Jeanne Hersch (1910-2000) – Perché ci sia senso, occorre che ci sia un’intenzione, un movimento di libertà, orientato su un valore, su qualcosa che non è, ma che merita di essere.

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                  • L’uomo è una creatura incarnata e non può fare nulla di reale, né essere reale, se non incarnando. I suoi sogni reclamano dei gesti, le sue volontà degli atti.

«Ero sconcertata dal fatto di non poter abbracciare l’infinito. Mi dissi: se non posso comprendere il cielo, rappresentarlo, disegnarlo, bisogna almeno che lo immagini. Allora, di sera, nel mio letto, decisi di partire con l’immaginazione per un viaggio dentro le stelle e di vedere cosa succedeva. C’erano però sempre nuove stelle – ed ecco ciò che successe: sentii la mia scatola cranica. Fu un modo di essere riportata a me stessa, al mio essere limitato, e questa esperienza è stata probabilmente importante più tardi, quando scoprii e riconobbi in Jaspers la nozione del limite (Grenze), arrivando a fondare il mio senso della  ondizione umana sulla finitezza».

Jeanne Hersch, Rischiarare l’oscuro, trad. it., Dalai Editore, Milano 2006, p. 46.

 

«Perché la libertà fa della condizione umana qualcosa di unico, che merita di essere amata più di ogni altra cosa. Noi non assomigliamo agli altri esseri della natura, che vengono semplicemente spinti dall’esterno, prigionieri del sistema delle cause e degli effetti. Tutto ciò che è causa ed effetto, in sé, è privo di senso. Perché ci sia senso, occorre che ci sia un’intenzione, un movimento di libertà, orientato su un valore, su qualcosa che non è, ma che merita di essere» (Ibidem, p. 78).

«Non vedo perché l’uomo, in quanto finito, non avrebbe a che fare con l’infi nito. Ciò che è inumano, sotto il pretesto di essere finiti, è di riportare tutto a qualche cosa di finito e di pretendere di esserne i padroni, come se fossimo Dio. O ancora, sotto il pretesto di raggiungere l’infinito, di volatilizzarsi nell’indeterminato, ciò che rappresenta allora il cattivo infinito, di uninfinito che equivale al nulla. Tra il nulla e l’essere dobbiamo divenire e far essere» (Ibidem, p. 84).

 

«L’anima senza corpo non è più l’anima, e il corpo senza anima non è più il corpo, poiché è l’incarnazione da compiere che dona a essi realtà. L’uomo è una creatura incarnata e non può fare nulla di reale, né essere reale, se non incarnando. I suoi sogni reclamano dei gesti, le sue volontà degli atti»

Jeanne Hersch, Essere e forma, trad. it., Bruno Mondadori, Milano 2008, p. 34

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Czesław Miłosz (1911-2004) – Bisogna evitare la compagnia delle persone che glorificano il nulla. Non è ammesso lasciarsi dominare dalla disperazione a causa dei nostri sbagli, perché il passato non è chiuso e riceve il suo senso dalle nostre azioni future.

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In copertina: Philipp Otto Runge (1777-1810), Papaveri.
«È questo nell’uomo il processo di creazione, in grado di portare il lettore a pensare come un filosofo».
J. Hersch, Storia della filosofia come stupore.
 
«Perché ci sia senso, occorre che ci sia un’intenzione, un movimento di libertà, orientato su un valore, su qualcosa che non è, ma che merita di essere».
J. Hersch, Rischiarare l’oscuro.
Che cosa ho imparato da Jeanne Hersch?

Che la ragione è un grande dono divino e che bisogna credere che è capace di conoscere il mondo.

Che si sono sbagliati questi, che non si fidavano della ragione, elencando da che cosa essa dipende: dalla lotta delle classi, dal libido, dalla volontà di potenza.

Che dovremmo essere consapevoli che siamo chiusi nel cerchio delle proprie sensazioni, ma non per ridurre la realtà ai sogni e alle fantasie della nostra mente.

Che la veracità testimonia la libertà e che dalla menzogna si riconosce la schiavitù.

Che l’atteggiamento giusto nei confronti della realtà è il rispetto, e allora bisogna evitare la compagnia delle persone che umiliano la realtà con il loro sarcasmo e glorificano il nulla.

Che anche se ci accusassero dell’arroganza, nella vita intellettuale bisogna seguire la regola di una stretta precisa gerarchia.

Che gli intellettuali del ventesimo secolo erano dipendenti del “baratin”, cioè della loquacità irresponsabili.

Che nella gerarchia dell’agire umano l’arte è superiore della filosofia, ma la cattiva filosofia può danneggiare l’arte.

Che esistono le verità oggettive, che vuol dire che da due definizioni contradette una è vera e altra falsa, con l’eccezione di certi casi quando la contradizione è giustificata.

Che indipendentemente dalle confessioni religiose dovremmo conservare una “fede filosofica”, cioè la fede in trascendenza, come un tratto essenziale della nostra umanità.

Che il tempo esclude e condanna ad essere dimenticati soltanto queste opere delle nostre mani e delle nostre menti, che si rivelano inutili nella costruzione, secolo dopo secolo, del grande edificio della civiltà.

Che nella propria vita non è ammesso lasciarsi dominare dalla disperazione a causa dei nostri sbagli e peccati, perché il passato non è chiuso e riceve il suo senso dalle nostre azioni future.

Risvolto di copertina

«Non ho alcuna esitazione nell’affermare che Czesław Miłosz è uno dei più grandi poeti del nostro tempo e forse il più grande» scriveva qualche anno fa un altro poeta, Iosif Brodskij. Poi giunse, nel 1980, il premio Nobel – e molti lettori in tutto il mondo cominciarono a scoprire l’opera complessa e intensa di questo scrittore, che da anni si trovava nella paradossale condizione di essere circondato da persone che non leggevano la sua lingua, mentre i suoi libri erano proibiti a coloro che la leggevano. Nato in Lituania nel 1911, esule dalla Polonia sin dal 1951, Miłosz «ha ricevuto quella che si potrebbe definire l’educazione standard dei paesi dell’Europa orientale, che ha incluso, fra l’altro, l’esperienza del cosiddetto Olocausto, già da lui profetizzata nelle liriche della seconda metà degli Anni Trenta». E «la sua terra, dopo essere stata devastata fisicamente, gli venne sottratta e distrutta spiritualmente» (Brodskij). Questo poeta metafisico, in perpetua complicità con l’invisibile, è stato costretto dalla storia a vivere l’invisibile innanzitutto nella sua forma più letterale e più ossessiva: come ressa dei morti e delle cose scomparse. Il poeta è qui sempre il sopravvissuto, che si mormora un verso sobrio e terribile. «E il cuore non muore quando sembra che dovrebbe». Quei morti sono subito «lontani come l’imperatore Valentiniano, / come i condottieri dei Massageti, di cui non si sa nulla», eppure tendono a riapparire, seduti a un caffè familiare, e guardano il sopravvissuto, «scoppiando a ridere». Che il passato sia connesso a una devastazione totale dà alla memoria, in Miłosz, una dimensione di conquista dell’immagine sul fondo del vuoto. Per questo ogni oggetto, ogni nome, ogni albero da lui nominato hanno una tale evidenza, lacerata ed estatica. Essi si pongono tutti vicino a quella «frontiera mobile / Oltre la quale colore e suono si compiono / E sono congiunte le cose di questa terra». Quella frontiera ci separa da una terra visionaria: Blake e Swedenborg ne hanno dato notizia, e la loro voce risuona in Miłosz. Nel suo verso spesso vibrano insieme una «vastità cosmica della visione» (per lui il primo criterio della grande poesia) e la pura attenzione, insegnata da Simone Weil. Allora, sottintesi tutti i naufragi, il poeta torna a essere «uno dei tanti / Mercanti e artigiani dell’Impero del Giappone / Che componevano versi sui ciliegi in fiore, / I crisantemi e la luna piena».



 

Victor Hugo, Il castello di Vianden visto attraverso una ragnatela. Casa di Victor Hugo, Parigi.

«Questo libro fu scritto a Parigi nel 1951-1952, cioè in un periodo in cui gli intellettuali francesi, nella loro maggioranza, risentivano la dipendenza del loro Paese dall’aiuto americano e riponevano le loro speranze in un mondo nuovo all’Est, governato da un leader di incomparabile saggezza e virtù – Stalin». Così Miłosz, con delicato sarcasmo, ha descritto, nella premessa all’edizione italiana, la situazione in cui nacque e apparve per la prima volta La mente prigioniera (1953). Ma al lettore spetta di riconoscere che cosa è questo libro oggi: il libro che una volta per tutte, prima che il dissenso russo potesse manifestarsi, prima di Solženicyn, di Sinjavskij, di Zinov’ev, disse ciò che di essenziale vi è da dire sul sovietismo – e in particolare su quel colossale fenomeno di viltà dello spirito e cronico asservimento che ha contrassegnato il rapporto di milioni di intellettuali con il sovietismo stesso. A differenza di tanti dissidenti russi, Miłosz parla con una terribile pacatezza: troppo cupa è la vicenda che ha vissuto perché la sua voce possa alterarsi. Ed è la voce, lo si sente a ogni pagina, di un grande scrittore, di un abitante di quella vecchia, civilissima Europa dei popoli baltici, che furono «calpestati dall’elefante della Storia» senza che l’Occidente quasi se ne accorgesse. Questo libro non è un saggio, non è un racconto, non è un libro di memorie: è la dimostrazione inconfutabile, trasparente, di che cosa voglia dire nella vita di ogni giorno, per un numero sterminato di persone, l’obbedienza al Metodo, nome che qui designa il marxismo-leninismo, quella singolare dottrina che è «in grado di trasmettere per via organica una ‘visione del mondo’», come le pillole di Murti-Bing immaginate dal genio visionario di Witkiewics. Se fosse una qualsiasi posizione filosofica, tale dottrina sarebbe di una pochezza difficilmente uguagliabile. Ma esso è ben di più: un grandioso artificio che riesce davvero a «cambiare la vita»: il Metodo, una volta che stringe un mondo con le «tenaglie della dialettica», permette a chiunque di sorridere con superiore indulgenza di fronte a qualsiasi pensiero, invita dolcemente a sorvegliare e denunciare gli altri, insegna inebrianti misture di vero e di falso, concede la gioia di sentirsi al centro della corrente della storia e offre strumenti maneggevoli per far fuori i propri nemici. Alle devastazioni che il Metodo provoca nei singoli, alle prodigiose trasformazioni che esso produce nelle loro vite è dedicata la seconda parte del libro di Miłosz: qui egli traccia una sequenza di profili esemplari, carichi di intensità romanzesca – e costringe ogni lettore a percepire che cosa sia stata, in tutti i suoi passaggi, la sorte crudele di chi ha visto susseguirsi, sulla propria terra, il furioso orrore dei nazisti e la vischiosa oppressione dei sovietici. La rivolta di Varsavia, con i nazisti che uccidono e i sovietici che osservano compiaciuti dall’altra sponda della Vistola, è in certo modo l’esperienza simbolica di tutto il nostro secolo. Miłosz, che a essa è dolorosamente sopravvissuto, ha saputo trasmetterla in queste pagine a noi, eternamente sprovveduti occidentali, lasciando parlare i fatti e le fisionomie, come solo un poeta può fare.



 

Nei primi anni Ottanta, appena insignito del Nobel, Czesław Miłosz fu chiamato dall’Università di Har­vard a presentare, in sei lezioni, le sue idee sulla po­e­sia. E della poesia decise di privilegiare la funzione ai suoi occhi più importante, vale a dire la mi­ra­colosa capa­cità di offrire una testimonianza sul­l’epoca a cui ap­partiene: «non ho dubbi» afferma «che i po­steri ci leg­geranno nel tentativo di com­pren­dere che cosa è stato il Novecento, proprio co­me noi ap­prendiamo molto sull’Ottocento grazie al­le poesie di Rimbaud e alle prose di Flaubert». Ma quale testimonianza del No­ve­cento offre la poesia? Il «tono minore», il dub­bio, l’a­ma­rezza, la cupezza che paiono con­trad­di­stin­guerla derivano, certo, dal­la fragilità «di tutto ciò che chia­miamo civiltà o cul­tura», dal pre­sagio che quanto ci circonda «non è più garantito», e potrebbe scompa­rire. Resta nondimeno una via di salvezza: guardan­do al secolo dalla prospettiva di un’«altra Europa» ed eleggendo a guide Oscar Milosz e Simone Weil, Miłosz ci in­tro­duce infatti a una diversa con­cezione della poesia, quel­la che ne fa un «in­­se­gui­men­to ap­passionato del Reale» – giacché solo nel mai ap­paga­to desiderio di mimesi, nella fedeltà al par­ti­cola­re, nel «senso della gerarchia» delle cose sta «la possi­bilità di so­prav­vivere a periodi poco propizi».



 

Tra l’inverno del 1955 e la primavera del 1956 Czesław Miłosz dà corpo alla sua originale concezione della poesia in una vera e propria sfida letteraria: un grande poema che, eludendo le cornici di genere e arricchendosi di elementi prosaici o colloquiali, mescolando citazioni eterogenee, imitazioni letterarie, valutazioni critiche ed e­nun­ciati filosofici, delinea un vasto affresco storico-culturale del Novecento polacco, tassello imprescindibile della storia europea. Un affresco che si compone di quattro parti, evocative di altrettanti scenari: il mondo della belle époque nella Cracovia di inizio secolo; la vita politica e artistica di Varsavia tra le due guerre, con ampie digressioni sui poeti del tempo; le devastazioni della seconda guerra mondiale e gli orrori dell’occupazione nazista, con la ri­vendicazione di una poesia capace di giudizio etico; la Natura e in particolare l’am­bien­te degli Stati Uniti, in cui Miłosz, dopo a­ver contemplato l’abisso in cui sono precipitate le culture europee, individua la dimensione ideale per trovare serenità ed e­quilibrio, senza peraltro sottrarsi al dovere di condividere con i fratelli polacchi le questioni cruciali del XX secolo. Il Trattato poetico ha la forza espressiva di un grande romanzo storico, l’into­na­zio­ne nostalgica di un poema sul tempo perduto, il suono straziante di un requiem in morte di un’epoca, l’accento pacato di u­na meditazione sulla storia, sul­l’arte, sulla coscienza individuale. E anche le Note del­l’Autore che chiudono il vo­lume si rivela­no una splendida creazione letteraria: un mosaico di schizzi e ritratti in miniatura che, come per magia, ricreano il mondo di una ormai lontana Europa.