Giovanni Casertano – «Il bene e la linea». In appendice: “Autopresentazione: Prima divenni un noto pianista, e poi cominciai ad imparare la musica”.

Il massimo apprendimento è l’idea del bene, ciò che trasforma e dà verità alle conoscenze, che le immette nella concretezza della nostra esistenza, senza essere esso stesso riducibile all’esistenza, proprio in quanto al di là dell’esistenza: è l’orizzonte aperto del dover essere. Il bene, come il fine, è ciò che solo dà valore alla nostra azione. Se c’è gradualità, un rapporto di minore a maggiore, questo non riguarda affatto il livello ontologico, bensì quello gnoseologico: ogni segmento, inteso come ogni facoltà, possiede una capacità maggiore, rispetto a quello e a quelli che lo precedono, di raggiungere verità e chiarezza. Ogni segmento, inteso come l’oggetto della facoltà, cioè ciò a cui la facoltà si applica, possiede non una realtà maggiore, rispetto a quello e a quelli che lo precedono, bensì una possibilità maggiore di essere oggetto di conoscenza vera e chiara.


[…] «Non è come Lei pensa, mio giovane amico. Le sto dicendo che solo suonando le mie sonate e i miei concerti, solo ascoltando le mie sinfonie, Lei potrà avere un’idea di che cosa sia fare musica. Non che io sia il solo musicista. Perché, vede, c’è una differenza. Una cosa è la musica, una cosa sono i musicisti. Ogni musicista compone ed interpreta. Ma la musica è sempre oltre. Comprende tutti i componimenti e le interpretazioni, ma è sempre oltre. Suonando e interpretando le mie opere, Lei potrà acquisire lo spirito della musica. Non nel senso che io sia la musica, come Lei ingenuamente ha pensato. Ma nel senso che scavando nei miei spartiti Lei potrà trovare forse il sapore della musica».

«Che cos’è il sapore della musica?».

«Quando Lei termina di eseguire una sonata, e gli applausi del pubblico giustamente Le fanno piacere, il sapore della musica è il sapere che Lei non ha terminato qualcosa, ma ha soltanto cominciato. Quando Lei pensa di aver colto lo spirito di un concerto, e di averlo trasferito nella sua interpretazione, il sapore della musica è il rimanerne insoddisfatto, non compiaciuto. Quando Lei pensa di aver raggiunto un punto fermo nella comprensione di uno spartito, il sapore della musica è il sentire che al di là di ogni punto fermo c’è un altro periodo che può, che deve cominciare».
«Credo di cominciare a capire».
«Bene».
«Ma così non si vive in un perenne stato di insoddisfazione? Pensare che si è sempre all’inizio …, di essere
sempre nel parziale …, di non poter mai raggiungere un punto fermo …».

«Vede, mio giovane amico, quando Lei sarà penetrato nello spirito dei miei spartiti; quando Lei avrà assaporatofino in infinito; quando avrà capito che giungere a possedere la tecnica dei discorsi musicali non significa aver ingabbiatola musica in quella tecnica; quando avrà capito che, per quanto importanti possano essere le note che Lei ochiunque altro suonerà, le note della musica sono sempre oltre quelle che vengono suonate: allora, forse, avràassaporato il sapore della musica. Quando avrà capito che tutti i musicisti, anche i più grandi, hanno esploratole più impensabili combinazioni di note ad esprimere quelli che in fondo sono i pochi temi musicali fondamentalidell’animo umano, ma che questi temi rimangono ancora aperti ad infinite altre variazioni; quando avràcapito che non bisogna attaccarsi alle proprie esecuzioni ed interpretazioni, per quanto tecnicamente riuscite eprofonde possano essere, perché esse fanno parte della musica ma non sono la musica: allora, forse, avrà assaporatoil sapore della musica. Questo Lei troverà nei miei spartiti. E quando troverà il sapore della musica, io sarò sparito. Ed anche Lei sparirà, se sarà un buon musicista. Perché quello che resta sempre è appunto il saporedella musica, e non chi l’ha eseguita».




Giuseppe Sinopoli – Qui si compie un salto misterioso: quello che noi ascoltiamo è immateriale e nell’attimo in cui lo percepiamo sparisce per diventare memoria. La musica è il segno più sublime della nostra transitorietà. La Musica, come la Bellezza, risplende e passa per diventare la memoria, la nostra più profonda natura. Noi siamo la nostra memoria.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Bob Dylan – Ma quanta strada un uomo ha da fare prima che uomo lo chiamate? Sì, e quanto voleranno le palle di cannone prima che per sempre siano bandite?

Ma quanta strada un uomo ha da fare

prima che uomo lo chiamate?

Sì, e quanti mari una colomba ha da volare

prima che nella sabbia trovi quiete?

Sì, e quanto voleranno le palle di cannone

prima che per sempre siano bandite?

La risposta, amico mio, sta soffiando nel vento.

 

Bob Dylan, Mr. Tambourine, trad. di Tito Schipa Jr., Arcana, Milano 2001, vol. I.

 

 


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Andrea Pedrinelli – Roba minima (mica tanto). Tutte le canzoni di Enzo Jannacci, che diceva: «Ricordati, non si traffica con la coscienza. Mai. Se si rinuncia alla dignità una volta, la si è persa per sempre».


«Ricordati, non si traffica con la coscienza. Mai. Se si rinuncia alla dignità una volta, la si è persa per sempre».
E. Jannacci

 

La vita e l’opera del grandissimo cantautore milanese ripercorsa tramite un’accurata e completa disamina che procede dettagliatamente anno per anno, disco per disco, canzone per canzone; e che è integrata da approfondimenti sulle mille attività extramusicali del Dottore, dalla medicina al cinema al cabaret. Roba minima (Mica tanto) è l’unico volume esistente su Jannacci ad aver avuto l’approvazione dell’Artista ancora in vita e l’apprezzamento pubblico della Sua famiglia “perché qui Enzo c’è davvero e c’è tutto”. Con un inserto a colori contenente foto rare e storiche copertine di dischi.

 

«L’esistenza è uno spazio che ci hanno regalato e che dobbiamo riempire
di senso, sempre e comunque».
E. Jannacci


Descrizione

È nel marzo del 1964 che Jannacci Vincenzo diventa Enzo Jannacci: o il Saltimbanco, come amava definirsi dando una forte valenza etica al proprio lavoro di cantautore e autore teatrale nonché televisivo. La canzone che rende Jannacci noto a tutti si intitola “El portava i scarp del tennis” e narra della gente comune, che sarà sempre il vero obiettivo di un’arte senza snobismi. Il “barbon” del brano muore nell’indifferenza, ma i valori che come ogni uomo egli ha in sé non sono “roba minima”, malgrado Jannacci così canti, con pudore. Perché non è “roba minima” la vita di un signore diviso tra la medicina del corpo e quella dell’anima, capace di resistere alle tante censure e banalizzazioni di chi ancora oggi lo definisce “un clown” per cantare emarginazione, razzismo, lavoro minorile, droga, malasanità, mafia, malapolitica, TV senza morale. E soprattutto non è “roba minima” l’eredità umana di un artista che amava dire: “Ricordati, non si traffica con la coscienza. Mai. Se si rinuncia alla dignità una volta, la si è persa per sempre”.


Andrea Pedrinelli

Giornalista di musica e teatro, collabora con Avvenire e altre testate e ha scritto libri dedicati a Gaber, Baglioni, Ron. Ha curato l’opera omnia video di Giorgio Gaber e la prima raccolta critica di filmati della cinquantennale storia dei Pooh. Per Giunti ha pubblicato “Roba minima (mica tanto)”, il libro più completo mai scritto sulle canzoni di Enzo Jannacci, “Universo Zero”, biografia di Renato Zero, “Vasco Rossi”.

 


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Il nichilismo musicale dei Måneskin con «I Wanna Be Your Slave».

Måneskin, I Wanna Be Your Slave

La musica […] dà anima all’universo, ali al pensiero, slancio all’immaginazione, fascino alla tristezza, impulso alla gioia e vita a tutte le cose.  Essa è l’essenza dell’ordine, ed eleva ciò che è buono, giusto e bello, di cui è la forma invisibile ma tuttavia splendente, appassionata ed eterna.
Platone

Salvatore Bravo

Il nichilismo musicale dei Måneskin con «I Wanna Be Your Slave».

***

Nichilismo musicale
In questi giorni nelle TV di Stato, e in quelle del “mercato libero”, si esalta il successo della musica italiana. I Måneskin con I Wanna Be Your Slave sono i primi nelle classifiche mondiali ed in particolare inglesi. Si esalta il genio canoro italiano che riesce a scalare le classifiche dei paesi anglofoni. Ancora una volta il commento dei giornalisti è rivolto in primis al risultato. Si omette che il testo è rigorosamente in inglese, e che pertanto è un successo di cantanti italiani che si adattano ai parametri della globalizzazione, che esige che i “contenuti” debbano negare le lingue nazionali e debbono essere espressi nel nuovo esperanto imposto dai poteri globali: il più forte impone con la lingua il pensiero. Il testo esalta la libertà, ma la libertà si può declinare in una pluralità di semantiche. La libertà dei Måneskin è in “armonia” con l’attuale sistema: liberi nel corpo, nessuna identità, nessun impegno per cambiare le contraddizioni sociali ed economiche della globalizzazione. Il successo arriva, se i testi sono organici al potere che esige consumatori senza volto, senza genere, senza identità. La libertà non dev’essere libertà critica e propositiva, in cui la teoria e la prassi fondano aperture per nuovi orizzonti. I testi omologati e conformisti non devono denunciare i modelli economici e culturali che logorano la comunità per trasformarla in un immenso mercato di individui che cambiano identità nella stessa maniera con cui scelgono e cambiano prodotti. La loro libertà è regressiva, ed è urlata, in un arrogante “io voglio”. L’accento è posto sull’io, sulla brama onnipotente di essere tutto e di avere diritto a ogni desiderio, per cui si può essere in un momento gangster e subito dopo un bravo ragazzo. Si può essere tutto solo se si è niente. Il gioco narcisistico e capriccioso non deve avere limite. L’altro è cancellato dalla relazione, perché l’identità personale è solo una prigione, e pertanto si fugge da essa come da un peso gravido di responsabilità. Nessuna comunicazione affettiva ed erotica è possibile tra identità pronte ad evaporare nel gioco del desiderio che diviene il nuovo “giogo” non riconosciuto. Il sistema esalta questa “canora” libertà dei Måneskin in quanto non fa paura: soggetti senza identità, soggetti “liquidi”, creature camaleontiche pronte ad inseguire il prurito di ogni smania, dominate da pulsioni libidiche, si lasciano dominare senza che il potere imponga loro il dominio. Nei Måneskin non ci sono contenuti o ideologie, sono personalità che inseguono il mondo, si adattano al mondo fino ad essere il niente, ed il nulla non fa paura, anzi è accarezzato dal potere. In un passaggio del testo si afferma di voler usare l’altro come il telecaster, una chitarra versatile: non più persona, ma ente, un oggetto multiuso. L’odio verso l’identità ed il logos non potrebbe essere più loquace. Anche gli oggetti devono essere nell’ottica della liquidità senza forma e stabilità. La relazione è sempre nell’ottica del padrone e dello schiavo, mai paritaria, e dunque in linea con il sistema attuale che divide l’umanità in schiavi e padroni. Il testo dei Måneskin, presentato come trasgressivo, è il volto, la maschera della contemporaneità, del cattivo gusto, che ammicca e rappresenta la verità del sistema: violenza e nichilismo. Il verbo volere ripetuto ossessivamente è il segno della regressione infantile. Il volere incondizionato è una forma di aggressività in cui è avviluppata la società intera. La derealizzazione ha come punto cardine il desiderio illimitato che sospinge adulti e giovani in uno stato di frustrazione e mortificazione continua, perché il principio di realtà e razionalità confligge con il desiderio assoluto di metamorfosi. La sostituzione del principio di realtà con il principio di piacere indebolisce le personalità, le rende prossime alla loro rovina. La fuga dalla realtà sociale e politica favorisce le oligarchie che usano la musica leggera e di facile consumo come strumento di colonizzazione delle menti, e nella propaganda idolatra i mediocri artisti sono servi del sistema:

Voglio essere il tuo schiavo
Voglio essere il tuo padrone
Voglio far battere il tuo cuore
Correre come le montagne russe

Voglio essere un bravo ragazzo
Voglio essere un gangster

Perché tu puoi essere la bellezza
E io potrei essere il mostro
Voglio renderti silenzioso
Voglio renderti nervoso
Voglio lasciarti libera

Ma sono troppo fottutamente geloso
Voglio tirare i tuoi fili
Come se tu fossi il mio telecaster
E se vuoi usarmi potrei essere il tuo burattino

 Perché sono il diavolo
Che sta cercando la redenzione
E io sono un avvocato
Che sta cercando la redenzione
E sono un assassino
Che sta cercando la redenzione
Sono un fottuto mostro
Che sta cercando la redenzione

 Voglio essere il tuo schiavo
Voglio essere il tuo padrone”.

 


Musica e senso
Lo sguardo filosofico dev’essere capace di concettualizzare la tragedia quotidiana, di farla emergere nei suoi aspetti più banali e veri. La filosofia è anche impegno politico, e come tale deve, senza moralismi, essere interprete del presente, in modo da permettere il passaggio dall’uso passivo dei messaggi ideologici alla fruizione attiva e critica, in modo che la cultura emancipatrice possa far scorgere la valenza ideologica dei contenuti che circolano per smascherane la complicità con il sistema. Alla musica che depotenzia le personalità facendole evaporare nelle pulsioni, favorendo i fini imposti dalla società del mercato che ordina la libertà del corpo di consumare illimitatamente, ed impedisce la pratica del pensiero critico e del conosci te stesso, si può opporre Platone con le sue osservazioni sulla musica. Quest’ultima deve metter le ali al pensiero, deve portare ad un viaggio interiore, in cui il logos fonda la verità in un “io” che incontra il “noi”, e persegue il bene come fine di ogni vita pienamente vissuta. Platone nei suoi dialoghi delinea il senso della musica:

“La Musica è una legge morale: essa dà anima all’Universo, ali al pensiero, slancio all’immaginazione, fascino alla tristezza, impulso alla gioia e vita a tutte le cose. Essa è l’essenza dell’ordine ed eleva ciò che è buono, giusto e bello, di cui è la forma invisibile, ma tuttavia splendente, appassionata ed eterna”.

Sorge la domanda se la musica che invade i nostri vissuti sia motore della dialettica dei buoni fini o neghi l’umanità nella sua capacità di elevarsi verso mete che la rendono degna di se stessa. Si assiste, invece, ad una decadenza che ha consumato il suo punto di caduta, e pertanto propina solo trasgressioni omologate e conformiste fino alla noia. Si attende la vera trasgressione la quale ha come fondamento il logos e la ricerca della verità.

Salvatore Bravo


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Massimo Mila (1910-1988) – Capire la musica è una facoltà, che può essere più o meno sviluppata. Non è un titillamento dell’immaginazione, godimento passivo, distensione e abbandono alla fantasticheria irresponsabile. È un’operazione attiva dell’intelligenza e della memoria, implica tensione mentale.

Massimo Mila 002

[…] Si tratta di porre queste domande: si capisce la musica? e come si capisce? e di purificare le nozioni in esse contenute dalle imprecisioni e dalle inesattezze che la sbadataggine approssimativa del parlar corrente, senza riflessione, può avervi annesso.
Un primo fatto si deve osservare, nel quale le opinioni ricevute divergono dalla realtà e dànno luogo a errore. Si dice comunemente: «lo non capisco la musica» o: «il tale capisce la musica», come se capire o non capire la musica fossero due condizioni ben distinte, separate con un taglio netto e tali che si debba uscire interamente dall’una per entrare nell’altra: come si passa dalle tenebre alla luce girando la chiavetta dell’interruttore. Quest’opinione, sanzionata nell’uso comune della lingua parlata, è la più erronea che si possa tenere sull’argomento e fuorvia terribilmente da ogni retta nozione di ciò che sia capire la musica.
Capire la musica è una facoltà, che può essere più o meno sviluppata, come correre, far la lotta, disegnare, discorrere amabilmente in conversazione, ma non avviene mai che manchi totalmente in un individuo; non si dà quindi il caso limite di qualcuno che non possegga affatto questa facoltà e che, per mezzo di qualche studio o di qualche cura, riesca ad acquistarla. Sebbene sia possibile perfezionarla e affinarla con l’esercizio. Capire o non capire la musica sono espressioni sbrigative ed esagerate, come: capire o non capire la matematica. In realtà, anche chi viene giustamente classificato tra le persone che «non capiscono la matematica», ne capisce sempre abbastanza per controllare se il negoziante lo truffa nel dargli il resto e per fare quei quattro conti de le necessità della vita ci impongono. Sono quindi infiniti i gradi attraverso cui si dispone negli individui la facoltà di comprendere la musica[…] Vediamo di ragionarci sopra e di cavarne qualche insegnamento, principalmente questo: che nella musica non c’è altro da capire se non la musica stessa. Cosa credete infatti che Mozart avesse capito nel Miserere di Allegri? forse qualche misterioso e recondito senso che rimaneva chiuso ai comuni mortali, al di là delle note di musica? Ma no, semplicemente aveva capito molto bene le note, tanto bene da ricordarsele tutte, una per una, quelle migliaia di note che compongono il Miserere di Allegri. Non si tratta di sentire qualchecosa di più che gli altri, ma di capire più o meno bene quello che tutti sentiamo con le nostre orecchie.
Invece è incredibilmente alto il numero di persone per cui gustare la musica significa abbandonarsi, ben rincantucciati nella loro poltrona, a una specie di nirvana con produzione di oziose fantasticherie[…]
Per quanto si sia combattuto contro questo errore, che fa della musica un semplice titillamento dell’immaginazione, relegandola nella funzione d’una qualsiasi droga stupefacente, come l’haschisch o l’oppio, esso risorge sempre nella maniera più pervicace e dove meno uno se l’aspetterebbe. Non solo le sale da concerto son sempre piene di gente che pratica questo innocuo vizietto, il che sarebbe il minor male; ma ogni tanto c’è qualcuno che salta su con gran sicumera a predicare che questo è il vero modo d’intendere la musica e che ogni altro è semplicemente indice di aridità sentimentale e di cerebralismo […].
Questo modo d’intendere, o meglio di fraintendere la musica, viene dedotto per analogia dal modo che teniamo continuamente, in ogni ora della nostra giornata, per intendere la parola parlata o scritta, quando venga usata non già per un fine artistico, ma per scopi di pratica comunicazione. In questi casi la parola viene usata come un simbolo: non è lei che conta, non è lei il fine ultimo per cui l’impieghiamo, ma veramente dietro di lei c’è qualcosa a cui si tratta di pervenire, a cui facciamo pervenire gli altri per mezzo della parola, e questa non ha che un valore strumentale. Questa radicale differenza di natura che c’è tra la musica (o l’arte, in genere) e i discorsi di pratica comunicazione, si manifesta in piena luce nella possibilità che quest’ultimi presentano, di lasciarsi riassumere, mentre è evidentemente impossibile riassumere una sinfonia o un quartetto. Una sinfonia è semplicemente se stessa: le proprie note, dietro le quali non c’è niente che si tratti di andare a scoprire e che si possa rendere con parole. (Naturalmente, sarebbe un grossolano errore credere che una sinfonia si riassuma citandone i temi fondamentali: non si riassume un bel niente perché la musica consiste proprio in quello sviluppo dialettico che muove dai dati tematici iniziali. La citazione dei temi può servire molto bene a ricordare la sinfonia a chi l’abbia già sentita, o tutt’al più a suggerirne, a chi non la conosce, una pallida idea, ma nessuno ardirebbe dire di conoscere una sinfonia per averne sentito i temi). Del resto, la parola stessa tende a questa condizione di insostituibilità, appena cessi di venire usata per scopi pratici di comunicazione e si sublimi in poesia. E quanto più ci si accosti alla poesia più vicina a noi, tanto più si fa evidente questa fuga dalla poesia di ogni elemento concettuale da cogliere al di là della parola.
Capire la musica, dunque, e non qualchecosa che se ne stia appiattato dietro la musica, è un’operazione attiva dell’intelligenza e della memoria attentissime quella a cogliere e questa a ricordare tutti i nessi e i rapporti che legano nel tempo le labili apparizioni sonore. Occorre insistere su questo elemento di collaborazione attiva che si richiede all’ascoltatore, e che implica necessariamente una tensione mentale e quindi una fatica, perché è opinione antica e diffusa che la musica sia invece un godimento passivo, una distensione e un abbandono alla fantasticheria irresponsabile. «Che mi solea quetar tutte mie voglie», dice Dante dell’amoroso canto di Casella.

 

Massimo Mila, L’esperienza musicale e l’estetica, Einaudi, Torino 1965, pp. 51-55.


Massimo Mila (1910-1988) – Nella musica vi è un’originalità dello stile che non dipende dalla novità del linguaggio

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Pascal Quignard – Che cosa cercate nella musica? La musica esiste semplicemente per parlare di ciò che la parola non può esprimere. In questo senso essa non è del tutto umana. Posso chiedervi un’ultima lezione? Signore, posso tentare una prima lezione?

Quignard Pascal, Tutte le mattine del mondo

Monsieur de Saint Colombe pronunciò a voce bassissima questi lamenti:
«Ah! Mi ricolgo unicamente a ombre divenute ormai troppo antiche! […] Ah! se … ci fosse al mondo un essere vivente che apprezzasse la musica! Potremmo parlare! […]
Allora Monsieur Marais […] grattò la porta del capanno.
«Chi c’è che sospira nel silenzio della notte».
«Un uomo che fugge i palazzi e che cerca la musica».
[…]
«Che cosa cercate, signore, nella musica?».
«Cerco i rimpianti e le lacrime».
[…]
«Signore, posso chiedervi un’ultima lezione?», domandò Monsieur Marais …
«Signore, posso tentare una prima lezione?», rispose Monsieur de Saint Colombe […] e disse che desiderava parlare:
«È difficile, signore. La musica esiste semplicemente per parlare di ciò che la parola non può esprimere. In questo senso essa non è del tutto umana. Allora voi avete scoperto che non è fatta per il re?».
[…]
«È per una cialda donata all’invisibile?».
«Neppure. Che cos’è una cialda? La si vede. Ha un sapore. La si mangia, non è niente».
«Non so più cosa dire, signore. Credo che bisogna lasciare un bicchiere per i morti …».
«Ci siete quasi».
«Una piccola fonte per coloro ai quali il linguaggio è venuto meno. Per l’ombra dei fanciulli. […] Per gli stati che precedono l’infanzia. Quando si era senza respiro. Quando si era senza luce».

Dopo qualche istante sl volto vecchio e rigido del musicista comparve un sorriso ….

Pascal Quignard, Tous le matins du monde [1991], trad. it. di Graziella Cillario: Tutte le mattine del mondo, Analogon Edizioni, Astii2017, pp. 1214-118.

Monsieur de Sainte-Colombe (Jean-Pierre Marielle)
Marin Marais (Gérard Depardieu)
Madeleine (Anne Brochet)
Toinette (Carole Richert)
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Heitor Villa-Lobos (1887–1959) – Con la sua fantasia un musicista veramente creativo è capace di produrre melodie più autentiche del folclore stesso.

Heitor Villa-Lobos01
«Con la sua fantasia
un musicista veramente creativo
è capace di produrre melodie più autentiche del folclore stesso».

Heitor Villa-Lobos, in AA.VV., Il libro della musica classica, traduzione di Anna Fontebuoni, Gribaudo, 2019, p. 280.


Bachianas Brasileiras No. 5 • Villa-Lobos • Barbara Hannigan

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Giovanni Sollima – La musica, il violoncello, è senza frontiere. Il canto popolare è una musica che nasce viaggiando, è un linguaggio che si sviluppa nel tempo ma che mantiene un’identità forte: non c’è un autore ma ce ne sono milioni. «Violoncelles, vibrez!».

Giovanni Sollima 01

«Seguire il canto popolare non vuol dire sentire solo il canto in se stesso, ma una traccia, una linea melodica. Non è nemmeno una ricerca, ma un fatto spontaneo. In pratica è una musica che nasce viaggiando: quando vado in giro per lavoro cerco i suoni del luogo piuttosto che un museo o il cibo tipico. I canti popolari che imparo sono quelli che a loro volta sono imparati dagli abitanti di quel luogo: non c’è un autore ma ce ne sono milioni. E’ un linguaggio che si sviluppa nel tempo ma che mantiene un’identità forte. Da siciliano inoltre ho viaggiato tantissimo pur rimanendo della mia isola, perché attingevo tutte le culture. Tutto questo per dire che la natura ha a vedere con i luoghi e l’attività umana».

Giovanni Sollima, Il violoncello è senza frontiere.


“Violoncelles, vibrez!” di Giovanni Sollima


Giovanni Sollima, Dal canto popolare alla musica colta

Giovanni Sollima è un vero virtuoso del violoncello. Suonare  per lui non è un fine, ma un mezzo per comunicare con il mondo. È un compositore fuori dal comune, che grazie all’empatia che instaura con lo strumento e con le sue emozioni e sensazioni,  comunica attraverso una musica unica nel suo genere, dai ritmi mediterranei, con una vena melodica tipicamente italiana, ma che nel contempo riesce a raccogliere tutte le epoche, dal barocco al “metal”. Scrive soprattutto per il violoncello e contribuisce in modo determinante alla creazione continua di nuovo repertorio per il suo strumento. Il suo è un pubblico variegato e trasversale: dagli estimatori di musica colta ai giovani “metallari” e appassionati di rock, Giovanni Sollima conquista tutti.
Nasce a Palermo  da una famiglia di musicisti. Studia violoncello con Giovanni Perriera e Antonio Janigro e composizione con il padre Eliodoro Sollima e Milko Kelemen. Fin da giovanissimo collabora con musicisti quali Claudio Abbado, Giuseppe Sinopoli, Jörg Demus, Martha Argerich, Riccardo Muti, Yuri Bashmet, Katia e Marielle Labèque, Ruggero Raimondi, Bruno Canino, DJ Scanner, Victoria Mullova, Patti Smith, Philip Glass e Yo-Yo Ma.
La sua attività, in veste di solista con orchestra e con diversi ensemble (tra i quali la Giovanni Sollima Band, da lui fondata a New York nel 1997), si dispiega fra sedi ufficiali ed ambiti alternativi: Brooklyn Academy of Music, Alice Tully Hall, Knitting Factory e Carnegie Hall (New York), Wigmore Hall e Queen Elizabeth Hall (Londra), Salle Gaveau (Parigi), Accademia di Santa Cecilia a Roma , Teatro San Carlo (Napoli), Kunstfest (Weimar), Teatro Massimo di Palermo, Teatro alla Scala (Milano), International Music Festival di Istanbul, Cello Biennale (Amsterdam), Summer Festival di Tokyo, Biennale di Venezia, Ravenna Festival, “I Suoni delle Dolomiti”, Ravello Festival, Expo 2010 (Shanghai), Concertgebouw ad Amsterdam.

Per la danza  collabora, tra gli altri, con Karole Armitage e Carolyn Carlson,  per il teatro  con Bob Wilson, Alessandro Baricco e Peter Stein e per il cinema con Marco Tullio Giordana, Peter Greenaway, John Turturro e Lasse Gjertsen (DayDream, 2007).
Insieme al compositore-violoncellista Enrico Melozzi, ha dato vita al progetto dei 100 violoncelli, nato nel 2012 all’interno del Teatro Valle Occupato. Tra i CD di Giovanni per SONY  i CD “Works”, “We Were Trees”, per la Glossa “Neapolitain Concertos” in collaborazione con I Turchini di Antonio Florio, disco che raccoglie 3 concerti barocchi inediti del ‘700 napoletano e un nuovo brano di Giovanni “Fecit Neap” e “Caravaggio” per l’Egea.
Giovanni Sollima insegna presso l’Accademia di Santa Cecilia a Roma dove è anche accademico effettivo e alla Fondazione Romanini di Brescia. Suona un violoncello Francesco Ruggeri fatto a Cremona nel 1679.


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