Hermann Hesse (1877-1962) – Perseguono con tutta la loro forza vitale un unico scopo: realizzare la legge che è insita in loro, portare alla perfezione la propria forma, rappresentare se stessi.

Hermann Hesse01

«Nella nostra vita frettolosa, assordante, sono maledettamente poche le ore in cui l’anima può diventare cosciente di sé stessa, in cui tace la vita dei sensi e quella dello spirito e l’anima sta senza veli davanti allo specchio dei ricordi e della coscienza». Hermann Hesse

Il canto degli alberi

Il canto degli alberi

ogo copia

«Gli alberi sono sempre stati i predicatori più persuasivi […].
Non come gli eremiti, che se ne sono andati di soppiatto
per sfuggire a una debolezza,
ma come grandi uomini solitari […].
Tra le loro fronde stormisce il mondo,
le loro radici affondano nell’infinito;
tuttavia non si perdono in esso,
ma perseguono con tutta la loro forza vitale un unico scopo:
realizzare la legge che è insita in loro,
portare alla perfezione la propria forma,
rappresentare se stessi».

Hermann Hesse, Il canto degli alberi, Guanda, 2008.

Il canto degli alberi 01

Risvolto di copertina

Un libro di poesie, prose e racconti di Hermann Hesse che hanno come tema unificante gli alberi, figure emblematiche della vita naturale. Faggi, castagni, peschi, betulle, tigli, querce e molti altri, nella magnificenza della fioritura o con i rami nodosi offerti alle brinate notturne, illuminati dal sole o al chiarore della luna: sono loro i protagonisti indiscussi di questa raccolta. Essi accompagnano lo scrittore, silenziosi e saggi, nel corso della sua vita, segnano momenti precisi, suscitano riflessioni e ricordi, vengono invocati come esseri viventi, come amici. Simbolo della continuità del ciclo vitale e di una necessaria sottomissione alle leggi della natura, gli alberi parlano a Hesse trovando in lui un interprete smagliante e appassionato.



 


Hermann Hesse (1877-1962) – Dobbiamo fare assegnamento su quella fonte di energia che è la meditazione, sul sempre rinnovato accordo dello spirito e dell’anima.

Hermann Hesse – I libri hanno valore soltanto se conducono alla vita

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio.
Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:

info@petiteplaisance.it,

e saranno immediatamente rimossi.

Paul Ricoeur (1913-2005) – Considero precetto primo della saggezza pratica, esercitata sul piano medico, il riconoscimento del carattere singolare della situazione di cura, e innanzitutto di quella del paziente stesso. Questa singolarità implica il carattere non sostituibile di una persona con un’altra […]; la diversità delle persone umane fa sì che non sia la specie a essere curata, ma ogni volta un essere unico del genere umano

«Mentre la scienza, secondo Aristotele, verte sul generale, la techne verte sul particolare e questo vale in special modo per la situazione nella quale l’arte medica interviene: la sofferenza umana.
[…] Considero precetto primo della saggezza pratica, esercitata sul piano medico, il riconoscimento del carattere singolare della situazione di cura, e innanzitutto di quella del paziente stesso. Questa singolarità implica il carattere non sostituibile di una persona con un’altra […]; la diversità delle persone umane fa sì che non sia la specie a essere curata, ma ogni volta un essere unico del genere umano».

Paul RICOEUR, Il giudizio medico, a cura di Domenico Jervolino, tr. di Ilario Bertoletti, Morcelliana, Brescia 2006, pp. pp. 29, 31, 35 (titolo originale: Les trois niveaux du jugement médical, «Esprit», 12 (1996), poi in Le Juste 2, Éd. Esprit, Paris 2001).

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio.
Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:

info@petiteplaisance.it,

e saranno immediatamente rimossi.FacebookTwitter

Roberto Calasso – Se c’era a Venezia un luogo da cui traspariva una felicità tutta nuova era la bottega di Aldo Manuzio che chiedeva soltanto di poter «pubblicare buoni libri»: “festina lente”.

Calasso Roberto - Aldo Manuzio -bonis libris

edendis bonis libris

festina lente


«No disturbeme che per cosse utili»: questa scritta si leggeva nella bottega di Aldo Manuzio a Venezia, sestiere di San Polo, verso campo Sant’Agostin, vicino al panettiere. Secondo Martin Lowry, che indagò anche quanto sopravvive dei conti di Manuzio, quella bottega era «una mescolanza, oggi quasi incredibile, di brutale officina, pensione e istituto di ricerca». Vi circolava una trentina di persone, fra lavoranti, servitù, familiari e ospiti.


Un giorno dei 1508 Erasmo da Rotterdam stava seduto in un angolo della stamperia e scriveva gli Adagia, ricorrendo soltanto alla sua memoria, e foglio per foglio li passava al proto perché li componesse. In un altro angolo Aldo leggeva e rileggeva bozze che erano già state lette e rilette da altri.
Se qualcuno glielo faceva osservare, rispondeva: «Sto studiando». Questa era la vita di ogni giorno.


«Da quando ho intrapreso l’estenuante mestiere dello stampatore, ormai sei anni or sono, posso giurarvi che non ho avuto un’ora di ininterrotto riposo» scrisse Aldo una volta. Ma non solo per lui la vita era dura. Secondo Erasmo, i lavoranti della tipografia disponevano di una mezz’ora al giorno per rifocillarsi. Non meraviglia che vi fossero turbolenze e Aldo deplorò che per quattro volte i suoi lavoranti avessero «complottato contro di me a casa mia, aizzati dalla madre di tutti i mali, l’Avidità: ma con l’aiuto di Dio li ho distrutti a un punto tale che ora si rammaricano a fondo per il loro tradimento». Eppure, se c’è un luogo da cui traspariva una felicità tutta nuova era quella bottega.


Incisione di Theodor de Bry (1528-1598), da Bibliotheca chalcographica di Jean-Jacques Boissard – 1669

Aldo fu colui che trasformò per primo lo stampatore in editore, aggiungendo un’incognita minuscola o enorme all’equazione di un mestiere che era stato inventato quattro decenni prima. E questo avvenne grazie a una sorta di devozione alle cose utili. Aldo divenne editore a quarant’anni. Sino allora era stato precettore in case nobili e potenti. E avrebbe potuto facilmente diventare uno dei vari cattedratici dell’epoca, con un suo codazzo di allievi e di vanità. Ma evidentemente gli balenò qualcos’altro, ben più rischioso, ben più urgente e ben più attraente: dare forma a certi libri, soprattutto greci, a partire dalle grammatiche. Di questo si sentiva un bisogno quasi fisico, a Venezia, dove affluivano continuamente esuli e manoscritti, dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453. E Venezia, allora, era un compendio del mondo. O altrimenti, per Aldo, «un’altra Atene». Nel frattempo Aldo chiedeva soltanto di essere lasciato tranquillo per poter «pubblicare buoni libri », edendis bonis libris.

Roberto Calasso, Come ordinare una biblioteca, Adelphi, Milano 2020, pp. 49-51.


Aldo Manuzio (1449-1515) – Abbiamo deciso di dedicare tutta la vita all’utile dell’umanità. Questo vogliamo giorno dopo giorno sempre di più, finché vivremo.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.


Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio.
Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:

info@petiteplaisance.it,

e saranno immediatamente rimossi.


Karl Jaspers (1883-1969) – La discussione con i teologi si arresta sempre nei punti più decisivi. Un vero dialogo richiede che si ascolti e si risponda realmente, non tollera che si taccia o si eviti la questione.

Karl Jaspers 06a

la-fede-filosofica-681

«È una sofferenza della mia vita, che si affatica nella ricerca della verità, il constatare che la discussione con i teologi si arresta sempre nei punti più decisivi, perché essi tacciono, enunciano qualche proposizione incomprensibile, parlano d’altro, affermano qualcosa di incondizionato, discorrono amichevolmente senza aver realmente presente ciò che prima s’era detto, e alla fine non mostrano alcun autentico interesse per la discussione. Da una parte infatti si sentono sicuri, terribilmente sicuri, nelle loro verità, dall’altra par loro che non valga la pena prendersi cura di noi, uomini duri di cuore. Ma un vero dialogo richiede che si ascolti e si risponda realmente, non tollera che si taccia o si eviti la questione, e soprattutto esige che ogni questione fideistica, in quanto enunciata nel linguaggio umano, in quanto rivolta a oggetti e appartenente al mondo, possa essere messa di nuovo in questione, non solo esteriormente e a parole, ma dal profondo di noi stessi. Chi si trova nel possesso definitivo della verità non può parlare veramente con un altro, perché interrompe la comunicazione autentica a favore del suo contenuto di fede».

Karl Jaspers, La fede filosofica, a cura di U. Galimberti, Cortina, 2005, pp. 132-133.


Karl Jaspers (1883-1969) – Solo attraverso la verità diveniamo liberi, la verità è la dignità dell’uomo.
Karl Jaspers (1883-1969) – Filosofare presuppone una visione del mondo ed è espressione specifica di un se-stesso originariamente libero. Filosofano veramente solo quegli uomini che sono originariamente se stessi e che nel filosofare si incontrano e si legano tra loro.
Karl Jaspers (1883-1969) – La verità cresce in un processo che include l’uomo nella sua totalità e risulta dall’intreccio di pensiero e vita, compiendo l’uomo una metamorfosi di se stesso.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

Carlo Rocchetta – La tenerezza è forza, segno di maturità e vigoria interiore, e sboccia solo in un cuore libero, capace di offrire e ricevere amore. Si offre come componente costitutiva per una piena realizzazione dell’umanità della persona.

La tenerezza copia

 

 

«"Ecco il mio segreto. È molto semplice:
non si vede bene che con il cuore.
L'essenziale è invisibile agli occhi,
lo si vede solo con gli occhi del cuore".
"L'essenziale è invisibile agli occhi",
ripeté il piccolo principe per ricordarselo"».


A. De Saint-Exupéry, Il piccolo principe

 

«Ubi amor, ibi oculos».
Dove regna l'amore,
lì vi sono occhi che sanno vedere.

Riccardo di San Vittore (1110-1173), Benjamin minor, c. 13.

 

«Come la respirazione esige un'atmosfera,
così l'amore chiede un'erosfera.

J. Guitton, L'amore umano, 1989, p. 88.

 

«Alcuni pensano che la tenerezza
sia un sentimemo marginale della personalità.
Appartiene invece al nostro stesso essere:
la sua assenza è il segno
di una natura incompleta.
M. Canciani, La tenerezza, 1993, p. 15.

 

«La tenerezza è forza, segno di maturità e vigoria interiore, e sboccia solo in un cuore libero, capace di offrire e ricevere amore» (p. 9).

«La tenerezza, nella sua identità più profonda, si collega a due esigenze fondamentali e permanenti, inscritte nel cuore umano, desiderare di amare e sapere di essere amati; come tale, essa attinge a tutte le sfere della persona – uomo e donna – da quella biologica a quella psicologica e spirituale […], e si realizza come scelta e stile di vita in ordine a una piena maturità […]. Un sentimento da intendere, dunque, come vissuto complessivo, radicato nella realtà profonda dell’io spirituale-corporeo e del suo esistere “in relazione con” e “in relazione per”, e non solo come uno stato d’animo passeggero. La tenerezza suppone la capacità di partecipare, corpo e anima, alla celebrazione delle innumerevoli sinfonie del mondo, alle sue gioie e ai suoi dolori, vivendo con l’alterità relazioni cordiali (cor/cordis, cuore), di scambio, di reciprocità paritaria e di bellezza. Letta in questa ottica, l’attitudine alla tenerezza corrisponde a un’esigenza incancellabile dell’animo, ne dice la nobiltà e la grandezza, e si offre come componente costitutiva per una piena realizzazione dell’umanità della persona. Non è pensabile che un uomo o una donna, in qualunque condizione di vita si trovino […] possano essere persone adulte senza un’attivazione effettiva di questo sentimento; è certo, in ogni caso, che saranno persone profondamente sole e infelici.
Fra tutti i sentimenti che l’uomo ha sviluppato durante la sua storia, non ne esiste uno che superi la tenerezza come qualità tipicamente umana e umanizzante. E di fatto, una persona non può dirsi adulta se non si sforza di acquisire questo sentimento che la rende “affettuosa”, “compartecipe”, “colma di rispetto” e di meraviglia di fronte al  cosmo e ad ogni forma di vita, da quella di un bambino a quella di un fiore o di una farfalla […]» (p. 10).

«Dire “tenerezza” è dire la vita nei suoi molteplici aspetti e nelle sue più sublimi altezze, vivendola con “passione” e “gioia di essere”, spontaneità, “condivisione” e “convivialità”. L’alternativa è il vuoto, con la negazione delle dimensioni più profonde della nostra interiorità e delle sue più alte istanze. Lasciarsi sfuggire la tenerezza è lasciarsi sfuggire la vita. E come non c’è vita senza rischi, così non c’è tenerezza senza rischi. Ma il rischio più grande è di non vivere la tenerezza. […]
È  diffusa l’idea che la tenerezza rappresenti una connotazione quasi solo femminile o comunque scarsamente “virile”: “qualificante” per la donna e “squalificante” per l’uomo. Si tratta di un pregiudizio infondato, che va smascherato con energia. […] Il sentimento della tenerezza riguarda in realtà, in modo totale e incancellabile, sia l’uomo che la donna, la loro umanità e la loro vocazione all’amore e alla comunione. Vi può essere – e probabilmente vi è – una specificità nel modo di manifestare questo sentimento; ma non si può pensare a un’esclusività di genere. Si deve anzi ritenere che solo riunificando l’animus e l’anima della tenerezza, il maschile e il femminile, in un’armonica integrazione, si è in grado di pervenire a una sua comprensione personale e personalizzante» (p. 11).

«La tenerezza rappresenta questa avvolgenza dell’amore, questo clima di attenzione e di effusione affettiva entro cui soltanto l’amore si può compiutamente manifestare e attuare. […] La tenerezza tende per sua natura a plasmarsi come philia, amicalità/amicizia […]
Sotto entrambi gli aspetti (di éros e di philìa), la tenerezza implica il pathos, il sentimento, e non solo il lògos, la ragione; implica il “sentire” profondo dell’essere, e rimanda a un saper amare col cuore e a un sentirsi amati di cuore, che assume il nostro essere corporeo al maschile o al femminile e quindi la sua stessa dimensione sessuata come realtà costitutiva, e non come sola genitalità. La tenerezza non appartiene all’ordine del mero cogito, ma a quello della sensibilità, una sensibilità carica di affetto e di partecipazione, una dilectio che appella alla mobilitazione di tutta la persona […]» (p. 14).

«Il sostantivo italiano “tenerezza” (dal latino teneritia) evoca l’idea di un qualcosa di morbido, privo di durezza o di rigidità, e rimanda a un affetto interiore vissuto con partecipazione viva, affettuosa e dinamica. Non meno interessante è l’aggettivo “tenero” (tenerum, da tendere, estendersi verso, proiettarsi), il quale suppone e implica un’attitudine che orienta a uscire dall’io per incontrarsi con il tu, tendendo verso di lui, in un rapporto reale di dedizione e di reciprocità. Sotto entrambi gli aspetti, la tenerezza si oppone a due atteggiamenti esistenziali piuttosto diffusi e quasi sempre connessi fra loro: la durezza di cuore, intesa come barriera, muro, rigidità, chiusura mentale, e il ripiegamento su di sé come egocentrismo, incapacità a volgersi all’altro da sé, rifiuto di dialogo e di scambio. La tenerezza, al contrario, è flessibilità, permeabilità, apertura di cuore, disponibilità al cambiamento, e si costituisce come volto concreto di una dilezione affettiva che si fa benevolenza e amorevolezza» (pp. 27-28).

«La tenerezza appartiene alla struttura ontica dell’essere umano […] La tenerezza è inscritta in questa struttura profonda della persona come l’esserci di un io-incarnato-in-un-corpo che chiede di sentirsi amato e di sentirsi capace di amare. […] Tutto questo fa già intuire la profonda differenza che si pone tra la tenerezza-come-sentimento e il sentimentalismo-della-tenerezza: la prima appartiene all’esperienza radicale dell’essere persona, del suo in-esserci e co-esserci, e si realizza come apertura al tu, verso l’altro/Altro, e rimanda a un ‘operatività creativa, coinvolgente e interpersonale; il secondo dice piuttosto ripiegamento sul proprio io, egocentrismo, ricerca di sé, chiusura, spreco di un’affettività fine a se stessa e, alla fine, incapacità a protendersi verso gli altri e la storia. La prima è dialogo, la seconda è monologo. Una differenza netta ed essenziale» (p.29).

«La tenerezza ha bisogno di incontrarsi con la ricerca della maturità, e viceversa. L’una sostiene l’altra e la manifesta. Solo assumendo la tenerezza in un’ottica di questo genere è possibile evitare il pericolo di viverla come una compensazione affettiva o un’acquiescenza ai vuoti del cuore umano, oppure ridurla a dipendenza psicologica o strumentalizzarla a fini di potere sull’altro/a da sé» (p. 32).

«Ecco i molteplici aspetti che entrano in gioco nel vissuto della tenerezza:
– “una disposizione affettiva dell’animo“: la tenerezza appartiene alla struttura più profonda dell’essere umano e riguarda la sensibilità della persona, le sue potenzialità di desiderio (éros) e di amicizia (philia), nel quadro di quelle facoltà superiori che distinguono
la persona da ogni altro essere e la rendono capace di autodeterminazione;
– “disposizione che muove intuitivamente a voler bene“: la tenerezza è un modo di sentire, una disposizione profonda che orienta a una percezione positiva del reale, a meno che non sia distolta o deformata;
– “intuitivamente” in quanto è spontanea e precede, di per sé, l’atto della deliberazione, anche se non ne prescinde; anzi, pur sgorgando dalla sensibilità, esige di essere assunta in modo cosciente e sottoposta ogni volta al vaglio dalla ragione in rapporto alle opzioni di vita e alla gerarchia dei valori cui ci si richiama;
– “e ad apprezzare una situazione, qualcuno o qualcosa, come realtà buone, amabili e a cui interessarsi con partecipazione“: l’apprezzamento come attitudine di pensiero e di prassi e l’amabilità rappresentano i due tratti caratteristici fondamentali della tenerezza; entrambi suppongono il coinvolgimento personale che porta ad avvicinarsi agli avvenimenti e alle persone non da lontano, ma vivendo questi incontri in prima persona e facendosene carico;
– “valutando ogni incontro o circostanza con gli occhi del cuore, prima che con quelli della mente“: la capacità “visiva” della tenerezza, prima che dalIa “ragione pratica”, sgorga dal cuore […]» (p.33).

«Il primo passo è di percepire la bellezza del mondo e lasciarsi incantare da essa. Quando si è capaci di bellezza, tutto è riletto con gli occhi dell’amore, e niente è più indifferente, ordinario o di routine. La tenerezza suppone la via della bellezza (via pulchritudinis), e la fonda. […] La tenerezza è emanazione di bellezza e sua forma riflessa, come uno “stupore coscientizzato”, consapevole. Tra stupore e tenerezza sussiste, di fatto, un profondo rapporto di reciprocità, al punto che l’uno non può stare senza l’altra: lo stupore è dono della tenerezza, la tenerezza dono dello stupore. In entrambe le direzioni, la capacità di provare tenerezza manifesta un modo di pensare e di guardare all’esistenza umana con bene-volenza (voler-bene) […]» ´p. 34)

«La crescita nella vita di relazione è direttamente proporzionale alla crescita nella tenerezza, così come lo sviluppo della tenerezza rappresenta la strada maestra per l’attuazione di una vita di relazione tendenzialmente matura e soddisfacente. […] Il problema della tenerezza e del suo sviluppo non rappresenta dunque un problema di ordine solo psicologico o di pedagogia familiare; è di natura antropologica, e da esso dipende – in buona parte -la condizione di felicità o di infelicità della persona umana. […] Il discorso della tenerezza si colloca entro queste profondità della persona come componente indispensabile del suo processo di integrazione e di maturazione. La felicità, come la tenerezza, non appartiene semplicemente alla logica dell’avere, ma dell’essere, ed esprime la struttura metafisica della persona e della sua aspirazione profonda e indistruttibile al sentimento dell’amore. Per questo motivo, solo quando il percorso evolutivo della relazionalità si incrocia con l’esperienza effettiva della tenerezza, l’individuo è in grado di realizzare – in maggiore o minore misura – il suo desiderio di felicità» (p. 36).

Carlo Rocchetta, Teologia della tenerezza, EDB, 2000, pp. .


Si può accedere  ad ogni singola pagina pubblicata aprendo il file word     

  logo-wordIndice completo delle pagine pubblicate (ordine alfabetico per autore) al 17-06-2016


N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo: info@petiteplaisance.it, e saranno immediatamente rimossi.


 

***********************************************
Seguici sul sito web 

cicogna petite***********************************************

Okakura Kakuzō (1863-1913) – Il dono della prima ghirlanda. Ci vantiamo di aver conquistato la materia, dimenticando che è stata questa a ridurci in schiavitù

Okakura
The Book of Tea

The Book of Tea

Lo zen e la cerimonia del té

Lo zen e la cerimonia del té

«L’uomo primordiale trascese la sua condizione di bruto quando offrì la prima ghirlanda alla sua fanciulla. Elevandosi al di sopra dei bisogni naturali primitivi, egli si fece umano. Quando intuì l’uso che si poteva fare dell’inutile, l’uomo fece il suo ingresso nel regno dell’arte. […]
Avete notato che i fiori selvatici diventano ogni anno più rari? Forse i loro saggi li hanno esortati ad andarsene, sin quando l’uomo non diventerà più umano. […]
Ci vantiamo di aver conquistato la materia, dimenticando che è stata questa a ridurci in schiavitù».                                                            

Okakura Kakuzō, Lo zen e la cerimonia del tè, Feltrinelli.

Okakura Kakuzō

Okakura Kakuzō

 

cha

Risvolto di copertina
Opera di una personalità complessa – Okakura fu al contempo un grande a (1906) fstudioso dell’Oriente, un messia autorevole e autoritario e un poeta – The Book of Teu scritto in inglese per un pubblico occidentale. Okakura volle spiegare i caratteri dell’orientalità attraverso il simbolo del tè. Come in un romanzo ne racconta la storia, descrivendone la cerimonia, quasi religiosa, che si dispiega in un vero e proprio rito. Rito che sancisce l’inconfutabile sottomissione del presente agli avi e al passato, manifestando nella concretezza di un evento quotidiano, e insieme atavico, l’obbedienza tipicamente giapponese all’autorità degli antenati, e la rivolta morale ed estetica contro l’occidentalizzazione che minaccia le fondamenta dell’anima giapponese più profonda. “Oriente e Occidente, come due draghi scagliati in un mare agitato, lottano invano per riconquistare il gioiello della vita... Beviamo, nel frattempo, un sorso di tè. Lo splendore del meriggio illumina i bambù, le sorgenti gorgogliano lievemente, e nella nostra teiera risuona il mormorio dei pini. Abbandoniamoci al sogno dell’effimero, lasciandoci trasportare dalla meravigliosa insensatezza delle cose.”

Okakura Kakuzō

Okakura Kakuzō



 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

Claudia Baracchi – Filosofia antica e vita effimera. Migrazioni, trasmigrazioni e laboratori della psiche

Claudia Baracchi, Filosofia
Claudia Baracchi

Filosofia antica e vita effimera

Migrazioni, trasmigrazioni e laboratori della psiche

ISBN 978-88-7588-245-7, 2020, pp. 112.

indicepresentazioneautoresintesi

I testi qui raccolti ripercorrono due seminari residenziali in cui confluivano studi di filosofia antica e un’insolita composizione di temi: il rapporto tra greco e non greco, e le peripezie del pen­siero tra il Mediterraneo degli Elleni, il Levante, l’Egitto, in onde migratorie che saranno costitutive dell’Europa; il rapporto tra filosofia e vita, soprattutto la vita sofferente, quale è variamente ma senza eccezioni la vita mortale, esposta e vulnerabile a ogni rovescio; il rapporto tra l’esercizio della ragione e ciò che la ec­cede, si chiami natura, dio, intelletto o in altro modo; al limite, il rapporto tra theoria e praxis. Volgersi al passato in una modalità interrogativa significa soprattutto ricalibrare la nostra domanda su noi stessi, chiederci come siamo diventati quello che siamo, attraverso quali vicende, ma anche e soprattutto attraverso quali dimenticanze, quali sparizioni, quali discontinuità e ricadute nella latenza. Vale a dire: come siamo giunti qui dove ci troviamo, per quali percorsi consapevoli, ma anche inconsci e bui – giacché il passato (tanto individuale quanto collettivo) è saturo di ciò che, di esso, non è stato ancora mai visto e deve ancora accadere.

 


Indice

Introduzione. Teoresi delle farfalle

Primo incontro: seminario d’autunno
Heidegger: la fine e l’inizio
Esercitare la vita

 

Secondo incontro: laboratorio di primavera
Aristotele, i poeti, Eros rilucente
Aristotele, gli antichi, gli dèi
Spazio, tempo, contraddizione

 

Immagini sulla soglia di Platone
L’albero
Il fuoco
Il rasoio e i cavalli

 

Il guerriero e la morte
Compito del guerriero
Il mito del guerriero

Riferimenti bibliografici

Claudia Baracchi – Incontrare l’antico può liberare risorse inattese per il pensiero, mettere a fuoco domande che non hanno cessato di riguardarci. E l’amicizia è il nome di un’apertura all’inconsueto.
Claudia Baracchi – Amicizia è disposizione verso il bene, verso il bene della vita, e non richiede conformismo. Tra amici similitudine e reciprocità vanno intesi alla luce di una propensione all’eccellenza, al perfezionamento della vita.
Claudia Baracchi – L’universalismo moderno sorge nell’astrazione. Invece, per l’esperienza antica, l’universale sorge nell’ampliamento d’orizzonte capace di cogliere la tessitura complessiva. Il filosofo rivela l’umano proprio nello slancio dell’umano oltre se stesso, in quell’apertura al possibile e nel possibile. Così, l’esplorazione del possibile trasgredisce e rivolta i confini del noto.


Claudia Baracchi, Diventare madre – YouTube


Un tuffo …

… tra alcuni dei  libri di Claudia Baracchi …


31eMqFKLMWL._SX331_BO1,204,203,200_

Claudia Baracchi

Amicizia

Mursia, 2016

«Uomini e donne».

Platone, Apologia di Socrate, 41b-c.

L’universalismo moderno sorge nell’astrazione, nella separazione dai fenomeni eterogenei e irregolari, nella lontananza che uniforma.
Per l’esperienza antica, invece, l’universale sorge nell’ampliamento d’orizzonte che contempla i singoli fenomeni cogliendone a un tempo le differenze irriducibili e i nessi, la tessitura complessiva

« […] la concezione antica dell’anthropos mostra che non c’è contraddizione, né incompatibilità, tra il mio interesse e quello degli altri […]. Per l’umano così inteso, l’amicizia è il fondamento di ogni registro e variazione relazionale. È il luogo in cui il singolo si realizza e in cui può darsi la solidarietà che rende l’insieme coeso. Ed è qui, in questa esperienza concreta, vissuta, singolare, che si radica lo sviluppo universale.
L’universalità non è una invenzione cristiano-moderna; gli antichi conoscono bene la prospettiva “secondo il tutto“, ma pervengono ad essa per una via completamente differente. L’universalismo moderno sorge nell’astrazione, ovvero nella separazione dai fenomeni eterogenei e irregolari, nella lontananza che uniforma.
Per l’esperienza antica, invece, l’universale sorge nell’ampliamento d’orizzonte, ovvero in uno sguardo che, divenuto più capiente, contempla i singoli fenomeni cogliendone a un tempo le differenze irriducibili e i nessi, la tessitura complessiva.
Così intesa, l’universalità si articola su uno sfondo esperienziale, mantiene il contatto con la concretezza dei vissuti, sempre differenti e cangianti, eppure anche visti nell’insieme. È così che diventa possibile comprendere la relazione, l’essere in comunione e comunanza non come insidia o camicia di forza per il singolo, ma come risorsa. […]
L’amicizia pensata more graeco […] suggerisce che stare insieme non è un caso da sopportare malvolentieri, per contratto, con rassegnazione, ma un piacere, e una possibilità di realizzazione. E soprattutto: più che un limite alla mia libertà di individuo, l’altro, gli altri, il “noi” sono ciò che rende possibile il mio essere, sono costitutivi del mio essere quello (quella) che sono, proprio l’individuo singolare che io sono.» (pp. 17).

«Noi abitanti della modernità tarda siamo a malapena in grado di intendere quello che dicono gli antichi: per loro essere buoni significa essere felici, sentirsi dischiudere nella vastità della vita, ricercandone l’inveramento» (p. 57).

Noi moderni della tarda ora siamo connessi, ma non tra di noi, bensì alla macchina, eampiamente risucchiati fuori di noi, prosciugati, come gusci vuoti appesi ai terminali della rete
«Noi moderni della tarda ora, venendo dopo Kant, abbiamo creduto di poterci emancipare dal bene-dovere rovesciandolo, appunto, in parodia. […] Resta molto arduo, per noi, intendere del bene altri risvolti, altre configurazioni possibili. E per questo, nella nostra epoca tarda, termini o espressioni come “bene comune”, “cittadinanza”, “comunità”, rischiano di perdere il senso concreto e la prossimità viva. Non riconoscendo il bene come realizzazione di sé in seno a un noi, crediamo di trovare libertà e felicità in comportamenti puramente arbitrari e sconnessi.
Oppure siamo connessi, ma non tra di noi, bensì alla macchina, e tramite “la macchina” comunichiamo globalmente, ormai ampiamente risucchiati fuori di noi, prosciugati, come gusci vuoti appesi ai terminali della rete. Ma, così intesa, la connettività è contraffazione della comunità degli amici, così come la “realtà aumentata” è contraffazione della pienezza della vita» (p. 58).

Il filosofo rivela l’umano proprio nello slancio dell’umano oltre se stesso,
in quell’apertura al possibile e nel possibile.
«Preso da una indominabile visione di felicità, il filosofo intravede una possibilità, indovina un riverbero di ciò che l’umano può e può essere. Tale esperienza di rapimento (un’esperienza travolgente, potenzialmente devastante nei confronti delle costruzioni umane) agisce come un promemoria inesorabile dell’irriducibilità dell’umano alle sue stesse istituzioni. Rammenta all’essere umano ciò che, in lui, supera la dimensione umana, indicandogli quello che può diventare.
Il filosofo rivela l’umano proprio nello slancio dell’umano oltre se stesso, in quell’apertura al possibile e nel possibile. Nell’esperienza filosofica è al contempo ricordato e annunciato l’essere umano a venire.

Il filosofo è una figura inaugurale che ritiene le tracce del lascito
ma insieme lascia presagire un’umanità nuova
Così, dunque, nell’inflessione filosofica l’eroe diventa qualcosa di radicalmente altro: una figura inaugurale, che ritiene le tracce del lascito ma insieme lascia presagire un’umanità nuova; un guerriero disarmato, privo di nome e reputazione, per il quale la lotta e il combattimento si svolgono lontani dal campo di battaglia, dalle competizioni, dagli onori e dalle benemerenze. […] La visione socratica di un altro mondo, in cui “uomini e donne” possano confrontarsi e crescere insieme evoca la comunità degli amici come comunità di dialogo e ricerca. È notevole che Socrate vi includa esplicitamente le donne. In Platone e nella tradizione pitagorica questo gesto è frequente e, allo stesso tempo, in netta controtendenza rispetto agli usi della polis. E, dovremmo dire, non soltanto in contrasto con la Atene del V e IV secolo, se è vero che nel discorso filosofico stesso finirà presto col prevalere la celebrazione dell’amicizia come relazione esclusiva tra uomini» ( p.107).

L’esplorazione del possibile trasgredisce e rivolta i confini del noto

«La visione aperta dell’essere umano e della sua potenzialità (dynamis), di ciò che può fare, essere e divenire, rende possibile non solo intravedere una comunità fin qui inimmaginabile, ma anche considerarla in quanto tale non impossibile. L’esplorazione del possibile trasgredisce e rivolta i confini del noto» (p. 145).

***

Risvolto di copertina

 «L’amicizia sorge in seno all’estraneità, rivolgendosi all’esterno: cerca il rapporto non tanto con chi sta vicino, ma con chi viene da lontano. Ancora prima di designare l’approfondimento dell’intimità e della consuetudine, l’amicizia è il nome di un’apertura all’inconsueto». Affrontare il tema dell’amicizia nell’epoca di Facebook e dei social network richiede coraggio e perfino una certa impertinenza. La relazione amicale comporta fiducia, fedeltà, disponibilità alla condivisione profonda. Ebbene, assicurano i sociologi, mai questo atteggiamento fu più improbabile che nel nostro tempo di drammatica riconfigurazione antropologica. La ricerca sull’amicizia non può dunque prescindere dal pensiero antico: con profondità ineguagliata esso ne indovina le più ampie implicazioni, affettive quanto politiche. Le epoche successive non oseranno tanto, e l’amicizia scomparirà dal pensiero politico così come da ogni considerazione complessiva sull’essere umano. L’Autrice percorre gli snodi della riflessione antica, nella convinzione che abbia a che fare con mondi a venire.


larchitettura-dellumano-188733

Claudia Baracchi

L’architettura dell’umano
Aristotele e l’etica come filosofia prima

Vita e Pensiero, 2014

Il secolo scorso ha variamente proclamato la fine della filosofia in quanto metafisica. Nel nuovo millennio si indovinano, a livello istituzionale, sintomi di una sempre più conclamata obsolescenza degli studi umanistici, e quindi della filosofia intesa come disciplina accademica ed esercizio puramente intellettuale. Eppure, nel gesto ampio di questo transito epocale, trovarsi di fronte ai testi antichi può essere occasione di esperienze sorprendenti. Vale a dire, avvicinarsi al testo nella sua materialità impervia, nell’effetto straniante della sua opacità, nella sua refrattarietà alla risoluzione interpretativa o manualistica, può liberare risorse inattese per il pensiero, mettere a fuoco domande che non hanno cessato di riguardarci – che interrogano l’umano, le sue vicende e possibili configurazioni, le scelte, i percorsi, l’ipotesi della felicità. Incontrare l’antico (Aristotele, per esempio) in questo modo implica coltivare l’intimità con ciò che ancora ci elude. Allora diagnosticare la fine, intravedere altri inizi, non significa superare, passare oltre, né ancora andare altrove. L’origine ci scruta enigmatica. Il suo mistero inconsumato ci sta davanti. Lungi dal comportare una deposizione o un ritorno, lo sguardo volto al passato si espone a ciò che nel passato resta impensato, inaudito. Forse è proprio cogliendo l’antico nel suo carattere insondabile che si vi può intravedere la possibilità inespressa, ciò che si annuncia ma resta in ombra: nella fine, in seme, il compito del pensiero a venire.


314y2bXAlTL._BO1,204,203,200_

Claudia Baracchi

Aristotle’s Ethics as First Philosophy

Cambridge University Press, 2007

In Aristotle’s Ethics as First Philosophy Claudia Baracchi demonstrates the indissoluble links between practical and theoretical wisdom in Aristotle’s thinking. Referring to a broad range of texts from the Aristotelian corpus, Baracchi shows how the theoretical is always informed by a set of practices, and specifically, how one’s encounter with phenomena, the world, or nature in the broadest sense, is always a matter of ethos. Such a ‘modern’ intimation can, thus, be found at the heart of Greek thought. Baracchi’s book opens the way for a comprehensively reconfigured approach to classical Greek philosophy.

Estratto:

Leggi l'estratto


Il cosmo della Bildung

Il cosmo della Bildung

Risvolto di copertina

Montagna theologica, caverna cosmica o cielo della controriforma, la Cupola di Santa Maria del Fiore ha sempre rappresentato un grandioso programma idealedidattico per l’architettura. Possiamo trascriverlo in un’equazione: l’educazione sta all’ideale come l’architettura sta all’attuale. Un’espressione a quattro incognite vincolate tra loro. Tra queste quella dell’ideale è la meno chiara per le scienze e la più oscura per le coscienze. Comunque, nella cultura del nostro tempo, l’educazione è ridotta ad accumulazione di regole, l’ideale al funzionale, l’architettura a pratica socionormativa, l’attualità a cronologia. In altre parole l’ideale ci richiede sempre un enorme sforzo critico rispetto a tutti i saperi. Esso ci costringe a ripercorrere la biforcazione secolare impressa dalla cultura tecnico-scientifica all’idea di “reale”: quella tra trascendenza e immanenza.




M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

Karen Blixen (1885-1962) – Perché «Petite Plaisance»? Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno una cicogna? La prima dote è l’immaginazione.

Karen Blixen 01

Le strade della vita

Quand’ero bambina, mi mostravano spesso un disegno – un disegno animato in un certo senso: tracciandolo sotto i miei occhi, raccontavano anche una fiaba, che diceva così:

Un uomo viveva in una casupola tonda con una finestra tonda e un giardino a triangolo. Non lontano da quella casupola c’era uno stagno pieno di pesci. Una notte l’uomo fu svegliato da un rumore tremendo e uscì di casa per vedere cosa fosse accaduto. E nel buio si diresse subito verso lo stagno.

A questo punto il narratore cominciava a disegnare la pianta delle strade percorse dall’uomo come si fa quando si indicano sulla carta gli spostamenti di un esercito.

Prima l’uomo corse verso nord, ma inciampò in un gran pietrone nel mezzo della strada; poi, dopo pochi passi, cadde in un fosso; si levò; cadde in un altro fosso, si levò, cadde in un terzo fosso e per la terza volta si rimise in piedi.

Allora capì di essersi sbagliato e rifece di corsa la strada verso nord.
Ma ecco che gli parve di nuovo di sentire il rumore a sud e si buttò a correre in quella direzione.

Prima inciampò in un gran pietrone nel bel mezzo della strada, poi dopo pochi passi, cadde in un fosso, si levò, cadde in un altro fosso, si levò, cadde in un terzo fosso e per la terza volta si rimise in piedi.

Il rumore, ora lo avvertiva distintamente, proveniva dall’argine dello stagno. Si precipitò e vide che avevan fatto un grande buco, da cui usciva tutta l’acqua con i pesci. Si mise subito al lavoro per tappare la falla, e solo quando ebbe finito se ne tornò a letto.

La mattina dipoi affacciandosi alla finestrella tonda – il racconto finisce così, in maniera drammatica – che vide? Una cicogna!

Son contenta che mi abbiano raccontato questa fiaba. Al momento giusto mi sarà di aiuto. L’avevano imbrogliato, l’ometto, e gli avevano messo tra i piedi tutti quegli ostacoli: «Quanto mi toccherà correre su e giù?», si sarà detto. «Che nottata di disdetta!».
E si sarà chiesto il perché di tante tribolazioni: non lo poteva sapere davvero che quel perché era una cicogna.
Ma con tutto ciò non perse mai di vista il suo proposito, non ci fu verso che cambiasse idea e se ne tornasse a casa, tenne duro fino in fondo. Ed ebbe la sua ricompensa: la mattina dopo vide la cicogna. Che bella risata si dovette fare.

Questo buco dove mi muovo appena, questa fossa buia in cui giaccio, è forse il tallone di un uccello?

Quando il disegno della mia vita
sarà completo,
vedrò,
o altri vedranno una cicogna?

Karen Blixen, La mia Africa, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 198-200.




«Ricordava quante volte il padre aveva riso di lei perché […]  sapeva vedere un problema sotto un solo aspetto. “La prima dote, ragazza mia, di cui si ha bisogno per comportarisi come persosne ragionevoli ed equilibrate, è l’immaginazione» (pp. 22-23).

«La bellezza della natura, la musica, la poesia e l’arte, sono indissolubilmente legate all’amore» (p. 170).

Karen Blixen, I vendicatori angelici, Adelphi, Milano 1994.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

Gabriella Turnaturi – Le metamorfosi della vergogna, il suo essersi celata, corrisponde alla perdita di consapevolezza dell’interdipedenza, dell’intersoggettività, corrisponde all’affermazione patetica e illusoria di un Io solo, autonomo e senza limiti

Gabriella Turnaturi, Vergogna

«La maschera per tutti è quella dell’allegro gaudente».

G. Turnaturi

 

 

 

«Le metamorfosi della vergogna,
il suo essersi celata,
corrisponde alla perdita di consapevolezza
dell’interdipedenza, dell’intersoggettività,
corrisponde all’affermazione
patetica e illusoria di un Io solo,
autonomo e senza limiti».

Gabriella Turnaturi, Vergogna. Metamorfosi di un’emozione, Feltrinelli, Milano 2012.

 

«Tutte le emozioni sono sociali, la vergogna lo è più di tutte, perché si prova in relazione a un altro, che sia presente o assente non fa grossa differenza. Se infatti ci si vergogna rispetto a un’idea alta che si ha di sé, ci si vergogna non meno per il giudizio che ci immaginiamo che gli altri daranno di noi. La vergogna si forma sempre rispetto all’esistenza dell’altro. Partendo da qui, notiamo come uno degli elementi caratterizzanti della cultura contemporanea sia la cancellazione dell’altro. Come potrebbe essere altrimenti se l’altro è vissuto come un impedimento alla nostra realizzazione? Qui neoliberismo, individualismo, senso moderno della vergogna e cancellazione dell’altro si tengono assieme: conta l’affermazione narcisistica di sé, non c’è spazio per la vergogna. Poiché la vergogna fa da sentinella alla solidità del legame sociale, ci dice quanto forte esso sia, deduciamo che oggi esso è molto indebolito. Il che non significa che si debba tornare alla società della gogna e che non vadano respinti metodi come quello dello shaming, il marchiare visibilmente chi è reo di certi reati, affiggendo cartelli sull’auto o sulla casa».

«È la vergogna collettiva. Se attraverso un dibattito pubblico un popolo tematizza quella che è stata una vergogna nazionale, il risultato può essere non semplicemente la memoria di ciò che è stato, in luogo dell’oblio, ma anche la possibilità di immaginare insieme un futuro alternativo. Dove manca questa operazione di assunzione di responsabilità del passato, inclusa l’accettazione della vergogna, si fatica a dipingere un futuro comune e senza ombre. L’Italia, ad esempio, non ha mai tematizzato la vergogna delle leggi razziali, ha sempre cercato di minimizzare la portata dell’evento, con l’effetto di non creare una forma di tutela dalla possibile rinascita di altre forme di razzismo. Diffido dei riti collettivi di espiazione, mentre è necessaria una elaborazione culturale, sincera, nella quale ciascuno si assume le proprie responsabilità».

 

 

 

Risvolto di copertina

“Non c’è più vergogna”, così almeno si dice, e si tende a pensare che con la vergogna sia venuto meno anche ogni senso della dignità e dell’onore. Ma le emozioni non scompaiono, tutt’al più si trasformano. Muta il modo di esprimerle, muta la loro rilevanza individuale e sociale. Allora dove si è nascosta e quali forme assume oggi la vergogna? Mai come negli ultimi anni, soprattutto in Italia, si è fatto ricorso alla parola “vergogna”, ma questa ha perso ogni sua connotazione semantica. Non si sa più che cosa significhi e diviene l’ultimo insulto alla moda contro avversari politici, concorrenti in affari, nemici, comunque gli altri. Di fatto non esistono società senza vergogna, poiché è un’emozione fondamentale per i legami sociali, ma anche per l’esercizio del potere. In questo volume si analizza come, nella società contemporanea, la frammentazione dell’insieme sociale, la spettacolarizzazione, l’iperindividualismo misto al nuovo conformismo del “così fan tutti” hanno dato vita a una sorta di vergogna “fai-da-te”. Emozione che sembra nascere non dalle azioni che si compiono ma solo in rapporto alle prestazioni, al timore di risultare inadeguati nell’esibizione di sé. Gabriella Turnaturi, attraverso l’analisi di fatti di cronaca, testi letterari, film, interviste, svela i molti volti della vergogna contemporanea in relazione ai mutamenti delle sensibilità e dei valori condivisi, e ne indica un possibile uso positivo.

Eva nel Giardino dell’Eden di Anna Lea Merritt del 1885 (Corbis).

Bibliografia

  • Lorenzo Bruni, Vergogna. Un’emozione sociale dialettica, Orthotes, Napoli-Salerno, 2016.
  • Anna Maria Pandolfi, La vergogna, Franco Angeli, 2002
  • Krishnananda, Amana,Vincere la vergogna,ed Apogeo,
  • Amato L. Fargoli, Non c’è più vergogna nella cultura, ed Alpes Italia, 2012
  • A. Battacchi,Vergogna e senso di colpa, ed. Cortina, 2002
  • A. Ernaux,La vergogna,ed L’Orma, 2018
  • G. Turnaturi,Vergogna. Metamorfosi di un’emozione,ed Feltrinelli, 2002
  • L.  Anolli, La vergogna, Il Mulino, 2000
  • V.  D’Urso, Imbarazzo, vergogna ed altri affanni, Raffaello Cortina, 1990
  • M. A.  Fossum., M. J. Mason, Il sentimento della vergogna, Astrolabio, 1987
Eva si copre e abbassa il capo in segno di vergogna. Auguste Rodin, Eva.
“Caino” di Henri Vidal (Marka).
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

Salvatore Bravo – Globalizzazione / glebalizzazione

Riccardo Staglianò
Salvatore Bravo

Globalizzazione / glebalizzazione

La globalizzazione pone quesiti imprescindibili sul futuro dell’umanità e di ciascuno. È necessario filtrare i messaggi che disorientano per “riflettere sulla durezza del problema”. I trombettieri della globalizzazione rappresentano l’interconnessione planetaria come una destino a cui non ci si può sottrarre. L’operazione ideologica si ripete secondo parametri operativi sempre uguali: si osannano le potenzialità del mercato globale, le tecnologie, si sciorinano numeri e nel contempo si occultano la verità e le tragedie etiche di cui è portatrice. Non sono “convenzionali tragedie della storia umana”, ma ci si trova dinanzi a processi tendenzialmente irreversibili che, nel loro incedere graduale, rischiano concretamente di minacciare ogni forma di vita e civiltà.

Si assiste ad una mutazione antropologica definita “rivoluzione”, ma in realtà si tratta di una regressione. Il termine rivoluzione ha un’accezione positiva. Si scorgono, invece, nel present,e i primi segni della barbarie che verrà. Il lavoro e la sua scomparsa a causa della robotizzazione crescente ed incontenibile è parte della regressione umana che si configura. Il lavoro non è una maledizione biblica, può esserlo in particolari condizioni materiali ed ambientali, ma il lavoro è parte sostanziale dei processi attraverso cui la persona ed intere classi sociali divengono consapevoli della propria condizione, e assumono il compito della lotta e dell’emancipazione per sé e per l’umanità. Senza il lavoro condiviso e simbolizzato non vi è che la tragedia dell’atomismo. Hegel, nella Fenomenologia dello Spirito, descrive la figura “servo-padrone”: il servo, attraverso il lavoro, impara a trasformare la natura, educa il proprio carattere e specialmente impara che non necessita del padrone, che la forza del padrone è la sua paura. Il lavoratore scopre di essere il motore della storia e che il signore dipende dal servo. Senza il lavoro non vi è coscienza di sé, delle proprie capacità, e non vi è, specialmente senso sociale. Il lavoro è ricchezza: non solo perché permette la sopravvivenza, ma perché forgia il soggetto, gli dà il carattere senza il quale non sarebbe che un fuscello al traino delle tempeste della storia. In Marx il lavoro non scompare, e nel comunismo è sostituito dalla libera espressione di sé, la quale è la forma più nobile di lavoro a cui giungere. L’estinzione del lavoro nella contemporaneità non è causato solo dal plusvalore aumentato in modo esponenziale, per pochissimi, con la sostituzione degli esseri umani con la robotica, al punto che Andrea Tagliapietra ha definito la globalizzazione “glebalizzazione”. La scomparsa del lavoro inquieta, poiché ha il fine di devitalizzare i popoli, di ridurli a plebi, a consumatori senza diritti. Senza il lavoro comune non vi è politica, perché essa ha la sua genealogia nella condivisione di esperienze che permettono di rimappare i significati, di assumere una postura critica e di formulare una visione del mondo (Weltanschauung). Senza di essa non vi è possibilità di resistere, ogni dialettica della storia lascia il posto ad una massiccia glebalizzazione dell’umanità. Il cittadino è sostituito dal mendicante del consumo. Le responsabilità sono plurime: spesso sono le vittime che aiutano i carnefici, in assenza di strumenti culturali per poter decodificare il presente. Il lavoro scompare poiché i clienti scelgono i prodotti meno costosi delle multinazionali, dietro le quali vi è robotizzazione e precarietà. Il martello dell’economia batte, è trasversale, impedisce di comprendere che ogni atto è un gesto politico, un semplice acquisto è un gesto che favorisce la proletarizzazione delle classi medie e rafforza il regno delle multinazionali che mentre offrono i loro prodotti a consumatori sempre più precari annichilisce il lavoro dei tanti e le loro coscienze:

 

«Come mi ha spiegato Jaron Lanier, uno dei padri della realtà virtuale fortunatamente ridisceso sulla terra, nella penombra del suo studio che è un monumento vivente al concetto di entropia: “Ci piace la musica gratis, ma poi gridiamo allo scandalo per l’orchestrale nostro amico che non ha più fondi. Ci eccitiamo per i prezzi online stracciati, e poi piangiamo per l’ennesima serranda abbassata. Ci piacciono anche le notizie a costo zero, e poi rimpiangiamo i bei tempi in cui i giornali erano in salute. Siamo felicissimi dei nostri (apparenti) buoni affari, ma alla fine ci renderemo conto che stiamo dilapidando il nostro valore”. Per tutti questi motivi, a una generazione dalla nascita della New Economy, ho pensato che era il caso di fare un viaggio, il più laico possibile, nel lato oscuro della Forza. Non per provare a fermarla, che è impossibile e neppure auspicabile. Ma per disattivare il pilota automatico e reclamare il posto del conducente. Perché web e robot ci tolgono la terra sotto i piedi, ma non sono eventi naturali imprevedibili come i terremoti. Solo se continueremo a comportarci come se il progresso che portano sia indiscutibile, ineluttabile e ingovernabile finiremo sotto le macerie. Io, che rimango sostanzialmente entusiasta, sono convinto che possiamo ancora evitare che vada così».[1]

 

Economia “smart”

La velocità e l’efficienza degli acquisti online consente alle multinazionali di presentarsi come “smart”. Il consumatore dinanzi alla velocità ed alla possibilità di un’agile restituzione intravede negli acquisti online un servizio insostituibile che gli garantisce la soddisfazione dei suoi desideri quotidiani in modo veloce, senza il fastidio di recarsi in negozio, di dover attendere, semplicemente con un clic può soddisfare se stesso e sentirsi per un attimo onnipotente: le frustrazioni quotidiane, la malinconia di vivere per un attimo trova il suo balsamo. Il clic è un farmaco[2] nel senso etimologico della parola, il clic ripetuto trasforma “la cura in veleno”, poiché distrugge il tessuto economico della classe media a cui appartiene, per cui la gioia immediata di clic in clic diventerà la sua disgrazia, gli sottrarrà il suo lavoro facendone un precario sempre sulla soglia della miseria. La New economy non è compresa, non è conosciuta, e non è un caso. Nelle scuole si insegna l’uso delle tecnologie, ma non il contesto economico e di potere del loro uso ed i suoi effetti. Non si sollevano dubbi, si hanno solo certezze, il futuro sarà digitale, per cui non resta che adattarsi. Si cela la verità, “l’apparir del vero”. L’avanzare celere della nuova economia non trova resistenza, e specialmente non incontra che un’umanità abituata a ragionare secondo l’immediato. L’immaginazione creativa è sepolta tra clic ed il martello dell’economia. La politica in generale non accoglie l’urgenza del problema, non risponde ai popoli, ma semplicemente si appiattisce agli ordini delle multinazionali che finanziano le campagne elettorali:

 

«La New Economy, ormai è ufficiale, non l’abbiamo capita. Me ne rendo conto adesso, con circa venti anni di ritardo. O meglio, ci siamo entusiasmati di fronte ai suoi vantaggi (chiunque avesse una buona idea poteva diventare ricco, con trascurabili investimenti iniziali) e abbiamo trascurato gli svantaggi collegati alle dinamiche delle tante compagnie internettiane, da Netscape ad Amazon, che fecero spettacolari quotazioni in Borsa a partire dalla metà degli anni ’90. Eravamo tutti troppo presi a favoleggiare intorno alle stock option delle segretarie di Yahoo! che le avrebbero presto trasformate in milionarie in dollari per fermarci a ragionare intorno a un fastidioso effetto collaterale di quella fenomenale e sin troppo rapida creazione di ricchezza. L’effetto collaterale, la caratteristica essenziale di cui parlo, è che tutti quei soldi venivano generati grazie a una minima porzione di lavoratori rispetto al passato. Quando il 9 agosto 1995 Netscape si quota e viene valutata 2,9 miliardi di dollari ha una trentina di dipendenti. In Italia, dove gli eccessi sono stati molto minori che negli Stati Uniti, quando Tiscali si quota nell’ottobre del ’99 arriva a essere valutata 35 mila miliardi di lire, ovvero quasi quanto Fiat. Che però dava lavoro a oltre 221 mila persone, ovvero 63 volte tanto il service provider sardo. Per non dire che la prima aveva creato quella ricchezza in cento anni, mentre la seconda in uno. Si capiva che c’era qualcosa di anomalo, ma quasi nessuno segnalò il cambiamento di più vasta gittata. Ossia: nella Vecchia Economia i lavoratori erano consumatori e i consumatori erano lavoratori. Se aumentava il salario dei primi, i secondi spendevano di piú e qualche altro lavoratore doveva produrre di piú per saziare i nuovi acquirenti. E cosí via. A quell’epoca gli uomini, un discreto numero di loro, erano ancora necessari per produrre ricchezza. Nella Nuova Economia no, perché i siti e le piattaforme che la incarnano si prestano benissimo a essere scalabili, ovvero a servire un pubblico dieci, cento, mille volte più ampio solo aggiungendo dieci, cento, mille computer in più. Chi ha memoria ricorderà cosa successe allora. Lo sboom del marzo 2000 fece pulizia di tante illusioni, nella maniera più cruenta possibile».[3]

 

La salivazione per gli acquisti

L’impero della globalizzazione ha la sua forza nella fragilità dialettica dei servi. A tale debolezza si è giunti dopo decenni di smantellamento dei corpi medi della democrazia: partiti, sindacati, associazioni nei quali l’incontro era il fondamento per capire e progettare azioni di lotta. Ai corpi medi non si è sostituito nulla, il vuoto ha permesso l’avanzata del nichilismo nella forma degli ipermercati, dove si impara a condividere la “salivazione” per gli acquisti ed a sostituire il concetto, la parola che unisce con l’esame merceologico. Solo in questa cornice è possibile occultare dati anche palesi, ed il più evidente è che la globalizzazione erode mestieri e professioni per sostituirli con il nulla, con la disoccupazione perenne e senza speranza:

 

«Lo studio si intitola The Future Of Employment: How Susceptible Are Jobs To Computerisation?, è datato 17 settembre 2013 e lo firmano Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne. I due ricercatori analizzano il mercato statunitense del lavoro e lo suddividono in 702 diverse occupazioni. Poi valutano la probabilità che, entro il ventennio successivo, un determinato mestiere venga rimpiazzato da una macchina. Il risultato è spaventoso: il 47 per cento dei mestieri analizzati ricade nella categoria ad alto rischio di sostituzione da parte di robot o algoritmi. Tra i sostituibili figurano la maggior parte degli addetti ai trasporti e alla logistica, i lavori d’ufficio e amministrativi di basso rango nonché quelli nelle linee di produzione dell’industria. Quelli piú a rischio di tutti sarebbero gli addetti al telemarketing, assicuratori, riparatori di orologi e preparatori di dichiarazioni dei redditi».[4]

Impossibile competizione

Non è secondaria la mortificazione con cui la globalizzazione infetta i popoli: il servo deve competere con algoritmi e macchine, deve constatare la sua nullità, ogni giorno deve verificare che essere ”umani” è uno svantaggio, perché le macchine possono ciò che per ciascuna persona è possibile solo nelle fantasie di onnipotenza senza freno. Il nuovo servo introietta che ogni competizione con la macchina non può che scoprirlo vulnerabile e perennemente sconfitto, per cui è facile rassegnarsi alla condizione di servi:

 

«Avvistamenti non dissimili sono stati fatti in altre fabbriche americane, comprese quelle della Honda, della General Motors, della Nissan o della Toyota in cui a molti robot sono stati dati nomi di animali. E non è un vezzo solo statunitense. Nello stabilimento Nissan di Kyushu, nel sud del Giappone, i grossi robot che saldano e assemblano sono stati chiamati come personaggi di anime. Minsoo Kang, un professore di lettere all’università del Missouri a St Louis, ha scritto un libro dal titolo Sublime Dreams of Living Machines e si è interrogato sul perché di questa tendenza umanizzante. Dice: “Non diamo un nome alle forbici, ma quando cominciano a fare azioni da umani, lo facciamo”. Da una parte c’è il rispetto, dall’altra la paura. “Nel profondo questi lavoratori sono impauriti. Se le macchine non sono controllate, potrebbero risultare estremamente pericolose”. Già dar loro un nome le fa sentire meno aliene. Per quanto riguarda le scelte di Rethink Robotics, Baxter era il termine inglese arcaico per indicare una fornaia mentre Sawyer era il nome desueto di colui che tagliava il legno».[5]

 

La quotidiana mortificazione, l’impossibile competizione è sostenuta dalla propaganda del capitale che magnifica la sostituzione umana nel lavoro come un traguardo finalizzato a rendere le vite di tutti “più umane”, meno faticose e noiose. Si utilizza il linguaggio marxiano della liberazione dalla fatica, in realtà si punta ad indebolire le capacità critiche ed organizzative. Vi sono umanoidi che già collaborano nelle redazioni, erodono il lavoro dei giornalisti, l’utile immediato rischia di essere pagato a caro prezzo in futuro, in assenza di norme che limitiamo “le collaborazioni umanoidi”. L’evoluzione degli umanoidi potrebbe in futuro sostituire i giornalisti, i docenti, i traduttori ecc. in questo modo il potere globale si libererà delle idee e della coscienza umana sostituendole con docili umanoidi. È indispensabile conservare la visione olistica degli eventi, vedere con gli occhi della mente ciò che potrebbe accadere in futuro per potersi opporre in modo costruttivo “al mondo nuovo che avanza” con i suoi dispositivi di controllo e sostituzione delle coscienze:

 

«Prima di congedarsi Hammond insiste sul punto che gli sembra dirimente: “Mettiamo che un giornale abbia un corrispondente dalla Germania che, come tutti gli esseri umani, non può leggere ogni giornale locale e coprire tutto. Mettiamo adesso che gli affianchiamo Quill che legge anche i giornali online di quartiere e riassume, secondo le regole che gli abbiamo dato, le storie piú interessanti perché statisticamente anomale. A quel punto il corrispondente potrà prendere il testimone e magari fare uno scoop di cui altrimenti non si sarebbe nemmeno accorto. Questo è il nostro scopo: liberare i giornalisti dalle occupazioni banali per consentire loro di dedicarsi a quelle piú creative. Piú in generale la nostra ambizione sarebbe quella di far sí che gli esseri umani possano risparmiare tempo per reinvestirlo nelle relazioni, in ciò che li rende davvero umani”. È un programma elettorale che non fa una piega. Liberare gli uomini dalla catene della noia e della ripetizione. Solo un folle potrebbe dirsi contrario. Eppure, come tanti progetti utopici, il rischio di virare in distopia va tenuto in considerazione. Perché, come l’apprendista stregone disneyano, una volta che abbiamo aperto le porte della redazione allo scrivente automatico quello non si ferma piú. Inizia con le brevi, e a forza di scriverle, le scrive sempre meglio. A quel punto, con un po’ di aggiustamenti dei parametri, l’algoritmo diventerà bravo anche nel mettere insieme articoli veri e propri. E poi ancora, istruendolo su come allargare il tiro e migliorare lo stile, sarà la volta degli editoriali. Magari mi preoccupo anzitempo, ma non posso fare a meno di pensare al celeberrimo sermone del pastore Martin Niemöller sull’ignavia degli intellettuali tedeschi di fronte all’ascesa del nazismo, reso popolare da Brecht: “Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare”».[6]

 

 

La parte e il tutto

Per difendere l’umano e l’umanesimo necessitiamo di immaginazione collettiva, della capacità di non lasciarsi ammaliare dall’immediato per poter prevedere possibili scenari futuri e prevenirli. Spetta a chiunque mettere in campo idee e progettualità senza le quali ogni possibilità di curvare le conoscenze al servizio degli esseri umani è persa. Perché tale obiettivo possa essere raggiunto si deve rimettere al centro la politica ed i corpi medi e specialmente un’istruzione che formi alla consapevolezza dei pericoli insiti nel mondo che verrà. Non è un destino che gli esiti esiziali si concretizzino, la responsabilità decisionale è ancora dei popoli e delle classi dirigenti. Il fascino degli algoritmi sta lasciando il posto alla verità della precarietà, della disoccupazione, del nichilismo senza speranza. La verità ha il potere di liberarci dal pericolo, anzi più grande è il pericolo maggiore è la possibilità di divergere da esso: “Dove c’è pericolo cresce anche ciò che salva” (Friedrich Hölderlin). Il senso del pericolo deve indurci a pensare, a riattivare le nostre energie politiche: ciascuno può dare il proprio contributo e favorire la rinascita contro la barbarie che avanza. Affinché vi possa essere il progetto alternativo è indispensabile il riorientamento gestaltico su due punti: l’economicismo e la rivoluzione passiva. L’economicismo, il nuovo integralismo totalitarismo dell’Occidente, dev’essere abbandonato per integrare l’economia all’interno di una cornice epistemica ed ideologica, in cui è posta al servizio della politica. Alla rivoluzione passiva bisogna sostituire la partecipazione attiva e reale. La rivoluzione passiva oggi è nella forma della partecipazione mediatica, nella perenne dipendenza dell’apparire rappresentata come “rivoluzionaria”, perché espressione del progresso tecnologico, del dominio dell’individuo, della parte sul tutto. La rivoluzione autentica deve saper discernere le tecnologie dalla consapevolezza delle logiche strutturali e sovrastrutturali di cui è organica. Il riorientamento gestaltico non può che avvenire in modo comunitario, per comunitario si intende ogni luogo nel quale la parola è veicolo di significato critico e non di manipolazione conservatrice. Il tutto viene prima della parte, e la parte ha il suo senso nel tutto. La politica è la consapevolezza di questa relazione che si radica nella storia. I classici ci sono di ausilio. Possono indicarci da dove iniziare, e il punto primo è che nessuno si salva da solo, perché siamo all’interno di un intero che attende risposte, senza le quali rischiamo di scivolare in una furiosa barbarie:

 

«Invero la città secondo l’ordine naturale viene prima della famiglia e di ciascuno di noi. Perché necessariamente l’intero viene prima della parte: in effetti, tolto l’intero, non vi sarà più né piede né mano, se non per omonimia, come nel caso in cui ci si riferisca a una mano di pietra – sarà infatti in una tale situazione quando sarà morta; tutte le cose sono definite dalla funzione e dalla capacità, sicché non bisogna dire che sono le stesse, quando non sono più tali, ma solo che hanno lo stesso nome. È chiaro dunque che la città è per natura e viene prima di ciascun individuo; se infatti un individuo, isolato, non è autosufficiente, sarà rispetto all’intero nella stessa relazione delle altre parti; e allora chi non è in grado di far parte di una comunità o in virtù della sua autosufficienza non manca di nulla, non è parte di una città, e quindi è o una belva o un dio».[7]

Se il cittadino si auto-percepisce solo come consumatore non si integra con la totalità, la conseguenza è l’impossibilità della politica e della comunità. Politica e filosofia hanno il compito di rifondare la relazione tra la parte ed il tutto, quale verità fondativa da cui riprendere il cammino interrotto. Alla trasmissione di dati e calcoli senza fondamento bisogna sostituire la comunicazione mediante la quale non solo i dati divengono oggetto della lettura collettiva, ma specialmente la comunicazione[8] implica la messa in comune della dialettica della progettualità, in assenza di questo, il potere non trova limite alcuno, ma prolifera e si installa nell’anomia generale. Ci si deve riappropriare della pratica della comunicazione e smascherare le forme orwelliane della stessa, senza tale operazione dialettica ci si consegna ad un mondo senza storia, regno degli algoritmi.

 

Salvatore Bravo

[1] Riccardo Staglianò, Al posto tuo. Cosí web e robot ci stanno rubando il lavoro, Einaudi, Torino, pag. 9

[2] Farmaco dal greco phármakon, ‘medicamento’ o ‘veleno’.

[3] Riccardo Staglianò, Al posto tuo…, op. cit., pag. 50.

[4] Ibidem pag. 55

[5] Ibidem pag. 66

[6] Ibidem pp. 81 82

[7] Aristotele, La Politica, l’Erma di Bretschneider, Roma 2011, p. 147.

[8] Comunicare dal latino: communicare, mettere in comune, derivato di commune

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

1 2 3 45