – di organizzare la loro vita sociale in maniera pianificata, in maniera tale che ognuno potesse dare in base alle proprie capacità e ricevere in base ai propri bisogni. Una simile pianificazione comunitaria, organizzata nei famosi Palazzi, adottata peraltro in tutte le principali città dell’isola, non poté prescindere da una grandiosa elaborazione culturale e da una rilevante condivisione politica: due condizioni essenziali che spiegano forse come, da quelle prime poleis ante litteram, iniziarono ad essere inseriti nel terreno, a mettere radici e a germogliare i primi semi della philosophia.


Quali caratteristiche
presenta
la Creta palaziale?


Ho poco fa parlato di Palazzi, ma non dobbiamo pensare – come pure i primi archeologi scopritori degli stessi, fra cui Evans, hanno lasciato intendere – a qualcosa di simile ai palazzi reali di Versailles. I cosiddetti Palazzi, nelle città minoiche, erano infatti costruzioni molto ampie in cui avevano sede le istituzioni politico-religiose-culturali della città, così come diverse attività produttive. Essi erano in effetti più simili a veri e propri quartieri, in cui erano svolte le attività economico-sociali fondamentali relative alle necessità della vita, fra cui in primo luogo lo stoccaggio e la distribuzione delle risorse alimentari, nonché l’organizzazione – la scrittura nacque verosimilmente a Creta con questo fine – della pianificazione. Erano Palazzi senza mura, aperti alla cittadinanza, non arroccati in difesa del potere. Nonostante l’immaginario collettivo pensi al mitico Minosse come ad un monarca imperialista, l’iconografia rimasta non mostra mai, a Creta, re in posizioni dominanti e sudditi con la testa bassa, come spesso accade nelle coeve civiltà orientali; mostra anzi spesso gruppi di persone felici con la testa alta. L’archeologia conferma peraltro l’iconografia, con situazioni abitative, nei nuclei urbani, tutte fra loro piuttosto omogenee. Si tratta, come dico più volte nel libro, soltanto di indizi (qui ne ho indicati alcuni), ma se tre indizi fanno una prova, nel libro ci sono anche alcune prove.


In mancanza di documenti scritti,
su quali elementi
si basa il Suo studio


Altra domanda doverosa. Mi si potrebbe infatti giustamente chiedere: essendo lei uno storico della filosofia antica – peraltro un po’ anomalo, dato che si occupa anche di filosofia morale e di filosofia teoretica –, cosa ne sa di queste civiltà anteriori ad Omero, di cui restano poco più che le pietre? Naturalmente, mi sono a lungo documentato prima di scrivere questo libro, come la bibliografia citata dimostra. Non solo: ho anche importunato, per diverso tempo, archeologi, storici, orientalisti, ecc., nella convinzione che il sapere non sia caratterizzato da compartimenti stagni. In tal senso, devo ringraziare in modo particolare due archeologi assai interdisciplinari, quali la Professoressa Daniela Lefèvre-Novaro, dell’Università di Strasburgo e il Professor Massimo Cultraro, dell’Università di Palermo, che mi hanno fornito molte utili indicazioni ritenendo, alla fine, plausibile la mia interpretazione.

Queste epoche in effetti, su cui non ci sono fonti scritte dirette – la cosiddetta Lineare A, nonché le altre scritture geroglifiche minoiche, non sono ancora state completamente decifrate; inoltre, il totale dei testi minoici di cui disponiamo ammonta a poche pagine di un attuale libro –, devono necessariamente essere indagate in maniera interdisciplinare. Occorre infatti saper mettere insieme i pezzi scoperti dai singoli specialisti, per arrivare a delineare un quadro coerente di una civiltà così meravigliosa come quella minoica. Questa attività però, oggi, la fanno ormai in pochi. I processi selettivi dell’Università obbligano in effetti ad uno specialismo estremo, tanto che se ci si lascia risucchiare dagli stessi si finisce con lo studiare una sola tesserina del mosaico per tutta la vita, senza andare oltre. Eppure, ci vuole sempre qualcuno che tenti di mettere insieme le tessere, se si desidera avere una immagine complessiva del mosaico.


  • In che modo l’indagine sugli albori della riflessione filosofica
    ci aiuta a comprendere il senso di un fine
    che la filosofia contemporanea sta progressivamente smarrendo?

Questa domanda finale è molto bella, perché condensa veramente il significato che attribuisco a tanti anni di libri e di insegnamento. Indagando le culture antiche, ho sempre cercato di far risaltare il valore comunitario della filosofia, che è appunto una ricerca comune della verità dell’intero, svolta in comune per favorire il bene comune. Il fine del fare ricerca, in filosofia, deve sempre essere l’affrontare problemi importanti per trovare soluzioni importanti, dunque anche modelli di riferimento validi. La Creta minoica, in base a quanto argomento nel libro, rappresenta un possibile paradigma di società comunitaria, pianificata in maniera armonica, in cui a nessuno mancava il necessario, la natura era rispettata e ciascuno partecipava liberamente al processo della riproduzione sociale complessiva. Non abbiamo bisogno, oggi, di un modello simile, vivendo in un modo di produzione che, strumentalizzando tutto al fine del profitto, non rispetta né gli uomini né la natura, mettendo in pericolo la stessa sopravvivenza del pianeta e lasciando nella infelicità centinaia di milioni di persone? 

Sono assolutamente consapevole dei limiti della mia ricerca filosofica, che è “roba minima”, come direbbe Enzo Jannacci. Finché, tuttavia, mi sembrerà di essere almeno un poco utile in questa direzione, continuerò a scrivere; quando capirò di non esserlo più, impiegherò la mia vita in maniera diversa, per quanto sempre con lo stesso fine.

****

Luca Grecchi insegna per le cattedre di Filosofia morale e di Storia della filosofia all’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Fra le sue pubblicazioni più recenti: Leggere i Presocratici (Morcelliana, 2020) e tre volumi della collana Questioni di filosofia antica (Edizioni Unicopli): Natura (2018), Uomo (2019) e Ricchezza (2021). Con l’editore Petite Plaisance ha curato tre importanti volumi collettivi: Sistema e sistematicità in Aristotele; Immanenza e trascendenza in Aristotele; Teoria e prassi in Aristotele (rispettivamente 2016, 2017 e 2018).

Luca Grecchi – Alcuni suoi libri


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – L’età delle parole, ricordando Antonia Pozzi. Non dobbiamo temere i cancelli chiusi dal silenzio: abbiamo bisogno di parole di verità.

 
Salvatore Bravo

L’età delle parole, ricordando Antonia Pozzi

Non dobbiamo temere i cancelli chiusi dal silenzio: abbiamo bisogno di parole di verità
 

“Forse l’età delle parole è finita per sempre”, scrisse nel 1938 Antonia Pozzi al poeta Vittorio Sereni. Le parole di Antonia Pozzi risuonano, ora, e oggi più vere che mai. Vi è il timore che le parole non siano più il luogo topico dell’umanizzazione: hanno dismesso la loro capacità di comunicare, di mettere in comune argomentazioni e vite per capire la verità. Al loro posto vi è solo la parola usata come arma contundente per segnare la potenza di pochi e l’umiliazione di molti. Le parole non solo ci parlano, ma sono la breccia con cui l’irrazionale diviene razionale, sono la partecipazione alla vita, sono la vita nel suo dispiegarsi verso la totalità.

In questo momento storico sono soltanto il mezzo con cui si tolgono i diritti, si occultano i doveri e si alimenta la discriminazione. Il confronto dialogico è stato sostituito dal monologo ubbidiente a cui si obbedisce supinamente. L’obbedienza non è una virtù, Don Milani lo ha testimoniato!

Solo le parole riescono ad emancipare dalla sofistica del dominio. La mortificazione che molti provano è l’effetto delle parole usate come uno sperone di ferro sotto il quale schiacciare i dissenzienti: le loro parole non devono trovare spazio e tempo per apparire, ma devono essere tacitate e oltraggiate.

Assistiamo all’oltraggio delle parole, e quindi alla negazione dell’essere umano. Senza parole l’essere umano è disumanizzato, il logos è sostituito dalla scaltrezza del calcolo e dall’uso arbitrario dei significati.

Non resta che la solitudine. Il rischio è la disperazione silenziosa, poiché il furto delle parole non è un semplice saccheggio, è negazione della profondità umana e della natura dialogica che, per storicizzarsi, necessita dell’incontro. Quest’ultimo è possibile solo se la parola è la soglia nella quale e dalla quale la verità prende forma.

Senza le parole del logos non vi è che la legge del più forte: la violenza pur invisibile è legalizzata e la truffa sociale della governance ai danni della collettività diviene “normalità” e “banalità del male” che penetra nelle relazioni per saccheggiarle della corrente calda dell’incontro senza il quale non vi è pensiero, ma solo dominio.

Antonia Pozzi si è suicidata nel 1938, nell’anno delle leggi razziali. La sua tragica scelta è per noi un monito: non si può vivere senza parole e senza verità. Ella non ha resistito dinanzi all’apparir del vero, come la giovane Silvia (nella parola poetica di Leopardi). Dobbiamo ricordare la sua morte e la cornice in cui è avvenuta per non cedere alla violenza dei nostri giorni, anche se ai più appaia ormai inesorabile. Dinanzi al male che avanza abbiamo bisogno di parole di verità: «L’amore per la verità non è fattore normativo autoritario, ma è intima coerenza tra vita e pensiero», ha scritto una insegnante in questi difficili giorni. Parole di verità per non cedere alla malinconia delle passioni tristi che incombe su tutti. Non dobbiamo temere i cancelli chiusi dal silenzio:

 

Giardino chiuso

 

Come in una fiaba
triste – un altro giardino
si chiude – al margine
della strada –

 Restano soli sul colle
i pioppi con le foglie leggère –
le siepi di bosso – le mammole
delle primavere
perdute –

 Il bosco dei faggi
si fa tutto ombra
senza raggi
di cielo –
tomba
per gli uccelli
che saranno
morti –

 Come in una fiaba
triste – il viandante che porti
per questa strada

la sua

fatica –
vede una fuga di cancelli
chiusi – su l’antica
erta – e imprigionati nel fondo
i castelli
dei sogni ciechi –

 

13 settembre 1933

Antonia Pozzi

I cancelli hanno bisogno di parole per aprirsi alla speranza e alla prassi, ora che il cielo sembra chiudersi su di noi.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo- Il sei dicembre 2021 entra in vigore il super greenpass.

 

Salvatore Bravo

6 DICEMBRE 2021

Il sei dicembre 2021 entra in vigore il super greenpass

***

Si tratta di un’autentica rivoluzione reazionaria, in quanto i diritti sono concessi nello stile della costituzione ottriata e flessibile. Con un colpo di spugna il governo ha eliminato i diritti costituzionali conquistati dal popolo con la resistenza per inaugurare una nuova fase regressiva della democrazia. Dal sei dicembre vige un nuovo stato di diritto, in cui i cittadini non sono eguali davanti alla legge, ma si conquistano i diritti con l’obbedienza: diritti a punti o se si vuole a livelli. Vi sono tre livelli di cittadinanza: i senza grennpass, coloro che hanno il greenpass minimo e i supercittadini con il super grenpass. Cittadinanza a fasce di livello che mette in atto una discriminazione legalizzata. Il diritto allo studio è in realtà sospeso, gli studenti per poter arrivare nelle scuole devono dotarsi di greenpass.

Se uno Stato impedisce l’istruzione introduce una discriminazione inaudita: si neutralizza la formazione personale, si sottrae la possibilità di educarsi, si insegna che non tutti possono nei fatti entrare in classe. Gli studenti imparano che i diritti sono concessioni temporanee e che la formazione può essere espletata solo con l’obbedienza. Non poco tempo addietro il ministro dell’istruzione introduceva lo slogan “scuola affettuosa”. Una scuola che impedisce l’istruzione e ricatta le famiglie con il greenpass non è affettuosa, ma discrimina e insegna la discriminazione. L’inclusione parola che ossessiva si ripete nelle scuole di ogni ordine e grado mostra la sua tragica verità: non vi è inclusione, ma discriminazione, e se vuoi essere incluso devi obbedire e fingere che lo fai liberamente, magari con un post in cui ci si vaccina senza sapere con precisione cosa ti stanno inoculando. Parlare e discutere agli alunni dell’uguaglianza, battersi il petto dinanzi a ogni forma di violenza e poi impedire ad una parte della popolazione scolastica di viaggiare con treni e autobus è una contraddizione palese, ma taciuta. In TV si continua a ripetere e a quantificare il numero dei greepass scaricati, ma se anche dietro uno dei greenpass vi è una sola persona costretta dalle circostanze a farsi inoculare ciò che non vorrebbe, non si può parlare di stato di diritto, ma di violenza conclamata e velata da slogan ed esemplificazione. Ciò che è più grave è l’incultura della discriminazione che entra nel lessico quotidiano. Il nuovo lessico quotidiano è infarcito di violenza, e questa volta le parole coincidono tragicamente con i fatti. Non solo alunni, ma anche docenti e lavoratori non potranno usare mezzi pubblici, se non accettano gli ordini stabiliti per decreto esautorando il parlamento. Dopo l’eliminazione dell’articolo diciotto dallo Statuto dei lavoratori, si introduce e si rafforza la discriminazione senza giusta causa.

In una democrazia si discute, ma, da noi, d’ora in avanti si obbedisce. Se si guarda lo stato presente con sguardo olistico, non si può che avere la tetra immagine della fine della democrazia e l’inizio di una transizione verso una forte limitazione della stessa. Il senatore Monti lo ha dichiarato apertis verbis, “in Italia vi è troppa democrazia ed informazione, la democrazia va dosata alle circostanze”. Il senatore che ha tagliato i servizi sociali e le pensioni, se ha potuto dichiarare che la democrazia dev’essere adattabile come i fondi di investimento, per cui i diritti sono concessi sul “merito”, lo ha fatto, perché sa che una parte della popolazione è stata rieducata a giudicare la democrazia come un limite. Tali dichiarazioni sono possibili, perché è passata la logica della discriminazione dalla quale non sarà facile tornare indietro. Si sta sperimentando una democrazia limitata e a tempo. Coloro che gongolano per il supergreepass sappiano che nessun diritto è per sempre e che potrebbero ritrovarsi tra i dannati all’improvviso. L’Europa complice tace e applaude all’esperimento italiano. L’Europa dimostra la verità del capitalismo nella sua fase assoluta: il capitale è per suo fondamento discriminatorio ed ha in odio l’uguaglianza. Decenni di tagli ai diritti hanno inoculato l’attuale normalità della discriminazione che non ha nessun fine sanitario, ma è l’inizio di una nuova ideologia da capire e arrestare. Il 6 dicembre non è l’inizio della libertà come i manipolatori vogliono lasciare intendere, ma l’introduzione di un apartheid accettato senza nulla controbattere da partiti e sindacati, e di questo bisogna prendere atto. In ultimo, è bene rileggere l’articolo 3 della Costituzione per comprendere l’abisso in cui siamo:

«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Salvatore Bravo


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Il velo dell’ignoranza sulla democrazia. Il linguaggio non è mai neutro, nel linguaggio è sedimentata la storia di un popolo

Salvatore Bravo

Il velo dell’ignoranza sulla democrazia.
Il linguaggio non è mai neutro, nel linguaggio è sedimentata la storia di un popolo

Il linguaggio non è mai neutro, nel linguaggio è sedimentata la storia di un popolo; le parole e i loro costrutti non sono forme affette da rigidità e astrattezza, ma fin quando si trasmettono e sono linguaggio vivo formano il modo di essere e di operare dei cittadini o dei sudditi. Il potere nella forma del dominio controlla l’ordine del discorso, filtra con le parole i significati in un vano tentativo di eternizzarsi. La storia ha i suoi snodi cruciali solo se l’esperienza linguistica è mediata dal logos.

L’uso delle parole comporta una visione del mondo, una modalità pratica di gestione delle relazioni. La lingua viva è il veicolo più impalpabile con cui la violenza entra nel presente dalle porte mai chiuse con il passato. Ci troviamo invischiati in un presente che ha ostracizzato molte parole, ma nel contempo sta riattivando semantiche e lessico del passato. L’esemplificazione della lingua sostenuta dalle tecnologie che “costringono” ad un linguaggio immediato e degradato è il fenomeno politico più importante degli ultimi decenni. In nome dell’utile e della velocità venerati come miti, la prassi politica si è degradata a slogan, le visioni politiche e progettuali sono state sostituite da provvedimenti d’urgenza nell’interesse del popolo e degli italiani. Nessun approfondimento, nessuna contestualizzazione o raffronto per meglio comprendere dati e riforme, solo il luccichio delle parole infilate senza spessore logico e argomentativo per ammaliare e zittire le eventuali critiche. Rendere tutto “semplice”, contrapporre gruppi umani senza ascoltarne le ragioni, anzi dipingere i dissenzienti come pubblico pericolo è l’arma con cui il dominio persegue i suoi criminali propositi con il consenso delle vittime. Abbattere la semantica e la capacità argomentativa di un popolo sono gli espedienti più efficaci con cui ammanettarlo e renderlo suddito. La distruzione della pubblica discussione è demolizione dell’abilità logica senza la quale non vi è che il velo dell’ignoranza a scendere sui cittadini per trasformarsi in ceppo. Il livello di democrazia di un popolo dipende dalle sue capacità linguistiche, non si tratta di retorica o sofistica, ma di abitudine all’uso pubblico e critico della ragione.

La sottrazione delle parole è un furto doloso ai danni della cittadinanza. Un popolo senza parole è in catene dinanzi ai padroni del discorso. La condizione attuale registra la sudditanza globale, in quanto le oligarchie transnazionali possiedono i mezzi di comunicazione e con il loro enorme reddito comprano i venditori di parole. Il circo mediatico è la breccia da fendere per arrivare a loro e smascherare i padroni dell’ordine del discorso. Il lessico del circo mediatico con i suoi giullari rivela l’intenzionalità politica degli oligarchi, il tentativo di riattivare vecchi e antichi fantasmi per conservare il dominio.

Nelle ultime settimane i giornali nostrani hanno dichiarato all’unisono «Draghi tira dritto», l’uomo della provvidenza non si fa distrarre da proteste e dubbi, ma mette in atto la ricetta preparata altrove. In una nazione con un livello medio di democrazia ciò recherebbe scandalo. Il circo mediatico, invece, sorregge l’azione dell’uomo della provvidenza senza critiche, anzi lo rappresenta come il “salvatore” del popolo dinanzi alle proteste che malgrado divieti e Daspo1 continuano nella nazione. L’uomo della provvidenza, di fascista memoria, implica la passività del popolo, che incapace attende il suo angelo custode, che nulla ha di trascendente, ma i suoi obiettivi sono bancocentrici.

Tira dritto” è la nuova versione del me ne frego fascista coniato da Gabriele D’annunzio a Fiume (1919-1920). Ecco che riemergono atteggiamenti fascisti per conservare il dominio delle oligarchie con l’assenso del circo mediatico asservito. Se è possibile l’ostentazione del “tira dritto”, che ammicca al peggior linguaggio autoritario a cui ci stiamo abituando, lo si deve al fatto che i conti con il fascismo non sono stati fatti. L’esperienza storica fascista non è stata collettivamente pensata, sin da subito il potere si è difeso dai processi di democratizzazione lasciando decantare i miti bugiardi del fascismo da ripescare nei momenti di crisi. Queste ultime divengono occasione con cui sottrarre spazi sempre più ampi di democrazia e diritti sociali per inoculare il virus mortale del nuovo “Me ne frego” con il quale perseverare con linguaggio demagogico all’annichilimento dei diritti delle classi lavoratrici e della classe media. La responsabilità della classe accademica e del giornalismo è impressionante: sono disponibili a vendersi pur di raccogliere le copiose briciole che cadono dalle tavolate dei Grandi, resi tali dalla debolezze degli ultimi e dalla complicità del giornalismo sempre pronto ad adattarsi nelle parole e nell’interpretazione dei fatti all’ultimo dei potenti arrivati. Non resta che denunciare la violenza antidemocratica di questi anni senza opposizione e senza idee. Ai fuchi dell’intelletto insteriliti dal meritricio della parola bisogna opporre la forza dialettica della parola che riuscirà a fendere il velo di Maya che impedisce di guardare la verità storica e di agire su di essa con gli innumerevoli mezzi della democrazia. La regressione di questi anni non è la fine della lotta, ma una parentesi in attesa vigile ed operativa di quello che sarà e verrà. Ognuno può fare qualcosa, può resistere e accumulare le energie per un nuovo soggetto politico alternativo che per ora non si profila, ma è da preparare con l’impegno paziente delle parole. All’ateismo dilagante dei spregiatori della verità si può opporre l’umanesimo filosofico integrale da cui ricominciare per ricostruire una prospettiva comunitaria:

È il marxismo un “ateismo”? A mio parere non lo è necessariamente. Il marxismo è indubbiamente un umanesimo filosofico integrale (non sono quindi d’accordo con la scuola francese di Louis Althusser). Ma l’umanesimo filosofico integrale è anche il terreno di incontro e di dialogo fra credenti e non-credenti, che spesso verificano nei fatti di pensare la stessa cosa. Nella misura in cui la prospettiva di Marx riguarda non certamente l’esistenza e la non-esistenza di Dio (non sono infatti d’accordo con chi ritiene che la critica alle ipostasi religiose sia il presupposto necessario per la critica alle ipostasi dell’economia politica – e non sono d’accordo anche se so bene che il giovane Marx pensava proprio questo), ma la teoria dei modi di produzione ed il comunismo, ritengo che l’ateismo non sia assolutamente un pezzo di motore necessario per la macchina di Marx. Non si tratta del carburatore, ma della bambolina che penzola sul cruscotto. In definitiva penso che alcuni preti cattolici “dissidenti” (Fernando Belo, Giulio Girardi ecc.) abbiano ragione nell’essenziale”. 2

1 D.A.SPO., acronimo di Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive.

2 Costanzo Preve, Considerazioni introduttive sugli attuali dibattiti fra laicismo, scienza, filosofia e verità, Petite Plaisance, Pistoia 2008, pag. 18.

indicepresentazioneautoresintesi

La filosofia è una pratica ermeneutica. La ricostruzione genetica della particolare postura filosofica di Costanzo Preve è un’operazione complessa, e certamente esercizio quanto mai laborioso, a causa della copiosa produzione di scritti e dell’ordito di mezzi da lui scelti per portarla a noi. Malgrado tali difficoltà, può senz’altro affermarsi che la filosofia di Costanzo Preve è stata costantemente dialogica, aliena all’innalzamento di sterili palizzate ideologiche, poiché al contrario mirava – facendo leva sulla forza del concetto – a scanalare brecce nelle cinte fortificate di purismi e ideologie rinchiuse in se stesse. È questa una capacità che gli ha consentito di elaborare una sintesi tra tradizioni e filosofi differenti, divergenti, allo scopo di ritrovare un sentiero che conducesse fuori dalla palude del nichilismo. Tale genesi composita fa sì che l’addentrarsi nel suo pensiero sia un’esperienza di “straniamento”, perché egli sa mettere proficuamente in crisi le facili e sterili dicotomie su cui reggono quei poteri sclerotizzati nell’abitudine, assieme a quei pregiudizi ideologici che favoriscono il consolidamento dei totalitarismi ideali, siano questi confessi e riconosciuti o meno.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Costanzo Preve (1943-2013) – In ricordo di Costanzo Preve. Un libro e un articolo di Salvatore Bravo.

Salvatore Bravo

Pratica filosofica e politica in Costanzo Preve

ISBN 978-88-7588-293-8, 2021, pp. 216, Euro 20 – Collana “Divergenze” [77].

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In copertina: Immagine “straniante” di Erwin Piscator che entra nel Teatro Nollendorf, Berlino, 1929.Straniamento è il concetto – legato al teatro di Piscator e di Brecht – adottato da Preve come metafora dell’operazione filosofica per eccellenza e dello scopo della propria opera: mettere in moto un «riorientamento gestaltico», uno “scuotimento” associato a un mutamento radicale di prospettiva, alla trasformazione dello sguardo con cui ci si accosta al mondo, inteso innanzitutto come mondo dei rapporti sociali. Invitare a fare ingresso nel pensiero di Preve significa invitare a familiarizzare con lo straniamento, a prendere confidenza con la problematizzazione del proprio tempo.


I filosofi e l’idra del dominio


 

La verità si svela nel tempo, ci sono filosofi che vivono e pensano il travaglio del proprio tempo storico, hanno il coraggio di “pensare il noto del proprio tempo” e di non arretrare. Concettualizzare il proprio tempo è attività filosofica e politica, il filosofo pensa il proprio tempo per astrarne l’universale concreto, per porre in tensione universale e particolare.

Senza verità non vi è filosofia, non vi è filosofo: non resta che un accademico uso di linguaggi specialistici che non comportano effetti trasformativi della realtà sociale.

Senza verità non vi è politica, ma solo conservazione e comportamento ideologico. La filosofia è giudizio riflettente che prepara la prassi, la trasformazione di sé e del contesto sociale. La prassi necessita della teoria: si costituisce così una relazione feconda tra teoria e prassi che conduce alla responsabilità politica. La prassi filosofica è vita comunitaria che ha cura del singolo nella comunità, in modo che le soggettività possano vivere pienamente la propria indole singolare senza scindere la relazione con l’universale. L’attività filosofica è, dunque, dialettica, deve attraversare la contraddizione del proprio tempo, deve ricondurre alla pubblica ragione ciò che la pigrizia emotiva e cognitiva rimuovono in nome del quieto vivere. Il tafano con cui Socrate simbolizzava il filosofare è verità sempre attuale, in quanto è la sostanza della filosofia, la quale è dialogica, ma non conosce manierismi o recite di ruoli, ma solo interlocuzione umana a tutto raggio con cui capire il proprio tempo in vista della sua assiologica trasformazione.

Negli ultimi decenni dominati dalla filosofia analitica e dagli specialismi la filosofia è diventatasolo una presenza da salotto, da utilizzare in modo strategico nel circo mediatico per sostenere le oligarchie, è divenuta parte della sovrastruttura che sorregge e vela la struttura economica, come ci ha insegnato Marx. In un’epoca perversa la filosofia da passione per il sapere si è tramutata in uno dei tanti veli dell’ignoranza con cui il dominio perpetua se stesso fino a ridurre i popoli a plebi belanti.

Eppure, anche se la cornice socio-economica è tale, non bisogna disperare, poiché l’essere umano è certo condizionabile, ma non determinabile come un semplice oggetto. Vi sono persone che più di altre sfuggono alle maglie dei condizionamenti per pensare il proprio tempo. Il dominio vorrebbe ostracizzare i pensatori, sfiancarli con la forza degli innumerevoli tentacoli dell’idra del potere, ma i veri filosofi non cadono sotto i colpi tentacolari, e malgrado l’idra appaia invincibile la sfidano con la forza del concetto. Da tale lotta non si esce indenni, si pagano evidentemente dei prezzi, e la vittoria consiste unicamente nell’essere stati fedeli alle proprie scelte di vita e di pensiero. Siamo responsabili, pertanto, non solo della memoria del passato, ma anche dell’arduo compito di far continuare a vivere nel presente in modo plastico e creativo i filosofi che si sono lasciati attraversare dalle contraddizioni del loro tempo storico.

 

Costanzo Preve filosofo del nostro tempo

Il filosofo non è mai presenza atomistica, ma creatura concreta, non è l’anima bella che si ritira nella turris eburnea, ma è intessuto del mondo di relazioni con cui ha interagito. Costanzo Preve è stato non solo filosofo di calibro metafisico, ma anche politico. Potrebbe sembrare un’eccezione nel clima specialistico dei nostri tempi, in realtà ha testimoniato “la normalità della postura filosofica”, la quale è prassi che presuppone la metafisica senza la quale la politica si degrada a società dei bisogni, ad utile dell’ultimo uomo. Senza fondazione metafisica la filosofia è addomesticata, è il cucciolo ai piedi del potere pronto a ringhiare contro i dissenzienti.

La lettura degli innumerevoli testi di Costanzo Preve è esperienza di “straniamento”: il lettore deve inoltrarsi nei propri stereotipi, deve gradualmente abbandonarli per mettersi in ascolto di una visione filosofica che non conosce purismi, ma solo ricerca inesorabile e dura della verità. Nei suoi testi riecheggia la maieutica socratica, che non è un’eco lontana, ma vivida presenza sempre attuale.

Ricordare Costanzo Preve, quindi, non è un’operazione di circostanza, ma è un’assunzione di responsabilità verso il proprio tempo storico e verso la tradizione filosofica. Ci ha insegnato che non bisogna intimorirsi dinanzi ai poteri sempre più pervasivi che confinano la filosofia in un passato mitico che mai più ritornerà, perché il pensiero nella forma del logos – e non del solo calcolo quantitativo – è parte essenziale della natura umana e nessun totalitarismo riuscirà a cambiare il bisogno di pensare proprio della natura umana che si determina nella storia.

Costanzo Preve ha testimoniato fina alla fine della sua via tale verità. Filosofo della politica ha anticipato ciò che oggi è verità lapalissiana: destra e sinistra sono affette dallo stesso morbo: il nichilismo crematistico, per cui sono indistinguibili, si sorreggono l’un l’altra pur fingendo di essere diverse. Se Costanzo Preve è riuscito ad anticipare nei suoi scritti il tempo presente non è certo per suoi celati poteri paranormali, ma in quanto ha usato il metodo filosofico per capire il presente e delineare il futuro.

La filosofia è pratica olistica: pertanto, se si ha la pazienza di riportare le parti al tutto con onestà intellettuale e con capacità critica e documentata, si scorgono non solo le tendenze in atto, ma con esse si svelano i problemi e le urgenze del proprio tempo. In un periodo storico in cui regna la sola quantità, la filosofia e i filosofi sono trasgressivi, poiché sono in movimento verso la verità. Costanzo Preve ha trasgredito le leggi del politicamente corretto, ed ha mostrato che è possibile testimoniare l’esperienza filosofica anche in un’epoca assuefatta all’utile e alla prostituzione intellettuale. Ciò presuppone una profonda passione disinteressata, vera forza erotica di elevazione che può conoscere cadute, arresti improvvisi, ma è sempre orientata alla verità immanente.

Costanzo Preve è stato tutto questo.

Nel mese in cui ricorre la sua scomparsa, il modo migliore per rammentarlo è leggere i suoi scritti, avventurarsi in un’Odissea filosofica dalla quale non si tornerà eguali. Naturalmente il dissenso critico dev’essere parte imprescindibile dell’ascolto delle sue parole, non vi sono presenze totemiche in filosofia, ma autori che incarnano un’epoca e aspettano di essere superati senza essere dimenticati. Se è maturata la necessità di un riorientamento gestaltico Costanzo Preve può favorire questo ripensamento metafisico e assiologico di cui non pochi sentono il bisogno, ma non hanno punti di riferimento da cui iniziare un nuovo percorso veritativo che sembra impossibile. Per riorientarsi si dev’essere disponibili al disorientamento, a rimettere in discussione categorie sclerotizzate da automatismi sostenuti dal clero mediatico.

Non è semplice nascere a nuova vita, perché si tratta di partorire tra le doglie un nuovo esserci, ma è l’unico modo per umanizzare la propria esistenza. Leggere i testi di Costanzo Preve provoca uno stato di epochè, dal quale poter risemantizzare la propria prassi, comprendendo che fino a quel momento si è stati all’interno di un meccanismo autoreferenziale, in cui gesti e parole appartenevano al dominio.

Senza verità non vi è futuro, ma solo un lungo logorarsi nelle miserie e nelle complicità di un’abbondanza senza qualità e concetto.

Per non lasciarci cannibalizzare da un tempo così pericoloso, con le sue vuote e vane illusioni, può essere benefico ricominciare dai pensatori che hanno negato criticamente il loro tempo per affermare una nuova prospettiva politica e filosofica.

La filosofia, in quanto amore del sapere senza possesso, è comunitaria, è la disciplina per eccellenza che può guidarci fuori dalla palude in cui annaspiamo.

Costanzo Preve ha guadato la palude del nichilismo, il suo impegno attende uomini e donne disponibili a riprendere il suo cammino. Ricominciamo a riaprire la catena dei perché, come ci ha insegnato, per poter ripensare le parole e i pensieri che ci chiudono nella weberiana gabbia d’acciaio delle appartenenze senza concetto. Può essere l’incipit per una nuova e buona vita. Sta a ciascuno di noi cominciare l’esodo che non può che concretizzarsi in compagnia di pensatori fuori dal nostro tempo empirico, ma sempre presenti con la loro meditata testimonianza:

«Bisogna dunque riprovare a riaprire la catena dei perché. Questa volta, però, bisogna riaprire questa catena con un altro approccio e con altri destinatari. L’approccio dev’essere molto più radicale, e i destinatari non possono più essere i cosiddetti “militanti”, il “popolo di sinistra”, eccetera. I destinatari sono tutti coloro che vogliono riflettere e comprendere, del tutto indipendentemente da come si collocano (o non si collocano) topologicamente nel teatrino politico. Per chi scrive l’appartenenza è nulla, e la comprensione è tutto. Cerchiamo allora di riaprire la catena dei perché partendo da un anello della catena che ci permetta di stringere con sicurezza qualcosa di solido».1

Salvatore Bravo

1 C. Preve, Marx e Nietzsche, Petite Plaisance, Pistoia 2004, p. 6

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Debrà Libanòs è tra di noi. Il massacro perpetrato da italiani è sconosciuto alla maggioranza degli italiani di oggi: «Italiani, brava gente?».

Angelo Del Boca, Italiani brava gente? Debra Libanos

Se chiedete a un italiano, che cosa è avvenuto nel 1937 a Debra Libanos, quasi certamente non vi risponderà. Molti non saprebbero neppure dire dove si trova Debra Libanos. Il loro silenzio è il segno di come nel nostro Paese si conosca poco la storia, soprattutto quella coloniale, e di come una parte di essa (quella meno presentabile) sia stata rimossa. Debra Libanos è una delle pagine più vergognose della storia italiana. Dal 21 al 29 maggio, soldati del nostro esercito sterminarono centinaia di monaci, preti e pellegrini ortodossi (tutti ovviamente disarmati) radunati nel monastero etiope di Debra Libanos.

da Africarivista.it


Salvatore Bravo

Debrà Libanòs è tra di noi.
Il massacro perpetrato da italiani è sconosciuto alla maggioranza degli Italiani di oggi:
«Italiani, brava gente?».

 

Parlati dalla storia
Un popolo è la sua storia, il rapporto che un popolo instaura con la propria storia contribuisce largamente al suo presente ed al suo futuro, si costruisce e decostruisce la realtà effettiva per disoccultare le verità nascoste. L’identità è un’operazione di disvelamento senza la quale è esperienza di ripiegamento violento su se stessa. L’identità non è un deposito sacrale da trasmettere e riprodurre nel presente, ma la somma delle esperienze e degli errori da cui trarre la verità per un nuovo inizio. La memoria è l’esperienza che mediata dal logos collettivo germina in un nuovo inizio, ma senza memoria ogni progetto politico non può che arenarsi nel pericolo di ripetere errori e di non saperli individuare in un tempo utile per correggerli. La storia è vita collettiva senza la cui consapevolezza si procede ciecamente e biecamente nel flusso del tempo. Non è liturgia, conservazione stantia di cerimonie ed eventi per giustificare il presente, ma dialettica, con essa ci si confronta non per giudicare il passato, ma per capirlo al fine di non ripeterne le tragedie, altrimenti tutto ritorna. La dimenticanza è un boomerang i cui effetti possono essere esponenziali. La decadenza degli studi storici, la loro riduzione a biografie di grandi personaggi è in linea con il clima liberista, che riduce ogni complessità sociale a semplice omaggio alla grandezza di pochi grandi individui nel bene e nel male, i restanti sono i subalterni che si adattano agli eventi. La storia collettiva scompare sotto lo zoccolo dei grandi personaggi usati in modo ideologico per giustificare l’individualismo imperante. In tale contesto il disprezzo verso le differenze continua a circolare e specialmente, se il potere con le sue favole ideologiche è trasmesso senza mediazione del logos, inevitabilmente la logica gerarchica e aggressiva continuerà a produrre le sue conseguenze nel presente ed ad impedire un futuro non improntato a tali dinamiche. La violenza capillare che si diffonde in ogni campo, e che assume forme metamorfiche plurali non è causata solo da variabili contingenti, ma è il risultato della rimozione delle violenze del passato. Senza lo sguardo storico nella verità di ogni popolo non si vi sarà l’esodo da schemi sclerotizzati dall’abitudine: ogni grande progetto non potrà che ricadere su se stesso per il riemergere di comportamenti ed azioni sedimentati nell’inconscio collettivo. Si potrebbe dire parafrasando Heidegger che siamo parlati dalla storia, ci avvolge tanto più la ignoriamo, si insinua nelle parole e nei gesti e non li riconosciamo. Con la storia si dialoga, ci si relaziona sollevando domande che consentono di partecipare fortemente al presente, se il dialogo viene a mancare si fatalizza il proprio tempo favorendo il dominio e la subalternità generale.

 

Debrà Libanòs tra di noi
Il massacro di Debrà Libanòs il 21-29 maggio 1937 in Etiopia si aggira tra di noi, inficia le relazioni con i paesi africani e con le persone provenienti da quei luoghi tormentati dall’Occidente. Il massacro non è stato dimenticato, perché si dimentica solo ciò che è stato conosciuto. Debrà Libanòs è, invece, sconosciuto alla maggioranza della popolazione. L’eliminazione immotivata e tragica della comunità del monastero di Debrà Libanòs è un caso unico della storia europea. La comunità del monastero era di religione copta, i rapporti tra la classe dirigente dei copti e il regime fascista che aveva invaso l’Etiopia nel 1935 e proclamo l’impero nel 1936 erano pessimi. L’Etiopia era stata invasa, ma non domata, la propaganda nascondeva la verità con un falso trionfalismo imperiale.
La strage a seguito dell’attentato al viceré d’Etiopia Graziani fu occasione per liberarsi dell’opposizione etiope e rimarcare il dominio dei colonizzatori sui colonizzati. Fu eseguita dai musulmani sotto il comando italiano, li si spinse contro i cristiani usando l’odio religiosi a fini militari. Fu scelta la data di San Michele, perché in quel giorno si aveva il massimo afflusso di fedeli. Furono sterminati tutti senza constatare colpe, l’etiope era il nemico da abbattere, la selvaggina da predare. L’esecuzione ricorda i primi tentativi di sterminio degli ebrei prima della soluzione delle camere a gas: raduni e trasferimenti veloci sui luoghi dell’eliminazione con gli assassinati gettati nel dirupo. L’eccidio fu seguito dal saccheggio e dalla distruzione dell’antichissimo monastero e degli edifici limitrofi. In questi anni sono ricomparsi gli elenchi degli oggetti razziati dal fascismo, tra cui una serie di corone d’oro che si utilizzavano nelle cerimonie religiose. Gli oggetti potrebbero giacere dimenticati in qualche museo o in qualche collezione privata, sono scomparsi come le vittime. L’operazione fu genocidaria tutto doveva scomparire di quella realtà, non solo le persone, ma specialmente la cultura che si opponeva all’assimilazione[1]:

 

“Le vittime furono spinte giù dal camion e furono rapidamente fatte allineare, con il viso a nord e la schiena volta verso gli ascari. Furono quindi costrette a sedersi in fila lungo l’argine meridionale del fiume, che in quel periodo dell’anno era quasi completamente in secca. Gli ascari presero quindi un lungo telone, preparato appositamente per l’occasione, e lo stesero sui prigionieri come una stretta tenda formando un cappuccio sopra la testa di ognuno di loro. Si procedeva quindi alla fucilazione dei religiosi. E mentre un ufficiale italiano provvedeva a sparare il colpo di grazia alla testa, vicino all’orecchio, gli ascari toglievano il telone nero dai cadaveri per utilizzarlo per il successivo gruppo di condannati. Alle 15.30 del pomeriggio tutto era finito e Graziani poteva annunciare a Roma che «oggi, alle 13 in punto», il generale Maletti «ha destinato al plotone di esecuzione 297 monaci, incluso il vice-priore, e 23 laici sospetti di connivenza. Sono stati risparmiati i giovani diaconi, i maestri e altro personale d’ordine, che verranno tradotti e trattenuti nelle chiese di Debrà Berhàn. Il convento è stato di conseguenza chiuso definitivamente» Ma tre giorni dopo il viceré cambiava idea, sembra su istigazione di ras Hailù Tecla Haimanot, il più noto e spietato fra gli aristocratici collaborazionisti, e inviava a Maletti questa nuova direttiva: «Confermo pienamente la responsabilità del convento di Debrà Libanòs. Ordino pertanto di passare immediatamente per le armi tutti i diaconi di Debrà Libanòs. Assicuri con le parole: “Liquidazione completa”» .Il generale Maletti, con il consueto zelo, provvedeva subito a far scavare due profonde fosse in località Engecha, a pochi chilometri da Debra Berhàn, e nella mattinata del 26 maggio faceva sfilare davanti alle mitragliatrici 129 diaconi, martiri giovanetti che la cristianità non ricorda e non piange perché africani e diversi. «Per cui» concludeva Graziani «la cifra dei giustiziati saliva a 449». Ma la vera cifra degli assassinati era molto più alta, almeno tre volte superiore. Tra 1991 e 1994 i due docenti universitari già ricordati, l’inglese Ian L. Campbell e l’etiopico Degife Gabre-Tsadik, eseguivano nel territorio di Debrà Libanòs un’ampia e approfondita ricerca, interrogando monaci, cascì, civili, alcuni dei quali avevano assistito a una o più fasi del massacro. Dalle loro testimonianze emergeva che i fucilati a Laga Wolde non erano 320 ma tra 1000 e 1600. Successivamente, tra 1993 e 1998, il professor Campbell proseguiva da solo le indagini spostandosi nella regione di Debrà Berhàn per trovare informazioni sulla strage di Engecha. Egli non soltanto riusciva a localizzare le due fosse che contenevano i corpi dei 129 diaconi, ma poteva raccogliere le deposizioni di due testimoni oculari che avevano assistito alla strage dall’inizio alla fine. L’inchiesta di Campbell rivelava inoltre che Graziani, nel comunicare a Lessona l’eliminazione dei diaconi, aveva sostenuto il falso. Egli, infatti, non si era limitato a ordinare a Maletti la «liquidazione completa» dei 129 diaconi, ma gli aveva ingiunto di sopprimere altri 276 etiopici, fra insegnanti, studenti di teologia, monaci e sacerdoti che appartenevano ad altri monasteri e che nulla avevano a che fare con Debrà Libanòs. Per cui il bilancio della strage di Engecha saliva a 400 vittime e quello complessivo della rappresaglia contro la città conventuale di Debrà Libanòs si aggirava, secondo i due ricercatori, tra 1423 e 2033 morti. Mai, nella storia dell’Africa, una comunità religiosa aveva subìto uno sterminio di tali proporzioni”.

La violenza di Debrà Libanòs è giunta a noi nel silenzio e nel disprezzo con cui si inneggia alla differenza per omologarla, non si usano, in patria, gli ascari contro i diversi, ma i trombettieri del giudizio universale, il clero asservito che in nome della libertà laica ed atea inneggia all’omologazione. La differenza può sopravvivere solo come esperienza folcloristica, ma i comportamenti devono essere quelli dettati dal liberismo. Se avessimo trasformato la strage in cultura condivisa, probabilmente il “sì” automatico alle missioni di pace non sarebbe stato tanto “spontaneo”. I braccianti agricoli schiavizzati nella raccolta dei prodotti agricoli sono nella scia di quella violenza respinta nel dimenticatoio della storia. L’abitudine a rimuovere e a elaborare false immagini di sé giunge fino a noi e produce forme di sfruttamento diffuso, la tempesta della storia ci inghiotte e ci trascina verso la negazione della “buona vita”.

Senza storia non vi è umanesimo, ma solo una lenta agonia, in cui a morire è l’umanità nella sua totalità, al suo posto non resta che una temporalità circolare in cui ogni evento è destinato a ritornare nella sua tragicità inemendabile. La prassi necessita di senso storico comunitario, perché trae dagli avvenimenti della storia, la possibilità con cui riprogettare politiche sociali e visioni comunitarie. La storia ha la potenzialità di liberarci dalla condizione di subalterni, ci indica che la cultura di subalternità è la condizione per lo stragismo militare ed economico. Il subalterno rinuncia alla prassi per farsi servo e salvarsi dalle responsabilità verso la storia, verso il presente ed in passato, ma ogni subalterno compartecipa ai crimini della storia, è la mano esecutrice che si presta all’esecuzione. Emanciparsi significa liberarsi dalla subalternità. Ogni cultura e ogni politica che la inseguono è organica al dominio. Debrà Libanòs è tra di noi nella forma del fatalismo servile che ci rende corresponsabili della violenza dei nostri giorni.

[1] Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, capitolo dieci: Debrà Libanòs: una soluzione finale, Editore Neri Pozza, 2012.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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