Salvatore Antonio Bravo – La società dei cacciatori. L’atomismo sociale e la deriva individualista dei nostri giorni, trovano la loro sostanza in un’immagine esplicativa della condizione umana postmoderna: il cacciatore.

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Z. Bauman,  Modus vivendi

La società dei cacciatori

L’atomismo sociale e la deriva individualista dei nostri giorni, trovano la loro sostanza in un’immagine esplicativa della condizione umana postmoderna: il cacciatore.
L’educazione all’imprenditorialità postulato e dogma della contemporaneità significa pratica della caccia, come in ogni attività venatoria i trofei sono esibiti al fine muscolare di intimorire e terrorizzare ogni altro cacciatore. L’esibizione avviene nella rete, dove persone e cose sono esposte dai momentanei cacciatori quali trofei che ritagliano una temporalità in cui sono stati cacciatori e non prede. L’immagine di Bauman si presta ad una pluralità di significati: in un pianeta globale nel quale la linea di demarcazione è tra vite da cacciatori e vite di scarto, in cui la paura liquida diviene vergogna di essere preda, il cacciatore esibisce il trofeo per mostrare di non essere stato predato, in tal modo mostra i denti e si rassicura. Si assiste all’ontologia della caccia: «La caccia è un’occupazione a tempo pieno, consuma una gran quantità di attenzione e di energie, non lascia quasi tempo per qualsiasi altra cosa; e perciò impedisce di rendersi conto che si tratta di un compito senza fine, e rinvia alle calende greche il momento in cui guardare in faccia il fatto che il compito non potrà mai essere portato a termine».[1] La deregulation in ogni campo – dall’economico alle relazioni – espone ciascuno di noi sull’abisso; in ogni momento il soggetto da ‘soggetto’ può divenire ‘oggetto’, per cui il timore di essere diventato vita di scarto, rifiuto urbano, spinge a mostrare che si è nella linea dei vincenti, dei globalizzanti. È la nuova vergogna della società dell’impresa: se non predi, sei colpevole; sei non ti trasformi in pescecane, fai parte delle vite di scarto. I perdenti sono e divengono il problema, sono le nuove streghe planetarie da cui difendersi, sono la causa di ogni male, per cui – se ci si trova dalla parte dei vincenti – si devono erigere palizzate fisiche e mentali contro le orde che minano il privilegio del vincente secondo il quale «la natura vuole che si lotti, si vinca o si perda»: «Il nuovo e sempre più diffuso folklore urbano assegna alle vittime dell’esclusione planetaria il ruolo dei “cattivi”, raccogliendo, combinando e riciclando la tradizione delle storie terrificanti, costantemente e sempre più largamente richieste, oggi come in passato, per effetto delle insicurezze della vita in città».[2]
Ogni possibilità è esclusa dal pensiero, per cui ci si muove per predare qualsiasi cosa: un’immagine da postare, un corpo da consumare, una proprietà da spogliare ad altri, una terra da saccheggiare. Tutto deve diventare trofeo da mostrare per “mostrare” che non si è caduti nell’abisso delle vite di scarto. Si è colpevoli se si perde, se il risultato – a prescindere dal mezzo – non è stato raggiunto, per cui ogni mezzo è moralmente legittimato dalle pressioni indebite alla violenza materiale. La sorpresa è verificare che nei mezzi di informazione ci si stupisca della violenza psicologica o fisica benché la struttura ideologica –nella quale si naviga sempre a vista –, sia ontologicamente violenta. Hobbes potrebbe assistere allo stato di natura in diretta, ovunque alberga il cacciatore che in modo ossessivo passa da un obiettivo all’altro. La capacità simbolica che umanizza, il pensiero che chiede il senso e riconfigura il suo presente all’interno dell’esperienza umana che si estende dal passato al futuro è censurata dall’azione continua, dal muoversi del predatore uomo all’interno delle giungle in cui in ogni attimo può divenire preda: è l’unica vergogna ammessa. Bauman utilizza un’immagine semplice e diretta, ovvero il gioco della sedia: «Il progresso è diventato una sorta di “gioco delle sedie” senza fine e senza sosta, in cui un momento di distrazione si traduce in sconfitta irreversibile ed esclusione irrevocabile».[3] In qualsiasi momento ci può essere sottratto ciò che si ha e la vergogna non risiede nel predatore ma nel predato, il quale ha meritato d’essere stato predato per cui nessuna solidarietà, nessun aiuto di stato o istituzionale; la colpa è pagata con l’esposizione mediatica. Il fallito, lo scarto umano messo alla gogna e umiliato, introietta la vergogna per cui non ha la forza mentale di mettere in atto quei processi mentali per difendersi, per capire, per trasformare il fatto in esperienza condivisa e di rielaborazione di pensiero.
Siamo chiamati a rompere il ciclo che nutre il fascismo finanziario. Riportare il concreto nell’astratto per la prassi trasformatrice. Il pensiero di Hegel, Marx e Gramsci ci devono indurre a trasformare il fato dei colpevoli in un’esperienza pensata, immanente per liberarci dei fantasmi a cui non sappiamo dare ‘il nome’ e dunque depredano le esistenze. Il conflitto da interiore dev’essere verticalizzato, ma ancor più necessita di una grammatica della comprensione che tarda ad apparire poiché anche gli intellettuali sono i nuovi cacciatori vassalli che depredano le coscienze in nome dei neofeudatari delle finanze. Non possiamo semplicemente scandalizzarci ma si deve mettere in atto una prassi trasformatrice per porre le condizioni per una Koinè senza la quale potremmo dichiarare persa la condizione umana al cui posto il cacciatore-imprenditore-banchiere come archetipo del nuovo modello umano, nuova idea platonica, potrebbe divenire il demiurgo di nuovi ed infiniti micro-cacciatori che si spingono vicendevolmente sull’abisso delle vite di scarto. I profughi che non vogliamo guardare sono la carne del mondo, ci mostrano il mondo nella sua verità. Sono bersaglio delle violenze dei cacciatori e delle prede costrette a pura sopravvivenza e pertanto portatrici di ogni violenza e redenzione per tutti: «I profughi si trovano in mezzo ad un fuoco incrociato; più esattamente in un doppio vincolo. Da un lato sono espulsi con la forza o indotti col terrore a fuggire dal loro paese d’origine, ma dall’altro si vedono rifiutare l’ingresso in qualsiasi altro paese».[4]

Salvatore Antonio Bravo

[1] Z. Bauman, Modus vivendi. Inferno e utopia nel mondo liquido, Laterza, Bari, 2017, p. 122.

[2] Ibidem, p. 48.

[3] Ibidem pp. 10-11

[4] Ibidem, p. 49


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Z. Bauman, Modus vivendi. Inferno e utopia nel mondo liquido, Laterza, Bari, 2017

Risvolto di copertina

«Non sono rimasti molti terreni solidi su cui gli individui possano edificare le loro speranze di salvezza. Non possiamo più sperare seriamente di rendere il mondo un posto migliore in cui vivere; non possiamo neppure rendere veramente sicuro quel posto migliore nel mondo che, forse, siamo riusciti a ritagliare per noi stessi. L’insicurezza c’è e resterà, qualunque cosa accada».
Rendere l’incertezza meno terribile, la felicità più permanente. Ecco la grande utopia inseguita dagli abitanti del mondo liquido. Zygmunt Bauman rapisce la nostra attenzione e affronta la paura più inconfessabile: che futuro ci aspetta?

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