Günter Anders (1902-1992) – Quando la libertà si muta in delirio d’onnipotenza, in odio contro ogni limite

Günter Anders 08

Salvatore Bravo

Günther Anders e il male di vivere.
Quando la libertà si muta in delirio d’onnipotenza, in odio contro ogni limite

 

Se dovessimo cercare il fondamento della nostra epoca non potremmo che constatare che il male è il suo fondamento. La libertà si è tramutata in male, sta divorando se stessa. L’anarchia individualista e la menzogna dominano, sono la struttura che tutto muove. Si assiste al consolidarsi di personalità che trasformano il loro desiderio in legge universale, il corpo pulsionale è oggetto di un’idolatria socialmente accettata ed esaltata. Il limite è vilipeso, il logos è negato, ogni discussione sul male di vivere è portata all’interno di argomentazioni in cui si rileva che il “male” è ineluttabile, quindi è inemendabile. Non resta che adattarsi e sopravvivere alla violenza quotidiana, non resta che negare se stessi per conformarsi al male nella nuova forma di male di massa. Il nuovo totalitarismo – con i suoi dispositivi perennemente in azione – plasma i popoli, li rende laboratori dove saggiare la potenza dei nuovi mezzi di manipolazione e formazione di una nuova antropologia del negativo come normalità. Il soggetto non osa porre il problema del bene e del male, ma semplicemente è parte di un’immensa zona grigia dove l’esperienza dell’identità è costruita in “laboratorio”, il cui scopo è occupare “spazio vitale e consumare “il mondo” da cui ci si ritrae. La libertà diviene cambiamento continuo, il progresso che coincide con la libertà è consumo di ogni forma di vita; il cannibalismo libertario è la verità dell’Occidente. Günther Anders ha tematizzato il male, ha tentato di razionalizzarlo, ha mostrato che il “male” è insediato nella libertà, la quale consente agli esseri umani di fuggire la contingenza, in cui sono inchiodati per diventare “creatore” di mondi:

 

«L’uomo fa esperienza di sé come qualcosa di contingente, come qualunque, come “proprio io” (che non si è scelto); come uomo che è precisamente così come è (per quanto possa essere tutt’altro); come proveniente da un’origine di cui non risponde e con la quale deve tuttavia identificarsi; come “qui” e come “ora”. Questo paradosso fondamentale dell’appartenenza reciproca della libertà e della contingenza, questo paradosso che è un’impostura, il dono fatale della libertà, si chiarisce come segue. Essere libero significa: essere straniero; non essere legato a niente di preciso, non essere tagliato per niente di preciso; trovarsi nell’orizzonte del qualunque; in una postura tale per cui il qualunque può anche essere incontrato in altri qualunque. Nel qualunque, che posso trovare grazie alla mia libertà, è anche il mio proprio io che incontro; questo, pur appartenendo al mondo, è straniero a se stesso. Incontrato come contingente, l’io è per così dire vittima della propria libertà. Ecco perché il termine “contingente” deve indicare questi due caratteri: “la non costituzione di sé” dell’io e la sua “esistenza in quanto tale”. Questo vale per tutto ciò che segue».[1]

Straniero al mondo ed a se stesso, il rischio che la libertà si muti in delirio d’onnipotenza, in odio contro ogni limite pregresso è il gravoso problema etico ed ontologico che l’essere umano deve vivere e risolvere. Se il male alligna nella forma parossistica e nichilistica dell’io ipertrofico e consumante, è nella struttura economica che bisogna individuare la causa efficiente che perverte la libertà in tracotanza, in dispersione della soggettività nel ritmo frenetico e funebre del ciclo consumo e distruzione. Il male si espande, trova in ogni soggetto il punto ottico che si spazializza per occupare ogni tempo ed ambiente in frenetica attività di produzione-creazione che prontamente e velocemente deve annichilire.

 

Vergogna
L’io rifiuta il limite, ogni limitazione è vissuta con vergogna, come negazione della libertà che abita l’essere umano, che lo struttura ontologicamente. Per fuggire alla vergogna dell’origine che rammenta all’essere umano che non è un creatore assoluto, è necessario affermare la libertà che annichilisce, che crea mondi per distruggerli. La creatura compensa la vergogna della contingenza con la distruzione, diventando homo faber, fino a produrre mezzi e ordigni che non controlla e di cui resta vittima. Lo sviluppo tecnologico, il dominio delle merci che dominano come zombie sugli esseri umani che li hanno prodotti e creati è l’esito della libertà patologica dell’essere umano. La libertà e la non identificazione divengono il percorso che porta alla distruzione, a produrre strumenti che potrebbero cancellare l’essere umano, ed a fondare un mondo “senza l’essere umano”. L’essere umano nell’opera giovanile Patologia della libertà del filosofo è destinato alla distruzione, ad annichilire i mondi che pone, per vivere l’ebbrezza del creatore, ma svelandosi impotente, poiché la creazione non è che annichilimento della vita. L’annichilimento di ogni forma-mondo permette di “curare” la vergogna distruggendo, non più “pastore dell’essere”, ma “pastore dei consumi distruttivi”, così si svela il fondo nichilistico e minaccioso della libertà umana. La libertà diviene la tragica terapia di un essere fragile, all’incapacità di accettare la contingenza, ma che ambisce all’onnipotenza:

 

«All’origine la vergogna non è vergogna di aver fatto questo o quello, anche se questa forma di vergogna già significa che io non mi identifico con qualcosa che viene da me, la mia azione, e con la quale tuttavia dovrei, nel senso che vi sono costretto, identificarmi. Proprio il fatto di essere capace di questa particolare vergogna morale richiede come condizione formale che io sia identico e, insieme, non identico con me stesso; il fatto che io non possa uscire dalla mia pelle e al tempo stesso possa considerarla tale; che incontri me stesso nella libertà dell’esperienza di me – ma in quanto non-libero. La vergogna non nasce da questa incongruenza, ma è quest’ultima ad essere già vergogna. Nella vergogna l’io vuole liberarsi, nella misura in cui si sente esposto a se stesso in maniera definitiva e irrevocabile, ma, ovunque si nasconda, esso rimane nell’impasse, resta alla mercé dell’irrevocabile, dunque di se stesso. E tuttavia l’uomo fa così una scoperta: proprio esperendosi come non posto da sé, per la prima volta sente di provenire da qualcosa che non è lui; per la prima volta avverte il passato, ma non quello che di solito chiamiamo il “passato”: non il proprio passato familiare, storico, ma il passato totalmente estraneo, irrevocabile, trascendente; quello dell’origine. L’uomo avverte il mondo da cui proviene ma al quale non appartiene più come io. Così, la vergogna è soprattutto vergogna dell’origine. Pensiamo ai primi esempi biblici della vergogna: alla coincidenza della vergogna e della caduta, e all’esempio dei figli di Noè che, “girando la faccia per la vergogna”, coprono le nudità di loro padre».[2]

La spinta alla libertà distruttiva, alla compensazione per la vergogna del limite e della gettatezza non necessariamente deve portare alla distruzione, alla bomba atomica come descritto da Günther Anders, le possibilità con cui la libertà si può concretizzare sono plurali: la libertà come delirio d’onnipotenza, come fuga dalla vergogna è il modello pervasivo del capitalismo assoluto non iscritto nella natura umana. La libertà può umanizzare, se vive il limite con il logos e come soglia in cui incontrare l’alterità, e identificarsi in essa, la libertà è distruzione, se è orientata alla creazione aggressiva, a divorare il mondo, perché il limite è vissuto con vergogna. Senza la soglia del limite si entra nella violenza, nell’io che usa se stesso come alabarda per abbattere ogni ostacolo allo scopo di dimostrare di essere creatore e non creatura.

 

Solitudine ed eternità
Per eternizzarsi l’essere umano deve trascendere la contingenza temporale, in cui è prigioniero, con l’eternità deve superare lo spazio ed il tempo e proiettarsi verso un infinito frustrante, perché resta creatura ed ogni tentativo di elevarsi a divinità ricade su di lui nella forma della vergogna, del limite da cui si fugge e che puntualmente riappare nella rappresentazione e nella realtà effettuale. Tale condizione potrebbe essere letta in modo differente rispetto al filosofo de L’uomo è antiquato, ovvero l’essere umano è tale, perché consapevole del limite, ed ogni abbattimento dello stesso non è che negazione della sua natura e dunque “tragedia collettiva”:

 

«Così, l’uomo vuole essere ora e sempre. Tenta, cioè, di immortalarsi nel tempo, così come si affannava a glorificarsi nello spazio; tenta di negare ulteriormente la contingenza dell’ora al quale si è trovato abbandonato. E si sforza di costruire il suo essere autentico sotto la forma di una statua permanente, nella Memoria e nella Fama, rispetto alla quale la sua forma attuale e incompleta è come il fenomeno in relazione all’Idea. Di questa statua gloriosa egli non è che la copia infedele e temporale; ed ecco il paradosso: più la sua gloria aumenta, meno “lui stesso” sembra avere a che fare con la sua statua; questa ha usurpato il suo nome; ed è tale statua che raccoglierà la gloria al posto dell’uomo, molto a lungo, anche dopo la morte; schiacciato e abbattuto, eccolo invidioso del suo grande nome».[3]

L’essere umano con relazioni emotive soddisfacenti, che conosce se stesso e vive la profondità della sua indole si radica nel presente per avere cura del futuro, se tale condizione manca, se il presente è solo un immenso vuoto senza legami, fugge dalla solitudine accarezzando sogni di eternità che compensino la solitudine e lo squallore dello sradicamento da sé e dalle alterità.

 

L’animale non umano
Per comprendere l’essere umano lo sguardo teoretico di Günther Anders ha analizzato gli animali non umani, essi non sono liberi, le loro risposte sono precostituite e sono parte integrante dell’ambiente. Gli animali non hanno mondo, perché non hanno rappresentazioni. Dal contrasto fenomenologico tra l’essere umano e gli animali non umani il filosofo trae elementi per definire il fondamento ontologico dell’essere umano:

 

«Ma la materia a priori dell’animale gioca allo stesso tempo il ruolo di sbarramento. Infatti, l’animale non raggiunge e non trova altro che ciò di cui porta in sé il messaggio. Le sue percezioni non vanno al di là del contenuto già anticipato. La forza dei legami che lo vincolano a un mondo determinato, tradotta nella prescienza pre-sperimentale che ne ha, gli impedisce di rompere liberamente i suoi vincoli. A dirla tutta, l’animale non apprende nulla di veramente nuovo. È preso nella rete di legami che lo ricollegano al mondo, è schiavo delle sue anticipazioni. Tutto ciò che gli resta estraneo sfugge totalmente alla sua presa (come attestano incontestabilmente gli esperimenti di psicologia animale) o lo spiazza come la sorpresa di una materia refrattaria all’elaborazione e che non costituisce esattamente il suo mondo».[4]

La condizione umana è apparentemente opposta alla condizione animale, in quanto l’essere umano crea mondi, ma la libertà lo spinge a distruggere i mondi che crea fino a minacciare la vita nella sua totalità. La libertà patologica rende l’umanità “forma di vita” qualitativamente peggiore dell’animale non umano per la sua capacità annichilente.

 

Pessimismo
L’analisi di Günther Anders pone il problema della libertà e della sua qualità e specialmente della struttura ontologica dell’essere umano, ma rischia di eternizzare il presente con la tecnocrazia, di indurre a negare la prassi, poiché la constatazione della potenza distruttiva che si annida nell’essere dell’umanità, non può che condurre al pessimismo più paralizzante. Necessitiamo di riportare la condizione umana attuale al sistema che lo abita e lo muove per poter comprendere che ciò che si constata e verifica nel quotidiano e nelle cronache non è che il riflesso della funerea quantificazione della vita all’interno della società dello spettacolo. Senza la deduzione sociale delle categorie, vi è il “rischio” di cadere nella trappola dell’astratto, ovvero si ipostatizza il presente, come Hobbes ha trasformato le sanguinarie lotte di religione, non in un caso storico, ma in natura umana perennemente in lotta. La deduzione sociale delle categorie ed il materialismo sono categorie interpretative senza le quali il presente rischia non solo di eternizzarsi, ma specialmente si paralizza ogni critica implicante la prassi. Abbiamo bisogno di strutture concettuali per capire il presente, mentre il sistema ci inonda di tecnologie per renderci dipendenti e sempre più simili ad esse nelle procedure di ragionamento.

Ogni epoca svela la natura umana nelle sue potenzialità, innanzi a noi vi è la possibilità della scelta etica e filosofica, senza le quali non siamo che “enti” consegnati ad un infausto destino. La natura umana è libera, perché generica (Gattungswesen), ma tale libertà si può vivere nella fuga dell’onnipotenza, o può essere oggetto del limite che la determina nella relazione. Non vi può essere libertà che nella relazione, poiché solo essa consente di conoscere e conoscersi, ogni rifugio nel sogno distopico dell’onnipotenza non è che patologia socialmente indotta, di cui constatiamo gli effetti a livello antropologico ed ambientale al limite dell’irreversibile, e che ci invocano ad una metafisica umanistica. Senza tale postura non vi è futuro, ma solo l’annientamento di ogni umanità, per poter scuotere le coscienze intorbidite è necessario mostrare che l’essere umano come lo constatiamo “oggi” non è tutto, ma una delle sue possibilità più perniciose, che invocano una trasformazione dell’assetto socio-economico, perché l’umanità può essere molto di più che un distopico incubo della ragione. L’immaginazione ampliata come nuova capacità teoretica pensata dal filosofo per abbandonare gli effetti funesti della tecnocrazia non può bastare per trascendere le distruttività del presente. Senza una pubblica razionalità che sveli e riveli la verità del presente e la sua ideologia si resta prigionieri all’interno dell’onnipotenza. L’immaginazione descritta da Günther Anders è organica all’onnipotenza, è l’altro volto di un’impossibile fuga dal presente per rifondare il presente. La scommessa sul futuro si regge in modo fondamentale sugli uomini e le donne di cultura che, malgrado i tempi terribili attuali continuano ad impegnarsi perché la barbarie non sia definitiva. Le contraddizioni sempre più macroscopiche possono farci ipotizzare che esse nel corso dei tempi attuali mostreranno i loro effetti insanabili e dialettici, pertanto le idee e le resistenze disseminate potranno ritrovare il loro senso.

Salvatore Bravo

[1] Günther Anders, Patologia della libertà. Saggio sulla non-identificazione, Orthotes, Napoli-Salerno 2015, pag. 40.

[2] Ibidem, pag. 45.

[3] Ibidem, pag. 52.

[4] Ibidem, pag. 25.


Günter Anders (1902-1992) – L’Apprendista stregone è invidiabile perché fa ancora il tentativo di fermare ciò che ha provocato o che è sul punto di provocare. Oggi viviamo in una foresta di manici di scopa che diventa sempre più fitta
Günter Anders (1902-1992) – Il conformista ottimale non è solo conformista, ma anche “congruista”. Costui si assimila ai contenuti che gli sono forniti, e rende il contenuto della sua vita psichica coincidente con tali contenuti. Nella società conformistica la mancanza di pudore passa per franchezza, dunque per virtù, e questa virtù per un attestato di lealtà.
Günter Anders (1902-1992) – La metamorfosi dell’«Apprendista stregone». Oggi viviamo in una foresta di manici di scopa che diventa sempre più fitta.
Günter Anders (1902-1992) – L’odio è sì negazione dell’altro, ma è anche l’autoaffermazione e l’autocostituzione attraverso la negazione e l’eliminazione dell’altro.
Günter Anders (1902-1992) – Abbiamo rinunciato a considerare noi stessi come i soggetti della storia. ci siamo detronizzati e al nostro posto abbiamo collocato un solo altro soggetto della storia: la tecnica. Cambiare il mondo non basta. Nostro compito è anche interpretarlo.
Günter Anders (1902-1992) – Non sono disposto a rinunciare alla visione della smisuratezza che noi esseri umani siamo in grado di provocare e che abbiamo effettivamente provocato.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Günter Anders (1902-1992) – Non sono disposto a rinunciare alla visione della smisuratezza che noi esseri umani siamo in grado di provocare e che abbiamo effettivamente provocato.

Günter Anders 08 Discesa all'Ade

«Dobbiamo piuttosto utilizzare la fantasia come correttivo, giacché la verità delle nostre condizioni mostruose non è senz’altro percepibile, perlomeno non a occhio nudo. Il fantasticare che è oggi richiesto non consiste più in ciò che intendevamo finora con questo termine: non più nel trascendere “esageratamente” il reale, non più nel raffigurarci l’irreale o nell’immaginare esseri fiabeschi – chi continua a utilizzare tuttora un simile concetto di fantasia alla Böcklin si rende ridicolo. Al contrario, fantasticare deve significare attualmente confrontarci con la realtà davvero fantastica di oggi, interpretarla in modo adeguato. In sintesi: la fantasia, dal momento che il suo oggetto, la realtà fantastica, è esso stesso fantastico, deve funzionare come un metodo dell’empiria, come organo di percezione dell’effettivamente enorme, come uno strumento che non sia legato, al pari dell’occhio, a un organo corporeo, e “pertanto” alla sua difettività, cioè alla sua miopia. Al pari del telescopio, che non rende superflua la vista e, al contrario, solo nel momento in cui viene utilizzato consente all’osservazione e alla capacità di distinguere di esplicarsi davvero, così la fantasia non rende superflua la percezione, piuttosto è condizione della sua efficacia. Quantomeno dovremmo essere capaci di immaginare quella smisuratezza che noi stessi riusciamo a produrre e provocare. […] Non sono invece disposto a rinunciare alla visione della smisuratezza che noi stessi, vale a dire noi esseri umani, siamo in grado di provocare, che abbiamo effettivamente provocato: cioè alla visione della smisuratezza dei nostri crimini».

Günter Anders, Discesa all’Ade. Auschwitz e Breslavia, 1966, Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 32.


Günter Anders (1902-1992) – L’Apprendista stregone è invidiabile perché fa ancora il tentativo di fermare ciò che ha provocato o che è sul punto di provocare. Oggi viviamo in una foresta di manici di scopa che diventa sempre più fitta
Günter Anders (1902-1992) – Il conformista ottimale non è solo conformista, ma anche “congruista”. Costui si assimila ai contenuti che gli sono forniti, e rende il contenuto della sua vita psichica coincidente con tali contenuti. Nella società conformistica la mancanza di pudore passa per franchezza, dunque per virtù, e questa virtù per un attestato di lealtà.
Günter Anders (1902-1992) – La metamorfosi dell’«Apprendista stregone». Oggi viviamo in una foresta di manici di scopa che diventa sempre più fitta.
Günter Anders (1902-1992) – L’odio è sì negazione dell’altro, ma è anche l’autoaffermazione e l’autocostituzione attraverso la negazione e l’eliminazione dell’altro.
Günter Anders (1902-1992) – Abbiamo rinunciato a considerare noi stessi come i soggetti della storia. ci siamo detronizzati e al nostro posto abbiamo collocato un solo altro soggetto della storia: la tecnica. Cambiare il mondo non basta. Nostro compito è anche interpretarlo.

Alessio Cernicchiaro

Günther Anders. La Cassandra della filosofia. Dall’uomo senza mondo al mondo senza uomo.
Prefazione di Giacomo Pezzano: Anders e noi.

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M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Günter Anders (1902-1992) – Abbiamo rinunciato a considerare noi stessi come i soggetti della storia. Ci siamo detronizzati e al nostro posto abbiamo collocato un solo altro soggetto della storia: la tecnica. Cambiare il mondo non basta. Nostro compito è anche interpretarlo.

Günter Anders 07

«Abbiamo rinunciato (o ci siamo lasciati costringere a questa rinuncia) a considerare noi stessi (o le nazioni o le classi o l’umanità) come i soggetti della storia; ci siamo detronizzati (o lasciati detronizzare) e al nostro posto abbiamo collocato altri soggetti della storia, anzi un solo altro soggetto: la tecnica, la cui storia non è, come quella dell’arte o della musica, una fra le altre, bensì la storia, o perlomeno è diventata la storia nel corso del più recente sviluppo storico; il che trova terribile conferma nel fatto che dal suo corso e dal suo impiego dipende l’essere o il non-essere dell’umanità» (p. 258).

«Cambiare il mondo non basta. Lo facciamo comunque. E, in larga misura, questo cambiamento awiene persino senza la nostra collaborazione. Nostro compito è anche interpretarlo. E ciò, precisamente, per cambiare il cambiamento. Affinché il mondo non continui a cambiare senza di noi. E alla fine, non si cambi in un mondo senza di noi» (p. 1).

Günter Anders, L’uomo è antiquato, voI. II: Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 1992.


Günter Anders (1902-1992) – L’Apprendista stregone è invidiabile perché fa ancora il tentativo di fermare ciò che ha provocato o che è sul punto di provocare. Oggi viviamo in una foresta di manici di scopa che diventa sempre più fitta
Günter Anders (1902-1992) – Il conformista ottimale non è solo conformista, ma anche “congruista”. Costui si assimila ai contenuti che gli sono forniti, e rende il contenuto della sua vita psichica coincidente con tali contenuti. Nella società conformistica la mancanza di pudore passa per franchezza, dunque per virtù, e questa virtù per un attestato di lealtà.
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Günter Anders (1902-1992) – L’odio è sì negazione dell’altro, ma è anche l’autoaffermazione e l’autocostituzione attraverso la negazione e l’eliminazione dell’altro.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Günter Anders (1902-1992) – L’odio è sì negazione dell’altro, ma è anche l’autoaffermazione e l’autocostituzione attraverso la negazione e l’eliminazione dell’altro.

Günter Anders 06

«E, con stupore, un mattino scoprirà di essere davvero complive dell’infame, di passare per suo amico e di non poter più tornare indietro; in questo modo anche lui si rende odioso e sarà giustamente odiato».

L’odio è sì negazione dell’altro, ma è anche «l’autoaffermazione e l’autocostituzione attraverso la negazione e l’eliminazione dell’altro».

G. Anders

Günter Anders, L’odio è antiquato, Bollati Boringhieri, Rorino 2006.

In questo saggio Günter Anders prosegue nella sua riflessione sull’obsolescenza delle emozioni e dei sentimenti, inutili fardelli in un mondo dominato dallo strapotere delle macchine. La tecnica ha reso l’uomo antiquato, obbligandolo nello stretto binario della coppia produzione-consumo, e antiquata è divenuta anche la sua attitudine immaginativa, ormai incapace di cogliere gli smisurati effetti di gesti che rischiano di avere nel paradosso atomico, nell’evento ultimo la loro epifania.

Lello Demichelis

La tecnica trionfa, l’odio è superfluo

Odiarsi. Nemici veri e soprattutto immaginari o artificiali vengono incessantemente venduti nel grande supermercato dell’odio, dove si possono acquistare con facilità nemici di ogni genere. L’Occidente, nemico per un certo mondo islamico; l’Islam, nemico per un certo Occidente che evoca scontri di civiltà (ovvero, induce a sua volta all’odio). Oggi l’Islam, ieri il comunismo; ma anche i tifosi della squadra avversaria, i nemici politici, il vicino di casa. L’odio come regola sociale? Tutti contro tutti?
Odio, dunque sono – principio che sembra più vero di quello cartesiano. Odio, dunque «io sono io»; di più: «dunque, io sono qualcuno». Se non odiassi, sarei nessuno: solo odiando l’altro, il nemico, il diverso, lo straniero, l’immigrato posso affermare la mia identità.
Devo dunque costruirmi – o lasciare che qualcuno produca per me – un nemico contro cui scaricare il mio odio, solo uccidendolo (fisicamente o simbolicamente) posso credere di esistere. Perché l’odio è sì negazione dell’altro, ma è anche «l’autoaffermazione e l’autocostituzione attraverso la negazione e l’eliminazione dell’altro»: lo scriveva il filosofo Günther Anders (1902-1992, allievo di Heidegger e di Husserl, pensatore e disincantato, dallo stile graffiante e coinvolgente) in questo testo del 1985 – L’odio è antiquato – ora splendidamente tradotto e curato da Sergio Fabian per Bollati Boringhieri nella nuova collana «incipit», piccoli ma splendidi libri da leggere e da meditare.
Per odiare davvero, l’odio non deve essere effimero e veloce, ma deve durare e crescere nel tempo.
«Modello del torturatore è il gioco del gatto con il topo, giacché in esso egli non solo gode del topo come cibo, ma in più trae ulteriore piacere dal suo braccare il topo che, essendo bramosia, è per metà amore e per metà odio e, differendolo, amplifica il desiderio»: già, perché nell’odiare c’è anche, o soprattutto, il piacere di odiare, di giocare con l’altro, più si odia più si produce piacere in chi odia. E gli individui, «tanto meno amano o tanto più odiano amare, tanto più essi amano odiare» – e non è un gioco di parole. Questo odio nei confronti dei nemici non nasce «per autocombustione» – scriveva Anders in una sorta di dialogo surreale e paranoico insieme tra il «filosofo Pirrone» e il «Presidente Traufe» – ma perché qualcuno o qualcosa rifornisce le persone dell’odio di volta in volta necessario a concentrare l’attenzione su qualcosa (o a distogliere l’attenzione da qualcosa d’altro).
«Rifornire» di odio, appunto: come il gas o l’acqua o la televisione, casa per casa. Dove poi ciascuno consuma la sua dose di odio, facendo crescere incessantemente la domanda di nuovo odio. Nemici reali o «nemici succedanei». E parole-chiave e immagini-chiave per emozionare, per creare un legame tra il prodotto-odio e il consumatore-di-odio, come in una normale azione dimanipolazione pubblicitaria (o ideologica).
Ma questo era vero ieri. Oggi – e Anders riprende i temi della sua «filosofia della tecnica» sviluppata nei due volumi de L’uomo è antiquato (sempre Bollati Boringhieri), con gli uomini divenuti servitori delle macchine, incapaci ormai di controllarle e dominarle, essendone invece dominati e controllati – oggi anche la guerra è un «lavoro» e «gli eserciti sono formati da lavoratori e da impiegati», che per mezzo di strumenti tecnici fanno il lavoro della guerra, un lavoro alienato come il lavoro di produzione, senza più il «senso» di ciò che si fa, indifferenti a ciò che si fa, «il loro agire è nichilismo in azione». Non si vedono i nemici, se non sullo schermo di qualche arma supertecnologica, quasi fosse un videogioco – dunque la «distanza» tra realtà e rappresentazione.
E forse neanche più «lavoro», ma «semplice attivazione, senza sforzi, di processi che sono espletati da strumenti e che poi, senza che gli operatori siano minimamente coinvolti, sfociano in effetti», lontani ma comunque annichilenti. I campi di battaglia sono divenuti «antiquati».
In questo trionfo della tecnica, anche l’odio diventa superfluo, antiquato. Nessun computer «è capace di odiare». Perché, a differenza degli uomini – che dopo essersi odiati magari tornano ad amarsi – non può smettere di combattere, perché in lui non c’è odio, «per non parlare di amore».
Questo significa che l’odio è scomparso?
No, e Anders ne era consapevole. Ci sarà infatti sempre qualcuno pronto a produrre e a vendere odio; e molti, troppi pronti a comprarlo.
Ma questo odio sembra ormai un accessorio, un sovrappiù, in un mondo sempre più tecnico.

Lello Demichelis, La tecnica trinofa, l’odio è superfluo, in La Stampa, «tuttolibri», 19-08-2006, p. 6.


 

Alessio Cernicchiaro

Günther Anders. La Cassandra della filosofia.

Dall’uomo senza mondo al mondo senza uomo

ISBN 978-88-7588-132-0, 2014, pp. 400, Euro 25

indicepresentazioneautoresintesi

Günter Anders.
Filosofo e scrittore tedesco.
Figlio dello psicologo di chiara fama Wilhelm Stern, ricevette una solida formazione umanistica.
Assimilato come ebreo tedesco, studiò sotto Martin Heidegger e Edmund Husserl, completando con quest’ultimo la sua tesi in filosofia nel 1923.
Nel 1929 cercò di ottenere l’abilitazione alla docenza presso l’Università di Francoforte sul Meno, ma non ebbe successo, anche per via delle pressioni esercitate sul suo relatore da parte di Adorno.
Questi non aveva gradito le tesi di Anders sulle cosiddette “situazioni musicali”.
Lo pseudonimo Anders fu inventato su invito del suo editore di Berlino, il quale gli suggerì di cambiare il suo cognome (Stern) in quanto troppo comune tra gli scrittori in Germania. L’idea fu dunque di tentare “qualcosa di diverso” (etwas Anders in tedesco).
Anders volle prendere alla lettera quella proposta, e scelse di chiamarsi “diverso”.
Sposò nel 1929 Hannah Arendt, grande filosofa dalla quale avrebbe divorziato nel 1937 (a causa del di lui pessimismo, a dire della Arendt “difficile da sopportare”).
L’avvento del nazionalsocialismo in Germania, nei primi anni Trenta, lo costrinse all’esilio. In principio scelse Parigi, poi fu a New York e a Los Angeles, dove si sarebbe dedicato a molti, umili lavori manuali per mantenersi.
La profondissima crisi in Europa la osservò quindi da lontano, e assistette sgomento alla catastrofe della Seconda guerra mondiale, così come alla militarizzazione che fu retaggio della successiva guerra fredda.
Scrisse il suo primo libro di riflessioni filosofiche, Die Schrift an der Wand: Tagebücher 1941-1966 (Scritti sul muro: Diari 1941-1966), e iniziò la sua riflessione svolgendo nel contempo un lavoro come operaio in un magazzino di costumi storici a Hollywood.
Rientrò in Europa nel 1950 e si stabilì a Vienna. Cominciò a lavorare su Die Antiquiertheit des Menschen (L’uomo è antiquato, 1956), nel quale dispiegava una potente riflessione sull’inadeguatezza dei sentimenti umani nell’epoca della tecnica e delle macchine, muovendo nel frattempo un’accusa filosofica contro Heidegger, i cui principi arrivò a definire di “cecità verso l’Apocalisse”.
Coniò il termine Diskrepanzphilosophie (filosofia della discrepanza), per descrivere la crescente divergenza tra ciò che è diventato tecnicamente possibile (ad esempio, la distruzione atomica di tutto il mondo), e ciò che la mente umana è in grado di immaginare.
Indefesso oppositore del potere e particolarmente attivo nel denunciare il riarmo atomico, Anders è oggi riconosciuto come un saggista importante del movimento anti-nucleare e uno fra i maggiori filosofi contemporanei.
È stato uno dei pensatori che – con maggior rigore – hanno ripensato la condizione dell’umanità nell’epoca degli armamenti di distruzione di massa. 

Assieme a Robert Jungk, Anders fu il cofondatore del movimento antinucleare nel 1954. Pubblicò il diario filosofico di una conferenza internazionale su Hiroshima (Der Mann auf der Brücke, 1959) e la sua corrispondenza epistolare con il pilota Claude Eatherly che guidò la spedizione per lo sganciamento della bomba su Hiroshima (Off limits für das Gewissen. Der Briefwechsel zwischen dem Hiroshima-Piloten Claude Eatherly und Günther Anders, 1961).
Fra i  suoi libri ci sono anche una lettera aperta al figlio di Eichmann e un discorso sulle vittime delle guerre mondiali.
Nel 1967 prese parte come giurato al tribunale Russell per rendere pubbliche le atrocità commesse in Vietnam dall’esercito americano. Dal 1945 al 1955 fu sposato con la scrittrice austriaca Elisabetta Freundlich.
Nel 1957 si sposò con la pianista ebreo-americana Charlotte Lois Zelka. 

Günter Anders (1902-1992) – L’Apprendista stregone è invidiabile perché fa ancora il tentativo di fermare ciò che ha provocato o che è sul punto di provocare. Oggi viviamo in una foresta di manici di scopa che diventa sempre più fitta
Günter Anders (1902-1992) – Il conformista ottimale non è solo conformista, ma anche “congruista”. Costui si assimila ai contenuti che gli sono forniti, e rende il contenuto della sua vita psichica coincidente con tali contenuti. Nella società conformistica la mancanza di pudore passa per franchezza, dunque per virtù, e questa virtù per un attestato di lealtà.
Günter Anders (1902-1992) – La metamorfosi dell’«Apprendista stregone». Oggi viviamo in una foresta di manici di scopa che diventa sempre più fitta.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

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M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Günter Anders (1902-1992) – La metamorfosi dell’«Apprendista stregone». Oggi viviamo in una foresta di manici di scopa che diventa sempre più fitta.

Günter Anders 01

L’apprendista stregone

[...]
Férmati! Férmati!
Poiché noi
dei tuoi doni
la misura abbiamo colma! –
Ahimè, ora è chiara la faccenda.
Ahi, ahi, ho scordato la parola!

La parola che la riduce,
alla fine, com’era una volta.
Ah, lei porta e corre veloce.
Oh, se tu fossi la vecchia scopa!
[...]

Oh tu, mostro dell’inferno,
vuoi affogare tutta la casa?
[...] Scopa scellerata,
non mi dài ascolto!
[...]
Ecco, colpita a dovere!
Guarda, in due è spaccata!
[...]
Oh, che guaio!
I due pezzi
in gran fretta, come servi,
son pronti a ogni cenno
all’impiedi ritti stanno!
Oh, aiuto forze del cielo!

[...]
Signore e maestro , ascolta il mio grido! –
Oh, il maestro arriva!
Signore, il pericolo è grande!
Gli spiriti chiamati per magia,
non riesco a liberarmene.

«In quell’angolo, presto
scope, scope!
Siate quello che foste!
Siete spiriti, per questo
vi evoca al suo scopo il vecchio
maestro, e lui soltanto».

J. W. Goethe, L’Apprendista stregone:
in J. W. Goethe, Tutte le poesie,
vol. I, tomo I, Mondadori, 1989, pp. 273-279.

206_ISBN

Alessio Cernicchiaro

Günther Anders. La Cassandra della filosofia.
Dall’uomo senza mondo al mondo senza uomo.

Prefazione di Giacomo Pezzano: Anders e noi.

indicepresentazioneautoresintesi


1. La metamorfosi dell’Apprendista stregone

Il titolo del tema, su cui mi avevano pregato di parlare, originariamente era: Sulla religione nell’èra della tecnica. Non ero ancora arrivato alla seconda parte del mio testo quando decisi di dargli come sottotitolo La metamorfosi dell’Apprendista stregone. Infine, quando tredici anni dopo ho riesaminato il testo, ho sostituito il titolo principale con quello attuale.
Ora, trattare il tema della «religione nell’èra della tecnica» era cosa che si poteva fare con facilità. Si poteva, cioè, descrivere empiricamente e forse anche statisticamente come se la cavano le religioni mondiali e le comunità religiose minori in questo mondo diventato ipertecnico, oppure come se la cavano malgrado questa ipertecnicizzazione; quale posto occupano ancora in questo mondo, se e come prendono posizione nei confronti del fenomeno «tecnica», se esistono teorie della tecnica religiose o ecclesiastiche e quali, e infine se esse si servono con o senza successo delle realizzazioni della tecnica, come ad esempio la televisione.
Su questi problemi e fatti ci sono migliaia di persone, e specialmente uomini che operano all’interno delle Chiese, che ne sanno più di me. Il mio punto di partenza è un altro. Io non interrogo le Chiese esistenti, non esamino ciò che per esse significa la tecnica: il mio modo di trattare il tema è, nonostante la mia notoria irreligiosità, incomparabilmente più diretto. Ciò che sostengo, infatti, è che le due mutazioni da prendere in esame oggi, e cioè:
1. la mutazione che l’uomo ha subìto in quanto produttore, parte e vittima di questo suo mondo tecnico;
2. la mutazione che il mondo ha subìto attraverso la propria tecnicizzazione;
sono di natura così fondamentale, che i concetti di cui dobbiamo servirci per trattare tali mutazioni possono e forse devono essere chiamati teologici.
Ma prima di arrivare a questo problema di religione, vorrei parlare del nostro rapporto con l’odierno mondo tecnicizzato.

Ciò che Goethe ha trattato nella sua famosa ballata Der Zauberlehrling (L’Apprendista stregone), non avrei neppure bisogno di rammentarlo qui. Un Famulus ha carpito al suo Maestro la formula magica che può trasformare un manico di scopa inanimato in un servo che lavora da solo. Senza preoccuparsi delle conseguenze di ciò che fa – dato ch’è interessato solo al godimento del potere e all’immediata utilizzazione di ciò che ha trasformato, non alla formula della ritrasformazione – il Famulus pronuncia la parola magica e ordina all’utensile, che adesso è a sua disposizione come un robot, di riempire d’acqua una vasca da bagno. E, guarda guarda, l’utensile trasformato obbedisce e si mette da solo al lavoro, anzi obbedisce troppo bene, alla fine obbedisce terribilmente bene: infatti, anche se può eseguire da solo il suo nuovo lavoro, non è abbastanza autonomo per rinunciare alla sua autonomia. In breve: il cammino inverso egli lo conosce altrettanto poco del suo padrone, cioè dell’Apprendista che lo ha messo in moto. Automaticamente, ciecamente, e senza minimamente curarsi degli effetti di ciò che fa, la scopa si precipita verso la fontana per riempire i suoi secchi, poi indietro per versarli, avanti e indietro, senza fine. Se i getti d’acqua si gonfiano fino a diventare una cascata, minacciando di sommergere la casa e la strada, ciò per lui fa lo stesso, di questo non si accorge neppure. A differenza del suo sedicente padrone, l’Apprendista stregone, che ora comincia ad avere un’idea di ciò che ha messo in moto: cioè, di aver evocato uno spirito senza sapere come, anzi se potrà tornare a liberarsene. Ma questo tardivo riconoscimento, e il panico nel quale egli cade, sono ormai inutili, anzi peggio: infatti, quando si butta sul suo servo così terribilmente attivo per fermarIo, ahimè! è troppo tardi; e quando tenta di renderlo innocuo tagliandolo in due metà, ottiene solo l’opposto di ciò che si era proposto: invece di por fine alla calamità, la raddoppia. Infatti subito ogni metà del servo si trasforma in un servo intero e, invece di uno, adesso sono due che si attivano a provocare l’inondazione. Prossimo ad annegare, e ormai completamente disperato, l’Apprendista chiama gridando il maestro. E che questi gli venga in aiuto all’ultimo momento e, pronunciando la formula della ritrasformazione «Sei’s gewesen» («Siate quello che foste»), riesca a fermare sempre all’ultimo momento la catastrofe, questo è un happy ending sul quale l’Apprendista non aveva più osato contare; e sul quale noi oggi – ma con ciò anticipiamo – non dobbiamo contare.
Allora, quando mezzo secolo fa, in terza ginnasiale, imparavamo a memoria Der Zauberlehrling, naturalmente non potevamo prevedere che certi testi sarebbero diventati più veri di quanto non lo fossero il giorno in cui vennero scritti; che la ballata di Goethe era già molto più realistica di quanto non lo fosse allora, e che, pressappoco nel giro di centocinquant’anni, l’intera umanità si era trasformata in un esercito di «apprendisti stregoni» e il mondo stesso in un esercito di «spiriti». Certo, sarebbe un’illusione credere che oggi ce ne rendiamo finalmente conto. Al contrario, oggi noi, apprendisti stregoni, non solo non sappiamo di non sapere la formula magica della ritrasformazione, o che non ce n’è alcuna; ma non sappiamo neppure che siamo apprendisti stregoni. E ciò per il principio dell’odierna «informazione negativa» che – incomparabilmente più ricca dell’informazione positiva – si riforma senza sosta, usando informazioni apparentemente positive e non rivelandoci il fatto che noi siamo tutti apprendisti stregoni e che gli apparecchi manipolati da noi sono tutti «spiriti». Per quanto – e questo è un passo ulteriore – una tale differenza possa ancora avere un senso. Infatti, dato che non siamo noi ad aver ordinato a noi stessi il nostro agire pazzesco, non siamo neppure più «apprendisti» ma già «spiriti». E anche questo – il fatto che apprendisti e spiriti ora coincidono e che manca solo una piccolezza, cioè un «maestro» che possa revocare ciò che sta accadendo –, anche questo, naturalmente, non ci è stato rivelato.

***

2. Irrazionalismo come morale

Ci si scandalizzerà per la mia assunzione della metafora goethiana sugli «spiriti» e mi si rimprovererà di essere ingenuo e di non riconoscere che il tempo dell’«irrazionalismo» è ormai alle nostre spalle e che viviamo nell’èra razionalistica della scienza e della tecnica. Ma di questa metafora si scandalizzeranno solo gli «spiriti» stessi; quelli cioè, del cui essere privo di essere fa parte di essere privati della loro stessa ratio. Di fatto, oggi quello che trionfa è l’irrazionalismo, e ciò proprio a causa della forma del nostro lavoro. Noi non sappiamo nemmeno di non sapere che cosa facciamo quando lavoriamo. Se questo non è irrazionalismo (e non soltanto come teoria filosofica, ma come condizione dell’umanità) allora io proprio non so che cosa significhi questa parola. Tale irrazionalismo chiaramente non è il residuo di un passato prerazionalistico. Piuttosto – cosa che accade per la prima volta nella storia – esso deve la sua esistenza allo stesso razionalismo, cioè alle scienze naturali, alla tecnica e all’organizzazione del lavoro. Dato che a causa di questi fattori noi lavoriamo senza un legame specifico e senza previdenza, e che pensiamo (e vogliamo, dobbiamo e possiamo pensare) sempre solo a ciò che ha a che fare con le esigenze momentanee del compito particolare che ci viene assegnato dalla divisione del lavoro, mentre viceversa non pensiamo mai a quello che sta «al di fuori» – «al di fuori» sia in senso spaziale che nell’ordine temporale –; e dato che non siamo consapevoli di tutto ciò e, come già detto, non sappiamo di non esserne consapevoli, il nostro irrazionalismo ha toccato una «vetta» mai raggiunta da alcun altro precedente.
O davvero ci comportiamo in modo «razionale» se diamo il nostro contributo alla produzione del prodotto A senza riflettere e neppure desiderare di sapere come si potrebbe ulteriormente sviluppare questo prodotto (semplicemente per il fatto che ormai esiste)?
E se non riflettiamo affatto su ciò ch’esso potrebbe fare a noi, o al nostro modo di vita, o ai nostri figli?
E come il mondo intero potrebbe trasformarsi a causa della esistenza di questo prodotto?
E quali altri prodotti potrebbero diventarci indispensabili a causa della sua esistenza?
E che la stessa sopravvivenza dell’umanità potrebbe essere minacciata a causa della sua esistenza?
E che questo rischio estremo magari non verrà affrontato e sarà ignorato perché il sistema dell’economia, e con esso anche quello del potere, potrebbe essere danneggiato dall’interruzione della produzione di questo prodotto?
Io chiedo ancora una volta: forse che ci comportiamo in modo razionale se noi – e per «noi» intendo il 99 per cento degli uomini oggi in attività – adempiamo i nostri «doveri» senza porci questi interrogativi? Ma chi di noi se li pone? Forse gli scienziati? Quelli che forniscono i fondamenti teorici della tecnica e della produzione e che ci tengono molto a sottolineare ch’essi praticano solo «scienza pura», il che significa che, qualsiasi uso o qualsiasi abuso possa essere fatto delle loro scoperte, per l’amor di Dio, non vogliono sporcarsi, e difendono con appassionato interesse questo disinteresse programmatico? Certo, esistono eccezioni. Un paio di migliaia di grandi scienziati si battono con questo problema di coscienza; ma questo paio di migliaia non è rappresentativo del nostro mondo odierno. O forse che gli operai si pongono questo problema? Gli operai che vengono assunti solo per fare particolari gesti manuali, che spesso non vedono neppure il prodotto finito, e non si possono davvero biasimare se non s’interessano affatto agli scopi cui il prodotto è destinato, ai suoi effetti e agli effetti degli effetti; e tanto meno possono essere rimproverati per questa indolenza, in quanto essi sanno che, se rifiutassero la loro collaborazione, ce ne sarebbero sempre altri pronti a sostituirli e a lasciarsi pagare, al loro posto, per il loro lavoro e per il loro disinteresse?
No, se noi viviamo in un mondo di totale irrazionalità, dunque, come apprendisti stregoni; se imprudenti e senza previsione conferiamo ai nostri «manici di scopa» le più avventurose funzioni da «spiriti»; se non ci rendiamo chiaramente conto che questi «spiriti», una volta evocati, non avranno mai più riguardi per noi; allora no, nonostante che viviamo in un sistema di estrema divisione e di estrema razionalizzazione del lavoro, o invece proprio per questo, perché viviamo in un sistema razionale come questo.
L’irrazionalismo, insomma, è oggi incomparabilmente peggiore di qualunque altro precedente. Mentre all’inizio del secolo si era trattato solo di una teoria alla moda, rappresentata da alcuni esaltati e incolti pseudofilosofi come Klages, della tesi che con l’aiuto della ragione noi non potremmo mai penetrare nel «nocciolo dell’essere» (cosa che peraltro i pensatori seri non hanno mai sostenuto), oggi si tratta del principio di tutti i contemporanei, perlomeno di tutti quelli (ma chi non ne fa parte?) che hanno a che fare in qualche modo con la produzione; e questi sono i padroni dei grandi trusts industriali non meno che i fisici, e questi ultimi non meno di tutti gli operai del mondo. Ciò che questo nuovo irrazionalismo asserisce (ammesso che ciò ch’esso rappresenta possa essere chiamato «asserzione»), non è la nostra incapacità di venire a capo di questo o di quello col pensiero, dunque non l’insufficienza della nostra ragione, ma piuttosto l’inopportunità del pensare. Esso consiste dunque nel postulato: «Tu non devi fare alcun uso della tua ragione»; o meglio: «Tu non devi pensare alle conseguenze del tuo fare, anche se queste sono accessibili al tuo pensiero anzi proprio se e perché esse sono accessibili alla tua ragione!». L’irrazionalismo di oggi non è più insomma una dottrina teorica (contro la teoria). Esso è piuttosto un divieto che (non importa se a Est o a Ovest) viene metodicamente prodotto e instillato dentro di noi. Non è che noi non possiamo sapere questo o quello, annuncia l’odierno irrazionalismo, piuttosto non dobbiamo saperlo. Irrazionalismo come morale.

***

3. L ‘Apprendista stregone invidiabile

Parliamoci chiaro. Ciò che Goethe ha messo in poesia come un qualcosa che provoca terrore, come un evento di eccezione, degno di una ballata avventurosa, questo qualcosa a noi capita ininterrottamente, a noi accade senza tregua, per quanto si possa ancora parlare di «accadere». Parlare di «accadere», infatti, ha senso solo se ciò che accade si stacca come un fatto eccezionale dallo sfondo di una innocua e regolare quotidianità. Ma, oggigiorno, non è questo il caso. Ciò che rende il nostro tempo avventuroso è, al contrario, il fatto che lo straordinario, invece di dare nell’occhio, è proprio la regola; che i «manici di scopa» divenuti autonomi, cioè gli apparati (sia in senso amministrativo che in senso fisico-tecnico), come le centrali elettriche, i missili atomici, gli apparecchi spaziali e i grandi impianti industriali necessari per la loro produzione, formano tutti insieme il nostro mondo quotidiano. Milioni di persone vivono del fatto che la produzione di questi apparecchi è divenuta autonoma; l’economia d’interi continenti crollerebbe se la loro fabbricazione improvvisamente venisse a cessare: tutte queste cose oggi non sono eccezioni né sensazioni che si possano cantare a mo’ di ballata, come l’avvenimento sensazionale cantato da Goethe.
E allo stesso modo fa parte delle regole della quotidianità che non pensiamo neppure a ribellarci contro ciò che i nostri «spiriti» fanno e pretendono da noi. Al contrario vediamo nell’autonoma, ovvero automatica efficacia di ciò che abbiamo prodotto – che agli occhi di Goethe era parso ancora qualcosa di terrorizzante – qualcosa di normale, anzi, persino qualcosa che ci rallegra: cioè la garanzia che anche la nostra esistenza personale continuerà a funzionare in modo piano, e che il peso della responsabilità personale (che sentiamo già come qualcosa di antiquato, come una moda di avantieri) ci verrà tolto una volta per sempre.
Oltre a ciò, infine, c’è il fatto che i nostri «spiriti» hanno la mania di diffondersi e di moltiplicarsi; che essi, cioè, non solo restano indipendenti da noi, così come già erano subito dopo la loro «nascita», ma diventano sempre più indipendenti; e al contrario rendono noi, per l’accumularsi del loro potere e della loro indipendenza, sempre più dipendenti. Goethe, allorché continuò a far lavorare un robot tagliato in due metà come un doppio robot, aveva già in vista una tale accumulazione. Noi sappiamo, oggi, che gli apparati sono sempre spinti dalla tendenza a collegarsi gli uni con gli altri e unificarsi in «rete» (come si dice in elettrotecnica). E ciò vale anche per ciò che riguarda le reti, dato che anch’esse s’intrecciano di nuovo in reti di odine superiore, senza riguardo per ciò che in tal modo potrebbero provocarci. In breve: mentre in Goethe entra in scena un unico e solitario manico di scopa, divenuto autonomo in modo straordinario (e poi una coppia di manici di scopa), oggi viviamo in una foresta di manici di scopa che diventa sempre più fitta. E visto che non esiste alcuna possibilità di tagliare questo bosco o di scappare da esso, questo è il nostro mondo.
Tempi felici erano dunque quelli in cui, come Goethe, si poteva rappresentare un robot come un orripilante caso a sé e non come il quotidiano modus operandi del mondo; e nei quali ancora si aveva la possibilità di trattare un tale evento in forma di poesia, il che oggi (nel senso del detto di Adorno sulla poesia dopo Auschwitz) sarebbe già problematico, forse persino disdicevole. Tempi felici, nei quali ci si poteva permettere, senza rischiare di essere scherniti come ingenui e non realistici, di creare la figura di un maestro, cioè di un uomo che padroneggiava l’antidoto e al quale bastava aprire le labbra per rendere ancora possibile lo happy ending. Tempi felici davvero! Paragonato a noi, uomini d’oggi, persino l’Apprendista stregone, nonostante la situazione calamitosa in cui si era messo da sé, e nonostante l’acuta disperazione con la quale grida aiuto, è ancora una figura invidiabile. Ma che cosa significa qui «nonostante»? Infatti, al contrario, egli è invidiabile proprio perché, a differenza degli uomini d’oggi, percepisce con i propri occhi il pericolo da lui stesso evocato; perché ancora capisce che esiste un motivo di disperazione; e perché, per tale motivo, fa ancora il tentativo di fermare ciò che ha provocato o che è sul punto di provocare. Confrontata con la nostra situazione attuale, quella dell’Apprendista stregone di Goethe era una semplice calamità; un episodio eccitante.

***

4. Teologia della situazione atomica

E ora voi chiederete: «Che cosa ha a che fare tutto questo con la religione?». La risposta che do a questa domanda sarà, come ho già annunciato all’inizio, di tipo diverso da quello che voi probabilmente vi aspettate. Anche se forse sarebbe importante chiarire l’atteggiamento che le religioni esistenti prendono nei confronti del nostro status di «apprendisti stregoni» e della trasformazione del nostro mondo in un mondo di robot, è incomparabilmente più importante, mi sembra, dire chiaramente che la situazione nella quale siamo andati a finire è di per sé un «fatto religioso». Naturalmente in bocca a un uomo notoriamente antireligioso, ciò suona alquanto sorprendente. Ciò che intendo è che la trasformazione di cui si tratta qui è talmente fondamentale che non basterebbero a caratterizzarla categorie diverse da quelle teologiche o perlomeno prese a prestito dalla teologia. Che cosa intendo, in particolare?
In primo luogo che, con l’aiuto degli apparecchi creati da noi stessi (e non solo quelli atomici), ci siamo fatti uguali agli dei, addirittura uguali a Dio. Per la verità, «uguali a Dio» soltanto in senso negativo; dato che, naturalmente, non si può parlare di una creatio ex nihilo; ma si può affermare che siamo capaci di una totale reductio ad nihil, che siamo diventati – come distruttori – davvero onnipotenti. E per «onnipotenza» intendiamo che noi (o meglio: i nostri «manici di scopa», gli apparecchi evocati) possiamo distruggere l’intera umanità, l’intero mondo degli uomini; che possiamo annichilire il nostro intero «essere stati» da Adamo in poi, il nostro passato; e che siamo capaci di superare perfino il terribile «futuro anteriore» di Salomone («noi saremo stati») con il futuro privo di futuro «noi non saremo stati». Di fatto, tutto quello che da un secolo a questa parte si è fatto passare per presunto «nichilismo», se confrontato con questa possibilità di «annichilimento», altro non è che ciancia culturale. Nietzsche e anche il serissimo Heidegger, sullo sfondo di questa possibilità, ci appaiono tutt’altro che seri. Non importa quello che crediamo o non crediamo, se crediamo a qualcosa o non crediamo a niente; sia il nostro status nel mondo che quello che il mondo stesso ha assunto per questo fatto della tecnica sono così fondamentalmente mutati che concetti diversi da quelli religiosi non sono più sufficienti per definirli.
A questa nostra onnipotenza, di tipo assolutamente nuovo, corrisponde in secondo luogo una impotenza, anch’essa di tipo assolutamente nuovo.
«Che cosa significa? – sento obiettare. – Impotenti siamo comunque e sempre stati in quanto mortali». Certo. Ma questo accenno alla nostra buona, vecchia e provata impotenza e mortalità viene, generalmente, proprio da coloro ai quali sembra opportuno nascondere la mostruosità della nostra situazione. La risposta a questa obiezione è: non tutte le impotenze sono uguali l’una all’altra; non tutte le mortalità hanno la stessa qualità e la stessa dignità. Non è mai la stessa e unica cosa se siamo impotenti, ovvero mortali, in quanto creature di un Dio, ovvero della natura; o se lo siamo per il nostro stesso agire. Con ciò intendo che oggi noi non siamo in primo luogo esseri «mortali» ma «uccidibili». Gli eventi di Auschwitz e di Hiroshima possono anche essere rimossi dalla memoria (ammesso che vi siano mai penetrati), e questo di fatto è accaduto. Ma, al contrario, non può essere rimossa la loro ripetibilità. Da questi due eventi in poi – cioè da oltre vent’anni – la cosiddetta «morte naturale» è diventata una specie di obsoleto favore speciale, mentre la possibilità dell’autoannientamento violento dell’umanità è sempre viva. Da allora, noi siamo ininterrottamente definiti da questa incombente possibilità. Definiti nel più terribile dei modi. Dato che «la possibilità del nostro annientamento definitivo è, anche se non dovesse mai avvenire, la definitiva distruzione delle nostre possibilità». Gli ultimi messaggeri di un morire degno sono stati quei prigionieri dei campi di concentramento che, per non essere sterminati definitivamente con il gas, prevenivano il gas con il suicidio.
In terzo luogo, fa parte del nuovo carattere «religioso» (o infernale) della nostra situazione attuale che, nel caso in cui venissimo uccisi, a differenza dei nostri antenati quasi mai lo saremmo direttamente da nostri simili, quasi mai cadremmo vittime di «colpevoli» (persino questa parola è già un onore immeritato) che intendessero il loro uccidere proprio come un uccidere (anzi, lo riconoscessero anche solo in actu; anzi, ci avessero veramente presi di mira; anzi, avessero anche solo saputo della nostra esistenza). «Muoio, ma mi consola il morire ucciso da mani umane» (Virgilio, Eneide, III, 604). Neanche questa consolazione minima ci è concessa. Infatti moriamo per colpa di azioni che i colpevoli effettuano in un qualche luogo, migliaia di chilometri lontano da noi, come doveroso lavoro; o addirittura per mezzo di apparecchi privi di occhi e di cervello, che già da tempo si sono emancipati dalle mani e dalle intenzioni dei loro produttori e inservienti e che ormai si sono assunti in modo del tutto autonomo l’operazione del liquidare. La presunta emancipazione dell’uomo (ammesso ch’essa sia mai avvenuta per davvero in qualche luogo) è ormai seguita dalla incontestabile emancipazione degli oggetti: dei «manici di scopa». Cadere vittime dei quali non è tragico – e non lo dico davvero per cinismo – bensì qualcosa di molto più tremendo: è stupido. Tragica è al più questa mancanza di tragicità, dunque la stupidità della morte che ci minaccia. E anche questa «stupidità» io la definirei un fatto «religioso»: dato che la totale irrilevanza della nostra esistenza, denunciata da questa parola, difficilmente possiamo concepirla in altro modo che come negazione estrema del nostro essere «a immagine e somiglianza».
In quarto luogo, infine, fa parte della nostra nuova, «religiosa», o infernale – ma anche l’infernale è un concetto teologico – conditio humana, il fatto che ora noi non siamo più mortali o uccidibili come persone singole, ma che possiamo perire tutti insieme; naturalmente solo «insieme», non «come comunità». Di fatto, da quando c’è questa grande offerta di armi nucleari, esiste ininterrottamente la possibilità (o meglio, la probabilità) che noi tutti verremo distrutti appunto di nostra stessa mano (anche se ancor sempre indirettamente). E con «noi tutti» non intendo solo noi viventi oggi, ma anche i nostri avi, giacché costoro, non ricordati più da alcuno, troverebbero una seconda e definitiva morte. E infine, anche i nostri figli non ancora nati e i figli dei figli, che sarebbero già passati – o passeranno – per la loro morte ancor prima di vivere.
Mezzo secolo fa Rilke ha pregato, in modo solennemente lacrimevole, per il dono «della propria morte»; e Heidegger, anche se in modo non supplichevole ma arrogante, ha condiviso tale desiderio. Questo appartiene già a un’epoca passata. Se oggi noi dobbiamo pregare per qualcosa, è davvero per qualcos’altro che non la nostra propria morte: e cioè per il fatto che non subiamo la morte comune a causa del nostro proprio fare. Del resto anche allora, ai tempi di Rilke, in un mondo nel quale solo a una minoranza in via di estinzione era concesso un diritto sulla propria vita, pregare per la grazia della propria morte non era cosa di buon gusto. A parte il fatto che niente può essere così poco «proprio» come il morire del singolo, che lo deruba della sua singolarità.

Non è possibile contestare che queste riflessioni, nonostante che in esse non figuri alcun dio, possano essere chiamate soltanto «teologiche». In che altro modo avrei potuto classificare l’Enorme? E con ciò arrivo a parlare del tema che mi venne proposto originariamente: La religione nell’èra della tecnica. Il fatto che io ammetta un tale tema pur essendo notoriamente areligioso, non significa che gli ecclesiastici, i teologi o semplicemente gli homines religiosi debbano sentirsi confermati da questa mia ammissione. Infatti, ciò che qui viene ammesso come religiosum non è nulla di positivo, bensì solo la terribilità che trascende ogni dimensione umana del fare umano. In tale contesto può trovare posto l’affermazione fatta da Scheler, di credere nell’esistenza del diavolo (a differenza dei cristiani liberali della sua generazione, che credevano sì all’esistenza di Dio ma non a quella del diavolo). D’altra parte, la terribilità che io ammetto qui non è neppure identica al negativo religioso classico, cioè al peccato originale. E tanto meno, in quanto l’atrocità della situazione odierna non è, comunque, colpa nostra. Non siamo neanche più colpevoli, e non dobbiamo neanche diventare più colpevoli. Tutto questo è piuttosto l’effetto della nostra storia umana, che passa sopra le nostre teste.

***

5. Ciò che è veramente serio

Naturalmente, questa situazione «religiosa» in quattro sensi non si è mai verificata prima d’oggi. Il nostro tempo finale [Endzeit] si differenzia sostanzialmente da quello del cristianesimo, per il quale il giorno ultimo, benché causato dalle colpe dell’uomo, non si riteneva tuttavia prodotto da lui. A questo bisogna aggiungere – e ciò naturalmente deve suonare sacrilego – che il discorso sulla fine del mondo così come veniva fatto allora, di fronte alla minaccia reale appare ormai solo metaforico. E questo tanto più che il cristianesimo primitivo, con la sua attesa dell’«ultimo giorno», ha fatto una gran brutta figura nei confronti della realtà (chiedo di nuovo scusa, ma le cose di cui si tratta sono troppo serie perché un tabù ci possa spaventare). L’universo non ha assolutamente preso in considerazione la minaccia che gli era stata annunciata e riannunciata, la storia del mondo è andata avanti fino ad oggi. Fino ad oggi il cristianesimo non si è ancora totalmente ripreso dallo stupore che la fine del mondo, ovvero la parusia da esso attesa tremando, non si sia avverata, che non abbia voluto avverarsi neppure nell’anno mille. E sempre di nuovo, per risparmiare a questa irrinunciabile attesa della fine l’ostilità, quasi che si fosse semplicemente trattato di una prognosi sbagliata, si è sforzato in proposito di dare ai concetti di «fine», «regno», «giudizio» un significato simbolico (presunto originario) e di salvare la loro validità simbolica.
Ora, l’odierno tempo della fine è di tipo «più massiccio». Non ha bisogno di alcuna simbolizzazione. Per la sua possibilità (che poi significa, trattandosi di tecnica, ineluttabilità) esistono esempi storici: i fatti di Hiroshima e Nagasaki e le constatazioni, da nessuno tenute segrete, sulla capacità di overkill delle armi oggi esistenti negli arsenali. Nella nostra situazione, il fatto che la fine non sia ancora avvenuta non è una confutazione della realtà del pericolo, non una controprova del fatto che il nostro tempo è un tempo finale, ovvero il tempo finale.
In altre parole: l’odierno pericolo di apocalisse è, nonostante ch’esso non si presenti quasi mai con le vesti solenni di un linguaggio religioso, incomparabilmente più serio di quanto non siano mai stati i precedenti pericoli di apocalisse. Più serio proprio perché i mezzi della sua produzione sono pronti già da due decenni e si accrescono ancora quotidianamente (per quanto possa ancora avere un senso parlare di «accrescimento»).
Naturalmente, con queste due asserzioni – che il pericolo odierno è più serio di qualsiasi altro precedente e che la decisione tra essere o non-essere del mondo e del nostro futuro sta ora tutta nelle nostre mani d’uomini – non è detto che l’umanità, tutta l’umanità, desideri o progetti questa fine; e neanche che esistano singoli individui o gruppi «cosmo-erostratici», anche se certo questi potrebbero apparire ad ogni momento: la tentazione di commettere per gioco un tale «crimine» (ma la parola non è sufficiente) potrebbe certo diventare irresistibile per la noia e per la voglia di aggressione e di distruzione oggi dominanti. Ciò nondimeno, a me sembra che il pericolo, se venisse solo da individui o gruppi luciferini, non sarebbe affatto così grande come quello che oggi esiste effettivamente. E non perché questi colpevoli (il che è dubbio) saprebbero ancora ciò che farebbero se (il che pure è dubbio) fossero ancora soggetti agenti e non soltanto esseri che si fanno trascinare ciecamente dal proliferare automatico dei loro apparecchi. Se anche questo fosse il caso, potrebbe consolarci assai poco. Tuttavia sarebbe forse ancora possibile identificare e arrestare singole persone o singoli gruppi, mentre la realtà della megatecnica, che sta alla base del pericolo attuale, non è identificabile e non può essere né combattuta né arrestata.
Bei tempi erano quelli, quando il male si manifestava ancora nel malvagio o nel maligno e quando si poteva sperare di poter combattere il male lottando contro il male. Anche da questo, dal fatto che una tale cosa non possiamo più sperarla, è definito – e qui si chiude il cerchio – il nostro nuovo «stato religioso». Oggi noi non minacciamo la sopravvivenza del mondo perché saremmo divenuti peccatori per natura o per una «caduta»; ma
– perché siamo apprendisti stregoni, cioè perché, anche con la coscienza migliore, non sappiamo che cosa facciamo quando produciamo i nostri prodotti;
perché non ci è chiaro che cosa vogliono questi prodotti quando sono scivolati fuori dalle nostre mani;
– perché non immaginiamo che questi prodotti, appena hanno cominciato a funzionare (e lo fanno già con la loro semplice esistenza), vogliono continuare a funzionare, anzi devono continuare a funzionare, e si raggruppano automaticamente per raggiungere un massimo di potere anche sopra di noi che siamo i loro produttori; e che, come ogni altro prodotto, come ogni altra merce, sono avidi di essere usati e consumati per non bloccare la produzione di nuovi prodotti; in breve, che si metteranno presto in azione da se stessi, non importa se l’uno o l’altro di noi desidera espressamente questa azione o la propaganda come fine politico.
Essere apprendisti stregoni significa:
– non sapere quello che si fa;
– non sapere che produrre significa agire;
– e non immaginarsi o non temere, o non sapersi pentire in un secondo tempo, per ciò che si potrebbe provocare tramite ciò che si produce o si è prodotto.

Con queste formule – anch’esse definiscono il nostro status religioso – è segnata una frattura all’interno della nostra esistenza (e solo quella odierna), un dislivello che supera di gran lunga, anzi ci fa apparire poco serio, quello tra carne e spirito, o tra dovere e piacere, o qualsiasi altra differenza che in precedenza si potesse ritenere decisiva. Che cos’è la nostra «capacità» di rubare, o di commettere adulterio, o di bestemmiare Dio, o di assassinare in confronto alla nostra «capacità» di commettere genocidio, anzi peggio – questo termine dev’essere introdotto – di commettere «globocidio»? O che cos’è la nostra incapacità di combattere quelle tentazioni in confronto alla nostra incapacità di opporre resistenza a questa tentazione, anzi a questa coercizione (è probabile infatti che la tentazione solo assai raramente giochi un ruolo importante)?
Il diavolo si è trasferito in una nuova dimora. E anche se siamo incapaci di cacciarlo fuori durante la notte, affumicandolo – ammesso poi che vogliamo farlo – perlomeno dobbiamo sapere dove si nasconde, dove possiamo scovarlo. Per evitare di dargli la caccia in un angolo nel quale da gran tempo egli non sta più accovacciato e con ciò di essere presi in giro dalla stanza accanto.

Günter Anders, L’uomo è antiquato. La terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, 1992, pp. 369-382.

 


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Günter Anders (1902-1992) – Il conformista ottimale non è solo conformista, ma anche “congruista”. Costui si assimila ai contenuti che gli sono forniti, e rende il contenuto della sua vita psichica coincidente con tali contenuti. Nella società conformistica la mancanza di pudore passa per franchezza, dunque per virtù, e questa virtù per un attestato di lealtà.

Anders–congruista

L'uomo è antiquato

G. Anders, L’uomo è antiquato

«[…] per il telespettatore, non esiste più alcuna parete che separi il mondo domestico dal mondo esterno. Ma questa scomparsa della parete non è affatto una curiosità che si possa spiegare con la casuale particolarità tecnica dei suddetti mezzi di comunicazione. Tale particolarità deve piuttosto, ed esclusivamente, il suo successo al fatto che corrisponde perfettamente a una delle esigenze più tipiche del sistema conformistico. Questa esigenza è la “mancanza di pareti“. Infatti, nel sistema conformistico le pareti non sono più assolutamente tollerate. Non soltanto è abbattuta la parete tra attività e passività; non soltanto quella tra sfera privata e pubblica; ma persino quella tra “anima e mondo”.
Che cosa significa? Che il conformista ottimale non è solo conformista, ma anche “congruista“.
E ciò significa a sua volta ch’egli non solo si assimila ai contenuti che gli sono destinati e forniti, ma anche che alla fine il contenuto della sua vita psichica coincide con tali contenuti. Concretamente:

– ch’egli ha ancora bisogno, e può avere ancora bisogno, solo di quello che gli viene imposto;
– che pensa ancora, e può pensare ancora, solo quello che gli è destinato;
– che fa ancora, e può fare ancora, solo quello che viene fatto a lui;
– che si sente ancora, e può sentirsi ancora, solo come ci si aspetta che lui si senta.

Formula: dato che nel sistema conformistico domanda e offerta sono ridotte a congruenza;
e lo sono in maniera tale che le offerte [Angebote] si presentano come comandamenti [Cebote];
e a loro volta questi comandamenti funzionano come divieti [Verbote]
– in modo tale, cioè, da impedire effettivamente a chi fa la richiesta d’immaginarsi anche soltanto qualcos’altro da quello che gli viene offerto –
la parete fra dentro e fuori è caduta.

Sarebbe assurdo concedere ancora un “sé” o una vita interiore propria a un uomo tale, diventato o reso “privo di pareti”. Dato ch’egli è identico, senza residui, al materiale che gli viene somministrato, solo a lui si addice la formula che un materialista del secolo scorso aveva coniata per tutti gli uomini in generale, formula che dice: “L’uomo è quello che mangia”. Aver trasformato questa frase sciocca in una verità è un merito di cui il conformismo può vantarsi. Che il materiale “mangiato”, di cui si tratta qui, non sia (o solo in minima parte) materiale in senso fisico, ciò non migliora affatto la situazione del “congruista”.
È dunque errato sostenere che l’uomo sia diventato «privo d’anima» per la rottura dell’argine tra dentro e fuori. O che l’anima del “congruista” ora sia “vuota”. E non solo errato, ma addirittura il capovolgimento della verità. Infatti è vero che l’anima del congruista, dato che viene inondata senza sosta dal mondo che le affluisce dentro (mondo delle merci, delle opinioni, dei sentimenti, degli atteggiamenti ecc.) è terribilmente sovraccarica, incomparabilmente più carica di quanto non siano mai state le anime finora; ch’essa, come la spugna con l’acqua, è diventata ora coestensiva al mondo, o almeno a ciò che a lei viene destinato come “mondo”.

Ma che cosa significa “congruista” al singolare? Di congruisti o ne esistono en masse o non ne esistono affatto. L’asserzione che la parete tra il fornitore e il rifornito sia caduta, o vale per milioni d’individui o per nessuno. Evidentemente, vale per milioni. E naturalmente non per milioni qualsiasi ma per quelli odierni, cioè per quelli che vivono nell’èra della produzione e riproduzione di massa.  […]
È chiaro che tra siffatti “congruenti”, riforniti con materiale simile (o identico), non possono più emergere difficoltà di comprensione reciproca. Ognuno capisce ognuno, la differenza tra conoscenza di sé e conoscenza dell’altro è abolita, il nome scaccia il cognome, ognuno è proximus a ognuno, anche se in senso nuovo; nessuno si sente più obbligato a far valere il proprio diritto alla privacy; nessuno vede un motivo per non condividere i propri segreti con i propri simili; e a nessuno di essi importa ancora qualcosa di questo. I congruisti non possiedono più veri tesori segreti, vera proprietà privata intellettuale o spirituale; anche ciò che potrebbero considerare proprietà privata fa parte dei pezzi che sono stati loro forniti e ad essi viene persino fornita l’illusione che ciò ch’è loro fornito sia loro proprietà privata. In breve, i loro privata essi li dividono già comunque con gli altri. Ma se accade che in un “congruente” si riscontri una qualche particolarità che non condivide con gli altri, qualcosa come un errore di tessitura o una “voglia”, agli altri egli la comunica solo a posteriori, il che non gli causa alcuna difficoltà, visto che la psicoanalisi, sempre pronta per casi simili, gli offre i mezzi e i metodi necessari all’occorrenza. Già oggi nella società conformistica la mancanza di pudore passa per franchezza, dunque per virtù, e questa virtù per un attestato di lealtà.

[…] Alla domanda, se nel nostro mondo conformistico odierno già si parla meno che in quello di ieri e di avantieri, è difficile trovare risposta. È invece evidente che già esistono situazioni di perdita di parola che lasciano presagire il peggio, per esempio la situazione della famiglia che siede senza parole davanti al teleschermo, mentre viene simultaneamente foraggiata. E ancor più significativa di questa specifica situazione mi sembra la nuova funzione che il parlare ha assunto nella società conformistica. Ammesso che qui la parola “funzione” sia ancora adatta. Infatti, perlo meno a prima vista, il nostro parlare sembra atrofizzato al punto da essere un’attività priva di senso; con ciò intendo che, quando ci parliamo l’un l’altro, noi rivestiamo una stessa e identica esperienza del mondo (di cui siamo stati forniti) con parole che fanno parte dello stesso e identico patrimonio di vocaboli (di cui siamo stati forniti); e perciò non facciamo altro che praticare un mero scambio tautologico. Le parole o i vocaboli che scambiamo con i nostri partners somigliano, per la maggior parte dei nostri discorsi e in particolare per lo small talk, alle palle che volano, avanti e indietro, tra i tennisti; cioè le “palle” che “diamo” parlando sono identiche a quelle che abbiamo ricevute ascoltando; e quelle che riceviamo sono identiche a quelle che abbiamo date; in breve, prendere e dare sono divenuti interscambiabili.
[…] In altre parole: il rumore di milioni di voci prodotto al giorno d’oggi non rappresenta più altro – e in ciò consiste la nuova funzione del parlare odierno – che un unico “monologo collettivo”, pronunciato a ruoli distribuiti. La società conformistica parla nel suo insieme con se stessa.[…]

Lo ammetto: il ritratto del conformista abbozzato qui non è realistico. È piuttosto una terrificante immagine ideale, l’immagine ideale che ci viene posta davanti per invitarci a una gentile imitazione. Ma ciò non significa in alcun modo che la descrizione sia esagerata, che la nostra situazione non sia ancora cosl grave. Non abbiamo il minimo motivo per essere orgogliosi della differenza tra noi e quell’immagine idealizzata, dato che non si può assolutamente dire che abbiamo ancora conservato un ultimo nocciolo della nostra individualità o un residuo inattaccabile della nostra autonomia. Al contrario è vero che riconosciamo il modello che ci viene fornito, che ci misuriamo con esso e solo con esso e che tentiamo con tutte le forze a nostra disposizione di uguagliarlo. Se questo diventare congruenti con il “congruista” totale ancora non si è verificato, è semplicemente per il fatto che non ci riesce di assimilarci al primo colpo, almeno non completamente. Bisogna anche imparare a farsi rovinare, non è affatto un compito facile farsi sommergere totalmente, farsi completamente saturare. Perlopiù siamo quasi, nel senso chimico della parola, «sovrassaturi», dunque incapaci di assorbire ancora le immagini del mondo che continuano ad affluire.
O il quantum che ci viene imposto è troppo grande, o la velocità troppo elevata. In breve, siamo incapaci (simili all’operaio non ancora del tutto abituato alla catena di montaggio) di “tenere il passo” completamente. Solo questo è il motivo per cui non siamo ancora del tutto congruenti con il “congruista” ideale. Di questo non dobbiamo ringraziare la nostra forza, bensl esclusivamente la nostra debolezza».

Günter Anders, L’uomo è antiquato. La terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, 1992, pp. 135-141.

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Autori, e loro scritti

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AA.VV. – «Multifocal Approach» – LA REALTÀ AMA NASCONDERSI? DOES REALITY LIKE HIDING? – Il multifocal approach come valorizzazione dei profili “visibili” e “invisibili” di una realtà complessa – PRIMO INCONTRO INTERNAZIONALE

AA.VV., Macerata (5-6 dicembre 2018) – AL DI QUA DEL BENE E DEL MALE. Gli Antichi e la complessità del reale alla luce del Multifocal Approach *(Maurizio MIGLIORI – Paola Rosalba CAMACHO GARCIA – Lucia PALPACELLI – Mino IANNE – Federica PIANGERELLI – Luca GRECCHI – Arianna FERMANI – G. Angelini – R. Di Stefano – E. Napoletani – G. Teti)

AA.VV.  – «Immanenza e trascendenza in Aristotele». Scritti di: Giampaolo Abbate, Claudia Baracchi, Enrico Berti, Barbara Botter, Matteo Cosci, Annabella D’Atri, Andrea Falcon, Arianna Fermani, Luca Grecchi, Alberto Jori, Diana Quarantotto, Monica Ugaglia, Carmelo Vigna, Marcello Zanatta.

AA.VV. Ricerche Aristoteliche. Etica e politica in questione. Introduzione e cura di Giulia Angelini. Saggi di Claudia Baracchi, Manuel Berrón, Enrico Berti, Michele Di Febo, Silvia Gullino, Alberto Jori, Pietro Li Causi, Giovanni Battista Magnoli Bocchi, Francesca Masi, Marcello Zanatta.

Claudio Abbado (1933-2014) – Nell’arte e nella letteratura di un paese ho imparato a comprenderne meglio anche la musica.

Giampaolo Abbate – Ne «Il luogo in Aristotele» ho tentato di mostrare come Fisica Δ 1-5 contenga una dottrina unica e coerente svolta secondo certe premesse metodologiche che saranno mantenute pressoché costantemente dal primo al quinto capitolo.

Raffaele Accarino – Albert Steiner, il fotografo dei paesaggi alpini.

Fabio Acerbi, Riflessi condizionali.

Fabio Acerbi – È importante cercare di capire le origini storiche del concetto di modello. Il presente contributo intende fornire i risultati di una prima ricognizione nel campo della scienza greca antica.

Mario Vegetti e Francesco Ademollo – Incontro con Aristotele: la potenza del suo pensiero è ancora in grado di parlarci.

Mortimer Jerome Adler (1902-2001) – La lettura dei grandi libri non avrebbe alcun significato, se non ci proponessimo di rendere migliore la società.

Adonis, Alī Ahmad Sa’īd Isbir – L’uomo è conoscenza e “conoscenza reciproca”. L’io, in quanto conoscenza, non si può comprendere se non a partire dall’esplorazione dell’altro in quanto conoscenza.

Theodor Ludwig Adorno (1903-1969) – L’idea di un fare scatenato, di un produrre ininterrotto attinge a quel concetto che è servito sempre a sancire la violenza sociale come immodificabile.

Theodor Ludwig Adorno (1903-1969) – Una società emancipata è la realizzazione dell’universale nella conciliazione delle differenze. Una politica a cui questo stesse veramente a cuore dovrebbe richiamare l’attenzione sulla cattiva eguaglianza di oggi […] e concepire uno stato di cose migliore come quello in cui si potrà essere diversi senza paura.

Theodor L. W. Adorno (1903-1969) – È fondamentale compiere esperienze personali, non delegate dall’apparato sociale. La felicità si dà soltanto dove c’è il sogno, ed è preclusa a chi non sa più sognare, incapace di concepire scopi.

Theodor L. Adorno (1903-1969) – Il fatto che a filosofia metafisica, quale storicamente coincide in sostanza coi grandi sistemi, abbia più splendore di quella empiristica e positivistica non è un elemento meramente estetico.

Theodor L. Adorno (1903-1969) – L’ontologia di Heidegger finisce in una terra di nessuno. In ciò si manifesta la miseria del pensiero che vuoI giungere al suo altro, e non può permettersi nulla senza timore di perdervi ciò che afferma. La filosofia diventa tendenzialmente gesto rituale. In esso però c’è anche qualcosa di vero: il suo ammutolirsi.

Theodor L. Adorno (1903-1969) – … quando il tempo si contrae e scorre infruttuosamente fra le dita … ciò che si rivela in questa contrazione delle ore è esattamente l’opposto del tempo realizzato … Il corpo registra questa angoscia nella fuga delle ore. Il tempo vola.

Max Horkheimer, Theodor W. Adorno – Kant ha anticipato intuitivamente ciò che è stato realizzato consapevolmente solo da Hollywood: le immagini sono censurate in anticipo, nell’atto stesso della loro produzione. Lo spettatore non deve lavorare di testa propria. Ogni connessione logica, che richieda fiato intellettuale, viene scrupolosamente evitata.

Uliano Lucas – Tatiana Agliani – La realtà e lo sguardo. Storia del fotogiornalismo in Italia.

Vincenzo Agnetti (1926-1981) – Le parole e gli oggetti venduti dal sistema ci offrono sempre due significati: uno vero, che per vanità non vogliamo leggere, e uno falso, indolore, che accettiamo con voluta complicità per sentirci storicamente validi.

Julián Marías Aguilera (1914-2005) – Si può “scivolare” attraverso la vita senza dedicarsi ad essa con energia. Spesso si tratta dell’avarizia vitale, dell’incapacità di dare, che è principalmente darsi.

Leon Battista Alberti (1404-1472) – L’animo degli studiosi sia acceso di virtù e di sapienza.

Leon Battista Alberti (1404-1472) – Sempre meco stanno uomini periti, eloquentissimi, apresso di quali io posso tradurmi a sera e occuparmi a molta notte ragionando. Non a me mancano i filosofi, apresso de’ quali io d’ora in ora me senta divenire più dotto anche e migliore.

Alberto Magno di Bollstädt (1206-1280) – La perseveranza è un atto compreso nella fortezza e consiste nell’essere saldi nel proposito di rimanere nella difficoltà fino a vincerla e nel non voler cedere per il permanere e il prolungarsi delle difficoltà.

Alceo (630 a.C.– 560 a.C.) – Da terra conviene progettare la rotta, se si riesce a farlo in modo corretto. Ma quando si è per mare, si deve andare con il vento che c’è.

Alessandro Alfieri – Dal simulacro alla Storia. Estetica ed etica in Quentin Tarantino.

Vittorio Alfieri (1749-1803) – L’ambizione d’arricchire è la più universale delle tirannidi. Ogni società che lo ammetta è tirannide, ogni popolo che lo sopporta è schiavo.

Dante Alighieri (1265-1321) – Nè si dee chiamare vero filosofo colui che è amico di sapienza per utilitade.

Dante Alighieri (1265-1321) – Io ho il mondo per patria, come i pesci hanno il mare. Movemi desiderio di dare dottrina. La filosofia è somma cosa. Coloro che vivono con intelletto e con ragione sono dotati di una certa divina libertà. Non abuso di alcuna autorità, poiché non sono ricco. Ma ciò significa che sono quel che sono, non grazie alle ricchezze. Ho come maestro il Filosofo che, determinando i principi eterni della morale, ha insegnato che a tutti gli amici bisogna anteporre la verità.

Dante Alighieri (1265-1321) – Spetta agli uomini che sono tratti all’amore della verità trasmettere quella ricchezza che essi stessi hanno ricevuto dall’operosità degli antichi. È ben lontano dal proprio dovere chi, imbevuto di pubbliche dottrine, non si cura di apportare alcunché alla cosa pubblica.

Alicia Alonso (1921-2019) – È stato facile decidere di dedicarsi al balletto classico, perché la vita altro non è che un continuo movimento che assomiglia alla danza.

Massimo Ammaniti – Forse si invecchia veramente solo quando non ci si stupisce più, quando si dà tutto per scontato e la vita sembra non riservare più sorprese. Si può mantenere il gusto della conoscenza e sapersi ancora meravigliare di un fiore che si schiude o di una bambina che ti sorride.

Günter Anders (1902-1992) – L’Apprendista stregone è invidiabile perché fa ancora il tentativo di fermare ciò che ha provocato o che è sul punto di provocare. Oggi viviamo in una foresta di manici di scopa che diventa sempre più fitta.

Günter Anders (1902-1992) – Il conformista ottimale non è solo conformista, ma anche “congruista”. Costui si assimila ai contenuti che gli sono forniti, e rende il contenuto della sua vita psichica coincidente con tali contenuti. Nella società conformistica la mancanza di pudore passa per franchezza, dunque per virtù, e questa virtù per un attestato di lealtà.

Günter Anders (1902-1992) – La metamorfosi dell’«Apprendista stregone». Oggi viviamo in una foresta di manici di scopa che diventa sempre più fitta.

Günter Anders (1902-1992) – L’odio è sì negazione dell’altro, ma è anche l’autoaffermazione e l’autocostituzione attraverso la negazione e l’eliminazione dell’altro.

Günter Anders (1902-1992) – Abbiamo rinunciato a considerare noi stessi come i soggetti della storia. ci siamo detronizzati e al nostro posto abbiamo collocato un solo altro soggetto della storia: la tecnica. Cambiare il mondo non basta. Nostro compito è anche interpretarlo.

Günter Anders (1902-1992) – Non sono disposto a rinunciare alla visione della smisuratezza che noi esseri umani siamo in grado di provocare e che abbiamo effettivamente provocato.

Günter Anders (1902-1992) – Quando la libertà si muta in delirio d’onnipotenza, in odio contro ogni limite

Günter Anders (1902-1992) – «Lo sguardo dalla torre». I racconti di G. Anders palesano agli occhi della mente ciò che di solito rifiutiamo di problematizzare e di tematizzare, offuscando noi stessi la visione della verità.

Roberto Andreotti – Esiste un altro modello di rappresentazione nel quale la memoria è concepita come corredo funzionale in grado di interferire nel profondo con il nostro vissuto, con il nostro modo di concepire e organizzare il mondo hic et nunc.

Amedeo Anelli – «Quartetti». Tempi sospesi e riflessioni filosofiche giocate con un linguaggio all’apparenza semplice, con i ritmi della filastrocca. Amedeo Anelli scrive di sogni sognati e il pennello di Guido Conti cerca un segno che diventi senso.

Amedeo Anelli – Occidente e oriente a confronto nella voce poetica di Maura Del Serra.

Amedeo Anelli – È in stampa il sessantesimo numero (n. 59, giugno 2021) della rivista internazionale di Poesia e Filosofia «Kamen’», il numero del suo trentesimo anno.

Giulia Angelini – Gli uomini si costituiscono in una koinonía solo se c’è un «télos» che soggiace, costituisce e precede la loro unione. non bisogna assolutamente ridurre questo télos alla mera sopravvivenza di un insieme. Senza un télos si può dare solo un raggruppamento casuale di uomini e non già un insieme.

Giulia Angelini – Il nodo dell’èthos. A margine del libro di Claudia Baracchi, «L’architettura dell’umano: Aristotele e l’etica come filosofia prima».

Massimo Angelini – Ripristinare un’economia morale fondata sul dono potrebbe essere contagioso, certamente incomprensibile, come espressione di follia per chi confida solo sul denaro e al denaro affida l’ultima parola nelle proprie scelte e sull’altare del denaro brucia, idolatra, la propria vita, ma sarebbe rivoluzionario.

Massimo Angelini – Cultura significa innanzitutto coltivare, avere cura, trattare con attenzione, far crescere, onorare, e non va confusa con erudizione, che ha il proprio fine in sé stessa, nell’accumulazione dei dati, nella loro ostentazione sociale o accademica, guscio di un sapere ridotto alla sua apparenza.

Giulio Angioni (1939-2017) – Quando non si saprà … tu forse lo saprai che qui e ora sei.

Antica esortazione irlandese – Trova il tempo per leggere, per giocare, per l’amicizia, per sognare, per amare ed essere amato, per aiutare gli altri, per ridere.

Antifonte (480 a.C. circa – 410 a.C. circa) – Nell’effimera vigilia della vita nessuno di noi può esser definito né come barbaro, né come greco. Tutti infatti respiriamo l’aria con la bocca e con le narici, poiché di natura tutti siamo assolutamente uguali. Se violentiamo le norme poste in noi da natura si offende non l’opinione, ma la verità.

Antifonte (480 – 410 a.C.) – Nell’indugio spesso il tempo frapposto distoglie la mente dall’intenzione: il che a cosa fatta non è più possibile, nell’indugio invece può accadere.

Giovanni Antonucci – Il Teatro poetico di Maura Del Serra vive sul palcoscenico e nel corpo dell’interprete.

Sergio Arecco – La durevole passione per il cinema con i miei libri in questi ultimi cinquanta anni.

Sergio Arecco – Fisica e metafisica del cinema. Il battle study dal muto al digitale.

Sergio Arecco – Quando il cinema era giovane. I fantasmi dell’opera, i fantasmi all’opera.

Hannah Arendt (1906-1975) – L’amore è in primo luogo la potenza della vita, è il principio creativo che oltrepassa il semplice fatto di essere vivi, poiché dalla sua amondanità nasce un nuovo mondo. In quanto tale, «supera» la morte.

Daniela Ariano – Recensione a «Teatro» di Maura del Serra – Pagine intrise di teatro allo stato puro.

György Lukács (1885-1971) – Considerazioni su «Marx, il cinema e la critica del film», un libro di Guido Aristarco (1918-1996). La tendenza generale è il dominio della manipolazione, a cui in misura sempre più vasta si va assoggettando anche, e tutt’intero, il campo dell’arte.

Aristofane (450 a.C.-385 a.C.) – I politicanti, finché restano poveri hanno a cuore il paese. Fattisi ricchi col denaro pubblico, eccoli a minacciare la democrazia.

Aristosseno (375-322 a.C.) – Il vero amore del bello sta nelle attività pratiche e nelle scienze, perché l’amare e il voler bene hanno inizio dalle buone usanze e occupazioni.

Aristotele – Questa è la vita secondo intelletto: vivere secondo la parte più nobile che è in noi.

Aristotele (384-322 a.C.) – La «crematistica»: la polis e la logica del profitto. Il commercio è un’arte più scaltrita per realizzare un profitto maggiore. Il denaro è l’oggetto del commercio e della crematistica. Ma il denaro è una mera convenzione, priva di valore naturale.

Aristotele (384-322 a.C.) – La mano di Aristotele: più intelligente dev’essere colui che sa opportunamente servirsi del maggior numero di strumenti; la mano costituisce non uno ma più strumenti, è uno strumento preposto ad altri strumenti.

Aristotele (384-322 a.C.) – Da ciascun seme non si forma a caso una creatura qualunque. La nascita viene dal seme.

Aristotele (384-322 a.C.) – Se l’intelletto costituisce qualcosa di divino rispetto all’essere umano, anche la vita secondo l’intelletto sarà divina rispetto alla vita umana. Per quanto è possibile, ci si deve immortalare e fare di tutto per vivere secondo la parte migliore che è in noi.

Aristotele (384-322 a.C.) – Se uno possiede la teoria senza l’esperienza e conosce l’universale ma non conosce il particolare che vi è contenuto, più volte sbaglierà la cura, perché ciò cui è diretta la cura è, appunto, l’individuo particolare.

Aristotele (384-322 a.C.) – In tutte le cose naturali si trova qualcosa di meraviglioso.

Aristotele (384-322 a.C.) – Diventiamo giusti facendo ciò che è giusto. Nessuno che vuol diventare buono lo diventerà senza fare cose buone. Il fine deve essere ipotizzato come un inizio perché il fine è l’inizio del pensiero, e il completamento del pensiero è l’inizio di azione. ⇒ Una Trilogia su Aristotele: «Sistema e sistematicità in Aristotele». «Immanenza e trascendenza in Aristotele». «Teoria e prassi in Aristotele».

Aristotele (384-322 a.C.) – Le radici della ‘paideia’ sono amare, ma i frutti sono dolci. Il modello più razionale di ‘paideia’ abbisogna di tre condizioni: natura, apprendimento, esercizio.

Aristotele (384-322 a.C.) – La virtù è uno stato abituale che orienta la scelta, individua il giusto mezzo e lo sceglie. Il male ha la caratteristica dell’illimitato, mentre il bene ha la caratteristica di ciò che è limitato.

Aristotele (384-322 a.C.) – Tutti gli uomini per natura tendono al sapere. L’intelletto è quanto di più elevato si possa pensare, è il «toccare» il vero, rappresenta la realtà più divina ed eccellente che c’è in noi.

Aristotele, La mano è azione: afferra, crea, a volte si direbbe che pensi. La mano ha fatto l’uomo, è l’uomo stesso, è lo strumento degli strumenti. In verità il pensiero si impone come artigianale così come la mano.

Aristotele (384-322 a.C.) – La poesia è qualche cosa di più filosofico e di più elevato della storia. La poesia tende piuttosto a rappresentare l’universale, la storia il particolare

Aristotele (384-322 a.C.) – In qualunque campo si raggiungerebbe la migliore visione della realtà, se si guardassero le cose nel loro processo di sviluppo e fin dalla prima origine.

Aristotele (384-322 a.C.) – Il fatto di vivere è comune anche alle piante. Ciò di cui andiamo in cerca per l’uomo è qualcosa di specifico. Il bene umano risulta essere l’attività dell’anima secondo virtù in una vita umana compiuta, in atto nel senso più proprio. un solo giorno o un breve periodo di tempo non rendono beato e felice nessuno.

Aristotele (384-322 a.C.) – L’individuo moralmente retto è in accordo con se stesso, impegnandosi per il bene. La sua mente è ricca di pensieri e piacevoli sono i ricordi delle azioni compiute e buone sono le speranze di ciò che accadrà nel futuro.

Aristotele (384-322 a.C.) – Non si deve nutrire un infantile disgusto verso lo studio dei viventi più umili: in tutte le realtà naturali v’è qualcosa di meraviglioso che offre grandissime gioie a chi sappia comprenderne le cause, cioè sia autenticamente filosofo.

Aristotele (384-322 a.C.) – Moralmente bello significa fare il bene senza mirare al contraccambio. L’uomo moralmente retto ricerca per sé il bello morale e antepone il bello a tutto il resto.

Aristotele (384-322 a.C.) – Tra tutti i beni quelli scelti in vista di se stessi sono fini. Tra questi, poi, sono belli tutti quelli che sono degni di lode. Infatti questi sono quelli da cui derivano azioni che sono degne di lode ed essi stessi sono degni di lode.

Aristotele (384-322 a.C.) – La moneta è nata per convenzione. Essa ha il nome di moneta (nomisma), perché non esiste per natura ma per legge (nomos), e dipende da noi cambiarne il valore e porla fuori corso.

Aristotele (384-322 a.C.) – «Protreptico. Esortazione alla filosofia». La felicità della vita non consiste nel possesso di grandi sostanze, quanto piuttosto nel trovarsi in una buona condizione dell’anima. La conoscenza e il pensiero filosofico costituiscono il compito proprio dell’anima. Questa è la cosa più desiderabile per noi.

Aristotele (384-322 a.C.) – La natura dell’equità è proprio quella di correggere la legge laddove essa, a causa della sua formulazione universale, è difettosa. Ciò che è giusto e ciò che è equo sono la stessa cosa e, pur costituendo entrambe realtà eccellenti, l’equità è superiore.

Aristotele (384-322 a.C.) – Chi è davvero virtuoso sopporta in modo estremamente dignitoso le vicende della sorte, in ogni occasione. In lui risplende il bello morale se è capace di sopportare molte e grandi sventure con animo sereno, non perché è insensibile ma perché è nobile e fiero. Mai potrà diventare misero, incostante e volubile, chi è felice.

Aristotele (384-322 a.C.) – Conoscere se stessi è la cosa più difficile e non è possibile conoscersi senza un altro che ci sia amico. Dunque l’individuo autosufficiente avrà bisogno dell’amicizia per conoscere se stesso.

Aristotele (384-322 a.C.) – Il vivere è desiderabile, aver consapevolezza di sentire o di pensare significa aver consapevolezza di esistere. allo stesso modo è desiderabile e si deve sentire insieme anche l’esistenza dell’amico, condividendo ragionamenti e pensieri. L’individuo moralmente retto è disposto verso gli amici come si comporta verso se stesso e avrà bisogno di amici moralmente retti .

Franco Arminio – Un uomo che arriva in ospedale è un mondo. Curare un uomo significa prendersi cura del tutto che è in tutti. Un ospedale è un osservatorio astronomico.

Franco Arminio – Abbiamo bisogno di gente che sa fare il pane, che ama gli alberi e riconosce il vento. Oggi essere rivoluzionari significa togliere più che aggiungere, significa rallentare più che accelerare, significa dare valore al silenzio, al buio, alla luce, alla fragilità, alla dolcezza.

Nadeem Aslam – Qualcuno, da qualche parte, ha sempre bisogno di aiuto. Per questo scrivo. Se vogliono costruire un muro non possiamo fermarli. ma saremo i Frida Kahlo in piedi su quel muro, ribelli.

Margaret Atwood – Considerando gli animali in sparizione, il proliferare di fogne e di paure, l’addensarsi del mare, l’aria prossima a estinguersi, dovremmo essere gentili, dovremmo sentire l’allarme, Invece siamo contro.

Pierre Aubenque – L’uomo non richiede di essere superato ma di essere protetto, prima di tutto da se stesso. Il sovrumano è a un passo dal disumano.

Wystan Hugh Auden (1907-1973) – Udii un innamorato che cantava: «L’amore non ha fine. Io ti amerò finché l’oceano sia ripiegato e steso ad asciugare. Io tengo stretto fra le braccia il Fiore delle Età, e il primo amore al mondo».

Aulo Gellio (125-180) – Humanitas è paidéia. Coloro che con sincerità aspirano ad esse, sono di gran lunga i più umani (“vel maxime humanissimi).

Paul Auster – Ciascun libro è un’immagine di solitudine, le sue parole rappresentano molti mesi, se non anni, della solitudine di un individuo. Ogni parola che leggiamo in un libro potremmo dire che siamo di fronte a una particella di quella solitudine.

Paul Auster – Un giorno c’è la vita. Poi, d’improvviso, capita la morte. Come dire: la vita si interrompe. E può interrompersi in qualunque momento.

Stefano G. Azzarà – Domenico Losurdo (1941-2018), in memoriam.