Christopher Lasch  – Il mercato tende a universalizzare se stesso: vorrebbe dunque assorbire ogni istituzione, ente, associazione che operi secondo principi antitetici ai suoi. Per il mercato ogni atto deve divenire lucrativo. Se progettiamo e insieme costruiamo una nuova economia senza fini di lucro, potremo sperimentare e vivere una nuova dimensione comunitaria con al centro l’essere umano consapevole della propria umanità non mercificata e resa schiava del consumo.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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“Produrre e lobotomizzare” sono gli attributi della sostanza (quantità) del capitalismo. Ad esso popoli e vite sono sacrificati con un olocausto quotidiano. La guerra, a cui stiamo assistendo, è un’estensione dei processi di valorizzazione a livello reale e simbolico. La produzione delle armi incorpora il lavoro vivo e lo traduce in morte. Tale produzione è anche una visione del mondo, è “antiumanesimo militante”.

Salvatore Bravo

Produrre e lobomotizzare

 

Il ciclo del capitale con i suoi processi di valorizzazione è trattato da Marx nel II Libro de Il Capitale. Nell’esposizione marxiana vi è la condanna etica ai processi di monetarizzazione del lavoro umano. La condanna assiologica è il fondamento della critica marxiana. Il capitale è ciclo improntato all’accrescimento illimitato del plusvalore nel quale gli esseri umani (i sussunti) sono cannibalizzati da tale processo e incorporati nel sistema produttivo. Il capitalismo è, quindi, una visione del mondo in cui si converte la vita in morte, è “antiumanesimo militante”.

Il lavoro vivo è trasformato in lavoro morto, ovvero in accrescimento del profitto e in allargamento delle spire del mercato. Su tutto campeggia la sola categoria di quantità: il totalitarismo della quantità condanna ogni essere umano a vendersi al capitalista; è il rapporto di forza a determinare le relazioni di dominio legalizzate dai diritti astratti che li “definiscono” eguali. La logica di dominio è inoculata nel sistema sociale fino alla sua naturalizzazione mediante l’addestramento all’astratto. Si educa a pensare senza valutare le condizioni materiali in cui il soggetto opera. La quantità è il fine che muove il capitalismo, esso deve spogliare ogni esperienza del suo contenuto soggettivo, creativo e assiologico per immetterla nel mercato e per convertirla in strumento-azione che sostiene il capitalismo. Le macchine con cui i capitalisti si pongono in competizione incorporano il lavoro muscolare e intellettuale, esse “non sono solo macchine”, perché sono l’effetto dell’incorporamento nell’acciaio dei subalterni. Sono vampiri animati dal sacrificio dei popoli. La schiavitù salariata dell’operaio come dei tecnici non è solo nel prodotto finale ma in tutto il sistema produttivo. Il capitalismo è divenuto “il sistema”, l’unico pensabile, ha lobomotizzato gli aggiogati alla macchina-sistema. “Produrre e lobomotizzare” sono gli attributi della sostanza (quantità) del capitalismo. Ad esso popoli e vite sono sacrificati con un olocausto quotidiano.

La guerra, a cui stiamo assistendo, è un’estensione dei processi di valorizzazione a livello reale e simbolico. La produzione delle armi incorpora il lavoro vivo e lo traduce in morte. Da tale processo le oligarchie traggono le eccedenze finanziarie per la competizione globale e per investire i proventi in scalate finanziarie e in nuovi prodotti da vendere sul mercato. Tutto è morte. La natura è l’immagine più vera e immediata della verità del ciclo di valorizzazione, essa è solo res extensa da riconvertire in denaro. Un intero pianeta è minacciato dalla monetarizzazione di ogni vita e di ogni elemento naturale.

Marx descrive l’incapsulamento della forza lavoro nel ciclo produttivo. Il lavoro, espressione della creatività umana e della produzione finalizzata alla soddisfazione dei bisogni primari, è reso esperienza di annullamento e di cosalizzazione del lavoratore. Il lavoratore è incastrato in automatismi che determinano la morte dell’uomo e la nascita di un ibrido: l’uomo-macchina. Il trasumanesimo non è che il punto finale di tale processo di disumanizazione, il salariato è valutato in rapporto alle macchine, è una macchina tra le macchine, in disperata competizione con esse:

«Dalla parte dell’operaio: la messa in opera produttiva della sua forza lavorativa non è possibile se non quando, dopo essere stata venduta, essa viene posta in rapporto con i mezzi di produzione. Essa esiste prima d’essere venduta distinta dai mezzi di produzione, dalle condizioni oggettive della sua messa in opera. Così isolata non può essere utilizzata direttamente nella produzione di valori d’uso per il suo proprietario, né nella produzione di merci, che gli darebbero di che campare con la loro vendita. Ma allorchè tramite la sua vendita essa è posta in rapporto con i mezzi di produzione, diviene, al pari dei mezzi di produzione, una parte costitutiva del capitale produttivo del suo acquirente».[1]

 

Il fuco del capitale

Il capitalista è anch’egli una funzione del sistema, che con le sue leggi e con il suo gigantismo globale diviene “assoluto”, ovvero si autonomizza con la smisurata espansione. In tale sistema, in cui tutto dev’essere convertito in produzione, il capitalista è improduttivo, è il fuco del sistema, egli prospera senza produrre, si è installato all’interno dell’alveare-industria. Egli è l’addetto-funzione alla compra-vendita delle anime vive per farne anime morte. Il capitalista è il Cerbero-fuco del modo di produzione capitalista, traghetta le vite dei lavoratori verso “la loro mortale usura”. Il capitalista è sterile, non produce e non crea concetti, è la tragica e pericolosa funzione che muove masse umane verso l’inferno della negazione di sé; gli aggiogati sono solo forza muscolare-intellettuale da vendere-comprare o da licenziare-distruggere:

«Per il capitalista il quale faccia lavorare altri al suo posto, la compra-vendita diviene una funzione fondamentale. Dato che egli si appropria il prodotto di molti in una misura sociale più grande, deve anche venderlo in tale misura e convertirlo poi di nuovo da denaro in elementi di produzione. In ogni caso il tempo di compra-vendita non dà luogo a valore alcuno. […] Tuttavia, senza approfondire, oltre, sin dall’inizio è evidente: qualora per mezzo della divisione del lavoro una funzione che è in se stessa improduttiva, ma è un momento necessario della riproduzione, viene trasformata da compito secondario di molti in compito esclusivo di pochi, viene trasformata nel loro affare particolare, non muta tuttavia il carattere della funzione stessa».[2]

 

I fuchi-padroni del capitale gestiscono il sistema produttivo e la politica. Gli improduttivi sono idrovore di plusvalore che come re Mida convertono ciò che toccano in oro, ma l’immensa ricchezza prodotta uccide la vita e affama corpi e spirito, perché il capitale nega la relazione comunitaria dell’economia, l’unica in grado di umanizzare, la vuota di ogni componente dell’umanità. I fuchi-padroni sono i vampiri dell’umanità. Per essi gli esseri umani sono solo numeri; si estraggono da essi numeri da vendere alle aziende per organizzare il consumo. Si è ad un un passo dalla riproduzione delle medesime logiche di funzionamento già sperimentate nei campi concentrazionari nel Novecento. Per i fuchi-padroni tutto è numero, niente è vivo.

 

Svelare il “feticcio capitale”

Il lavoratore è così cosalizzato, è solo quantità muscolare attraverso cui il processo di valorizazione si decuplica. Similmente al processo di trasustanzazione, dalla sostanza uomo – attraverso un processo apparentemente oscuro e velato da parole e pubbliche liturgie – si ottiene per “merito miracoloso” il prodigio (il profitto). Il processo va riportato alla sua verità storica e reale. Il capitalismo è un “feticcio”, non è la verità ultima, esso è esperienza storica posta dalle oligarchie, che i subalterni – caduti nella rete della propaganda e della violenza organizzata – hanno divinizzato. Marx, invece, dimostra che il dio capitale è umano troppo umano, e dunque, il divelamento dei meccanismi non può che liberare le vite intrappolate nell’ingannevole ordito. Il capitalismo con il salario schiavile paga al lavoratore il sufficiente per riprodurre la forza lavoro, ciò che non è pagato è il bottino del capitalista, è il “merito del Cerbero/fuco” che ha condotto le anime dei lavoratori nell’inferno del capitalismo. Il lavoratore è disumanizzato, è soltanto energia da usare secondo le leggi del mercato. L’essere umano è solo corpo, a cui si concede di usare le facoltà intellettuali che consentono al sistema di funzionare fatalmente. La morte è in questa negazione della natura sociale, creativa ed etica di ogni essere umano:

«Come abbiamo già osservato, il denaro che il capitalista paga all’operaio per l’uso della forza lavorativa non è in realtà che la forma generale di equivalente per i mezzi di sostentamento indispensabili all’operaio». [3]

 

Obbedienza

Il processo di valorizzazione non è controllato dai capitalisti, essi sono gli obbedienti esecutori delle leggi che hanno innescato e che si sono rese autonome. Il capitalismo – con suo accrescersi smisurato – imprigiona nelle sue maglie e nella sua gabbia d’acciaio gli stessi capitalisti. La rete del capitalismo per sopravvivere produce la guerra globale. Per il capitalismo e i capitalisti la guerra è un prodotto utile ad attrarre investimenti e a liberare energie monetarie accumulate. il capitale non può che volere nuove guerre di conquista dei popoli da sacrificare ai processi di accumulo. La globalizzazione del profitto è il fine aspansivo del capitalismo. Come il dio spinoziano il capitalismo non può non obbedire alle sue leggi. La libertà è solo un orpello giuridico per consentire al sistema di proliferare senza impedimenti.

Nulla deve sopravvivere, ogni sistema di produzione dev’essere annichilito, solo il capitalismo deve sopravvivere. A tale logica il capitalista deve attenersi: ecco che il Cerbero/fuco diventa il manager della vita e della morte, deve vendere il “progresso” che il capitalismo apporta con la menzogna, deve illudere per conquistare fette di mercato da cannibalizzare. Il processo non ha katechon, perché non ha fondamento metafisico e assiologico, deve mettere in atto solo la hybris:

«Quanto più acute e continue si fanno le rivoluzioni di valore, tanto più il movimento del valore resosi autonomo, automatico, agente con l’irruenza d’un processo elememtare della natura, si fa valere contro la previsione e il calcolo del singolo capitalista, tanto più l’andamento della produzione normale viene sottomesso alla speculazione anormale, tanto più grande si fa il rischio per i singoli capitali. Queste rivoluzioni di valore periodiche danno la riprova proprio di quello che, come si vorrebbe, dovrebbero confutare: il rendersi autonomo del valore in quanto capitale, condizione che esso conserva e rafferma attraverso il suo movimento». [4]

 

Qual è dunque l’essenza del capitale?

Marx è chiaro e inequivocabile nella risposta: il capitalismo è nel segno della morte. La mercificazione e la quantificazione sono gli unici processi pensabili e possibili, esse sono la morte in Terra.

Con il vivo lavoro scambiato con la morte il processo risorge, esso procede per salti quantitativi ed estensivi. Ad ogni salto l’esperienza della morte diviene sempre più incombente fino al punto, lo viviamo nel nostro tempo, da minacciare la vita nella sua interezza. La morte è parte del paradigma ideologico del capitalismo, per cui “l’uccidere” non reca scandalo, è la normalità della vita negata al tempo del capitale. L’automatismo non arretra neanche dinanzi al pericolo dell’autodistruzione del sistema-capitale. Il collasso di un pianeta non turba il capitalismo con i suoi fedeli sicari, anzi il pericolo diviene un affare potenziale da manovrare attentamente per estrarne plusvalore. Il tempo del capitalismo è inchiodato alla sola produzione di profitto:

«La materia reale del capitale investito in forza lavorativa è proprio il lavoro, la forza produttiva che si pone in movimento, che crea valore, il vivo lavoro che il capitalista ha scambiato con il lavoro morto, oggettivato, incorporandolo al proprio capitale, al quale soltanto è dovuta la trasformazione in valore autovalorizzantesi del valore che si trova nelle sue mani».[5]

La perversione del “senso” è il sostrato che dà il movimento al capitalismo. L’economia, come la sua etimologia indica (οἶκος “casa” e νόμος “legge”), è attività che consente la vita, è prassi che deve soddisfare i bisogni della comunità, in primis la famiglia. Il capitalismo muta la qualità dell’economia in crematistica (quantità senza misura) della morte. Sull’altare del profitto si sacrificano uomini e popoli. I subalterni sono sfruttati sul lavoro e nel tempo libero. La catena del capitale è invisibile, non molla mai le sue vittime, non dà loro mai pace, deve incutere inquietudine per dominare. I lavoratori sono chiamati al sacrificio perenne. A prescindere dalla classe sociale di origine tutti devono restituire al mercato ciò che “hanno guadagnato” nella forma del consumo per sopravvvire o per soddisfare desideri e voglie che il mercato ha indotto. Tutto ritorna al capitale; il saccheggio non conosce pause. I lavoratori nel tempo libero sono erosi dai desideri infiniti e dall’infelicità indotta. Essi sono macchine desideranti che con la loro abissale insoddisfazione nutrono la crematistica. Ancora una volta per poter riprendere le fila della storia è necessario smascherare il capitale nelle sue metamorfosi. La prassi non può che “passare” per la definizione del senso dell’economia e, quindi, del bene.

La politica di opposizione senza la chiarezza del fine dell’economia, non può inaugurare una “nuova stagione di lotta”. Senza il giudizio etico e la chiarezza del “senso” nulla può iniziare, si è condannati a subire il giogo del capitale.

L’economia capitalistica uccide “rubando” la gioia di vivere e il tempo di ogni singola vita, le divora mai sazio.

Nel tempo di Marx uomini, donne e bambini erano negati con lo sfruttamento lavorativo. Oggi prevalgono l’adattamento coercitivo ai desideri del mercato e l’addestramento al narcisismo che preparano ad un’esistenza di solitudine e di impotenza politica compensate dal consumo vorace. Il capitalismo somministra il consumismo alle sue vittime per “curare” il dolore, le avvelena con il male (consumismo) per destrutturarle e renderle obbedienti schiavi. La strumentalizzazione dell’essere umano assume nuove forme, ma in modo sempre eguale si scambia la vita con la morte:

«Le macchine, dando la possibilità di fare a meno della forza dei muscoli, divengono il mezzo per impiegare operai senza forza muscolare o dal fisico non ancora sviluppato, ma di membra maggiormente flessibili. Lavoro di donne e bambini, questo è stato il primo grido del capitale quando iniziò ad usare le macchine!».[6]

Il grido del capitale ha attraversato i secoli ed è giunto fino a noi. Quel grido attende una risposta che possa donare giustizia ai vivi e ai morti. Al linguaggio dell’impero grondante di fango, sudore e sangue, bisogna opporre un nuovo linguaggio, che possa aprire scenari e prospettive che riportino “l’anticapitalismo e la lotta agli sfruttamenti” nella progettualità politica. Solo in tal modo le grida di coloro che invocano giustizia saranno ascoltate. L’antiumanesimo dev’essere ribaltato in un nuovo Umanesimo, nel quale l’essere umano deve riportare la cura dove vige la violenza organizzata dell’incuria pianificata dal mercato.

[1] K. Marx, Il Capitale, Libro II, Newtin Compton Editori, Roma 2015, p. 583.

[2] Ibidem, pp. 647 648.

[3] Ibidem, p.671.

[4] Ibidem, p. 631.

[5] Ibidem, p. 709.

[6] Ibidem, Libro I, p. 293.




M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Fernanda Mazzoli – «Note sparse su un suicidio militarmente assistito». Non cerchiamo un’improbabile quiete in mezzo alla tempesta. Dobbiamo smascherare la pretesa universalità di interessi venduti come generali laddove non sono che espressione dei gruppi dominanti, e opporci al coinvolgimento sempre più massiccio dell’Europa nei principali conflitti in corso fatti per rinsaldare la vacillante egemonia degli USA. Gli interessi dei popoli non coincidono con questa operazione, né con quelli dei governi nazionali che la sostengono. Ogni ritardo in questa consapevolezza è un ulteriore opzione verso l’autodistruzione, una strada sulla quale già molti passi sono stati fatti in questi anni, sospinti da nichilismo, rassegnazione, abdicazione ad una piena ed effettiva cittadinanza in cambio di una promessa di sicurezza e benessere che proprio la spirale militare rende carta straccia.

Francisco Goya, Il sonno della ragione genera mostri.
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«Dal latte materno veniamo», una statua di Vera Omodeo che il Comune di Milano non ritiene idonea per una pubblica piazza. Ma l’allattamento è vicinanza che umanizza e ci riporta al calore che dona e soffia la vita. La maternità è pensiero accolto prima del concepimento, che frammenta le logiche mercantili con il desiderio del dono che diviene progetto di vita. Chi nutre la vita è libero, perché si dona e fonda mondi. Dare alla luce e nutrire è ciò di cui la nostra realtà necessita. Per Marìa Zambrano ciò che connota l’essere umano è l’«essere natale», la capacità di dare-donare la vita.

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Fernanda Mazzoli – J.-P. Sartre e la tragedia di Oreste nel Novecento. Una prima proposta di approfondimento rivolta a quanti – muovendo dalla lettura di «Les mouches» – siano interessati a sviluppare un dialogo per aprire un varco nell’odierna soffocante cappa culturale-politica che asfissia intelligenze e coscienze.





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Pëtr Alekseevič Kropotkin – «Libertà e bene in P.A. Kropotkin, di S. Bravo: «Ogni volta che vedrai una ingiustizia o l’avrai commessa – una iniquità nella vita, una menzogna nella scienza, o una sofferenza imposta dall’altro – rivoltati contro l’iniquità, la menzogna e l’ingiustizia. Lotta! Più sarà intensa la lotta e più sarà intensa la vita».


Salvatore Bravo

Libertà e bene in Pëtr Kropotkin

Pëtr Kropotkin nei suoi scritti ricerca il fondamento del comunismo anarchico e libertario. La politica di qualità e progettuale necessita di fondamenti, senza i quali la progettualità non può che liquefarsi in tatticismi condizionati da contingenze storiche e da “confronti armati” tra oligarchie. Il servaggio materiale e intellettuale è la “banalità del male” del tempo appiattito nella sola prospettiva finanziaria. Il profitto è la divinità malvagia e atea che tutto aliena e tutto annichilisce, ciò malgrado è oggi realtà noumenica, la si serve tacitamente senza pensarla. Il tempo del nichilismo compiuto con le sue violenze ordinarie e straordinarie è “il segno” del vuoto progettuale e della contrazione di ogni dibattito sulla definizione di “bene”.

In tale contesto – che pare non lasciare spazio alla speranza politica –, la rilettura delle opere di quegli uomini che hanno impegnato la loro vita nella prassi della ricerca della verità è una delle modalità con cui uscire dall’asfissia della gabbia d’acciaio.

Pëtr Kropotkin ha mostrato, con le sue considerazioni critiche, che il fare capitalistico è la negazione assoluta della natura umana e della natura di tutti gli esseri viventi.

Gli esseri umani e le altre specie vivono diversamente la dimensione del “bene” (proprio e comune), ma per sopravvivere alle ostilità e ai cambiamenti ambientali tutti i viventi sono poratati a mettere in atto una pratica “solidale”. Non sono certo divinità a determinare una differenza umana rispetto agli altri viventi. È la natura umana che orienta verso la consapevolezza del bene. Quest’ultimo si estrinseca nella solidarietà che coniuga individui e gruppi sociali. L’intelligenza delle specie è nel bene comune. Il vincolo solidale prevale sull’individualismo, poiché il soggettivismo non può che porre in pericolo l’esistenza dell’intera specie, che può trovarsi a subire i cambiamenti ambientali fino al pericolo dell’estinzione. L’individualismo è negato in natura, poiché non consente la vita del e del gruppo e dell’individuo. La natura ha dotato ogni vivente del vincolo solidale all’interno delle specie per proteggere l’esistenza sia di gruppo sia individuale. Tale vincolo solidale può estendersi anche oltre le singole specie.

Il dominio ha distorto il carattere naturale del “bene” per utilizzarlo allo scopo di determinare gerarchie sociali fondate sul diritto e sulla religione. Giudici e uomini di Chiesa hanno trasformato il bene in giurispudenza e spiritualità codificata al servizio dei potentati economici e sociali. Il bene trasformato in senso di colpa e in terrore punitivo nella forma dell’Inferno e delle pene carcerarie non può che essere indebolito nella sua verità fino ad essere misconosciuto. Il bene non vuole autorità né Stato. Il filosofo russo fu avverso anche alla “dittatura del proletariato” del comunismo novecentesco; l’autoritarismo non porta al bene e prassi, ma alle oligarchie che inficiano il processo di libera espressione del bene. Alla fine del processo di negazione del bene naturale mediante gli strumenti istituzionali del dominio-vassallaggio non resta che il «bene svuotato di ogni funzione libertaria e spontanea». L’immaginazione solidale, vero strumento applicativo del bene, è così fortemente ridimensionata; il soggetto gradualmente scioglie i vincoli che lo legano alle alterità per rinchiudersi in una infelice solitudine. La paura e il terrore prevalgono sulla spontanea tendenza alla realizzazione dell’individualità nella solidarietà. L’infelicità è nel carcere interiore che isola, tormenta e tortura, in quanto la natura umana è negata:

 

«Lo spirito dei bambini è debole, è facile sottometterlo attraverso il terrore, ed è ciò che essi fanno. Lo rendono timoroso, parlandogli dei tormenti dell’inferno; fanno balenare davanti ai suoi occhi le sofferenza dell’anima dannata, la vendetta d’un dio implacabile. Un momento dopo, gli parleranno degli orrori della Rivoluzione, sfrutteranno qualche eccesso dei rivoluzionari per fare di lui “un amico dell’ordine”. Il religioso l’abituerà all’idea di legge per farlo meglio obbedire a ciò che chiamerà la legge divina, e l’avvocato gli parlerà della legge divina per farlo obbedire meglio alla legge del codice[1]».

 

Il terrore organizzato mediante l’uso strumentale dello “spirito“ e della “legge” si evolve nella storia e si laicizza: il Diavolo è sostituito dalla passione carnale, l’Angelo con la coscienza. Ogni obbligo non può che mortificare e reificare la naturale e spontanea disposizione al bene. Dove vi è obbligo, il bene si trasforma in mezzo per la colpevolizzazione che conduce alla sudditanza, pertanto del bene non resta che l’ombra perversa.

Il bene non vuole la rinuncia del soggetto a se stesso, non chiede l’automutilazione sacrificale e olocaustica. Il bene è spontaneità dell’interalità dell’essere umano, che in tale prassi vive il tripudio e la gioia della sua natura. Il dominio lavora per rendere la naturale predisposizione al bene solidale una vuota parola, la quale è solo l’eco dell’autentica natura umana traviata dai sistemi sociali. Per riportare l’essere umano e la natura dei viventi al loro fondamento è necessario smascherare i camuffamenti del “Diavolo e dell’Angelo”:

«La gente colta non crede più al diavolo; ma, poiché le loro idee non sono più razionali di quelle delle nostre bambinaie, camuffano l’angelo e il diavolo sotto una terminologia scolastica, onorata con il nome di filosofia. Al posto di “diavolo”, si dice oggi “la carne, le passioni”. “L’angelo” sarà rimpiazzato dalle parole “coscienza, anima”, “riflesso del pensiero di un Dio creatore”o del “grande architetto”, come dicono i massoni. Ma le azioni degli uomini sono sempre rappresentate come l’esito della lotta tra due elementi ostili[2]».

Pëtr Kropotkin non nega i principi morali, anzi prende le distanze dai nichilisti, i quali scambiano l’uso che ne è stato fatto con la verità degli stessi. La perversione effettuata dal potere non cancella la verità universale e oggettiva del bene. Il lavoro dello spirito deve disincrostare il bene dalle sovrastrutture che ne hano inquinato e contaminato il senso. Il dominio è guerra contro il bene, poiché i vincoli solidali inficiano e ribaltano le logiche di sussunzione:

«Ma negare il principio morale perché l’hanno sfruttato la Chiesa e la Legge sarebbe tanto ragionevole quanto affermare che non ci si laverà mai, che si mangerà carne di maiale infestata dalla trichina e che non si vorrà il possesso comunale del suolo, perché il Corano prescrive di lavarsi ogni giorno, perché l’igienista Mosè vietava agli ebrei di mangiare carne di maiale, o perché la sharia (il supplemento del Corano) dice che ogni terra rimasta incolta per tre anni deve tornare alla comunità[3]».

Idola e il bene in natura

L’ispirazione divina del bene a cui hanno fatto ricorso i religiosi per individuarne la genesi ha nel suo fondo anche una sostanziale ignoranza: non riuscendo a razionalizzare il fondamento autentico del “bene” le religioni si sono rivolte al trascendente. L’osservazione scientifica delle abitudini dei viventi dimostra, invece, che il vincolo solidale ha la sua causa immanente nel bene funzionale alla sopravvivenza delle specie viventi.

Pëtr Kropotkin fu zoologo, oltre che pensatore anarchico-comunista. La documentazione raccolta sulle abitudini degli animali lo convinse del fondamento biologico del bene. La scienza – con il suo metodo di studio e di osservazione –  libera dai pregiudizi che si sono sclerotizzati nel tempo. In natura non sopravvive il più scaltro o il più forte, ogni scelta individualista conduce alla rovina la specie. Solo i vincoli di solidarietà costruiscono la «social catena biologicamente sperimentata e vincente per i suoi risultati» che consente la pienezza dell’espressione del bene. Pëtr Kropotkin fu ostile alla cultura darwiniana in campo sociale e naturale e ne dimostrò le fragilità intrinseche. Prese le diastanze anche da Rousseau, il quale identificava la causa della solidarietà in un vago sentimento universale:

“Per distinguere tra ciò che è bene e ciò che è male, i teologi mosaici, buddhisti, cristiani e musulmani hanno fatto ricorso all’ispirazione divina. Secondo loro l’uomo, sia selvaggio o civile, illetterato o sapiente, perverso o buono ed onesto, sa sempre se agisce bene o male, e lo sa soprattutto quando agisce male; ma, non trovando una spiegazione per questo fatto generale, vi hanno visto una ispirazione divina. I filosofi metafisici ci hanno parlato a loro volta di coscienza, di imperativo mistico, ciò che del resto vuol dire solo cambiare le parole. Né gli uni né gli altri, tuttavia, hanno saputo constatare il fatto così semplice e così sorprendente che anche gli animali che vivono in società sanno distinguere il bene dal male, proprio come gli uomini e, soprattutto, che le loro concezioni del bene e del male sono assolutamente dello stesso genere di quelle degli uomini[4]”.

 

Pëtr Kropotkin riporta tra gli innumerevoli casi accertati direttamente il caso delle formiche, esse hanno un intestino individuale e sociale nel contempo, al fine di cedere una parte del cibo alle formiche che ne sono sprovviste; con tale “modalità d’azione” ogni formica partecipa alla sopravvivenza del formicaio. Individualità e altruismo non sono in antitesi, ma sono complementari: l’individualità può affermare e attuare la sua natura solo in un contesto di altruismo e di reciprocità:

 

«Forel, questo osservatore inimitabile delle formiche, ha dimostrato con una massa di informazioni e di fatti che quando una formica che ha riempito il gozzo di miele ne incontra altre formiche che hanno il ventre vuoto, queste ultime le chiedono subito da mangiare. Presso questi piccoli insetti è un dovere per la formica sazia rigurgitare il miele, affinché le amiche che hanno fame possano saziarsi a loro volta[5]».

Materialisti

Materialisti e utilitaristi hanno riportato il fondamento dell’etica nell’immanenza: il piacere è il fondamento dell’agire morale. Le azioni generose procurano un utile all’agente, in quanto l’altruismo gli procura piacere personale. Negli utilitaristi il centro dell’agire resta la soggettività. Il grande errore di materialisti e utilitaristi è l’incentrarsi esclusivamente sull’individuo, poiché il fondamento dell’agire morale non è solo il piacere individuale, ma ciò che è utile alla sopravvivenza della specie. La gioia individuale è il piacere nell’aver contribuito alla sopravvivenza e al miglioramento qualitativo e quantitativo della sopravvivenza dell’intero. La parte (individuo) e il tutto (specie) non sono separabili, ma in tensione produttiva:

 

“La formica, l’uccello, la marmotta e il tchouktcha non hanno letto Kant né i santi Padri, e nemmeno Mosè, e tuttavia hanno tutti la stessa idea del bene e del male. E se riflettete un momento su ciò che è al fondo di questa idea, vedrete sul campo che ciò che viene reputato buono presso le formiche, le marmotte ed i moralisti cristiani o atei è ciò che è utile per preservare la razza – e ciò che è considerato cattivo è ciò che è nocivo per essa. Non per l’individuo, come dissero Bentham e Mill, ma per la razza intera[6]”.

 

Adam Smith e Guyau

Pëtr Kropotkin sintetizza e riordina le osservazioni effettuate direttamente nei suoi numerosissimi viaggi correggendo il pensiero di Adam Smith. Il filosofo inglese focalizza l’attenzione sull’empatia quale fondamento della morale umana. L’errore di Adam Smith è di aver limitato l’empatia alla specie umana, mentre le osservazioni effettuate dal pensatore russo in Siberia e in Manciuria dimostrano ben altro. L’antropocentrismo di Adam Smith fa dell’essere umano “un impero nell’impero” come direbbe Spinoza, invece non è un’eccezione, ma è parte dell’impero del bene:

«Il solo errore di Adam Smith è quello di non aver capito che questo stesso sentimento di simpatia, passato allo stato di abitudine, esiste negli animali tanto quanto negli uomini. Per quanto possa dispiacere ai volgarizzatori di Darwin, che ignorano in lui tutto ciò che non ha preso in prestito da Malthus, il sentimento di solidarietà è il tratto predominante della vita di tutti gli animali che stanno in società. L’aquila divora il passero, il lupo divora le marmotte, ma l’aquila ed il lupo si aiutano tra loro nella caccia, e i passeri e le marmotte solidarizzano così bene contro gli animali da preda, che sono quelli più goffi si lasciano beccare. In tutte le società animali, la solidarietà è una legge (un fatto generale) della natura, infinitamente più importante di quella lotta per l’esistenza di cui i borghesi ci cantano le virtù con ogni ritornello, per meglio abbrutirci [7]».

Altro autore fondamentale è stato Guyau, il poeta e filosofo francese si sofferma sulla sovrabbondanza energetica insita in ciascun individuo che deve orientarsi necessariamente verso l’esterno e con tale attività si disegnano ponti solidali, i quali non implicano il depauperamento dell’individualità ma la sua positiva affermazione. La solidarietà potenzia le soggettività, è il segno dell’abbondanza energetica insita in ogni soggettività che consente di formare la rete sociale, in cui le individualità sono poste in positiva tensione:

«La loro origine, ha detto Guyau, è il sentimento della propria forza. È la vita che deborda, che cerca di diffondersi. “Sentire interiormente ciò che si è capaci di fare è al tempo stesso acquisire una prima coscienza di ciò che si ha il dovere di fare.” Il sentimento morale del dovere, che ogni uomo ha avvertito nella propria vita e che si è cercato di spiegare con ogni misticismo, “il dovere non è altro che una sovrabbondanza di vita che chiede di esercitarsi, di donarsi; è al tempo stesso il sentimento di una potenza».[8]

Essere anarchici e comunisti significa realizzare l’uguaglianza. Se il vincolo solidale è iscritto nella natura, la conseguenza è l’uguaglianza. La solidarietà è possibile, in quanto ciascun individuo riconosce l’altro come suo pari, pertanto l’anarchia ha l’obiettivo politico di ristabilire l’ordine naturale traviato dal capitalismo e dai suoi sgherri: preti e giudici. Solidarietà, uguaglianza e solidarietà sono valori iscritti nella biologia in relazione con l’ambiente, per cui l’anarchia sarà la piena attualizzazione di ciò che la natura ha stabilito con la mediazione della coscienza umana:

«Dichiarandoci anarchici, proclamiamo di rinunciare a trattare gli altri come non vorremmo essere trattati noi; che non tollereremo più l’ineguaglianza che ha permesso ad alcuni di noi di esercitare la loro forza o la loro astuzia o la loro abilità in un modo ripugnante. Ma l’uguaglianza in tutto – sinonimo di equità – è l’anarchia stessa. Al diavolo l’osso bianco che si arroga il diritto di ingannare la semplicità del prossimo! Noi non ne vogliamo, e all’occorrenza lo sopprimeremo. Non è solo a quella trinità astratta di Legge, Religione e Autorità che dichiariamo guerra[9]».

 

 

Verità e bene

La parità onto-naturale degli esseri umani non può che fondare un sistema sociale che ha nella verità uno dei suoi capisaldi. La menzogna nega l’uguaglianza naturale; vi è menzogna nei sistemi che si basano sulla strumentalizzazione dell’altro, in cui la cecità sulla natura umana ha distorto le relazioni umane e ha introdotto la violenza dell’intercosalità, ovvero delle relazioni caratterizzate dal valore di scambio. La crematistica non riconosce l’alterità come pari, per cui all’alterità si può mentire per estorcergli plusvalore, ma anche l’estortore è infelice, in quanto vive la desolazione della solitudine reificata. La brutalità si dispiega in mille forme, ma produce sempre lo stesso effetto: l’infelicità generalizzata:

 

«La menzogna, la brutalità e così via, abbiamo detto, sono ripugnanti non perché sono disapprovati dai codici morali – noi ignoriamo questi codici – ma perché la menzogna, la brutalità eccetera indignano il sentimento di uguaglianza di colui per il quale l’uguaglianza non è una parola vana; indignano soprattutto chi è anarchico nel suo modo di pensare e di agire[10]».

 

Nella storia umana, malgrado regressioni e violenze inaudite la speranza è sorgente sempre viva. I sistemi e le organizzazioni sociali con le loro innaturali perversioni non possono obliterare la natura umana, la quale è etica e volta al bene solidale. Da tale presupposto l’anarchico russo deduce l’inevitabile e non meccanica realizzazione nella storia dell’anarco-comunismo:

«Ecco perché questo sentimento, questa pratica della solidarietà, non cessano mai, nemmeno nelle epoche storiche peggiori. Anche quando delle circostanze contemporanee di dominio, di servitù, di sfruttamento fanno misconoscere questo principio, esso resta sempre nel pensiero del grande numero, al punto da portare ad una spinta contro le cattive istituzioni, a una rivoluzione[11]».

La storia non è mai conclusa, in quanto nell’essere umano vi è la spinta a trascendere gli egoismi e le ingiustizie, poiché il bene solidale è nella natura umana. Lo scandalo dinanzi alla menzogna e alla strumentalizzazione degli “eguali e non sono” è sempre possibile. I cantori della fine della storia e i numerosi discepoli di Hobbes che, in questo momento regnano e imperano, non possono che trovare in Pëtr Kropotkin uno strenuo e razionale oppositore. Il filosofo russo nel nostro tempo hobbesiano ci dona dati osservativi da cui dedurre l’innaturalità perversa del nostro tempo. Il capitalismo nella sua fase totalitaria e assoluta è sideralmente distante dal bene. Da ciò non può che derivare un giudizio radicale sul capitalismo e sui sistemi sociali fondati sull’egoismo e sulla competizione. Il darwinismo sociale dimostra che il potere seleziona e trasmette le ideologie e le teorie scientifiche che sono funzionali alla conservazione del potere. Le teorie che ribaltano visioni naturalizzate sono marginalizzate o rimosse dal pubblico dibattito. Pëtr Kropotkin è uno dei grandi assenti nel dibattito europeo, perché non giunge a conclusioni funzionali ai bisogni politici e ideologici delle oligarchie. La solidarietà – frutto di selezione di esperienze e, dunque, strumento vincente per la sopravvivenza delle specie –, dimostra la creatività della molteplicità degli individui che raffinano naturalmente le esperienze del bene, fino a determinare la sua necessità, perché la vita possa realizzare pienamente se stessa. La vita è gruppo-popolo che conserva vincoli solidali senza sopprimere le individualità e questo il dominio non può tollerarlo.

 

 

[1] Pëtr Kropotkin, La morale anarchica, edizioni dsmgtlfpqxz pekin, 2008, pag. 20.

[2] Ibidem, pag. 27.

[3] Ibidem, pag. 58.

[4] Ibidem, pag. 41.

[5] Ibidem, pag. 42.

[6] Ibidem, pag. 44.

[7] Ibidem, pag. 52.

[8] Ibidem, pag. 78.

[9] Ibidem, pag. 59.

[10] Ibidem, pp. 71 72.

[11] Ibidem, pag. 76.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – «Indonesia 1965». Il capitalismo genocidiario oggi si cela dietro la cortina della società dello spettacolo. Il suo linguaggio è divenuto finzione filmica

Salvatore Bravo

Il capitalismo genocidiario si cela dietro la cortina della società dello spettacolo.

Il suo linguaggio è divenuto finzione filmica.

 

Capitalismo genocidiario

Il capitalismo non è mai sufficientemente compreso nelle sue dinamiche distruttive e negatrici della natura umana e della vita. La sua azione globale non può che incontrarsi e scontrarsi con i limiti delle conoscenze personali e, specialmente, con le censure dirette e indirette a cui siamo sottoposti. Riorientarsi in una realtà organizzata secondo la forma del capitale mediante il “velo dell’ignoranza” è operazione non semplice. Se ci poniamo nell’ottica del cittadino medio e delle nuove generazioni possiamo ben comprendere quanto “il capitalismo dello spettacolo” riduca il pianeta ad uno strumento da usare e da consumare: in tal modo la vita dei popoli e la storia del capitalismo sono obliati. Il capitalismo senza la mediazione umana della storia può continuare la sua corsa nelle comunità e negli individui; può continuare a bruciare vite e popoli e a percepirsi come “assoluto”.

Il capitalismo si autopresenta come “assoluto” e costruisce di sé una immagine ipostatizzata, in quanto coltiva l’ignoranza di sé. Le esistenze organizzate in stile “reality” consentono ai crimini del passato e del presente di perpetuarsi. Il capitalismo dello sfruttamento e genocidiario si cela dietro la cortina della società dello spettacolo. Anche il linguaggio è divenuto finzione filmica, non a caso la parola “capitalismo” è stata abilmente sostituita con le espressioni “liberale e liberista”, le quali ammiccano alla libertà. Si ha l’impressione di essere dalla parte giusta, e di vivere nella libertà: naturalmente la libertà “capitalistica” deve essere intesa come la possibilità di affermare il proprio “io” usando il mondo e riducendo ogni incontro a mezzo per accrescere l’ego-idolatria. La storia del capitalismo riportato alla sua verità storica e ai suoi crimini è paideutica per accrescere qualitativamente la crescita umana e politica delle soggettività e delle comunità.

 

Il genocidio dei comunisti in Indonesia

Il genocidio dei comunisti in Indonesia, sconosciuto a molti e mai presente nelle “cronache liberali”, dimostra quanto il sistema liberale agisca per manipolazione e censure in modo da impedire la coscienza collettiva sulla realtà sociale ed economica in cui viviamo. Lo sterminio del PKI, del partito comunista indonesiano, oggi è genocidio non riconosciuto, al punto che la ricerca storica è ancora agli albori. Il numero di questo genocidio comunista oscilla tra i 500.000 e i 3.000.000 di morti. Tra gli assassinati non pochi furono gli esponenti di minoranze etniche, tra cui i cinesi, con cui l’Indonesia riformista intratteneva ottimi rapporti.

Gli assassini sono rimasti “stranamente” impuniti e sul tragico destino di tante vittime è sceso il silenzio della storia e dei media. Se si utilizza wikipedia si può leggere quanto segue alla voce “Responsabili” di questo genocidio:

“Esercito indonesiano e squadroni della morte, aiutati e incoraggiati dagli Stati Uniti d’America e da altri governi occidentali”.

 

Nuovo Ordine capitalistico

Le informazioni sono poca cosa, se non sono sostenute dalla coscienza politica ed etica. Il nostro tempo è caratterizzato dal velo dell’ignoranza nella forma dell’indifferenza e del narcisismo dello spettacolo che non incoraggia la ricerca e la formazione. Le informazioni essenziali non si trasformano in ricerca storica, non riescono a collocarsi a distanza collettiva razionale ed empatica dalla “verità” del “sistema liberale”, in quanto il capitalismo coltiva l’ignoranza politica e storica e insegna che la rete informatica è solo un mezzo per il libero scambio.

Il genocidio si consumò tra il 1965 e il 1966 prima che fosse attuata la riforma agraria già avviata dal Presidente riformista Sukarno. In realtà le immense ricchezze minerarie dell’Indonesia e la posizione strategica dell’isola furono la causa del sostegno della CIA e di altri stati europei, tra cui l’Olanda, all’eliminazione del PKI. Il Presidente degli Stati Uniti Nixon affermò:

«Con il suo patrimonio di risorse naturali, il più ricco della regione, l’Indonesia è il tesoro più grande del Sud-est asiatico[1]» .

L’Indonesia era, dunque ad un bivio, Sukarno fu rovesciato da Suharto sostenuto dalle potenze occidentali; iniziò per l’Indonesia l’epoca del genocidio e dell’eliminazione dell’opposizione politica:

«Nel 1965 l’Indonesia era a un bivio. La Guerra Fredda era al culmine nel Sud-Est asiatico e sembrava essere solo questione di tempo prima che il PKI, il più grande partito comunista del mondo al di fuori dell’URSS e della Cina comunista, salisse al potere. L’esercito indonesiano – una forza armata altamente politicizzata che aveva costituito parte integrante della vita politica indonesiana sin dalla rivoluzione nazionale indonesiana – era, tuttavia, determinato a fermare l’ascesa del PKI e a porre lo stato indonesiano sotto la propria direzione. Dall’inizio degli anni ’60 la leadership militare indonesiana cominciò a fare piani specifici per “riorientare” lo stato indonesiano[2]».

Il governo Suharto non aveva i mezzi per operare il genocidio in tempi brevissimi e instaurare il Nuovo Ordine con cui riorientare il popolo indonesiano verso il nuovo corso della storia, per cui le potenze occidentali organizzarono e diedero i mezzi per procedere all’eliminazione di uno dei più grandi partiti comunisti del mondo (il terzo al mondo). Con il riorientamento del Nuovo Ordine le potenze europee rientravano nel mercato indonesiano e, in cambio, appoggiarono le oligarchie indonesiane:

«Il genocidio indonesiano ha avuto luogo nel contesto della presa di potere militare dello stato indonesiano da parte del maggiore generale Suharto. Il risultato fu un completo riorientamento della società indonesiana e l’ascesa di un regime dominato dai militari autodefinito Nuovo Ordine. La leadership anticomunista dell’esercito fu assistita durante il genocidio da sostenitori occidentali con armi ed equipaggiamenti, e incoraggiata attraverso la comunicazione diretta e l’assistenza con la propaganda, soprattutto da parte di Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia, a effettuare un’epurazione approfondita delle forze armate. gruppi di sinistra nella società (Simpson,2008). Studi recenti hanno evidenziato anche la complicità o l’indifferenza dei governi europee dell’Unione Sovietica all’attacco al PKI e ai suoi affiliati in Indonesia, dovuto in gran parte alla decisione del partito di schierarsi con la Cina comunista (vedi Schaefer & Wardaya, 2013). Il nuovo regime guidato dai militari fu accolto sulla scena politica dai paesi occidentali e presto iniziarono i negoziati tra i leader di questi paesi e i nuovi leader militari e tecnocrati dell’Indonesia per ripristinare l’accesso straniero ai mercati indonesiani (Simpson, 2008)[3]».

 

Genocidio o Strage?

Il genocidio indonesiano è stato declassato a strage dalla giurisprudenza occidentale, in quanto per “genocidio” si intende la formula adottata del 1948 dall’ONU che esclude l’eliminazione totale di un gruppo politico avversario. La conseguenza della formula ristretta di genocidio alla sola eliminazione etnica consente, allora come oggi, di procedere alla eliminazione totale di un gruppo politico avversario e non incorrere nel crimine genocidiario, il quale ha una attenzione mediatica e giurisprudenziale maggiore rispetto alle stragi di massa; inoltre ha una serie di implicazioni legate ai risarcimenti per i sopravvissuti e per i discendenti:

«Quando si considera la violenza di massa che si diffuse in tutta l’Indonesia alla fine del 1965, c’è in gioco una questione polemica fondamentale, definitiva e concettuale.1 Questa questione si riferisce all’identità del gruppo target che fu sradicato in Indonesia. È stato spesso sostenuto che le vittime degli omicidi furono prese di mira principalmente in termini di affiliazione reale o percepita con il PKI o con una delle sue numerose organizzazioni associate (vedi Capitolo 1 di questo volume). Come in molti di questi dibattiti concettuali nel campo degli studi comparativi sul genocidio, la questione se un gruppo di vittime definito dalla loro affiliazione socio-politica di per sé possa essere vittima di genocidio deriva direttamente dalla definizione giuridica di genocidio contenuta nella Convenzione sul genocidio. il crimine. Come recita l’Articolo II della Convenzione, “per genocidio si intende [una serie di] atti commessi con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico [sic], razziale o religioso, in quanto tale” (Convenzione sulla prevenzione e Punizione del Crimine di Genocidio, 9 dicembre 1948, 78 UNTS a 280, Articolo II). Questa definizione esclude implicitamente i gruppi politici dalla tutela prevista dalla Convenzione. Tuttavia, come verrà discusso più avanti, il rifiuto automatico degli omicidi del 1965-1966 come caso il genocidio su questa base è prematuro[4]».

Il genocidio di un gruppo etnico o politico ha lo scopo di rinnovare completamente uno Stato. Il genocidio sperimenta la possibilità di un Nuovo Ordine, trasforma la nazione in un immenso laboratorio. Distruggere un gruppo umano è il mezzo mediante il quale trasformare la totalità. Si cancella la presenza di una prospettiva politica e culturale per realizzare una palingenesi criminale e assoluta. Cancellare la presenza culturale o fisica è modalità efficace ed efficiente per ottenere un “nuovo prodotto sociale”. La tecnocrazia capitalistica può essere applicata in larga scala o in modo ridotto, ma ha sempre la finalità di “riorientare” eliminando culture e politiche. Mutilare per rinnovare e sterilizzare culturalmente, e non solo: conservare e preservare gli interessi delle oligarchie è lo scopo finale. Il caso indonesiano rientra all’interno della “distruzione creativa”, nella quale l’altro è negato nella sua verità di soggetto umano:

«Nel caso indonesiano, sulla scia della propaganda disumanizzante dell’esercito in cui i sostenitori comunisti venivano descritti come nemici pericolosi e infidi, la violenza ha funzionato sia per classificare questi pericolosi nemici interni sia per rendere necessario lo sradicamento del PKI, riformando quindi la politica sociale indonesiana (vedere il capitolo 1, questo volume; Pohlman, 2012). Una serie di studiosi ha evidenziato questa funzione trasformativa del genocidio indonesiano, mostrando come non solo il sistema politico indonesiano ma anche il suo fondamentale panorama sociale, culturale e religioso siano stati cambiati per sempre dalla violenza (ad esempio, Dwyer & Santikarma, 2003; Hearman, questo volume; Ida Bagus, 2012). Tutsi e Hutu; turco e armeno) ma è principalmente “una strategia di potere” in cui “lo scopo ultimo del genocidio non è la distruzione di un gruppo in quanto tale ma la trasformazione della società nel suo insieme” (2013, p. 73). la società viene rifatta di nuovo (vedi, ad esempio, Appadurai, 1998; Dunn, 2009; Mamdani, 2001). Per Feierstein, questa concettualizzazione del genocidio come processo socialmente creativo lo porta a rivalutare il modo in cui comprendiamo la distruzione di un gruppo “nazionale”, il che a sua volta porta al nostro terzo argomento in questo capitolo. In sostanza, riconsidera cosa si intendesse con il termine gruppo “nazionale” ai sensi dell’articolo 2 della Convenzione sul Genocidio nella sua analisi della repressione contro la sinistra politica in Argentina sotto la giunta militare. Feierstein sostiene la comprensione del genocidio come “essenzialmente una distruzione parziale del gruppo nazionale dei perpetratori – una distruzione intesa a trasformare i sopravvissuti attraverso l’annientamento delle vittime” (2013, p. 68). Il caso argentino, come egli sostiene, in cui lo sterminio di un gruppo politico era parte di un gruppo nazionale (la sinistra nel gruppo nazionale argentino) evidenzia come il genocidio non sia tanto il risultato di scontri tra gruppi (es. Tutsi e Hutu; turco e armeno) ma è principalmente “una strategia di potere” in cui “lo scopo ultimo del genocidio non è la distruzione di un gruppo in quanto tale ma la trasformazione della società nel suo insieme” (2013, p. 73)[5]».

 

Smembrare i corpi per cancellare

La cancellazione fisica deve condurre a cancellare dalla memoria “l’esperienza comunista”. Una delle peculiarità del genocidio indonesiano fu lo smembramento dei corpi. Il fine era disumanizzare allo sguardo dei sopravvissuti i comunisti e rimuovere dalle coscienze la prospettiva comunista. I corpi sezionati e smembrati riducevano i comunisti ad animali da macello, era così possibile associare il comunista al corpo di un animale o di un oggetto infranto. Il capitalismo agisce per cosalizzare l’altro: la punta estrema di tale logica è svelata nel genocidio. Il vertice del dolore rivela la verità nascosta del capitalismo:

«Ha notato come i bambini si allineavano lungo il ponte per vedere il fiume, esortando gli altri a unirsi, mentre gli adulti si tenevano a distanza (Juadi, comunicazione personale, 12 agosto 2015). Nel suo studio sulla politica del ferimento e dello smembramento dei corpi nella post-colonia più in generale, Achille Mbembe (2003, p. 35) sostiene che tale violenza funziona “per tenere davanti agli occhi della vittima – e delle persone intorno lui o lei: lo spettacolo morboso della recisione”. A Surabaya, i bambini e le vittime avevano maggiori probabilità di vedere la divisione, mentre gli adulti erano più propensi a vedere quelle che Membe chiama le “tracce” attraverso le quali “l’integrità corporea è stata sostituita da pezzi”. Sia che si vedessero le divisioni o i pezzi, si vedeva una forma incarnata di comunicazione politica che formava quella che Benedict Anderson (2004, p. 1) definì la “fase selvaggia iniziale” del Nuovo Ordine[6] ».

 

La caduta nella continuità

Nel 1998 Suharto è caduto, non serviva più. L’Unione Sovietica e il comunismo erano solo un ricordo, ma l’Indonesia non si è confrontata con la sua memoria. L’anticomunismo è ancora vivo, anzi i comunisti sono ancora oggetto di violenza, in quanto il genocidio non è stato nei fatti riconosciuto e non vi sono state reali e solide azioni giudiziarie. La memoria storica non è ancora emersa nella sua verità:

«Sembra ora che questa ondata di anticomunismo durante la campagna elettorale del 2014 e il cinquantesimo anniversario delle violenze nel 2015 abbiano rappresentato l’inizio di una nuova fase di politica anticomunista più intensa. Nel 2016, ad esempio, l’anticomunismo si è ulteriormente intensificato (Manan et al., 2016; Tempo, 2016; Trianita & Farmita, 2016).11 Questa intensificazione è in parte correlata alle crescenti richieste di giustizia per i sopravvissuti alla violenza ( vedere i capitoli 16 e 17 di questo volume). Tuttavia non si limita alle questioni direttamente collegate alla storia comunista o alla politica progressista in generale. Ad esempio, all’inizio del 2015 è venuto alla luce che la vincitrice del concorso Puteri Indonesia (Miss Indonesia) del 2014 aveva in precedenza, durante una ripresa in Vietnam, indossato innocentemente una maglietta regalatale da un amico vietnamita che aveva un martello e simbolo della falce su di esso[7]».

 

Al momento l’Indonesia è prigioniera del suo passato; ogni iniziativa legislativa per confrontarsi con il genocidio è congelata, in quanto le attuali classi dirigenti sono nei fatti le medesime che avviarono e realizzarono la “distruzione creativa”. L’Occidente dei diritti tace e occulta il passato e il presente indonesiano, in quanto sarebbe costretto a guardarsi nella sua verità:

«Ciò è reso più chiaro in un’altra area in cui l’attuale bozza rivista della TRC avrebbe potuto essere rafforzata rispetto alla Legge TRC del 2004, ovvero nelle disposizioni per le misure di conciliazione. Nella Legge del 2004, le potenziali misure di conciliazione per i sopravvissuti e le famiglie delle vittime riguardavano: il risarcimento, fornito dallo Stato e che comprendeva disposizioni monetarie e sanitarie; riabilitazione attraverso il ripristino del nome, della dignità e dei diritti delle vittime; e la restituzione, che è stata definita come “risarcimento dato dagli autori del reato o da un terzo alle vittime o alle famiglie delle vittime” (vedi Articolo 1, Undang-Undang Nomor 27 Tahun 2004, nostra traduzione). Nella versione attuale non si fa menzione di eventuali atti di restituzione da parte di autori o di terzi. Di per sé, la mancanza di disposizioni specifiche per la restituzione non è così significativa, né è probabile che abbia alcun impatto complessivo sui risultati del risarcimento per i sopravvissuti. Ciò, tuttavia, indica ancora una volta che, in qualsiasi TRC prevista da questa bozza attuale, gli autori e qualsiasi ruolo che potrebbero svolgere in tale Commissione sono stati quasi completamente rimossi. Come sottolineato in precedenza, ciò viola direttamente i diritti delle vittime a un rimedio efficace e alla giustizia, come garantito dall’adesione dell’Indonesia a una serie di strumenti internazionali sui diritti umani[8]».

Uno dei compiti dell’umanesimo comunista è rendere denunciare le pratiche capitalistiche, in modo che “l’assoluto” del capitalismo si riveli nella sua verità apocalittica. Il nichilismo strumentale, vero fondamento del Capitalismo, è la verità da svelare con le sue consustanziali tragedie che minacciano i popoli e il pianeta.

Ed ecco, in ultimo, che le ricchezze della famiglia Suharto rimangono incalcolabili e non sono state minimante intaccate dalla caduta: pertanto l’Indonesia vive la sua tragica continuità, la quale è la nostra verità nascosta.

 

Salvatore Bravo

 

[1] Citado no livro de John Pilger, «The new rulers of the world», Verso 2002, p. 15.

[2] AA. VV., L’indonesiano genocidio del 1965, Studi Palgrave nella storia del genocidio, 2018, pag. 53.

[3] Ibidem, pp. 34-35.

[4] Ibidem, pag. 29.

[5] Ibidem, pag. 35.

[6] Ibidem, pag. 150.

[7] Ibidem, pag. 302.

[8] Ibidem, pag. 323.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Pesantezza e leggerezza in Italo Calvino


Salvatore Bravo

Pesantezza e leggerezza in Italo Calvino

 

È il centenario della nascita di Calvino (1923-1985), si susseguono le manifestazioni in suo ricordo, il dibattito sull’autore cede il passo alla vendita dei suoi testi, per cui “niente di nuovo per noi che viviamo nella società di mercato”. Si ricorda in modo costante che Italo Calvino ruppe con il Partito comunista dopo l’invasione d’Ungheria del 1956, per cui ben si presta ad essere eletto come letterato che si è battuto per la libertà in nome dei diritti individuali e che ha abbandonato il PCI al suo destino con una lunga lettera sull’Unità il 7 agosto 1957. Nel 1985, nell’anno della sua morte improvvisa, scrisse Lezioni americane per i seminari che avrebbe dovuto tenere ad Harvard. Il testo vorrebbe essere un manifesto che enumera le qualità che dovrebbe avere la letteratura contemporanea: si tratta di una serie di paradigmi posti in ordine decrescente di rilevanza. La morte gli impedì di completare le lezioni, non a caso la settima sulla “concretezza” non fu che abbozzata.

 

Leggerezza

Il primo paradigma è la “leggerezza” che deve opporsi alla “pesantezza”. Lo stile dev’essere leggero, deve sublimare in lievità ciò che grava sulle esistenze. Si tratta di rappresentare ciò che è insostenibile con figure, simboli, immagini e parole che possono filtrare la tragedia e renderla lieve al lettore. La leggerezza è “terapeutica” consente di sopportare l’insopportabile:

“Nei momenti in ci il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o nell’irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e verifica. Le immagini che io cerco non devono lasciarsi dissolvere come sogni dalla realtà del presente e del futuro…[1]

La leggerezza, questo è il sospetto, è un criterio che può essere letterario, ma che può celare il disimpegno e la rappresentazione falsata della realtà. Le contraddizioni sociali e le inquietudini metafisiche della contemporaneità necessitano di “pesantezza e di ingombranti concetti”. Nell’epoca del disimpegno e della derealizzazione tutto è divenuto talmente “leggero” da evaporare.

 La letteratura, afferma Italo Calvino, deve condurre alla lievità e a “guardare-vivere” la realtà con immagini che smorzano la “pesantezza”. Come Perseo, il quale guarda sul suo scudo l’immagine della Gorgone per evitare di essere pietrificato. Perseo, lieve sulle nuvole, decapita la Gorgone e dal suo sangue nasce Pegaso, cavallo alato, simbolo della leggerezza[2].

 La letteratura in un tempo di tragedia come il nostro dominato dalle immagini che hanno sostituito il concetto e la realtà deve rappresentare il “nudo vero”, in modo da muovere le coscienze fuori dalla società dello spettacolo. Abbiamo bisogno di pesantezza che possa indurci a pensare e a progettare, le immagini mediate e posticce favoriscono l’abbassamento della soglia di allarme. Italo Calvino riporta – tra i non pochi modelli di leggerezza – Leopardi come poeta e filosofo della leggerezza; ma in Leopardi la gravità è in un equilibrio stupefacente con la bella forma; Leopardi non è poeta della pesantezza né della leggerezza; svela il “crudo vero” senza fraintendimenti fantastici:

“Leopardi, nel suo ininterrotto ragionamento sull’insostenibile peso del vivere, dà alla felicità irraggiungibile immagini di leggerezza: gli uccelli, una voce femminile che canta da una finestra, la trasparenza dell’aria, e soprattutto la luna[3]”.

 

 

Velocità

La letteratura dev’essere veloce nel secolo della motorizzazione. La letteratura che si ispira al “mondo” e alla “tecnica” non può che essere accolta con favore nei circoli salottieri e dalle case editrici che pubblicano prodotti a misura delle richieste del mercato. Esse sono solo aziende che vendono il prodotto libro. La velocità è un requisito fondamentale per vendere, i concetti devono essere pochi, se ci sono e abbozzati, in modo da non stancare il lettore abituato al ritmo compulsivo della contemporaneità:

“Il secolo della motorizzazione ha imposto la velocità come un valore misurabile, i cui records segnano la storia del progresso delle macchine e degli uomini. Ma la velocità mentale non può essere misurata e non permette confronti e gare, né può disporre i propri risultati in una prospettiva storica. La velocità mentale vale per sé, per il piacere che provoca in chi è sensibile a questo piacere, non per l’utilità pratica che si possa ricavarne. Un ragionamento veloce non è necessariamente migliore d’un ragionamento ponderato; tutt’altro; ma comunica qualcosa di speciale che sta proprio nella sua sveltezza[4]”.

 

Abbiamo bisogno di velocità o di reimparare a indugiare sui concetti e dunque a leggere con lentezza? La capacità di lettura e di comprensione dei testi è sempre più modesta in giovani e meno giovani, la letteratura della velocità piace al mondo, alla tecnica e al mercato. Essa ha dismesso la sua funzione paideutica del pensare-indugiare. La velocità è penetrata nella letteratura e l’ha resa superflua, in quanto ha subito l’incanto della tecnica, non si è mostrata autonoma e critica, ma l’ha duplicata. La letteratura contemporanea è governata da una pletora di velocisti che nulla sanno dire, ma sono capaci di inseguire il gusto manipolato dalla velocità del pubblico. La letteratura dev’essere lenta, deve con la sua pensosa lentezza riportarci nella concretezza del quotidiano per guardarlo con lo sguardo del concetto.

 

 

Esattezza

L’esattezza, criterio scientifico-matematico, è il mezzo con cui le belle parole divengono una traccia verso l’invisibile, afferma Italo Calvino nella sua bella definizione della parola. Il problema è l’invisibile, la letteratura è una traccia che dovrebbe condurre alla realtà storica e alle contraddizioni del sistema socio-economico. In Calvino l’invisibile è altro, è l’immaginazione con cui filtrare la realtà e ricondurla ad un livello impalpabile, in cui la tragedia perde la sua consistenza reale:

“Credo che i nostri meccanismi mentali elementari si ripetono dal Paleolitico dei nostri padri cacciatori e raccoglitori attraverso tutte le culture della storia umana. La parola collega la traccia visibile alla cosa invisibile, alla cosa assente, alla cosa desiderata e temuta, come un fragile ponte di fortuna gettato nel vuoto. Per questo il giusto uso del linguaggio per me è quello che permette di avvicinarsi alle cose (presenti o assenti) con discrezione e attenzione e cautela, col rispetto di ciò che le cose (presenti o assenti) comunicano senza le parole[5]”.

 

All’esattezza la letteratura dovrebbe prediligere la “verità”. È preferibile una letteratura vera ad una letteratura che persegue l’esattezza. Non a caso lo scrittore si pone la domanda cruciale, constata la crisi dell’immaginazione e del concetto che ne consegue, ma la risposta è aggirata. La crisi dell’immaginazione è associata alla tecnica, si evita di nominare la causa da cui tutto si origina: la struttura economica che usa la tecnica per sorvegliare i suoi sudditi e addomesticarli nella mente e nel corpo. La pedagogia dell’immaginazione proposta da Calvino non può risolvere il problema radicale, Calvino evita di indicare con parole precise la causa prima della crisi dell’immaginazione: il capitalismo. La pedagogia dell’immaginazione dovrebbe curare i sintomi senza incidere nel corpo del problema, la verità pare così occultata:

“Se ho incluso la Visibilità nel mio elenco di valori da salvare è per avvertire del pericolo che stiamo correndo di perdere una facoltà umana fondamentale: il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di far scaturire colori e forme dell’allineamento di caratteri alfabetici neri su una pagina bianca, di pensare per immagini. Penso a una possibile pedagogia dell’immaginazione che abitui a controllare la propria visione interiore senza soffocarla e senza d’altra parte lasciarla cadere in un confuso, labile fantasticare, ma permettendo che le immagini si cristallizzino in una forma ben definita, memorabile, autosufficiente <<icastica>>. Naturalmente si tratta d’una pedagogia che si può esercitare solo su se stessi, con metodi inventati volta per volta e risultati imprevedibili[6]”.

 

 

Molteplicità

Il romanzo deve rispecchiare la vita interiore degli uomini, la quale è costituita da una “combinatoria” di esperienze. Le variabili sono tante, ma il problema è l’unità, se ci si sofferma solo sulla “combinatoria” vi è il rischio di perdersi nel caos del mondo, di cui non si coglie l’unità che spiega il proliferare delle variabili con i loro urti e con le loro plastiche associazioni:

“Sono giunto al termine di questa mia apologia del romanzo come grande rete. Qualcuno potrà obiettare che più l’opera tende alla moltiplicazione dei possibili più s’allontana da quell’unicum che è il self di chi scrive, la sincerità interiore, la scoperta della propria verità. Al contrario, rispondo, chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili[7]”.

 

Ricordare è sicuramente un modo per onorare chi ci ha preceduti, ma il rammentare senza concettualizzazione critica non è cultura, è solo una operazione commemorativa che non ci orienta a decodificare il presente, ma a duplicarlo e a renderlo eterno.
La letteratura è l’altro volto della filosofia, deve insegnarci ad indugiare sull’insostenibilità del mondo per poter elaborare percorsi di emancipazione. Ricordiamo Calvino riconoscendo il valore della sua opera.
Bisogna commemorare per reimparare a dissentire; all’occultamento della realtà che si inabissa velata da immagini e fantasmagorie, bisogna opporre più realtà e più verità: di questo necessitiamo.
l giudizio che Italo Calvino diede nella lettera d’addio al PCI sulla letteratura marxista per la sua pesantezza, oggi appare “severo”, se si considera valida la “leggerezza” dell’attuale letteratura:

“Sono consapevole di quanto il Partito ha contato nella mia vita; vi sono entrato a vent’anni, nel cuore della lotta armata di liberazione; ho vissuto come comunista gran parte della mia formazione culturale e letteraria; sono diventato scrittore sulle colonne della stampa di Partito; ho avuto modo di conoscere la vita di Partito a tutti i livelli, dalla base al vertice, sia pure con una partecipazione discontinua e talora con riserve e polemiche, ma sempre traendone preziose esperienze morali e umane; ho vissuto sempre (e non solo dal XX Congresso) la pena di chi soffre gli errori del proprio tempo, ma avendo costantemente fiducia nella storia; non ho mai creduto (neanche nel primo zelo del neofita) che la letteratura fosse quella triste cosa che molti nel Partito predicavano, e proprio la povertà della letteratura ufficiale del comunismo mi è stata di sprone a cercare di dare al mio lavoro di scrittore il segno della felicità creativa: credo di essere sempre riuscito ad essere, dentro il Partito, un uomo libero”.

 

La pesantezza, ovvero l’impegno e il realismo, è ciò che manca alla letteratura attuale che compiace il mercato e non fa pensare. Non possiamo che guardare come a dei maestri autori come Bertolt Brecht, Walter Benjamin, Hanns Eisler, Ernst Bloch, György Lukács, Johannes R. Becher, Andor Gabor e Alfred Kurella e al nostro Gramsci. Lo smantellamento del PCI e delle ideologie afferenti ha condotto ad una leggerezza nichilistica, è diventata la morte della letteratura che si è nutrita solo di banalità, e non è più al servizio dei popoli e della verità, ma è organica al mercato. Italo Calvino non è certo responsabile della mercificazione della letteratura del nostro tempo, ma Lezioni americane sono il prodromo della letteratura al servizio del capitale e degli intellettuali del disimpegno. Non abbiamo bisogno di scrittori organici alla “società dello spettacolo”, ma di dissidenti ed eretici che si oppongono al turbocapitalismo che annienta con la politica il pensiero critico e l’emancipazione di classe.

 

[1] Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Oscar Mondadori, Milano 2011, pp. 11-12.

[2] Ibidem, pp. 8-9.

[3] Ibidem, p. 28.

[4] Ibidem, p. 47.

[5] Ibidem, p. 76.

[6] Ibidem, p. 94.

[7] Ibidem, p. 121.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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