Luca Grecchi – Perché la progettualità?

Perché la progettualità?

Una rivista ha bisogno di tempo per nascere e per crescere. Ha bisogno soprattutto di un particolare complesso di elementi spirituali, culturali, sociali nel cui seno l’idea stessa possa germinare e trovare alimento per il suo sviluppo.


Koinè, Periodico culturale, Anno XXIII, NN° 1-4, Gennaio-Dicembre 2016, Reg. Trib. di Pistoia n° 2/93 del 16/2/93. Direttore responsabile: Carmine Fiorillo.

Direttori: Luca GrecchiCarmine Fiorillo

Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo,
che dunque vogliano pure pensare da sé.

Karl Marx
Luca Grecchi

Perché la progettualità?

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Il mio intervento Sulla progettualità, scritto di apertura di questo nuovo formato “in progress” della rivista Koinè, ha dato finora luogo, dopo circa due mesi, ad alcune reazioni poco argomentate, e ad alcune risposte argomentate. Cercherò, in questa sede, di dare conto di entrambe, convinto come sono del necessario carattere dialettico della filosofia; e convinto come sono, da sempre, che solo buone ragioni ed un atteggiamento costruttivo possono consentire ai giovani di chiarirsi le idee fuori dai desueti luoghi comuni, e di agire poi, con la propria testa, per modificare il mondo nella maniera migliore.
Comincerò facendo un passo indietro, a volte utile, come si sa, per farne poi due avanti. Il passo indietro riguarda alcune reazioni di “terrore” suscitate dalla prospettiva della progettualità (oltre che dalla idea che chi partecipa ad un dibattito, non importa se su una rivista o altrove, possa confrontarsi anche in modo serrato, per valutare se vi è o meno una convergenza verso una certa tesi). Non entro ovviamente nei casi specifici, perché è più interessante, in filosofia, il carattere generale di queste obiezioni, che incontrano peraltro oggi un consenso diffuso. L’unico modo per rispondere, come sempre, è argomentare, ed in particolare chiarire perché è necessario parlare di “progettualità”, anziché dedicarsi ai tanti temi che la filosofia offre; occupazioni “non indegne” – come direbbe Platone nella Lettera VII –, che garantiscono peraltro migliore accoglienza accademica e sociale, ma che a mio avviso non tengono conto della gravità della situazione in cui viviamo.
Ebbene: premesso che continuo anche io con i vari lavori scientifici2, per vari motivi necessari, ritengo che nella vita, in generale, sia indispensabile dare un ordine di priorità alle cose, dalle più importanti alle meno importanti. Nel mondo ci sono parecchie centinaia di milioni di persone che non dispongono di cibo, acqua, medicine; decine di milioni di bambini nel sud del mondo che conducono una vita infernale; anche in Occidente il degrado materiale cresce, ma cresce ancora di più la pochezza spirituale, l’indifferenza verso le altre persone, la conflittualità; il pianeta è inoltre progressivamente avvelenato dalla brama di profitto, da parte di un capitale incurante di ciò che accade per effetto delle proprie produzioni. Questo solo per limitarmi all’essenziale nel descrivere uno stato di cose sicuramente noto, ma spesso non conosciuto nelle sue cause (senza conoscere le quali, però, non si capisce granché). Ora: poiché questi fenomeni non erano presenti, o comunque non in queste dimensioni, nei secoli passati, in cui vigevano differenti modi di produzione, la causa più probabile di questi fenomeni mi pare essere – data anche la sua struttura di funzionamento – il modo di produzione capitalistico. Mi pare infatti che la generalizzata estensione al globo di modalità proprietarie privatistiche (in cui cioè i proprietari dei mezzi della produzione sociale privano tutti gli altri di quei mezzi e dei relativi prodotti), modalità distributive mercificate (in cui tutto è merce, ossia strumento da utilizzare, comprese la natura e le persone), e modalità sociali che pongono il denaro come supremo criterio di valore, producano proprio quello che ho qui sinteticamente descritto: diseguaglianze, ingiustizie, indifferenza, conflitti, inquinamento, alienazione.
Che fare? I filosofi, solitamente, si tengono alla larga da queste tematiche. Qualcuno se ne occupa di passaggio, come alcuni maitres à penser molto noti, i quali effettuano anche dure critiche al sistema, arrivando perfino a dire che si dovrebbe ragionare sulle alternative al capitalismo. Tuttavia, quando poi qualcuno cerca effettivamente di ragionare su queste alternative, ossia di mostrare come potrebbe essere – basandosi su una determinata concezione della natura umana: l’uomo del resto, come ogni ente, ha alcune determinate caratteristiche costitutive – un modo di produzione sociale per essere migliore, ecco che scatta l’accusa di “ideologia”, di “terrore”, di “giacobinismo”. Ora: per comprendere il motivo per cui persone intelligenti che vivono, consapevoli, in un modo di produzione massimamente distruttivo e pianificatore come quello capitalistico – che pianifica perfino i singoli movimenti dei lavoratori nella produzione, le reazioni psicologiche delle masse ai messaggi consumistici, addirittura le probabilità di subire conseguenze penali in tempi limitati producendo beni dannosi per la salute pubblica – sono “terrorizzate” di fronte alla proposta di delineare un differente modo di produzione, occorre appunto entrare nella psicologia collettiva del modo di produzione stesso, che produce in massa strutture della personalità ad esso funzionali. Faccio però notare che, più che il “terrore” verso un evento improbabile e comunque molto in là dal venire, mi sembra che queste persone esplicitino, con le loro parole, una mal celata repulsione verso chi fa filosofia come la faceva Platone nella Repubblica, o Aristotele nella Politica quando parlava dello «Stato ideale»: verso coloro, insomma, che fanno filosofia occupandosi in primis dei problemi più importanti; ed occupandosene per cercare di risolverli. In questo modo, infatti, costoro vedono chiaramente sminuito il loro modo consueto di approcciarsi alla filosofia (che è in alcuni casi accademico-iperspecialistico, ed in altri casi ludico-passatempistico): questo, non altro, produce in loro ostilità. Purtroppo, anziché reagire interrogandosi – atteggiamento propriamente filosofico –, costoro reagiscono arrabbiandosi, un po’ come i bambini piccoli si arrabbiano coi genitori quando questi gli dicono che è finita l’ora di giocare, ed occorre andare a fare il bagnetto. Ovviamente, scrivo queste cose non per fare arrabbiare ulteriormente queste persone, ma solo per farle riflettere, anche se probabilmente otterrò l’effetto opposto.
Per quanto mi riguarda – dato che significativamente le reazioni più stizzite si sono indirizzate verso il mio scritto: dirò poi perché –, penso di avere mostrato, in molti libri ed in università, che mi occupo di progettualità perché lo ritengo necessario, specie nella attuale situazione. Dopo infatti avere identificato nelle strutture costitutive dell’attuale modo di produzione sociale la causa prima della maggior parte della infelicità del nostro tempo, non posso ritenere sufficiente occuparmi di temi filosofici marginali o “di attualità”; anche quando me ne occupo peraltro, come negli articoli su quotidiani on line e riviste, lo faccio sempre, come sa chi mi legge, solo per mettere qualche semino affinché altri dopo di me riescano poi a cambiare il mondo per il meglio.  È una questione di responsabilità e di priorità. Come sa chi ha un bambino piccolo – torno su questa metafora a me particolarmente cara –, è interessante valutare di quale colore dipingere le pareti della sua cameretta, o con quali ninnenanne farlo addormentare, ma la priorità è che il bambino sia nutrito, accudito ed amato. Ecco: chi non si occupa delle cause prime per cui centinaia di milioni di persone vivono ogni giorno in maniera miserevole, a mio avviso non dà le giuste priorità alle cose, e pertanto non è responsabile, nel senso che non ha di che rispondere ai gravi problemi che distruggono l’esistenza di molti suoi simili. Detto questo, come ovvio, ciascuno può occuparsi di ciò che desidera; tuttavia, per rispetto, eviti di screditare chi si occupa di temi importanti tirando fuori la solfa desueta del “totalitarismo”, che non si può davvero più sentire. Se qualcuno vuole teorizzare che la progettualità conduce inevitabilmente al totalitarismo, strutturi sul piano teoretico i nessi di questo legame; prenda però anche sul serio le conseguenze di ciò che afferma, ossia che è meglio accettare “a prescindere” il modo di produzione in cui si vive anziché progettare, e soprattutto non si dimentichi di argomentare per quale motivo non sarebbe totalitario il capitalismo, che pure pianifica ogni cosa per il massimo profitto incurante dell’uomo e della natura. La richiesta di argomentazione teoretica non è uno strumento di tortura, ma il solo modo accettabile, da sempre, di fare filosofia.
Detto questo passo alle cose più importanti, ossia appunto ai contenuti teoretici. Il mio testo è stato infatti seguito da un saggio di Alessandro Monchietto, su cui tornerò lungamente, e da due saggi, uno di Claudio Lucchini e l’altro di Alessandro Pallassini, su cui invece non mi soffermerò molto. Non mi ci soffermerò in quanto il saggio di Lucchini ripropone, ottimamente, le tesi di Marx (oltre che di alcuni altri autori) sulla progettualità, argomentando in sostanza la necessità di proseguire il discorso da me iniziato, e rendendolo anzi più concreto; il saggio di Pallassini fa la stessa cosa prendendo come riferimento Spinoza. Anche il più breve testo di Antonio Fiocco si pone chiaramente in continuità con le tesi da me avanzate. Il saggio di Alessandro Monchietto, invece, avanza diverse interessanti critiche al discorso progettuale che ho tentato di svolgere, per cui ritengo doveroso analizzarlo. [… Leggi tutto l’intervento aprendo il PDF qui sotto]

Luca Grecchi,
Perché la progettualità



Gli altri interventi

Luca Grecchi, Sulla progettualità
Alessandro Monchietto,
Quale progettualità? A partire da alcune considerazioni di Luca Grecchi
Claudio Lucchini – La progettualità comunista tra utopia concreta e necessità di funzionamento quotidiano.
Antonio Fiocco, Difendere in tutti i modi la progettualità.
Alessandro Pallassini – Note marginali per la progettazione di un comunismo della finitezza a partire da Spinoza.

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