«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«Quando una lettura assai meditata te ne fornirà l’occasione, poni accanto alle sentenze utili […] alcune note precise che, quasi fossero uncini, ti valgano a trattenerle, se volessero sfuggirti dalla memoria. Con questo aiuto potrai resistere saldamente tanto alle passioni quanto all’accidia, che soffoca, come un’ombra funestissima, il seme delle virtù e il frutto dell’intelletto».
Francesco Petrarca, Secretum, Introduzione, traduzione e note di U. Dotti, Archivio Guido Izzi, Roma 1993, pp. 110-111.
«Ne ho visti molti che filosofavano molto più dottamente di me; ma la loro filosofia era per così dire estranea a loro stessi. Studiavano l’universo come arebbero studiato qualche macchina che avessero vista. Studiavano la natura umana per poterne parlare con dottrina, ma non per conoscere se stessi […]. Molti di loro volevano soltanto fare un libro, uno qualsiasi, purché fosse ben accolto».
Jean-Jacques Rousseau, Le passeggiate del sognatore solitario, Feltrinelli, Milano 2016.
«Credimi, è possibile saper qualcosa anche senza schiamazzi e litigi; non è il clamore ma la riflessione che rende l’uomo più colto. E dunque, se noi preferiamo essere piuttosto che apparire, allora non tanto ci importerà dello sciocco plauso della folla, quanto della verità nel silenzio, e potremo tenerci paghi dell’aver talvolta fatto rivivere in noi stessi, dolcemente, le parole dei più autentici scrittori».
Francesco Petrarca, Le familiari, testo critico di V. Rossi e U. Bosco, traduzione e cura di U. Dotti, Aragno, Torino 2004-2009, tomo I, pp. 120-121.
«Di colui che vide ogni cosa, voglio narrare al mondo; di colui che apprese e che fu saggio in tutte le cose».
Proemio dell’Epopea di Gilgameš
Ecco il prologo della leggenda di Gilgamesh. gigante solare, “dio per due terzi, per un terzo uomo”.
Proclamerò al mondo le imprese di Gilgamesh, l’uomo a cui erano note tutte le cose, il re che conobbe i paesi del mondo. Era saggio; vide misteri e conobbe cose segrete; un racconto egli ci recò dei giorni prima del Diluvio. Fece un lungo viaggio, esausto, consunto dalla fatica; quando ritornò si riposò e su una pietra l’intera storia incise.
Quando gli dèi crearono Gilgamesh gli diedero un corpo perfetto. Il sole glorioso Samas lo dotò di bellezza, Adad, dio della tempesta, lo dotò di coraggio, i grandi dèi resero perfetta la sua bellezza, al di sopra di ogni altro, terribile come gran toro selvaggio. Per due terzi lo fecero dio e per un terzo uomo.
A Uruk costruì mura, un gran bastione, e il tempio del sacro Eanna per Anu dio del firmamento e per Istar dea dell’amore. Guardalo ancor oggi: il muro esterno lungo il quale corre il cornicione brilla dello splendore del rame, e il muro interno non ha eguali. Tocca la soglia: è antica. Avvicinati alla dimora di Istar, nostra signora dell’amore e della guerra, che nessun uomo vivente può eguagliare. Sali sulla muraglia di Uruk e percorrila, ti dico; osserva il terrapieno delle fondamenta, esamina l’armatura: non è forse di mattone cotto e di buona fattura?
Da L‘epopea di Gilgamesh, a cura N. K. Sandars, Adelphi, Milano 1986.
Duemila e cinquecento anni prima di Cristo, nella bassa Mesopotamia, il mare si ritira, liberando terre nuove. Giunti da luoghi sconosciuti, arrivano i sumeri, che si stabiliscono nella valle tra i due fiumi, il Tigri e l’Eufrate. Sono pastori e agricoltori […]. Mille anni più tardi costruiscono templi e palazzi, Kish, Ur, Uruk, le loro città-Stato, disegnando sull’orizzonte dorato l’ombra rosa delle loro colossali mura di mattoni. Per organizzare l’economia, codificare la religione, registrare le leggi e fissare una tradizione orale già ricca di miti, di racconti epici, di poemi, inventano la scrittura ideografica. Il più antico scritto del mondo è stato ritrovato tra le rovine di Uruk e risale alla seconda metà del IV millennio.
I primi miti di Uruk si perdono nella notte dei tempi. Raccontano la nascita degli dèi e degli uomini, la vita e la morte, il bene e il male, e il diluvio, il cui tema sarà ripreso dalla Bibbia mille anni più tardi. È a partire dal diluvio che i sumeri fanno iniziare la loro storia e datano le loro dinastie.
La prima fu quella di Kish, la seconda quella di Uruk. Il quinto re di questa seconda dinastia, dicono le tavolette, fu Gilgamesh, che costruì le mura di Uruk e regnò centoventi sei anni.
Abed Azrié
«L’umanità per i babilonesi è definita dalla società. Essere umani è un affare squisitamente sociale […] diventare umano è un processo graduale. Nel suo secondo invito a Uruk, Shamhat dice: “Ti vedo, Enkidu, sei come un dio, dunque perché stai con gli animali selvaggi?”. Gli dei sono rappresentati come l’opposto degli animali, onnipotenti e immortali, mentre gli animali sono ignari e destinati a morire. Essere umani significa essere da qualche parte nel mezzo: non onnipotenti, ma capaci di un lavoro qualificato; non immortali, ma consapevoli della propria mortalità. Insomma, il nuovo frammento rivela una visione dell’umanità come processo di maturazione che si sviluppa tra l’animale e il divino. Non si nasce semplicemente umani: essere umani, per gli antichi Babilonesi, significava trovare un posto per se stessi all’interno di uno spazio più ampio definito dalla società, dagli dei e dal mondo animale».
Sophus Helle, dottore in letteratura babilonese presso l’Università di Aarhus, Danimarca.
«Ricerco inoltre libri di diverso genere, che siano insieme, per gli autori da cui sono stati scritti e per gli argomenti che trattano, compagni graditi e assidui, e pronti a uscire in pubblico o a ritornare nel cassetto al tuo comando, e sempre disposti a tacere e a parlare, a rimanere in casa e ad accompagnarti nei boschi, a viaggiare, a starsene in campagna, a chiacchierare, a scherzare, a incoraggiarti, a confortarti, a consigliarti, a rimproverarti e a prendersi cura di re, a insegnarti i segreti delle cose, e le memorie delle imprese, e norme di vita, e il disprezzo della morte, la moderazione nella buona fortuna, la forza nell’avversa, l’imperturbabilità e la costanza nel tuo comportamento: compagni dotti, lieti, utili e facondi, che non ti sono causa di noia, né di spesa, né di lamenti, né di mormorii o d’invidia, né d’inganni. E mentre ci danno tanti vantaggi, si contentano di una piccola parte della casa e di una veste modesta, senza aver bisogno di cibo né di bevanda alcuna, mentre sono proprio essi che ai loro ospiti procurano inestimabili ricchezze spirituali, vaste abitazioni, splendide vesti e piacevoli conviti e cibi dolcissimi».
Francesco Petrarca, De vita solitaria, a cura di G. Martellotti, trad. di A. Bufano, in Id., Prose, a cura di G. Martellotti, P. G. Ricci, E. Carrara e E. Bianchi, Ricciardi, Milano-Napoli 1955, pp. 556-57.
«Perché ci si deve appassionare alla costruzione di una biblioteca? Perché è cosa affatto lodevole, generosa e degna di un coraggio, che spira immortalità, trarre dall’oblio, e conservare e rimettere in piedi […] tutte queste immagini non dei corpi, ma degli spiriti di tanti degni uomini che non hanno risparmiato né il loro tempo né le loro veglie pur di lasciarci la testimonianza più viva di ciò che in essi c’era di più eccellente».
Gabriel Naudé, L’Advis pour dresser une bibliotheque” [1627]. trad. it. Avvertenze per la costituzione di una biblioteca, a cura di V. Lacchini, Clueb, Bologna 1994, p. 13.
L’uomo si distingue dagli animali privi di ragione non per il discorso espresso dalla voce (infatti anche cornacchie, pappagalli e gazze emettono suoni articolati!, ma per il discorso interiore; né si distingue soltanto per la semplice fantasia, ma per quella fantasia che trascorre da un termine all’altro e che associa.
Sesto Empirico, Adversus Mathematicos, VIII, 275 (A , II, 135).
Il gesto che non sia sostenuto liricamente è solo un disegno nello spazio. Bisogna inoltre sistemarlo nel tempo e misurarlo, dandogli una potenza drammatica. Dal canto suo questa potenza si rivelerà poetica o, al contrario, romperà brutalmente col suo contesto, lasciando solo uno spasmo, uno scarto, una frattura, una linea retta o una curva; una geometria, in certo modo, fredda e lineare. Un gesto non basta, è necessario che un pensiero lo rivesta; e inoltre che il disegno che dà forma a questo pensiero sia rigoroso. Infine, deve emergere lo stile. Nell’invenzione dell’attore mimo e nel suo modo di espressione si rivela· il fondo comico e tragico della sua arte. Tale invenzione è legata a sua volta alla conoscenza della vita o, per dirla in altro modo, all’osservazione dell’uomo in mezzo ai suoi simili. Quando l’attore mimo sostiene la propria vocazione drammatica col soffio del suo pensiero, provoca ondate di fremiti sensibili che costituiscono gli echi della sua anima, e il gesto diviene un muto canto interiore. L’attore mimo vibra come le corde di un’arpa. È lirico: il suo gesto sembra rivestirsi, ai nostri occhi, di un alone poetico. Si può essere lirici tanto nel comico quanto nel tragico. Il gesto deve respirare ed espirare, altrimenti inaridisce come una pianta che rimanga senz’acqua. Il gesto deve quindi incessantemente respirare e vibrare. Ma l’alone poetico supera l’armonia del gesto; esso è la musica e quasi l’eco del movimento. Anche l’atteggiamento immobile nello spazio deve liberare questo fluido, questo contatto che si stabilisce tra l’attore e il pubblico, e che possiamo chiamare scambio magnetico. L’equilibrio della nostra arte poetica è il connubio riuscito di foma e contenuto. La forma, nella nostra arte, altro non è che l’architettura dei gesti e la combinazione felice delle linee; l’una e l’altra colpiscono i nostri sensi e generano la bellezza. Quanto al contenuto, esso è forse il risultato di condizioni più esterne: il dato psicologico del soggetto, il carattere, il tipo, i nostri pensieri influenzati dalla vita sociale. Il gesto rivestito di questo alone poetico può essere classico pur nel suo slancio romantico. Cosi il disordine è ordinato e il calore, sotto il fuoco dell’azione, è controllato da un animo lucido. I mimi dell’Estremo Oriente e i greci lo sapevano bene: le loro tragedie erano rigorosamente costruite; essi prevedevano ciò che a noi sembra imprevedibile, creando quella unità drammatica che è indispensabile all’azione. Quando parliamo di alone poetico pensiamo ai mimi dell’antichità, a quelli del Medioevo e del Settecento e ai mimi contemporanei. Quest’arte che ci fa sognare, che è concreta e astratta, che evoca e suggerisce, che si identifica nell’universo con il controllato compiacimento del retore e con l’eleganza del poeta che ordina i propri versi, è l’Arte del Mimo.
Marcel Marceau, “L’alone poetico”, in Id., Mimo e mimi, La casa Usher, Firenze 1980.
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