Alessandro Dignös – Il saggio Per una filosofia della potenzialità ontologica di Alessandro Monchietto. Un’esortazione alla «defatalizzazione» del mondo attuale sul fondamento di un’ontologia della «possibilità»

Alessandro Dignös04 Monchietto

Alessandro Monchietto
Per una filosofia della potenzialità ontologica
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Alessandro Dignös

Il saggio Per una filosofia della potenzialità ontologica

di Alessandro Monchietto

Un’esortazione alla «defatalizzazione» del mondo attuale
sul fondamento di un’ontologia della «possibilità»

Senso comune e filosofia – si sente dire – viaggiano su binari paralleli, che quasi mai, se non per errore, arrivano ad intersecarsi. Che quest’asserzione non raffiguri uno stato di cose, ma una delle tante opinioni correnti, è quanto Alessandro Monchietto, con il suo saggio Per una filosofia della potenzialità ontologica, si propone di far emergere. In questo breve scritto, il giovane filosofo mette in evidenza come sia il senso comune sia la filosofia degli ultimi decenni si reggano, a ben vedere, sul medesimo principio assurto a dogma, e cioè sull’idea che il mondo attuale, nelle sue strutture portanti – economica, politica, sociale, culturale –, costituisca un orizzonte immodificabile e intrascendibile. È questa la rappresentazione della realtà che generalmente orienta il pensiero e la vita tanto dell’“uomo comune” quanto dell’“uomo di cultura” a partire dagli ultimi anni dello scorso millennio.

Contrariamente a ciò che si è indotti a credere, la condizione dell’uomo di oggi non appare segnata dalla “fine delle ideologie”, bensì dal dominio assoluto di un’unica grande ideologia, secondo cui il mondo attuale rappresenta una sorta di compimento di un processo storico plurimillenario. Secondo questa “narrazione”, mentre le società del passato erano caratterizzate dal dominio di miti, ideologie e modelli di pensiero infondati, destinati dunque a crollare col passare delle epoche, il mondo contemporaneo costituisce un’eccezione, poiché riproduce delle dinamiche e delle strutture che appaiono, per molti aspetti, connaturate nella stessa realtà. In considerazione di ciò, due sono gli atteggiamenti che è possibile assumere di fronte al mondo: accettare di buongrado lo stato di cose presente, interpretato come una meta verso cui l’umanità è da sempre in cammino; denunciarne le contraddizioni e gli orrori, tenendo però a mente l’impossibilità di qualsiasi alternativa ad esso.

 

Monchietto osserva come il ruolo esercitato dalla filosofia nella costruzione di quest’ideologia sia stato decisivo. A partire dagli anni Settanta, la filosofia occidentale, tanto nella sua declinazione “postmoderna” quanto nella sua variante “analitica”, ha progressivamente abbandonato la propria funzione critico-costruttiva per approdare all’idea che il mondo sia essenzialmente intrasformabile, ragione per cui può soltanto essere descritto, interpretato o, tutt’al più, stigmatizzato e rifiutato. La filosofia ha finito così per rinunciare a trovare una risposta ai problemi fondamentali del proprio tempo, rassegnandosi ad accettare la realtà così com’è. È questa la concezione della filosofia che domina il panorama culturale degli ultimi decenni. Tutte le correnti di pensiero dominanti, per quanto possano apparire differenti, si caratterizzano, per Monchietto, come vere e proprie «filosofie dell’impotenza»: esse, infatti, predicano egualmente l’immodificabilità del mondo, legittimando in questo modo la rinuncia alla critica volta alla trasformazione dell’esistente. E come spiegano il fatto che, per molto tempo, il mondo sia stato considerato trasformabile dalla prassi umana? Secondo un gran numero di pensatori attuali, quest’idea non è che una delle molte “illusioni” di cui l’umanità è stata vittima e dalla quale ha saputo affrancarsi solo al prezzo di grandi sofferenze. Chiunque si ostini ad intendere il mondo come qualcosa di trasformabile, persevera dunque nel diffondere vane illusioni, mentendo sulla vera “natura” della realtà. In tal modo, afferma l’autore, la filosofia, da esercizio del dubbio e critica dell’esistente, si riduce alla legittimazione dogmatica del presente, che viene «trasfigurato ideologicamente in condizione “naturale ed eterna” dell’esistenza umana» (p. 35).

Questa Weltanschauung necessitaristica e fatalistica ha come naturali conseguenze il venir meno del pensiero critico, l’atrofizzazione del senso di ingiustizia e l’avvento di un clima dominato da sottomissione e indifferenza. «Ci si adatta all’ingiustizia. Si perde l’abitudine ad indignarsi. E ci si inibisce a priori la possibilità di cambiare lo stato di cose presente. Di fatto, tutti quanti si piegano perché nessuno crede più alla possibilità di un’alternativa; la vita sociale viene oramai condotta esclusivamente nella prospettiva della fatalità» (p. 38). «La disoccupazione, la mortalità infantile, la povertà sono oggi trattate come il risultato di forze impersonali che agiscono ad un livello globale, e contro cui non si può fare nulla; i mali che affliggono la nostra società e il nostro tempo ci sembrano un destino» (pp. 41-42). E così, «di fronte ad eventi percepiti come naturali, inevitabili, fatali, l’inerzia, la rassegnazione e l’apatia divengono gli unici atteggiamenti ragionevoli» (p. 43).

Ora, com’è possibile, per Monchietto, ovviare a tale situazione e scardinare questa rappresentazione della realtà? Che fare affinché la filosofia abbandoni ogni apologetica dell’esistente e si riponga sulla “retta via” del dubbio e della critica trasformatrice? Ciò che si deve fare, segnala il filosofo, è cambiare la propria «immagine del mondo» (Weltbild), ovvero l’idea che ognuno si fa del mondo. «Le immagini del mondo», infatti, «perimetrano un orizzonte di possibilità» (p. 42), rappresentano cioè ciò «che spiega e organizza l’esistente, che seleziona e delimita i confini di ciò che rientra nel nostro raggio d’azione, di ciò che si può modificare e di ciò che, viceversa, assume i tratti della fatalità» (p. 43). Quanto più si crea una rappresentazione del mondo le cui strutture fondamentali sono pensate come elementi su cui non è possibile esercitare alcuna forma di controllo, tanto più si diviene vittime e schiavi di tale autoinganno. Ciò che si deve fare è dunque compiere un lavoro su se stessi al fine di modificare la propria rappresentazione e la propria percezione del mondo. Solo liberandosi dall’illusione che il mondo attuale sia intrasformabile e intrascendibile diviene possibile recuperare la dimensione critico-costruttiva che definisce ogni autentica filosofia e risvegliare negli uomini il desiderio di un mondo migliore. «La “speranza”», rileva il filosofo, «non è un principio bensì un effetto: fino a quando il mondo sembrerà fatale, essa potrà giocare un ruolo esclusivamente marginale» (p. 44), rivelandosi incapace di sollecitare gli uomini ad agire e a cambiare le loro sorti.

Il compito che la filosofia è oggi chiamata a svolgere, per Monchietto, è dunque «defatalizzare il mondo, liberandosi […] di ogni prospettiva fatalistica e necessitaristica» (ivi). Per riuscire in tale impresa, essa non può (più) pensare la storia in senso deterministico e finalistico, come se fosse un movimento che si protende meccanicamente verso un «fine»; si tratta, invece, di elaborare una filosofia della storia che poggi su presupposti affatto diversi: che sia cioè «costruita non per “telos”, non per “compimento” ma […] per “alternative”, succedersi di alternative, succedersi di opportunità e di occasioni che al tempo stesso aprono e chiudono nuove possibilità. Una Geschichtsphilosophie senza una trazione anteriore, senza un’attrazione del fine, […] dove vi sia spazio per la contingenza e per un orizzonte di possibilità» (p. 45). In breve, una filosofia della storia che rinunci all’illusione (o mito) del «progresso», «senza rinunciare al progetto dell’emancipazione dell’umanità» (ivi).

In generale, ciò che si deve fare è ripensare la realtà e la storia non più sulla base di un’ontologia della «necessità» – qual è quella che domina il senso comune e la cultura di oggi –, bensì di un’ontologia della «possibilità». Sostituendo ad un’ontologia intesa come «presa d’atto di ciò che c’è» un’ontologia intesa come «mobilitazione di ciò che è attuale al fine di ricondurre l’attualità alla possibilità» (p. 46), la realtà attuale non appare più come una «necessità» ineluttabile, bensì come uno dei possibili modi d’essere del mondo, come una delle possibili configurazioni che il reale può assumere. Una concezione siffatta costringe così a pensare in modo radicalmente diverso la società umana, portando l’attenzione non più solo su come essa sia, ma anche su come sarebbe potuta essere e, dunque, su come potrebbe essere e diventare. In conclusione, è solo concependo il mondo come «possibilità» che diviene possibile defatalizzare la realtà e indicare un orizzonte di senso alla prassi umana, consentendole di riaprire le porte a un avvenire che non sia la mera dilatazione del presente.
Il saggio di Monchietto mira a rinvenire alcuni strumenti che consentano alla filosofia di recuperare il proprio ruolo di “bussola” e “guida” nel difficile e spinoso sentiero che ha come meta la radicale trasformazione dell’esistente e l’emancipazione del genere umano. L’autore mette in luce come il raggiungimento di questo obiettivo sia possibile solo dopo aver cambiato la propria immagine del mondo, ovvero solo dopo aver messo in discussione la rappresentazione della realtà che, per effetto dei condizionamenti ideologici vigenti, è incisa nella coscienza della stragrande maggioranza degli individui. Facendo tesoro della riflessione e delle indicazioni di alcuni tra i maggiori pensatori degli ultimi secoli – come Fichte, Hegel, Marx, Sorel e Heidegger –, la proposta filosofica di Monchietto costituisce un’esortazione a ripensare la realtà attuale – e, più in generale, lo statuto del mondo – sul fondamento di una diversa visione dell’«essere», che permetta di scorgere «quelle possibilità che nella storia sono rimaste inesplicate» (p. 46) e che indichi all’uomo la via verso nuovi mondi possibili.

Alessandro Dignös

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M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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