Salvatore A. Bravo – L’uccisione della parola nella politica. L’inesausta sceneggiata «Di Maio/Salvini» dileggia, e rinnova, la tragedia di Aldo Moro

Aldo Moro e Salvini-Di Maio
Salvatore A. Bravo

L’uccisione della parola nella politica.
L’inesausta sceneggiata «Di Maio/Salvini» dileggia, e rinnova, la tragedia di Aldo Moro

 

Lo stato presente ha la sua verità nella signoria della merci. I tavoli ballano, affermava Marx, come se avessero vita propria, e tanto più signoreggiano i dominati quanto più il controllo del linguaggio, il suo declinarsi nella forma del calcolo o della chiacchiera erode spazi di significato della politica. Vi è comunità solo se vi è politica. Il fondamento, la casa della politica come della comunità, è il linguaggio. Si assiste al teatrino del nichilismo dei significati, ci si confronta sul nulla, fingendo di essere su posizioni politiche opposte pur governando assieme (cfr. l’inesausta sceneggiata tragicomica Di Maio-Salvini pre- e post- elettorale). In realtà non si tratta di manifestazioni politiche, ma del sintomo di una malattia endemica dovuta alla signoria del valore di scambio. L’attuale teatrino, ormai quotidiano, non è che l’espressione di un corpo infetto interno a relazioni pseudo-politiche segnate dai processi liberistici di mercificazione. Sono venute a mancare le parole-valori della politica, parole che fungono da catalizzatrici per i programmi politici. Tali parole sono scomparse dal linguaggio corrente. Al loro posto non vi è che la violenza della pancia, parole-insulti il cui fine è distogliere lo sguardo dalla razionalità dell’accadere per orientarlo verso la violenza, verso obiettivi secondari. Vi sono parole che l’ordine del discorso del turbocapitalismo, mette in circolazione per colonizzare l’immaginario al fine di anestetizzare i significati disfunzionali al sistema capitale.

La parola della politica, della comunità, parola che nessuno osa proferire, è giustizia. La filosofia politica dell’Occidente nella sua storia ha fatto della giustizia la pietra miliare della discussione politica. Giustizia è metron per i Greci: si pensi alla giustizia commutativa-regolatrice e distributiva in Aristotele (Etica Nicomachea, libro V). Nel Vangelo il miracolo dei pesci e dei pani, riportatato da tutti gli evangelisti, nell’interpretazione di Massimo Bontempelli e Costanzo Preve significa simbolicamente che se c’è giustizia, c’è razionalità e dunque equa distribuzione, per cui ce n’è per tutti. Gesù raccoglie gli avanzi della moltiplicazione, perché lo spreco è un lusso che offende con la sua ingiustizia chi vive nella penuria. Il miracolo è la giustizia.
La parola giustizia è così scomparsa, perché se fosse posta al centro tale parola, inevitabilmente si denuncerebbe lo stato attuale per l’ingiustizia che regna sovrana.
L’operazione di manipolazione-annichilimento si spinge oltre. La parola comunità è legata alla giustizia ed ai diritti sociali, per cui si ipostatizza l’individuo, si pone l’accento sui soli diritti individuali, per occultare la giustizia, fino ad arrivare ad affermare che la società non esiste (Margaret Thatcher), ma esiste solo l’individuo astratto. Pertanto la giustizia è possibile solo alla maniera di Trasimaco (Platone, Repubblica, libro I) come legge del più forte: l’individuo determina la “sua giustizia” a sua misura.

Giustizia e comunità internazionale
La giustizia non è flatus vocis. È sufficiente sporgersi oltre di pochi decenni per rendersi conto che era linguaggio comune della politica. La giustizia implica la comunità, se ne discuteva in relazione al progetto di comunità che si aveva. Aldo Moro ne è un esempio, rileggendo i suoi scritti ricorre, e non certo come inciampo, la parola giustizia, non solo per la comunità nazionale, ma anche internazionale. I conflitti sono l’effetto dell’assenza di giustizia, sono causati dalla violenza della legge del più forte:

«Viene in evidenza un altro, più importante e più durevole, motivo di crisi. È la volontà dei paesi in via di sviluppo, possessori di un così prezioso fattore condizionante dell’economia e, del resto, ricchi in generale di materie prime, di far pesare di più, per realizzare il proprio progresso, quello che è il loro peculiare apporto alla produzione dei beni dei quali il mondo ha bisogno crescente. Solo in questa luce si coglie la vera dimensione del fenomeno dinnanzi al quale ci troviamo e che rappresenta una svolta assai significativa nel confronto tra paesi ricchi e paesi poveri e, per essere realistici, nel confronto tra paesi ricchi, ma potenzialmente poveri, e paesi poveri, ma potenzialmente ricchi. Noi dobbiamo quindi essere consapevoli della nostra fragilità […]. Di fronte a queste cose bisogna collocarsi in una posizione di realismo e ragionevolezza. […] Si capisce che un più alto livello di giustizia internazionale costerà di più ai paesi industrializzati e condurrà a rallentare il loro progresso per consentire il progresso degli altri. Ma questo è un prezzo che si deve pagare, uscendo dalla fase retorica e passando alla fase politica dei rapporti con i paesi in via di sviluppo» (Relazione alla Commissione Esteri della Camera dei Deputati, 24 aprile 1974).

 

La giustizia nel cammino dei popoli
Nelle parole di Moro, a confronto d
elle quali il semplicismo dell’attuale pseudo-politica non è che primitivismo populistico, vi è la consapevolezza che la giustizia è complessità e storicità. Giustizia è sintesi degli interessi della comunità, è un’operazione di ascolto e mediazione, essa si incarna nella storia. La giustizia è in cammino con i popoli, vive nei popoli che gradualmente si risvegliano dai dogmatismi e dalle violenze ideologiche dei dominanti, per cui è necessario accompagnare tale risveglio aurorale con la politica, al fine di convogliare le energie migliori di tutti verso il logos. Essa esige la partecipazione dal basso, o il suo posto non può che essere preso dal dispotismo, dagli interessi di pochi che usano le parole come ceppi, come catene per soffocare il grido dei popoli:

«Vi sono certo dati sconcertanti di fronte ai quali chi abbia responsabilità decisive non può restare indifferente: la violenza talvolta, una confusione ad un tempo inquietante e paralizzante, il semplicismo scarsamente efficace di certe impostazioni sono sì un dato reale e anche preoccupante. Ma sono, tuttavia, un fatto, benché grave, di superficie. Nel profondo è una nuova umanità che vuole farsi, è il moto irresistibile della storia. Di contro a sconcertanti e, forse, transitorie esperienze c’è quello che solo vale ed al quale bisogna inchinarsi, un modo nuovo di essere nella condizione umana. È l’affermazione di ogni persona, in ogni condizione sociale, dalla scuola al lavoro, in ogni luogo del nostro Paese, in ogni lontana e sconosciuta regione del mondo; è l’emergere di una legge di solidarietà, di eguaglianza, di rispetto di gran lunga più seria e cogente che non sia mai apparsa nel corso della storia. E, insieme con tutto questo ed anzi proprio per questo, si affaccia sulla scena del mondo l’idea che, al di là del cinismo opportunistico, ma, che dico, al di là della stessa prudenza e dello stesso realismo, una legge morale, tutta intera, senza compromessi, abbia infine a valere e dominare la politica, perché essa non sia ingiusta e neppure tiepida e tardiva, ma intensamente umana» (Discorso al Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana, 21 novembre 1968).

Giustizia e libertà
Non vi è libertà senza giustizia. La giustizia è accompagnamento giuridico alla prassi dell’emancipazione, per cui se non si hanno mezzi materiali per porre in atto ciò che la legge in potenza consente è solo fictio iuris, una finzione ideologica per addomesticare i dominati. La giustizia è così libertà solo se si integrano il piano formale e sostanziale, prevede un ordito di provvedimenti dalla formazione, al lavoro, alla sanità che rendono prassi la libertà e la giustizia. La libertà è giustizia se la persona, il lavoratore è posto al centro della comunità come persona, non ha solo braccia ed intelletto per la produzione, ma è persona nella sua complessità dinamica che esige che l’economia sia per la persona:

«Il regime di libertà, per dispiegarsi in tutta la sua ricchezza e fecondità, ha bisogno di una autorità democratica, di strumenti efficaci realizzatori di giustizia. È giusto dunque temere per lo Stato democratico, dubitare che esso non riesca ad essere uno strumento aperto, flessibile, ma istituzionalmente capace di dare alla libertà tutto il suo spazio. L’equilibrio tra le crescenti libertà della società moderna ed il potere necessario all’ordine collettivo è fra i più grandi, se non il più grande problema della nostra epoca. […] Queste cose nuove certo emergono non senza contrasti, non senza difficoltà, non senza eccessi, non senza momentanei squilibri. Ma è questo il compito della nostra epoca. Il tema dei diritti è centrale nella nostra dialettica politica. Di fronte a questa fioritura la politica deve essere conscia del proprio limite, pronta a piegarsi su questa nuova realtà, che le toglie la rigidezza della ragione di Stato, per darle il respiro della ragione dell’uomo» (Discorso al XIII Congresso della Democrazia Cristiana, Roma, 20 marzo 1976).

Giustizia e storia
Giustizia non è rendere ipostasi il presente, chiudere la storia in un sepolcro di sole merci, per scoraggiare ogni iniziativa al suono delle parole “Non c’è alternativa”(Angela Dorothea Merkel). Se non c’è alternativa, se il presente è tutto, allora la politica non ha senso, è solo finzione, l’epifenomeno dell’economia liberista. La giustizia, invece, è dialettica, pensiero che apre nuovi scenari per allargare la sfera e l’orizzonte di consapevolezza. La giustizia è dunque trasformazione che, mentre si attua nella storia, ha la chiarezza del proprio fondamento. È in cammino, e nel suo concretizzarsi storico incontra nuove variabili per confrontarsi con esse, non rimuove la storia nel suo farsi, ma si impegna in un continuo confronto con il presente:

«Siamo dunque impegnati, sotto la pressione di una società trasformata nel profondo, in continua evoluzione ed estremamente esigente, ad una grande opera di liberazione dell’uomo e di giustizia. Un’opera difficile, perché gli obiettivi vengono spostati più innanzi, rendendo qualche volta disagevole il moto di progresso che si va, mano a mano, realizzando. Ma il contenuto rinnovatore di questa politica, secondo un preciso ed indeclinabile intento, è fuori discussione. Corrispondere alle esigenze della società con più giusti ordinamenti, dimostrare che le istituzioni sono capaci di ricevere ed incanalare le aspirazioni popolari, effettuare il raccordo, in termini di comune consapevolezza e di comune responsabilità, tra il vertice e la base del potere, stabilire costantemente un equilibrio politico non statico, ma dinamico, significa assicurare la stabilità del regime democratico» (Discorso a un Convegno della Democrazia Cristiana, Milano, 3 giugno 1969).

La giustizia è per le cose che nascono. È facile, dinanzi al nuovo che ci minaccia, patteggiare per il passato che con i suoi confini netti ci rassicura. Giustizia vi è soltanto in una comunità in cui dinanzi alla paura del nuovo non si reagisce con la paura, ma si affronta il tutto con la parola, con il logos, con la partecipazione dal basso:

«Se noi vogliamo essere ancora presenti, ebbene dobbiamo essere per le cose che nascono, anche se hanno contorni incerti, e non per le cose che muoiono, anche se vistose e in apparenza utilissime» (Discorso all’XI Congresso della Democrazia Cristiana, Roma, 29 giugno 1969)

 

Avvenire e giustizia
Non giudico l’operato di Moro, o la sua coerenza, ma le sue parole. Lo spessore dei suoi interventi, ci dovrebbe indurre a pensare l’abisso relativistico in cui siamo e l’anonimato individualistico che sa utilizzare tutto per fini privati decretando la morte di ogni avvenire. L’urgenza è l’avvenire, senza giustizia non vi è che un futuro di conflitti, che nega l’umanesimo comunitario in nome di un astratto individualismo che ha sostituito la giustizia con l’integralismo economico funzionale a conservare i privilegi di pochi contro la maggioranza sempre più confusa ed afflitta dalla violenza ideologica dei nostri giorni. Vorrei concludere con le parole di Moro che unisce giustizia, libertà e responsabilità verso il futuro, in un trittico valoriale permanente, oggi da ricostruire prendendo le mosse dalla consapevolezza della sua assenza nel nostro contesto sociale:

«Ebbene, siamo qui provenienti da una lunga ed utile esperienza democratica […], siamo qui ancor oggi, non per fare delle piccole cose, non per puntellare condizioni logorate, non per provvedere all’amministrazione del passato, ma, nella salvaguardia dei valori permanenti ed essenziali della nostra tradizione e della nostra civiltà, per lavorare con tutte le nostre forze per un nuovo, più giusto, più umano assetto della nostra società. Siamo qui insomma per l’avvenire» (Discorso al Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana, 29 luglio 1963)