Vassilis Vassilikos – Il nemico è il mercato. Occorre una nuova utopia: il mondo va avanti grazie alle utopie

Vassilis

Z, L'orgia del potere

«La crisi economica è una situazione ancora più dura di quella che è stata la guerra civile e la dittatura: sapevamo che la guerra sarebbe finita e che il regime dei colonnelli avrebbe avuto una fine obbligata, il nemico era facilmente individuabile ed identificabile con persone in carne e ossa. Con la crisi è differente: non sappiamo se avrà una fine e soprattutto non c’è un nemico concreto contro cui combattere, il nemico è il mercato.
La forza di combattere questo nemico è nata a Genova nel 2001: l’antiglobalizzazione come movimento mondiale era la nuova utopia, e il mondo va avanti grazie alle utopie, e fu proprio a Genova che cadde il primo morto di questa battaglia».

Vallis Vassilikos, Intervista a cura di Alessandra Cucchi e Martina Pasini, “il manifesto”, 19-04-2016, p. 16.


Vallis Vassilikos è nato a Taso (Grecia) nel 1934. Tra le opere più famose di Vassilikos vi è il romanzo Z (1967), che ha avuto in seguito anche una trasposizione cinematografica (Z – L’orgia del potere, 1969). Il romanzo è stato tradotto in 32 lingue. che è stato tradotto in trentadue lingue ed è stata la base della pluripremiato film Z – L’orgia del potere, (1969) diretto da Costa-Gavras (con musiche di Mikis Theodorakis).

Fra le altre sue produzioni, “Il racconto di Giasone” (1953, romanzo d’esordio), “Vittime della pace” (1956), “Mitologia dell’America” (1964), “Fuori dalle mura” (1966), “Trilogia” (1968), “Fotografia” (1969), “Cronaca di Z” (1971), “Il fucile ad arpione” (1973) e “Una storia d’amore”. In Italia, nel 2003 è apparsa una raccolta di poesie, Poesie dall’esilio, con testo greco a fronte.


 


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Ludovico Geymonat (1908-1991) – L’intellettuale non-conformista, per svolgere la sua funzione, deve militare fuori dei partiti burocratizzati, ed eventualmente contro di essi. Questa sua funzione non può essere svolta per intero senza un rapporto organico con le masse. un rapporto organico con le masse non richiede la mediazione dei partiti.

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008[…] Non ci sono dubbi che la nozione di intellettuale organico debba essere superata. […] l’obbiettivo della rivoluzione è stato accantonato dagli eredi di Gramsci e la vita «provvisoria» entro le strutture pluralistiche pare diventata definitiva. Nonostante questo, la macchina e l’intellettuale di Gramsci sono sopravvissuti. È sopravvissuto un rigido apparato di persuasori senza più alcuno scopo, se non la sua stessa riproduzione su scala allargata, entro questa società. […]

 Quel che mi preme è che esso venga riconosciuto come autentico problema con tutte le sue conseguenze:


1) che l’intellettuale non-conformista – per svolgere la sua funzione – deve militare fuori dei partiti burocratizzati, ed eventualmente contro di essi;

2) che questa sua funzione non può essere svolta per intero senza un rapporto organico con le masse;
3) che un rapporto organico con le masse non richiede la mediazione dei partiti.

 


Il ruolo dei partiti nella società contemporanea. Ho tentato di mettere in luce il loro crescente contrasto con la società civile, conseguente allo sviluppo di strutture burocratiche rigide ai loro vertici. Dato che i partiti costituiscono l’asse della così detta vita democratica, questo contrasto mi sembra dovrebbe essere sufficiente a raffreddare gli entusiasmi di tutta la sinistra verso l’attuale sistema democratico-parlamentare e indurli a riflettere seriamente sui modi del suo superamento. È qui che entra in gioco l’analogia – da un lato – tra teorie scientifiche e patrimonio scientifico-tecnico, e – dall’altro – tra ordinamenti giuridici e società civile. La pretesa di assolutizzare l’ordinamento odierno con le sue libertà formali e assumerlo come criterio per valutare tutte le altre società, è tanto regressiva quanto quella di assumere una particolare teoria scientifica, per quanto potente e riuscita, come punto di arrivo insuperabile. Così come è l’impatto del patrimonio scientifico-tecnico a vanificare le seconde, allo stesso modo è l’impatto della società civile a vanificare le prime. Nel caso in esame, è la crescente incapacità dei partiti di valorizzare e utilizzare l’iniziativa di individui e di gruppi che non accettano di inserirsi nelle loro burocrazie, e – quel che è peggio – la loro tendenza a soffocare questo tipo di iniziative.


Non c’è in questa tua posizione una polemica implicita contro la nozione di intellettuale organico di Gramsci?

Non ci sono dubbi che la nozione di intellettuale organico debba essere superata. Era una nozione perfettamente coerente con la visione del partito di Gramsci, di un partito che doveva bensì vivere provvisoriamente entro le strutture pluralistiche della «democrazia» borghese, ma la cui vera funzione era quella di rovesciarle per instaurare la dittatura del proletariato. La sua struttura doveva quindi riflettere questa funzione senza lasciarsi «corrompere» dall’ambiente in cui provvisoriamente doveva operare. Dato che – in una società complessa come quella italiana – questa macchina per la rivoluzione non avrebbe potuto dare tutti i suoi frutti senza il «consenso», a questo dovevano pensare gli intellettuali.
Ma l’obbiettivo della rivoluzione è stato accantonato dagli eredi di Gramsci e la vita «provvisoria» entro le strutture pluralistiche pare diventata definitiva. Nonostante questo, la macchina e l’intellettuale di Gramsci sono sopravvissuti. È sopravvissuto un rigido apparato di persuasori senza più alcuno scopo, se non la sua stessa riproduzione su scala allargata, entro questa società. E gli altri partiti, quelli a così detta «struttura interna democratica», hanno più o meno seguito questo esempio. Una delle conseguenze di siffatto processo di subordinazione di tutte le istanze della vita civile, sia culturale che economica, è stata da un lato l’eclisse di ogni creatività intellettuale – con l’eccezione forse del campo della ricerca scientifica in senso stretto, proprio perché questa è finora riuscita a conservare una organizzazione autonoma rispetto ai partiti – e dall’altro l’avvio di un’economia assistita e clientelare in cui i parametri decisionali sono costituiti quasi esclusivamente dagli interessi delle strutture burocratiche dei partiti.

Dunque al livello delle strutture profonde un’evoluzione per certi versi analoga a quella dell’Unione Sovietica.

Non credo infatti che dobbiamo farci ingannare dalla schiuma di superficie. Certo, in Italia gli intellettuali discutono, polemizzano, dissentono liberamente, ma entro ben determinati limiti e per lo più in forme puramente retoriche. Mancano, a ben guardare, sia un’autentica creatività intellettuale sia una seria possibilità di interventi efficaci – sulle strutture della società – al di fuori di quelli voluti dai vertici dei partiti. Con una sola differenza rispetto all’URSS: i sovietici hanno bisogno della polizia per ottenere il conformismo; noi siamo più maturi, ne abbiamo meno bisogno. Inoltre, anche per quanto riguarda l’URSS, le ragioni di questa degenerazione vanno cercate nella transizione dal partito di lotta di Lenin al partito di governo di Stalin senza che la struttura interna del partito venisse mutata in vista del cambiamento di funzioni.


In questo spazio interamente coperto dai partiti
che tendono a fungere quali partiti di governo come dovrebbe muoversi l’intellettuale non-conformista?

 Può ben darsi che questa specie – dopo la sua stagione d’oro nel ‘700 – sia ormai in via di estinzione … Alcuni esemplari sopravvivono ancora in quello spazio che fino ad oggi meno ha subito la pressione dei partiti, e cioè l’Università. Certo in Italia la situazione è peggiore che in Francia o in Inghilterra. Non è affatto escluso che la degradazione in cui l’Università è stata spinta dalla complicità di tutti i partiti sia stata un modo indiretto per piegare queste resistenze, per far scomparire queste zone di relativa libertà di ricerca. Ma anche se riuscissimo a salvare queste «zone franche», difficilmente la funzione dell’intellettuale non conformista potrebbe esaurirsi entro di esse. Senza un rapporto organico con le masse, si regredisce alla figura dell’intellettuale di tipo illuminista che è del tutto inadeguata rispetto alle esigenze di società come le nostre in cui il ruolo delle masse è decisivo.

Ma le masse sono nei partiti. Dunque un rapporto con le prime deve passare attraverso i secondi. Fuori dai partiti, fuori dalle masse?

 Non lo credo affatto. Quel che la Chiesa prima, e poi quei suoi moderni sostituti che sono i partiti (nel senso sopra accennato del termine), hanno tentato di fare sistematicamente, è stato di liquidare i movimenti di massa, o reprimendoli o riassorbendoli. Ciò mostra l’esistenza di una profonda frattura tra partiti e masse.

Ma non è affatto chiaro come l’intellettuale non-conformista possa occupare questo spazio vuoto.

 Per questo problema non ho soluzioni. Quel che mi preme è che esso venga riconosciuto come autentico problema con tutte le sue conseguenze:

1) che l’intellettuale non-conformista – per svolgere la sua funzione – deve militare fuori dei partiti burocratizzati, ed eventualmente contro di essi;
2) che questa sua funzione non può essere svolta per intero senza un rapporto organico con le masse;
3) che un rapporto organico con le masse non richiede la mediazione dei partiti.

Sotto quale forma possa organizzarsi questo rapporto e in che modo debba svolgersi questa militanza fuori dai partiti burocratizzati, questo è un problema aperto. Ma – ripeto – non riusciremo mai a risolverlo senza rico noscerlo come tale, chiaramente, spregiudicatamente.

Ludovico Geymonat, Paradossi e rivoluzioni. Intervista su scienza e politica, a cura di Giulio Giorello e Marco Mondadori, il Saggiatore, 1979, pp. 126-129.

«Ludovico Geymonat, un intellettuale “indisciplinato” rispetto all’ortodossia dei partiti che per varie ragioni respingevano – spesso in modo sbigativo – atteggiamenti autonomi, proposte innovative e di critiche alla cultura […]». Mario Quaranta


Ludovico Geymonat

Nato a Torino l’11 maggio 1908, deceduto a Rho (Milano) il 29 novembre 1991, filosofo e matematico. È considerato uno dei più importanti filosofi italiani del Novecento. Di famiglia valdese, si era laureato in filosofia all’Università di Torino nel 1930 e, due anni dopo, aveva conseguito la laurea in matematica. Durante il ventennio, avendo rifiutato di iscriversi al PNF, gli fu preclusa la carriera accademica; si mantenne insegnando in scuole private.

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Nel 1942, Geymonat aderì al Partito comunista clandestino e, dopo l’armistizio, fece della sua casa di Barge il centro organizzativo delle Brigate Garibaldi della zona.
I fascisti lo arrestarono nel novembre del 1943, ma il professore, incarcerato a Saluzzo, fu rilasciato per mancanza di prove. Prese così la strada dei monti e, con il nome di copertura di “Luca Ghersi”, divenne commissario politico della 55° Brigata “Carlo Pisacane”, operante nella valle del Po.
Dopo la Liberazione, Geymonat (che fu capo redattore dell’edizione piemontese de l’Unità e assessore al Comune di Torino), intraprese l’insegnamento universitario.
Dal 1956 al 1978, tenne all’Università di Milano la prima cattedra di Filosofia della scienza istituita in Italia. Partecipò anche alla fondazione del Centro di Studi metodologici di Torino e, nel 1963, cominciò a dirigere la collana di classici della Scienza, della Casa editrice UTET.
Negli ultimi anni della sua vita, Geymonat lasciò il PCI, si avvicinò a Democrazia Proletaria e aderì, infine, al Partito della Rifondazione Comunista. Grande divulgatore della storia della filosofia (molto diffuso nei Licei il suo manuale Storia del pensiero filosofico e scientifico), Geymonat ha lasciato molte importanti opere. Ricordiamo: Il problema della conoscenza nel positivismo (1931), La nuova filosofia della natura in Germania (1934), Studi per un nuovo razionalismo (1945), Saggi di filosofia neorazionalistica (1953), Galileo Galilei (1957), Filosofia e filosofia della scienza (1960), Scienza e realismo (1977). Di Geymonat sono anche i sette volumi della Storia del pensiero filosofico e scientifico, scritti tra il 1970 e il 1976. Del 1974 è Attualità del materialismo dialettico, in collaborazione con Bellone, Giorello e Tagliagambe e, del 1986 (con Giorello e Minazzi) Le ragioni della scienza.

Geymonat e Dal Pra

Geymonat e Dal Pra. Foto Vito Panico – Copyright Vito Panico.


Ludovico Geymonat (1908-1991) – Si sostiene oggi da varie parti che nel mondo attuale non vi è più posto per la filosofia. Io non sono affatto di questo parere. Le ricerche specialistiche non si rivelano in grado di generare un’autentica cultura.


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Domenico Segna – Intervista a Luca Grecchi: La metafisica umanistica, tra le vie di Atene

Domenico Segna, Intevista a Grecchi

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La ricerca teoretica
di Luca Grecchi
propone di inoltrarci
in un sentiero classico e veritativo:
la ri-scoperta della metafisica
in un’epoca in cui sembra che non ci
sia posto per essa.

 

Dialogare non è facile. Significa confrontarsi, rispettarsi nelle diversità di opinione, mettersi in discussione pur di capire le ragioni del tuo interlocutore.
Tutto questo è facile quando si incontra, si entra in amicizia, nel senso “antico” del termine, con un filosofo apparentemente “inattuale” dalla voce quieta, dalla penetrante intelligenza filosofica in costante tensione: Luca Grecchi. Ci siamo incontrati tra le strade immaginarie di una Grecia amata, studiata, vissuta ad iniziare dalle pagine di Aristotele.

[… Leggi l’intervista aprendo il PDF qui sotto]

Domenico Segna,

Intervista a Luca Grecchi

La metafisica umanistica, tra le vie di Atene 

 

L’intervista è stata pubblicata sulla rivista:

«i martedì», Proporre – Riflettere – Commentare

Anno 40, n. 3, maggio-giugno 2016 [334], pp. 40-43.

 

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Alessandro Monchietto – Marx tra scienza e utopia. Oggi è forse meno irresponsabile tratteggiare un’utopia fondata, che diffamare come utopia condizioni e possibilità che già da molto tempo sono diventate possibilità realizzabili.

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«Oggi è forse meno irresponsabile
tratteggiare un’utopia fondata,
che diffamare come utopia
condizioni e possibilità
che già da molto tempo
sono diventate possibilità realizzabili».

H. Marcuse

 

 

Alessandro Monchietto

Marx tra scienza e utopia

Intervista ad Alessandro Monchietto a cura di Luigi Tedeschi
a partire dal libro Invito allo Straniamento II, Costanzo Preve marxiano

Editrice Petite Plaisance, 2016

 

 

1) Marx, pur avendo preso congedo dalla filosofia di Hegel, in favore di una scienza filosofica, tuttavia nell’elaborare tale “scienza pura” del processo storico materialista, riproduce le categorie filosofiche della dialettica hegeliana applicandole alla totalità sociale. Comunque Marx non accetta da Hegel la concezione della filosofia che considera il presente come “compimento della realtà”, definita altrimenti, “filosofia del fatto compiuto”. Infatti per Marx la ragion d’essere della filosofia consiste nella trasformazione del presente storico, orientando quindi la filosofia come premessa del futuro, verso cioè un avvenire che determini la conciliazione delle contraddizioni del presente. L’infuturamento della filosofia è però reso possibile qualora si conferisca alla filosofia un telos che corrisponda ad un determinato sviluppo del processo storico. Conferire comunque alla filosofia finalità predeterminate, non conduce a subordinare la filosofia ad un telos fondato su un elemento pre – filosofico (che può essere indifferentemente sia di carattere messianico che meccanicistico), che contraddice i presupposti stessi della filosofia della storia marxiana?

Il fondamento filosofico del pensiero di Marx consiste in una Idea unificata di storia universale del genere umano, visto come teatro di processi strutturali di perdita, acquisizione, alienazione, conquista ed emancipazione.
Paradossalmente, Marx pretese per tutta la vita di superare Hegel «lasciandoselo alle spalle», senza però mai riuscirci del tutto. Da questo punto di vista, l’intero itinerario marxiano potrebbe essere inteso come una sorta di “parricidio mancato” nei confronti di Hegel e, più in generale, della stessa filosofia: come infatti sosteneva Preve – a cui è dedicato il volume Invito allo straniamento e le cui tesi cercherò in questa riposta di sintetizzare – «non si esce dall’idealismo proclamando di non voler più essere ‘idealisti’».
Una posizione non certo minoritaria nel marxismo novecentesco era solita sostenere che Marx, dopo una prima fase giovanile in cui si era limitato a una critica di tipo prettamente filosofico al capitalismo, avesse abbandonato questo infruttuoso terreno per abbracciare la scienza economica, scelta che gli permise di elaborare una teoria della genesi e dello sviluppo del modo di produzione capitalistico.
In compagnia del nostro comune maestro Costanzo Preve, ritengo al contrario che il filosofo di Treviri non abbia in realtà mai condiviso né l’oggetto né il metodo dell’economia politica. [Leggi tutto aprendo il PDF]

 Alessandro Monchietto,
Marx tra scienza e utopia


Intervista già pubblicata su:

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Dello stesso autore:

Quale progettualità? A partire da alcune considerazioni di Luca Grecchi.

«Da capo senza fine. Il marxismo anomalo di Georges Sorel»

Le molte facce del neoliberismo: squilibrio distributivo e crisi finanziaria.

Dialettica dell’illuminismo. Diagnosi della società contemporanea, critica della ragione strumentale

Defatalizzare la realtà è il compito che ci attende

Luigi Tedeschi intervista Alessandro Monchietto su «Sorel, determinismo e marxismo»

RIVOLUZIONE NEOLIBERALE. PER UNA CRITICA CONSAPEVOLE
SINISTRA E IDEOLOGIA DEL PROGRESSO

Intervista a Costanzo Preve (Estate 2010, «Socialismo XXI»)

«L’euro come metodo di governo. Il ciclo di Frenkel, le ragioni degli squilibri dell’eurozona e la mezzogiornificazione delle periferie europee»

 


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Andrea Bulgarelli – «Costanzo Preve marxiano», intervista a cura di Luigi Tedeschi sul libro “Invito allo Straniamento” II.

Intervista ad Andrea Bulgarelli sul libro a cura di Alessandro Monchietto:

Costanzo Preve marxiano

“Invito allo Straniamento” II, Editrice Petite Plaisance, 2016

 

254 ISBN

indicepresentazioneautoresintesi

Il concetto marxiano secondo cui “Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza”, viene ad essere reintepretato da Preve alla luce della dialettica della filosofia idealista. L’interpretazione di Preve contraddice il determinismo ideologico marxista, in quanto contesta l’interpretazione economicista del rapporto tra socialità ed individualità umana. La coscienza è un prodotto sociale, ma si determina attraverso un processo dialettico che si istituisce tra individuo e la comunità in cui vive. Qualora la coscienza individuale fosse unicamente determinata dall’essere sociale inteso come rispecchiamento della propria condizione di appartenenza ad una classe sociale, la libera individualità verrebbe annullata. L’uomo è un ente naturale generico e la comunità in cui vive, è il prodotto della interazione solidale tra libere individualità. Quindi le finalità dell’uomo e della comunità non sono né determinabili né prevedibili a priori: l’uomo è “potenzialità immanente”. Tuttavia, vorrei osservare che nella società capitalista contemporanea, sembra invece inverarsi proprio quel principio determinista criticato da Preve. Si è infatti determinata una stratificazione sociale che ha creato una divaricazione sempre più accentuata tra le classi sociali, in termini di redditi, consumi, diritti. Sono quindi i differenziali di produzione e consumo e la cultura mediatica di massa a creare diversi bisogni, desideri indotti inappagati diversificati a creare una differente coscienza negli individui, in coerenza con la condizione sociale dell’individuo nell’ambito della società capitalista.

La tua domanda è molto impegnativa, in quanto chiama in causa non solo il dibattito (ormai consegnato ai libri di storia della filosofia, ma in passato estremamente acceso) interno al marxismo tra determinismo meccanicistico e autonomia della prassi umana, ma anche quello assai più antico sul libero arbitrio. Preve ha tentato una sintesi originale che la coniuga deduzione sociale della produzione intellettuale di stampo marxista con la libera individualità, che di per sé non è “deducibile” in maniera lineare dal contesto sociale. Questa sintesi è esposta in maniera articolata nella sua Una nuova storia alternativa della filosofia, senza però essere sistematizzata fino in fondo. Le ragioni di questa mancata sistematizzazione possono avere a che fare con il percorso filosofico di Preve, ma a mio avviso dipendono anche dalla materia stessa, che non si presta a schematizzazioni: la tensione tra determinazione sociale e libera individualità non può essere risolta da formule astratte. Tuttavia Preve ci ha indicato due concetti che possono fungere da bussola: quello di “ente naturale generico” ripreso da Marx e quello di “potenzialità immanente” ripreso da Aristotele. Sostenere che l’uomo sia un ente generico significa rifiutare il determinismo, ma anche riconoscere che le potenzialità di cui l’umanità è portatrice si coniugano in maniera differente a seconda del quadro storico e sociale. Proprio perché è potenziale, la libertà non è mai indeterminata. E questo ci porta alla seconda parte della tua domanda, in cui ti chiedi se la società capitalistica contemporanea non sia in realtà il trionfo del principio deterministico su quello della libertà. La logica mercantile ha ormai colonizzato tutto lo spazio dell’esistenza quotidiana, compresa la dimensione dei desideri e dell’immaginario. Nel XIX e XX secolo sopravvivevano residui pre-capitalistici o comunque non capitalistici, sia tra la borghesia (cultura aristocratica) che tra le classi popolari (cultura solidale contadina e artigianale). La società attuale appare molto più coerente e meno contraddittoria, il che lascia meno spazi a disposizione del libero sviluppo individuale e comunitario. Ciò non vuol dire però che tali spazi siano scomparsi. [Leggi tutto]

 

 

 

Costanzo Preve marxiano
Intervista ad Andrea Bulgarelli sul libro a cura di Alessandro Monchietto
“Invito allo Straniamento” II

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Alessandro Monchietto – Le molte facce del neoliberismo: squilibrio distributivo e crisi finanziaria. Intervista a cura di Luigi Tedeschi

economy
  1. Il principio dominante di ogni società liberale è quello della fondamentale libertà dell’individuo, quale soggetto titolare di diritti civili, politici ed economici. Il riconoscimento di tali diritti comporta la necessaria non ingerenza dello stato rispetto alla libera determinazione politica ed economica dell’individuo. Ma tali diritti, in palese contraddizione con i fondamentali diritti dell’uomo, oggi vengono ad essere negati nella società globalizzata del nostro secolo. Infatti l’odierno capitalismo è la negazione del laissez – faire del liberismo classico. Oggi il capitalismo si identifica con l’egemonia pressoché assoluta degli oligopoli delle multinazionali e delle holding finanziarie. Il capitalismo attuale è estremamente elitario e dirigista, impone riforme strutturali in campo politico e sociale, rigide regolamentazioni finanziarie che annullano di fatto le libertà politiche ed economiche. Ai poteri sovrani degli stati nazionali, in via di estinzione, si sostituisce la governance degli organismi internazionali: la democrazia viene ad essere esautorata dalle oligarchie economiche. La liberal democrazia ha dunque subito una eterogenesi dei fini creando un ordine mondiale che è l’opposto di essa stessa, oppure tale nuovo ordine rappresenta il logico, conseguente risultato di un processo di evoluzione di una ideologia liberale che di per sé stessa conduce al totalitarismo economico attuale?

 

Monchietto

L’idea comune di molte spiegazioni mainstream è che la crisi in atto, nata nella finanza, trovi spiegazione – e soluzione – dentro la finanza stessa, nelle sue regole e nei comportamenti degli operatori.

La tesi predominante (nei media come nell’accademia) attribuisce tutta la colpa alla “finanza cattiva” la quale, complice l’inadeguatezza dei regolatori, ha trascinato nel suo fallimento anche l’economia reale. Insomma, se non ci fosse stato il Lupo Cattivo Finanza il Cappuccetto Rosso Impresa sarebbe in ottima salute.

A mio parere quella che vede la causa della crisi solo nell’avidità dei banchieri, negli errori della regolazione, nei prodotti finanziari opachi è una spiegazione alquanto parziale, utile a distogliere l’attenzione dagli squilibri reali.

La crisi attuale, pur essendosi indubbiamente resa visibile nella sfera finanziaria, non per questo trova una spiegazione al suo interno: il rischio sistemico della finanza ha invece origine dall’attacco al lavoro degli ultimi decenni. La finanza è infatti stata il modo singolare ma efficace per rispondere alla tendenza alla stagnazione da domanda, che è l’altra faccia della massiccia precarizzazione del mercato del lavoro.

A partire dalla fine degli anni ottanta si è affermato un meccanismo di accumulazione capace di spingere verso l’alto la produzione senza aumentare i salari, capace di accrescere l’occupazione senza aumentare l’inflazione. Il risultato è stata la quadratura del cerchio, il sogno di ogni capitalista: un lavoratore che vede diminuire il proprio salario, ma che nonostante questo consuma come (se non più) di prima.

Si è così affermato un nuovo sistema finanziario che non solo svolge la consueta funzione di infrastruttura a supporto della produzione, ma che provoca un “effetto ricchezza” attraverso cui è possibile allargare il debito privato delle aziende e dei consumatori.

Da questo punto di vista, la finanza non è la malattia, ma il sintomo della malattia e al tempo stesso la droga che ha permesso di non avvertirla (e che quindi l’ha cronicizzata). Non è dunque un problema di instabilità finanziaria: è un problema di domanda effettiva, che nasce dalla organizzazione della produzione e del lavoro. Se le economie avanzate dell’Occidente vogliono continuare a svilupparsi nella democrazia devono tornare a far oscillare il pendolo della storia nella direzione contraria. [Continua a leggere]

Alessandro Monchietto,

Le molte facce del neoliberismo- squilibrio distributivo e crisi finanziaria.

Intervista a cura di Luigi Tedeschi

Intervista già pubblicata su:

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al 07-03-2016
 

 


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Ignazio Silone (1900-1978) – Il primo dovere di uno scrittore è la sincerità, ha il dovere morale di conoscere i problemi della propria epoca e di farsene un’opinione. Io sono dalla parte dell’uomo e non dell’ingranaggio.

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Intervista a cura di Ferdinando Virdia

Quale è, o quale ritieni possa essere, oggi, la funzione di uno scrittore rispetto alla società e alla vita politica del nostro tempo? Ritieni che uno scrittore debba trovarsi
 «impegnato» nei limiti di un'ideologia o in quelli di una determinata politica sociale?

Il primo dovere di uno scrittore è la sincerità. E il primo dovere di una società verso i suoi artisti e scrittori è di rispettarne la sincerità. Sono pertanto lontanissimo da ogni velleità di far prevalere tra gli scrittori una mia particolare concezione delle relazioni tra letteratura e politica. Personalmente io mi sono sempre sentito «impegnato», nel senso piu rigoroso del termine: «impegnato», direi quasi nel senso che il termine ha nel gergo del Monte di Pietà o Monte dei Pegni. Ma sono assolutamente avverso a farne una norma o una misura di valore. Non credo raccomandabile indurre altri scrittori, che spontaneamente non se la sentono, ad attenersi al medesimo criterio. Ogni scrittore deve esprimersi con la sua voce: non deve parlare o cantare in falsetto. Ho sempre riprovato nel concetto d’impegno di Sartre e dei comunisti l’errore di farne una norma e un giudizio di valore. Si è visto a quali disastrose conseguenze conduce una tale aberrazione, quando tale norma diventa legge dello Stato, com’è awenuto nei paesi d’oltrecortina.

 Ritieni che uno scrittore debba prendere posizione direttamente o indirettamente sui grandi temi del mondo contemporaneo, come quelli della minaccia nucleare, della pace mondiale, della povertà, del paesi sottosviluppati, dell'espansione del comunismo, del pericolo costituito tutt'oggi da dittature di destra o di sinistra presenti o future?

Uno scrittore, come ogni altro cittadino, avrebbe il dovere morale di conoscere i problemi della propria epoca e di farsene un’opinione. Ma, ovviamente, non può essere costretto. È da sperare che lo scrittore convinto di una qualche necessità sociale,  la esprima anche in dibattiti pubblici e polemiche. È utile che lo studio e la trattazione dei temi maggiori della nostra generazione non siano lasciati ai professionisti della politica. Ma uno scrittore decade subito nel rango di propagandista appena si fa il portavoce e il propagatore di parole d’ordine elaborate da altri per questioni da lui personalmente non studiate. È un malcostume ora abbastanza diffuso che getta il ridicolo su molti appelli e dichiarazioni di intellettuali. Anche a questo riguardo, dunque, sorge il richiamo alla sincerità. Gli scrittori hanno non l’obbligo, ma il dovere morale di contribuire ad illuminare l’opinione pubblica sulle questioni da essi studiate e approfondite. Si comportano però da autentici imbecilli quegli intellettuali o artisti che firmano qualunque appello o protesta su argomenti di cui non hanno la minima nozione, obbedendo a motivi di vanità o di opportunismo. Questo malcostume purtroppo ha come risultato di gettare il discredito anche sulle iniziative più serie.

 Come pensi possa essere Inquadrata la tua narrativa nell'attuale situazione e nelle linee di sviluppo della letteratura italiana d'oggi? A quale altro scrittore pensi di essere Iphi vicino ed affine?

Non so come possa essere inquadrata la mia narrativa nella nostra storia letteraria contemporanea. Sinceramente non lo so e non mi preoccupa, poiché non ritengo che sia compito mio di stabilirlo. Mi pare che gli accostamenti suggeriti finora dai critici siano inconsistenti. Poiché nei miei racconti ha una cert’a parte la politica, qualcuno in un primo momento ricordò … Domenico Guerrazzi; poiché il paesaggio è rustico un altro accennò a … Renato Fucini; poiché vi figurano dei preti e vi si parla di religione, qualche altro ha tirato in ballo … Fogazzaro; infine, ma non in fine, vari hanno naturalmente scomodato Verga. Mi pare che nessuna di queste varie presunte parentele regga alla riflessione. Vediamo un po’ … i miei romanzi non sono politici, ma antipolitici; in essi è rappresentata la condizione dell’uomo nell’ingranaggio della politica contemporanea, ed è evidente che l’autore è dalla parte dell’uomo e non dell’ingranaggio. In quanto al paesaggio, esso vi è accennato appena, come proiezione dell’animo dei personaggi. Il religioso o il sacro è quello terrestre della tradizione libertaria meridionale, che non ha nulla in comune con quello intellettuale dei modernisti. E i contadini non sono incatenati nella loro tragica pena; dalle sofferenze di Fontamara, malgrado tutto, sprizza un barlume di coscienza. Mi pare sia un elemento essenziale, una «conclusione» che dà carattere a tutto quello che precede. L’oratore non è piu marxista, ma non è passato invano per il  marxismo.

 La tua crisi di militante e di dirigente comunista, il tuo distacco dal partito comunista nel lontano 1927, è stata la causa determinante del tuo «passaggio» alla letteratura, o esisteva in te, prima di quell'evento, una vocazione letteraria, sia pure insicura o repressa?

Vi è una forma di rivolta esistenziale che contiene il germe di sviluppi assai diversi, politici ideologici morali estetici. Sono le circostanze della vita, e anche gli impulsi imprevedibili dello spirito, a favorire piu tardi uno sviluppo piuttosto che un altro. Posso dunque affermare che le vicende interne del comunismo facilitarono il mio distacco dall’azione politica e la mia concentrazione nel lavoro letterario, ma il bisogno di riflettere e di raccontare lo avevo avuto da sempre. È anche fuori dubbio che il senso della vita e dell’uomo, che era all’origine di quel bisogno, contribuì non poco alla rottura con una politica che ne era la negazione. Questo non significa che, di punto in bianco, io diventassi indifferente alla politica. Rimasi antifascista quanto o piu di prima. Tutto quello che ho scritto in seguito mi pare che stia a dimostrarlo.

C'erano stati prima di Fontamara tuoi tentativi letterari, magari non portati a termine a causa di altri Impegni politici o Intellettuali? L'esigenza di raccontare si manifestò in te come una continuazione e magari come un vero e proprio Ersatz dell'azione politica, o essa non passò in primo plano come una vocazione in certo senso primaria della tua vita?

Devo dire che un certo gusto del «bello scrivere» l’avevo fin da ragazzo ed esso fu incoraggiato in senso deleterio dal genere d’insegnamento letterario che ricevetti nei collegi di preti da me frequentati. Quando mi accinsi a scrivere Fontamara la prima precauzione che dovetti prendere fu appunto di dimenticare il bello scrivere appreso in collegio. Francamente non avevo modelli letterari a cui ispirarmi. Fui sorpreso non poco, nel leggere le prime recensioni apparse dopo le edizioni in tedesco e in inglese, di trovarvi menzionati nomi di autori tedeschi inglesi e americani, a me ignoti, che, secondo i critici, mi avrebbero ispirato. Se mi è lecito menzionare un antecedente non letterario, direi che il lavoro di scrittura di Fontamara poteva ricordarmi, in qualche momento, la redazione dei rapporti interni di partito, con in più quello che nei rapporti mancava. Devo aggiungere che le osservazioni che mi sono state mosse sullo stile e la forma, non mi hanno fatto né caldo né freddo, perché mi ricordano appunto l’insegnamento ricevuto in collegio da cùi mi sono liberato. La vita è troppo breve per tornare a discutere ancora di forma e contenuto.

 I tuoi romanzi rlspecchlano, sia pure In una loro particolare prospettiva fantastica, lirica e autobiografica, una certa realtà italiana, la realtà regionale di un mondo contadino che per la prima volta nella storia letteraria Italiana uno scrittore tratta immedesimandosi in esso e immedesimando in esso una sua visione storica ed ideologica e la sua polemica contro la società. Ritieni che quel mondo e quella società siano oggi diverse dall'epoca della tua esperienza giovanile e del tuoi primi libri? Possono essi continuare ad ispirare la tua opera di narratore?

La condizione sociale dei contadini meridionali è in una fase di rapida trasformazione, come, d’altronde, la società italiana in genere. Sono naturalmente soddisfatto di avere contribuito in modo particolare all’espropriazione del Fucino. Vari giornali la chiamarono la «Rivoluzione di Fontamara». Non direi però che la nuova situazione sia quella del Regno di Dio sulla terra. Anche se uno scrittore si applica a rappresentare la sorte di un ceto sociale che poi si trasforma, non si può dire che la sua visione della vita si esaurisca. Non vi sono riforme che possano modificare sostanzialmente il carattere problematico dell’essere umano, il contrasto dell’individuo col collettivo, della società con lo Stato, lo squilibrio tra la ricerca della felicità e il dolore. È giusto lottare per il benessere, ma non c’è da illudersi che esso risolva tutto: risolverà i problemi della miseria e sarà molto. Le incognite più essenzialmente umane risulteranno esasperate. Nel mio libro Uscita di sicurezza, mi occupo largamente di questo. Ma per me non è un tema nuovo, è solo un aspetto dell’unico tema di cui mi sia sempre occupato, la condizione dell’uomo nella società. Mancherei di rispetto verso me stesso se, per cupidigia di successo, mi mettessi anch’io a scrivere d’incesto e prostituzione, secondo la moda. La moda non m’interessa, che, se moda, passerà.

L’intervista è pubblicata in: Ferdinando Virdia, Silone, Il Castoro, Mensile diretto da  Franco Mollia, n. 6, La Nuova Italia, Giugno 1967, pp. 1-6.


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Giancarlo Paciello – La Costituzione tradita. Intervista a cura di Luigi Tedeschi

Costituzione tradita

 

L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro. Così recita l’art. 1 della costituzione italiana. Tuttavia la svolta liberista di stampo anglosassone imposta alla struttura economico – sociale del paese sembra smentire questo principio fondativo. Anzi, tutte le norme costituzionali che affermano i principi di dignità e tutela del lavoro sembrano aver subito una abrogazione materiale. Il principio lavorista viene spesso contestato come un vecchio residuo ideologico, si vuole infatti sostituire il fondamento del lavoro con quello della libertà.

Potrebbe secondo me essere una cosa positiva, perché libertà è libertà dal bisogno. Servirebbe una visione più vasta della libertà umana. Ma di fatto non si vuole tener conto che la dignità umana si basa sul lavoro. Bergoglio usa questa espressione poetica: “Il lavoro unge di dignità l’uomo”. Questa è una formulazione recente della Chiesa. Pio XII in particolare in un suo discorso bollava “la smodata bramosia di piaceri” degli operai italiani che chiedevano aumenti salariali. Io insisto a riferirmi al dettato cattolico perché è quello che domina l’immaginario collettivo dell’Italia. Il Papa è sempre un valore assoluto riconosciuto da tutti. E’ il caso di rifarsi a persone al di sopra di ogni sospetto. Il quadro che tu descrivi è in realtà l’obiettivo che il neoliberismo dominante ha intenzione di colpire. Perché il soggetto si caratterizza come soggetto di consumo e quindi la dialettica sociale non è più quella di capitale e lavoro…[Continua a leggere]

Fonte: Italicum

Luigi Tedeschi intervista Giancarlo Paciello
La Costituzione tradita

 

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Luigi Tedeschi intervista Andrea Bulgarelli, coautore con Costanzo Preve del libro “Collisioni – Dialogo su scienza, religione e filosofia”

Collisioni

242 ISBN

Andrea Bulgarelli – Costanzo Preve

Collisioni. Dialogo su scienza, religione e filosofia

ISBN 978-88-7588-153-5, 2015, pp. 96,  Euro 10 – Collana “Il giogo” [64]

indicepresentazioneautoresintesi

 

 1) Secondo Norberto Bobbio, “tra la religione e la scienza, quale è il posto riservato alla filosofia? O si mantiene valida la pretesa all’assoluta verità, e da allora sembra che non si possa fare a meno dell’esperienza religiosa – la filosofia deve cedere alla religione; o si rinuncia alla validità assoluta, ed allora si hanno buone ragioni di credere che bastino le scienze – la filosofia deve cedere alle scienze”. Religione, scienza e filosofia sono dunque, secondo Bobbio, ideazioni umane tra loro del tutto distinte ed autonome, con conseguente delegittimazione del sapere filosofico. In tal caso, una volta eliminati gli elementi del processo dialettico, verrebbe meno il fondamento stesso della filosofia. Secondo Costanzo Preve invece, l’unità dialettica tra scienza e religione verrebbe ad essere realizzata mediante la sintesi messa in atto dalla filosofia, quale momento di mediazione tra i due elementi dialettici. Ma allora scienza e religione non avrebbero di per se stessi alcun fondamento veritativo se non quali elementi del processo dialettico, o meglio, i loro fondamenti non sussistono se non in quanto funzionali alla verità filosofica?

Non sono sicuro che Preve intendesse la filosofia come sintesi dialettica tra scienza e religione. Questo significherebbe, come giustamente suggerisci tu, una subordinazione de facto delle prime due alla terza. Avremmo così una vera e propria assolutizzazione del pensiero filosofico, cosa che è in netto contrasto con la tesi dell’autonomia delle forme di conoscenza sostenuta da Preve e da me. Quando in Collisioni. Dialogo su filosofia, scienza e religione (Petite Plaisance 2015) io e Costanzo parliamo di unità dialettica, intendiamo polemizzare con quanti chiudono scienza e religione in compartimenti stagni, strumentalizzandole per mettere in scena il teatro “laici” contro “credenti”.
Chi cerca di sviluppare una ricostruzione razionale della genesi delle idee sa perfettamente che la scienza non è caduta miracolosamente dal cielo nel XVII secolo, magari come reazione contro una fumosa “religione” tout court. In realtà la genesi della scienza, esattamente come quella della religione (e della filosofia) è “sporca”, non rimanda a nessuna purezza originale. L’intreccio tra religione e scienza è stato oggetto di specifici studi, tra i quali ricordo quelli di Thomas Merton, secondo i quali l’istituzionalizzazione del pensiero scientifico moderno sarebbe in gran parte la ricaduta non prevista dell’etica puritana. Ciò non significa assimilare le due sfere, o fare della scienza una sorta di secolarizzazione di determinati contenuti religiosi, ma solo rendersi conto che è lo sviluppo storico complessivo dell’uomo a determinare i suoi singoli elementi, e non il contrario. Non si tratta quindi di una posizione oscurantista: anche Stephen Jay Gould ha trattato spesso delle influenze che il contesto storico ha esercitato sul progresso della scienza …[continua a leggere]

Fonte: Italicum
Intervista di Luigi Tedeschi ad Andrea Bulgarelli coautore con Costanzo Preve del libro “Collisioni – Dialogo su scienza, religione e filosofia”

 

 

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Maura Del Serra – Il lavoro impossibile dell’artigiano di parole

Maura Del Serra 010

Intervista a Maura Del Serra
di Pierluigi Sassetti e Giuseppina Pagliafora

 

Stampa il testo in versione PDF: Maura Del Serra, Il lavoro impossibile dell’artigiano di parole

 

 

Nòcciolo di saggezza
in polpa di follia:
la vitapoesia
Maura Del Serra, Microepigrafe

Non so perché, ma lei mi intimorisce un poco.

«Spesso incuto soggezione, sa che me lo dicevano anche quando ero ragazzina? Eppure sono geneticamente una timida, un’introversa».

Scorrendo tra le sue pagine nel sito Nuovo Rinascimento la cosa che salta subito all’occhio è che il suo lavoro di poetessa e traduttrice è imponente …

«Sì, se pensa a Kavafis e alle sue cento poesie. Diciamo che sono poliedrica; comunque quello che sostanzialmente ricerco è una sola cosa, andare verso la mia origine, la mia sorgente espressiva. Anche Pasolini, di cui stavamo parlando poco fa, cercava questo, no? Un anelito a tornare nel grembo materno e della lingua. Nel caso suo era un grembo tragico, con le ben note scissioni (quelle ideologiche e quelle fra l’eros e l’onestà, come diceva). Però è importante la sua identificazione con la madre, la “madre fanciulla”, e in generale l’elemento materno del poeta che è allo stesso tempo cristologico: un groviglio, nel suo caso, istintivamente e volutamente “eretico”, scandaloso. Per me l’elemento materno è fondamentale, non in senso personale soltanto, ma perché, come diceva Saba, il poeta è sempre madre anche se uomo, perché etimologicamente “comprende”; Saba diceva questo facendo l’esempio del Petrarca, e affermava giustamente che il Petrarca era anche Laura. Questa croce degli opposti credo sia una forma di nutrimento, anche nei termini di maieutica pedagogica, del lavoro che svolgete voi mediante l’educazione».

Certo, di lavoro sulla forza soggettiva.

«Cioè scoprire le proprie radici, le proprie linfe, scoprire che la forza umana si nutre di debolezze, quindi è importante sapere come cercare una catarsi per trascenderle, non fingere una forza che non si ha, magari di tipo superuomistico, wagneriano, “falso sublime” come lo chiamo io. Bisogna cercare nelle proprie radici quello che ci nutre, anche se è quello che ci ferisce. Tornando a Pasolini, potrei ricordare quella sua bella espressione “Casa della ragione sorella della pietà”. Questo è il vero cercare: la “casa della ragione”, però che sia una ragione nutrita dalla pietas, altrimenti ritorneremmo ai limiti, alle strettoie ideologiche dell’illuminismo, e mi pare che non abbiamo bisogno di questo, in un’epoca così drammatica per la sua deriva etica, associata all’oltranza tecnologica: questa comunicazione globale, che è anche alienazione, ha bisogno di trovare forme semplici e complesse insieme, ma non complicate, di far scendere la mente nel cuore, come dicevano gli indiani d’America e i mistici di tutte le latitudini. Gli intellettuali in genere fanno il contrario, fanno salire il cuore nella mente, quindi, come si dice, tutto diventa cervellotico. Quello che invece cerchiamo di fare noi, dico un noi molto virgolettato – i poeti, gli artisti, ma anche le persone più impegnate in senso umano – è appunto far scendere la mente nel cuore, pensare con il cuore. Forse è l’unico lavoro degno che si possa fare, attraversso qualunque altro lavoro esteriore».

Come si può, da tutto questo, arrivare a tradurre?

«L’elemento base del tradurre, oltre che del fare poesia, lo dice la parola stessa, è un trans-ducere, un gettare ponti da una lingua all’altra, da una concezione del mondo all’altra, quindi è un’operazione teoricamente impossibile, ce lo ha già detto Dante tanti secoli fa nel Convivio: “Nulla cosa per legame mistico armonizzata… si pote in altra lingua transmutare senza perdere tutta sua dolcezza”, ed è vero. Però noi facciamo continuamente questa cosa impossibile, e quello che il lettore legge non è né l’autore né il traduttore, ma è un terzo autore in una terza lingua. Se Lei legge un libro di poesie con il testo a fronte, in realtà legge due poesie spesso molto diverse. Attraverso il traduttore, nei casi meno riusciti, si crea un pasticcio, un fallimento artistico; nei casi di traduzione congeniale, invece, si crea una terza presenza espressiva, come se in un duetto vi fosse una terza voce che le fonde tutte e due. È un’operazione essenzialmente musicale, che si fa per una specie di “medianità”, per vocazione, perché i traduttori purtroppo vengono pagati miseramente (ed è anche difficile definire “quanto” dovrebbero essere pagati). Ci sono delle difficoltà oggettive, intrinseche al tradurre; perciò affinché l’operazione riesca ci deve essere una vera vocazione. Io non ho paura ad usare questa parola tipica del Romanticismo, perché non ce n’è un’altra che possa sostituirla. Non c’è un sinonimo più “moderno”. Margherita Guidacci, di cui ho curato l’edizione di tutte le poesie, è una poetessa che amo molto, ed era una bravissima traduttrice da più lingue, e diceva: “Certi autori sento che mi vogliono” e allora c’è un’empatia, e la cosa riesce. “Se l’autore non mi vuole”, lei si esprimeva così in modo molto semplice, “ci posso provare anche molte volte, lo posso amare molto” – e faceva l’esempio di Keats – “però la traduzione non riesce, ci si sente come respinti. È come sbattere contro un muro”. Ed è una cosa che ho provato anch’io diverse volte, nei tentativi di traduzione da autori che “non mi volevano” (ad esempio Sylvia Plath). Allora bisogna lasciar perdere; ci deve essere un’empatia profonda in cui sommare e fondere questi due elementi che agiscono anche nella poesia in proprio: il miracolo (qui sto citando Ungaretti) e il mestiere; quindi diciamo che deve esserci “l’orecchio assoluto” per sapere come rendere certe forme e creare, nel caso della poesia, una nuova poesia – non una parafrasi, o una prosa, non un rifacimento piatto, magari anche onesto, ma una nuova poesia. E poi il mestiere, ovvero le risorse tecniche e linguistiche che abbiamo. Però se non c’è primariamente questo feeling (che è quello stesso dell’amore e dell’amicizia), tra due voci, tra due mondi interiori, tra due cosmi poetici, intellettuali ed umani, la traduzione non può riuscire, perché è come voler abitare su di un ponte: l’ho scritto in Tentativi di certezza il mio ultimo libro di poesie pubblicate, che ha nel finale una parte aforismatica, di poesie molto brevi».

Può capitare che non si riescano a tradurre proprio quegli autori che si amano particolarmente?

«Sì, può capitare, se si amano in maniera troppo viscerale, come nell’amore tra persone; cioè, se è più una passione possessiva che un amore maturo, può capitare che la passione blocchi e non si trovi la forma per esprimere, per traslare, far passare attraverso il ponte linguistico e mentale quello che deve diventare un’altra creatura. Sì, può succedere, certo. Però anche la passione può diventare amore maturo, come tra le persone: se davvero un autore lo si ama e non si è solo infatuati, se lo si ama, poi la passione si decanta come il mosto in vino e allora diventa possibile una buona traduzione.

Come ha scoperto questa sua vocazione, quando ha iniziato?

«Con la traduzione? Beh, nel lontano 1985, quando mio marito, che non conosce il tedesco, voleva conoscere Else Lasker Schüler della quale aveva letto, e gli erano piaciute, alcune poesie in un’antologia di poeti espressionisti; questa poetessa così straordinaria, che scriveva in tedesco e diceva di scrivere in ebraico era a sua volta un’ebrea piuttosto eretica. Diceva: “Io non sono ebrea per gli ebrei, ma sono ebrea per Dio”. E scriveva in un tedesco tutto particolare, molto fantasioso. Mi rammento che, vedendo le poche traduzioni italiane esistenti, che erano quelle (nemmeno brutte) della Mandalari, sentii che mancava qualcosa, erano “sedute”, non c’era quella vis, quella energia che in lei è fortissima, un phatos viscerale molto forte, perché è stata legata all’espressionismo, però in modi tutti suoi, fantasiosi, nostalgici e orientaleggianti. Allora provai a buttar giù qualcosa, a tentare una traduzione, ma solo per me e per mio marito: avevo molta riluttanza a pubblicare queste versioni poiché, essendo giovane, temevo le reazioni dei germanisti, quelli del mondo accademico di cui da poco facevo parte, a nche se molto indipendente, e di cui ho fatto parte fino a poco tempo fa; in quei settori abbastanza chiusi, non si deve invadere il territorio altrui. Però, devo dire, anche mio marito, mi incoraggiò, mi disse: “Perché no? Vedrai, saranno clementi”. Poi appunto ho realizzato l’antologia Ballate ebraiche e altre poesie, che peraltro mancava perché ce n’era una del 1962 con pochi testi, quella col disco della Proclemer, fatta da Baioni (che successivamente ho conosciuto anche personalmente, e dal quale ho riucevuto i complimenti, in occasione della discussione di una tesi sulla Lasker Schüler avvenuta a Firenze); dopo quella sua versione antologica non ce n’erano state altre, e allora feci questa antologia traducendo l’intero corpus delle Ballate ebraiche ed un’ampia scelta dalle altre raccolte per l’editrice Giuntina, e devo dire che il volume ha avuto molto successo, è andato benissimo anche dal punto di vista commerciale. Dieci anni dopo, nel 1995, in occasione di una ristampa, ho modificato alcuni punti della traduzione e ho rifatto l’introduzione, che nella prima versione era un po’ criptica, ed il libro è tuttora in catalogo. Dopo quello dei germanisti sono passata ad “invadere” il territorio degli anglisti e dei francesisti, con quache sporadica incursione anche fra gli ispanisti, ma ho sempre considerato il lavoro di traduzione com parte integrante del mio lavoro poetico».

Sarebbe corretto dire che lei approda alla traduzione partendo dalla poesia?

«Sì, è quel discorso che facevo prima sulla musica, sull’avere orecchio empatico. Non ci si può riuscire facendo solo un lavoro accademico. Ma ci sono dei poeti che io non oserei tradurre perché secondo me sono intraducibili come, in area francese Baudelaire, e in area tedesca, Rilke o Celan che sono stati tradotti diverse volte in modo (specialmente Celan) accademico, e risultano svuotati di aura e di segno, di quel senso tragico che li contraddistingue. In sintesi, per tradurre un poeta ci vuole un altro poeta, e che sia anche sulla stessa lunghezza d’onda. E’ una cosa effettivamente molto complessa, però è come la vita: estremamente complessa e inconcepibile, ma poi nel suo manifestarsi quotidiano è anche semplice, ci si lascia guidare da questa voce primigenia, da questa ispirazione – uso un’altra parolona romantica che non ha sostituti».

Questo vale solo per la poesia o anche per la prosa?

«Vale anche per la prosa, anche se il mio orecchio è sempre sintonizzato istintivamente sulla poesia. Ma anche nella prosa si deve ricercare il ritmo, che c’è sempre, e ricrearlo, senza fare un calco della lingua di partenza in quella di arrivo, tenendo conto che l’italiano è appunto, detto tra virgolette, una lingua “pesante”, nobile, petrarchesca, barocca, fronzuta, cioè “lunga”. E di questo, traducendo dall’inglese, bisogna tenerne conto, perché si appesantisce tanto. Risulta più facile tradurre da lingue altrettanto “pesanti” come il tedesco, perché la struttura nella sintassi è quella greco-latina, o dal francese e dallo spagnolo. Con l’inglese invece bisogna fare un salto interiore ed espressivo, camminare un po’ sulla fune; ho trovato questo tipo di difficoltà quando ho affrontato la Woolf. Della Woolf ho tradotto Orlando, Le onde, e Una stanza tutta per sé, il suo manifesto femminista. Ma è soprattutto Le onde ad essere scritto in maniera decisamente musicale, sono sei voci, sei personaggi incvarnati da sei voci musicali, un sestetto, e il ritmo nell’inglese è completamente diverso da quello italiano; quindi bisogna trovare una forma musicale italiana che non tradisca, o per meglio dire che tradisca bene, perché bisogna tradire, ma tradire in modo amorevole rispettoso dell’originale. A dirlo così, sembra un groviglio di ossimori, ma l’orecchio, sempre quello, ti guida, e ti guida l’autore (o l’autrice) come un Virgilio. L’autore va anche conosciuto, va studiato. È indispensabile conoscere la vita, la biografia, il background, perché il suo linguaggio è anche quello del suo tempo, quello della sua cerchia sociale e familiare, quindi c’è da tener conto di molti elementi. Però, se c’è l’amore, la passione di base, il consenso reciproco, se l’autore ti accetta, “ti vuole” come specchio, accetta di farsi tradurre, i risultati possono essere buoni. Non sono pienamente contenta delle mie traduzioni, ovviamente tutto è perfettibile, però si tratta di un’esperienza di arricchimento personale, che impone di mettersi al servizio dell’autore; il risultato poi dipende dai molti fattori di cui parlavo sopra. Nella poesia personale può prevalere, e spesso prevale, l’elemento del narcisismo, dell’io lirico, cosa che succede in misura maggiore o minore in tutti i poeti. Si impara molto dai bambini, per come sanno ascoltare e decifrare magicamente anche quello che c’è nei nostri silenzi, nel linguaggio non verbale. La traduzione è qualcosa di analogo, è un lavoro di artigianato, come quello del restauratore che riporta allo splendore i capolavori antichi e trascurati; in fondo il lavoro che fa il traduttore è analogo».

Lei è stata anche docente universitario. Come si concilia questa forma di artigianato e l’insegnamento accademico, che è distaccato, sterile, dà gli strumenti ma poi non li collega?

«E’ vero, l’insegnamento accademico tende a fornire degli strumenti non sempre in maniera adeguata al loro uso. A meno che non si tratti di docenti eccezionali, che sono i famosi maestri che noi tutti abbiamo cercato e cerchiamo, che tutti gli studenti cercano, ma sono rari… anch’io li ho molto cercati, ma non ne ho mai trovati in quell’ambiente.. In questo caso bisogna farsi maestri di se stessi. Parlavo prima, citando Ungaretti, del miracolo e del mestiere. Il mondo accademico lavora solo sul mestiere, tranne rarissime eccezioni. I traduttori migliori, anche se insegnano all’Università, magari fanno altre cose, sono anche scrittori, non sono accademici puri, perché il mondo accademico è sterile, come un laboratorio di analisi mediche. Proprio perché ero una voce fuori dal coro mi sono trovata sempre piuttosto emarginata, il che per me era anche una fortuna perché potevo lavorare per conto mio, potevo fare i miei corsi di poesia e gli studenti mi seguivano davvero con interesse».

Un esempio di forza soggettiva…  

 «Sì, cercavo di far capire anche cosa c’è dietro le rime, le cose che magari abitualmente in un corso non vengono prese in considerazione, e lo facevo usando un po’ tutti gli strumenti che anche la critica formalistica può usare, gli strumenti tecnici e la retorica, ma sottolineando la loro caratteristica di strumenti, che non vanno finalizzati a se stessi. Se si disseziona una poesia, come si faceva ai tempi dello strutturalismo, ci rimane solo il cadavere, non c’è più né l’autore né l’opera. Personalmente, pur avendo avuto delle amarezze durante la mia attività in ambito universitario, non me la sono mai presa troppo perché il poeta deve essere pronto a “pagare” per la sua vocazione; non si può avere tutto, in questa e nell’altra dimensione e io ho sempre fatto prevalere l’artigianato. Ovviamente, nell’artigianato vanno impiegate tutte le strutture del mestiere, si tratta sempre di conciliare, di trovare il logos, il dialogo con queste croci di opposti: il caos e l’ordine, l’intellettualismo e l’emotività; bisogna trovare e tessere il filo, la ragione, il logos che abbia in sé anche gli strumenti della pietas, quindi anche l’inconscio – ben venga dunque l’eredità della psicoanalisi, ma senza più il peso ideologico che ha avuto in origine, alleggerita da quel carico un po’ punitivo, per cui se si usciva da quelle forme dogmatiche si era “fuori strada”. Ora, in una società globale (almeno virtualmente, perché poi è sempre dominata dai nazionalismi, dai personalismi, da ferite e incomprensioni linguistiche nel senso interiore (perché le lingue sono mondi) tuttavia abbiamo gli strumenti per superare questi muri. Certo non si può negare che, come sentiva Pasolini, la storia è tragica. Anche Caproni, che era suo amico, scriveva con il suo humour nero: “Fa freddo nella storia. Voglio andarmene”. La violenza che vediamo continuamente all’opera nella storia e nel quotidiano, convive però e si mescola con l’aspirazione umana all’assoluto, quindi il metatemporale e il temporale; c’è sempre e dappertutto questa lotta tra il caos e l’ordine. Io non credo si possa superare questo dualismo, perché la condizione umana, la condizione nostra è costruita sul due (quando dico nostra, voglio dire anche quella degli animali, delle forme di vita complesse): il ritmo del cuore, il ritmo del tamburo, il ritmo primordiale, sono tutti scanditi sull’uno-due, uno-due, e quindi bisogna lavorare su questa dialettica. La filosofia poi l’ha concettualizzato, con Hegel, l’ha definito tesi, antitesi e sintesi. Può essere un lavoro filosofico, ma non deve essere un lavoro intellettualistico perché altrimenti la sintesi non passa nella vita, rimane nella testa: come scriveva Canetti, in una “testa senza mondo”.

Pasolini asseriva che gli intellettuali fanno un lavoro tra comodità e benessere.

 «È vero, ma non sempre, adesso lo è diventato molto di più rispetto ai tempi di Pasolini che lo diceva in senso provocatorio e autopunitivo; credo che se vivesse oggi Pasolii sarebbe molto più tragicamente angosciato; quando nel dopoguerra lui si è formato, e faceva il suo lavoro pedagogico e poetico, così eclettico e ricco, così straordinario (penso al suo cinema più che al suo teatro e alla sua poesia) la società era ancora strutturata secondo un modello “classico”, a scuola c’era l’ordinamento umanistico gentiliniano, e nella società, pur pesantemente gerarchica, l’intellettuale aveva ancora una voce, specie se engagé o “militante”, come si diceva allora. È per questo che P.P.P: ha potuto creare scandalo, mentre oggi è scomparsa l’idea stessa di scandalo (sostituita da quella di provocazione furbesca). La deriva etica, e l’oscuramento della cultura umanistica hanno comportato la perdita del ruolo “di rispetto” dell’intellettuale e dell’artista come testimone (non come maître à penser, che se lo è, lo è senza volerlo) ma come testimone ed interprete della condizione umana. Pasolini, cattolico d’origine, aveva vivissimo questo senso, anche sacrificale, della testimonianza come etimologica martyrìa, ma rispetto agli anni ’50 e ’60, agli anni del boom, e anche ai ’70, quelli “di piombo”, è diventato tutto molto più difficile: allora lui poteva ancora vedere il nemico all’esterno (la corrota società borghese) e poteva costruire il mito e il rimpianto del mondo contadino primigenio in via di sparizione. Oggi la società cosiddetta post-moderna è un melting pot massmediatico, molto confuso, dominato dalla finanza e dalla tecnologia. I giovani, ovviamente, sono sempre assetati di verità, di bellezza e di valori, ma sono a loro volta confusi e delusi in una società dell’immagine che li emargina e ne rifiuta i doni creativi, che sono quelli del futuro stesso.
Quello che cercano di fare i poeti – almeno io nel mio hortus, ma credo tutti gli scrittori e gli artisti non asserviti – è cercare di dar vita ad una società della sostanza, opposta alla società dell’immagine e dei consumi. Certo una società simile è difficile da costruire; nella società attuale, dominata dai gruppi di potere (segnatamente da quello finnanziario), dalla forza che schiaccia e prosciuga l’anima e la realtà, i valori della persona tendono ad essere sacrificati o falsamente esaltati per gli scopi del potere stesso. In questo processo c’è un elemento veramente tragico, tragico e morale, come diceva Campana sulle orme di Nietzche. Campana è stato il mio primo amore poetico, e il suo destino “folle” è abbastanza emblematico del poète assassiné. Lui è un po’ il nostro Hölderlin, (certo, fatte le debite proporzioni); e anche Hölderlin è stupendo ma intraducibile, io non ho mai provato a tradurlo, anche se ho trovato insoddisfacenti le traduzioni italiane che ho letto; la migliore mi pare quella vecchia di Giorgio Vigolo che è arcaica, datata (è degli anni ’40) però Vigolo era un poeta, quindi l’orecchio epico e lirico che Hölderlin richiede c’era».

C’è una lingua che sente più affine a sé, una lingua da cui preferisce tradurre?

«Ultimamente ho tradotto molto dall’inglese ma…vede, io non parto dalla lingua, parto dall’autore, da un autore che amo, e solo di conseguenza dalla sua lingua . Ora è un periodo in cui mi dedico sll’inglese, perché amo molto Katherine Mansfield, e avendo già tradotto tutti i suoi racconti – un unico volume della Newton Compton recentemente ristampato – mi sono messa, veramente per amore, a tradurre tutte le sue poesie che erano state parzialmente antologizzate in diversi periodi e con differenti traduzioni che a mio aprere non le rendevano merito. Ho curato l’antologia Poesie e prose liriche, edita da “petite plaisance”, dove ci sono pressoché tutte le sue poesie, con l’aggiunta di un corpus di prose liriche giovanili, basandomi sul testo inglese di O’ Sullivan che era uscito già nel 1988.
Poi ho incontrato, o meglio riscoperto, la voce di Tagore, che avevo letto in gioventù, negli anni Settanta, quando c’era la moda un po’ hippie dell’Oriente, e ho visto che non c’era nessuna traduzione italiana moderna della sua autobiografia; ce n’era una del 1928 che però è uno stranissimo rifacimento, assai fantasioso, con aggiunte e divagazioni del traduttore. Allora ho tradotto questa sua autobiografia intellettuale, Ricordi di vita, che è uscita presso “Studium” di Roma (è il primo volume della nuova Biblioteca Universale di Studium). L’inglese di Tagore è ovviamente assai diverso da quello della Mansfield, che era sì una “coloniale” ma si era formata studiando a Londra. L’inglese di Tagore, invece, era quello un po’ “strano” dell’India soggetta all’Impero Britannico; tra l’altro la traduzione inglese dell’autobiografia – che in originale era scritta in Bengali – non l’ha curata lui stesso, ma un nipote con l’approvazione dell’illustre zio.
Lei dice che io ho scritto tanto, ma se all’opposto di Kavafis, considera quello che ha scritto Tagore: 2.400 poesie, 2.200 canzoni, trenta opere di teatro, romanzi, eccetera…

Quindi l’inglese…

«In questo periodo sì. Poi l’editrice “Archinto” di Milano mi ha proposto di tradurre il carteggio di Tagore con la Ocampo, non Sylvina Ocampo, l’amica di Borges, ma la sorella maggiore, Victoria Ocampo, che è nota elitariamente ma che è stata una donna di grande talento, un’argentina molto brillante, colta, ambiziosa e impegnata, una mecenate di artisti e una femminista individualista. È stata la fondatrice della rivista “Sur” che ha “lanciato” Borges. C’è dunque questo carteggio con Tagore che risale a quando lo scrittore nel 1924 è andato a Buenos Aires e la Ocampo lo ha ospitato e si è innamorata di lui (del resto si diceva che tutte le donne del Bengala fossero innamorate di lui). Questo rapporto con la Ocampo poi continua a distanza per quindici anni. Sono lettere molto belle, ricche e fervide
Curare questo volume, ora uscito, per me è stata una bella esperienza perché mi sono confrontata con un “altro” inglese: l’inglese di Tagore è sempre quello coloniale, ma la Ocampo, che è argentina, scrive un inglese diverso, perché il suo imprinting, la sua formazione straniera era francese, perché allora, negli anni ’20, era la lingua colta dominante, quindi a volte fa dei calchi dal francese e dallo spagnolo, delle forme ibride e degli errori; tuttavia non ho fatto non un’edizione critica, ma un’edizione “leggibile”, anche perché se avessi dovuto continuamente mettere la parentesi quadra e la spiegazione “qui c’è il probabile calco del francese”, ed altre specificazioni del genere, trattando una materia che invece è appassionante, tellurica, sarebbe diventa un lavoro troppo accademico, pesante. E il carattere del libro non lo avrebbe sopportato».

Giusto per capire, parla tutte le lingue da cui traduce?

 «Be’ sono una traduttrice molto “a tavolino”. Le parlo prevalentemente nei viaggi, anche se sono consapevole che non facendone un uso frequente le lingue si perdono: il tedesco ad esempio ora l’ho abbastanza perso, ma tutte le lingue richiederebbero un uso assiduo; cerco di tenermi in esercizio leggendo i poeti».

Perché lei ha sempre letto in lingua originale?

«Certo, sempre! O meglio: nell’adolescenza, quando non conoscevo, il francese leggevo per esempio Baudelaire con il testo a fronte. Ero partita da Baudelaire che ha delle forme molto regolari, come i sonetti, per capire come era strutturata la lingua “alta”, poi naturalmente ho approfondito la grammatica, la sintassi ecc.. Certo se scrivo in una lingua strtaniera probabilmente faccio degli errori, però quando traduco in italiano sono quasi sicura di non farne, almeno non di rilevanti».

Si può cominciare a tradurre senza avere la sicurezza di sapere tutto?

«Sarebbe mostruoso avere la presunzione di sapere tutto. Pascoli ha fatto delle bellissime traduzioni da Tennyson, quasi dei rifacimenti, ma splendidi, e non credo che conoscesse bene l’inglese, quanto meno non ci sono prove che lo avesse studiato. È lecito e urile confrontarsi anche con le soluzioni di altri, ma che non siano copiature o calchi travestiti».

Le capita mai di leggere le traduzioni di altri autori prima di incominciare a tradurre?

 «Certo, devo vedere in che modo è stato trattato l’autore e se la traduzione è buona può non valere la pena farne una nuova».

E nel caso di autori mai tradotti?

 «Quella è una sfida “senza rete”. Per l’autobiografia di Tagore questo problema si è posto – come in passato per Barnes, per Herbert, per Segalen, per la Kolmar – perché la “traduzione” che c’era, quella del ’28, non era una traduzione, era una parafrasi moto fantasiosa. Del carteggio con la Ocampo non c’era nessuna traduzione, ma ha supplito l’esperienza, l’orecchio, l’amore, la tecnica, tutti “aiutanti magici”. Poi, certo, tutto è perfettibile e se dopo ne uscisse un’altra migliore della mia… non soffro particolarmente d’invidia, casomai posso dire a me stessa: “perbacco, vediamo cosa posso imparare per la prossima volta”».

Le è mai capitato di trovare una traduzione che le è piaciuta più della sua?

«Ora se le dico di no mi sembra di essere una megalomane…però sono un po’ imparagonabili le traduzioni, sono come le persone. Per esempio, quelle della Woolf fatte da Nadia Fusini non sono affatto male, ma il suo è un altro modo, è un altro approccio, in un’altra lingua. Lei traduce in una buona prosa, però secondo me le manca un po’ di ritmo, di “volo”. Ma è uin confronto veramente improbo e ingiusto da fare: ogni traduzione è unica, e per giudicare le proprie non si ha la distanza critica necessaria».

Sembra che stia parlando di brani musicali.

«Sì, perché la poesia è musica. È difficile dire se la musica provenzale sia migliore di quella indiana, o se Schubert sia meglio di Puccini, ognuno è veramente un “cosmo”. Diciamo che in passato ci sono state delle traduzioni da cui ho imparato molto, però non ho mai cercato di riprodurle, non sarebbe possibile né produttivo. Un lavoro “vero” deve trovare la sua voce e il suo stile. Ricevo tanti libri di poesie, specialmente di giovani, che chiedono un giudizio sincero, ma è molto difficile darglielo, perché se mi azzardo a fare una qualche riserva del tipo: “Lei si deve ancora formare” oppure: “si sente ancora molto l’impronta del tale poeta” di solito l’autore si offende, il che mi dispiace, così come mi dispiace mentire».

Invece sarebbe interessante avere un parere.

«Certo, tutti dovremmo imparare a migliorarci scambiandoci pareri anche molto critici, ma una critica sincera suona spesso difficile da sopportare per chi le riceve. C’è il “pianoforte della vanità”, come lo chiamava Panzini, che “non è mai così scordato e muto sì che non mandi alcun suono”. È proprio vero, non c’è modo di farlo tacere del tutto, però è possibile, col tempo, mettergli la sordina e usare il pedale. Oggi, ad esempio, vengono diffusi strumenti comunicativi “istantanei” e il tempo è così veloce che viene schiacciato, non lo si considera più. Penso alle e-mail e agli sms, al “tempo reale”, ma quale è il tempo reale della vera comunicazione? È come per il vino, il mosto si deve decantare con lentezza, e la lentezza ci vuole. Paul Valéry ha scritto L’elogio della lentezza, ora c’è la moda dello slow food, ma il tempo resta veramente parcellizzato e non olistico. Adesso, pare, hanno scoperto i neutrini ed è andato in crisi anche il limite della velocità della luce. Ho scritto una poesia sui neutrini, una metafora un po’ scherzosa e un po’ seria, però sentivo di affrontare questo argomento; è forte la nostra presunzione di toccare e superare la frontiera scientifica dello scibile. Pensavamo di aver capito tutto, o quasi dell’universo con la teoria della relatività … I neutrini per me sono la metafora dell’imponderabile, di quello che ci sorprende, ci meraviglia, ci spiazza, e li ho ritratti come i folletti delle fiabe romantiche. Forse i poeti sono rimasti meno sorpresi degli scienziati da questa scoperta. Poi c’è anche da dire che l’Italia possiede doni di straordinaria bellezza, specialmente nel campo dell’arte, che vengono dall’“anima fanciulla”, dalla meraviglia platonica, ma non ha mai raggiunto la maturità storico-politica, è anche un paese molto “dimenticone”, che rimuove la memoria storica; l’abbiamo persa troppo a lungo, adesso è necessaria una rinascita fondata sulla consapevolezza civile e interiore. Siamo un paese vecchio, come vecchia è l’Europa, per questo dovremmo essere dei nonni più saggi e credibili, invece che essere dei nonni farseschi, che si truccano e si comportano da adolescenti, da Pierini infatuati e menefreghisti».

Oggi va di moda l’adolescenzialità.

«Si tratta di un mito che viene da lontano, è il mito dell’eterna giovinezza e del ringiovanimento che dal Romanticismo europeo in poi, specialmente col Werchter e il Faust di Goethe, diventato dominante nella cultura europea soppiantando la figura classica e medievale del vecchio saggio, portatore di memoria personale e collettiva; ha prevalso il fascino dionisiaco della gioventù, del futuribile, del “blé en herbe” come lo chiamava Colette (e pensi poi alla Lolita di Nabokov). Negli ultimi decenni questo mito è degenerato nelle forme spicciole, omologanti e spesso grottesche, della chirurgia plastica».

La metafora di Pasolini, “vecchi ruderi di cui nessuno conosce …”, è proprio questo uno dei problemi. Il rudere è anche il vecchio artigiano?

«Il vecchio artigiano non è un rudere né un mito o una metafore romantica, è un basamento su cui continuare a costruire creativamente, unendo tradizione e invenzione. Io sono felice di provenire da una famiglia di artigiani. Mio padre era un artigiano del legno, un restauratore-artista del mobile, mio fratello è stato un famoso restauratore di quadri antichi: ha restaurato alcuni dei capolavori assoluti della pittura».

Lei è stata ragazza di bottega?

«Non non ne avevo l’attitudine, il mio centro di gravità è sempre stato nelle parole, ma ne sentivo il fascino estetico. Quando ero bambina andavo nella bottega di mio padre, un antico stanzone-falegnameria, guardavo quello che faceva e mi piacevano l’odore del legno, gli intarsi. Un lavoro paziente, silenzioso, creativo, che solo dopo decenni ho collegato alla scrittura e alla traduzione. Mio padre alcuni mobili non li vendeva proprio, “con tutto il tempo che ho impiegato per costrurli”, diceva, “che prezzo dovrei chiedere?” Erano come un libro di poesia, un pezzo musicale, una bella traduzione, un quadro riuscito, come tutte quelle cose che richiedono un tempo e un’abilità non quantificabile. Della bottega di mio padre ricordo con intensità i trucioli, le spirali leggere del legno piallato. Quando ero piccola, disegnavo sempre spirali. E anche quando mio padre mi portava dei pezzetti di legno, io ci disegnavo sopra spirali col lapis copiativo. Era proprio una forma cosmica, primordiale, dell’ inconscio collettivo direbbe Jung; una forma che mi affascinava e che nessuno mi aveva mai mostrato».

E il suono?

«Il suono è il fondamento del mondo, e le arti sono tutte sorelle, sono variazioni sul tema, personificate in età classica nelle nove Muse. Le Muse sono come altrettanti dialetti della stessa lingua primigenia. La pittura ha un ritmo, così come la musica ha un colore. Il suono primordiale ricordato anche nelle Sacre Scritture, l’Om, o il Logod, fa nascere il mondo, è il Big Bang fisico e simbolico che crea le forme dell’essere e le rifrange in variazioni innumerevoli».

È strano che lei, poetessa, scrittrice, traduttrice, ci stia parlando di suono. Abbiamo incontrato musicisti che per spiegarci il suono ci hanno fatto l’esempio di un libro. Dicono che suonare, imparare a suonare, è come leggere un libro perché anche il musicista si esprime per frasi.

«Il principio della traduzione di cui parlavamo, è appunto questo; trovare una frase, una musica equivalente all’originale, una musica verbale ed interiore. Lo stesso vale per la poesia, che nasce da una o più “voci di dentro” che si esprimono in immagini ritmiche. Il libro poi, è una metafora ricorrente in tutti i miti di creazione; penso in particolare al Corano islamico, ma anche al topos interculturale del “libro della vita”».

Difficilmente si incontrano professionisti che sentono l’esigenza di trarre ispirazione da altri contesti. Quando parlo di queste cose ai miei allievi è come se cadessero dalle nuvole, perché sono talmente standardizzati sul concetto di sapere scolastico che lasciano veramente poche vie all’imprevedibile.

«Certo, il sistema scolastico, come qualunque “indottrinamento” o acculturazione, può creare gabbie mentali, perdita di fantasia creativa e fissazione di stereotipi, di un’erudizione “a compartimenti stagni”, o frtettolosamente integrata da Internet e dal suo fast food planetario, dove inevitabilmente la quantità abbassa la qualità del sapere, una volta elitario. Anche l’Università è diventata una sorta di super-liceo per effetto della cultura tecnologica di massa. Ma gli allievi migliori – magari supportati dai punti di eccellenza ancora esistenti in Italia, e più all’estero, trovano e troveranno sempre in sé il desiderio e il bisogno di ampliare i loro orizzonti in senso multidisciplinare, interculturale. La realtà contemporane sembra drammatica, distruttiva ed autodistruttiva, ed in buona misura lo è, ma se si leggono i papiri egizi, le testimonianze degli scribi denunciavano la decadenza dei costumi etici e socili e la crescita della corruzione rispetto ai tempi antichi. Il sentimento della decadenza è una costante, perché nel profondo di noi vive il mito dell’età dell’oro, dell’Eden perduto. Per quanto mi riguarda, sento veri i cicli, i “corsi e ricorsi” di Vico, e poi di Nietzsche , per cui le realtà ritornano, anche se in una forma storica e con immagine diversa. Anche Pasolini percepiva questo. Il mito positivista dell’infinito progresso e possesso ha favorito le scoperte scientifiche, ma ci stà portando a distruggere la Madre Terra, il pianeta. Tuttavia stiamo assistendo ad una crescita della coscienza individuale. Stiamo lentamente acquisendo la consapevolezza, anche interiore, della nostra violenza distruttiva, ma è difficile acquisire un livello di coscienza globale, perché il nostro mondo è come un’eterna scuola con tante classi, e, a parte una certa quantità di analfabeti, refrattari agli input educativi, ci sono tante classi: gli studenti di prima elementare ci saranno sempre, ed ovviamente non hanno la stessa preparazione degli studenti di quinta liceo che pure ci saranno sempre, così come i professori cioè i maestri spirituali. Lo spirito delle nazioni, che i romantici avevano identificato, e lo spirito delle lingue indubbiamente esistono ed operano, come l’inconscio collettivo, ma non sono unitari, quindi non si può dire, in linea di massima, che una nazione sia più civile di un’altra, e poi anche nelle società più evolute ci sono sempre delle sacche di ignoranza e di pregiudizi, dei rigurgiti di barbarie, di “proiezioni sul nemico”, come ad esempio di razzismo, il nazionalismo intollerante e il sessismo, che si verificano continuamente in tutto il mondo. La democrazia, anche interiore, è un’acquisizione difficile e precaria, come la cima di una piramide».

Come si può sfuggire a questa forma di realtà che incasella, standardizza, che toglie il tempo, che impoverisce nella sua essenza ogni soggetto, anche se ovviamente il soggetto ci mette del suo?

«Penso che la capacità di sottrarsi alla standardizzazione sia un dono, oltre che una volontà. Ci sono molti giovani, e meno giovani, motivati e profondi, di ottima caratura morale. Il rischio comunque è quello di sfuggire ad uno stereotipo cadendo in un altro, magari quello dell’“alternativo” o del diversamente consumista. È sempre necessario, secondo me (cito ancora da Ungaretti) che “il vero poeta aneli a chiarezza”) e non solo il poeta e l’artista, ma ogni essere umano degno di chiamarsi tale: cercare di fare chiarezza dentro se stessi, di capire di che cosa si ha bisogno veramente, perché spesso si è ingannati da falsi desideri, “immagini di ben seguendo false” dice Dante; sono queste che l’omologazione incrementa e sfrutta».

Il desiderio confuso con il consumo …

«Sì, il desiderio indotto di cose, di oggetti che rassicurano, che fanno sognare i sogni degli altri, e non i propri, “distraggono” in senso etimologico, portano a smarrire l’identità, a “perdere l’anima” pur di identificarsi col gruppo socialmente prevalente. Ci vuole il coraggio di sentirsi “eretici”, e magari socialmente soli, ma uniti alle forze naturali e creaturali, e agli amici elettivamente affini; una condizione che personalmente, essendo introversa e nata sotto il segno dei Gemelli, ho accettato da quando è iniziata la mia vita cosciente, facendone un elemento portante della mia poetica: l’ho chiamata Solitudine corale.

“La solitudine corale, mia,
come l’aria mi nutre e mi traversa
senza vedermi – onda di creature
dai sonanti colori m’accompagna al mio seggio
di silenziosa fiamma necessaria:
dell’empirea rosa testimone dispersa,
ho l’unisono senza l’umana compagnia”[1].

Ma bisogna dire che ogni “creativo” (non nel senso corrente e modaiolo del termine), ognuno di noi è veramente molto isolato, considerando che oggi non ci sono più i salotti letterari, quelli deprecati da Pasolini, i salotti borghesi che però, quantomeno erano ancora una forma decaduta e familistica di agorà, di cenacolo, di incontro. Anche i caffè letterari adesso sono scomparsi e le chat non valgono a sostituirli. Ma la solitudine di cui parlavo non è mai tale, perché ha sempre una tensione all’ascolto, è collegata in senso etimologico. Come diceva la Mansfield, parafrasando Van Gogh: “[Voglio] inchiodare l’orecchio alla porta per sentire la voce di chi è fuori”».

Lei come è riuscita a sfuggire alla trappola dell’omologazione?

«Non è detto che sia sfuggita pienamente, i confini dell’omologazione sono sfuggenti; come le dicevo, ho cercato per istinto la compagnia e la voce dei grandi poeti. Sono stata sempre un po’ extravagante in senso sociale e scolastico. Al liceo leggevo Baudelaire e i Simbolisti russi sotto il banco, durante le ore di matematica o di trigonometria (il mio spauracchio!). Soltanto dopo, attraverso i pitagorici, ho capito qualcosa dei fondamenti fisosofici della matematica. Ero un po’ uno scandalo buffo per i miei compagni di classe, mi guardavano con una diffidenza ironica che mi faceva soffrire. Il mio professore di lettere, che amavo, quando lo incontro mi ricorda che talvolta scrivevo le mie poesie sul muro accanto al mio banco; avevo un amore smisurato per la poesia e la letteratura europea, e nelle vacanze estive spesso andavo in campagna in bicicletta, mi arrampicavo su un ulivo e leggevo per ore i poeti che via via scoprivo invece al mare, nell’estate del 1964, ho letto d’un fiato la Recherce di Proust. Allora ero letteralmente drogata di letteratura, quello per me era il mondo vero. Le altre droghe, quelle chimiche, per la mia generazione sono state una provocazione, una “contestazione” come si diceva allora, ma io non ne ho mai sentito il bisogno. Ora il consumo di sostanze stupefacenti mi pare più meccanico, più disperato, e non ideologico come accadeva allora; purtroppo è diventato ancora più precoce. A me pare impossibile che dei genitori pur alienati dal lavoro, non si accorgano che i figli fanno uso di sostanze stupefacenti. C’ un vuoto di ordine etico che dovrebbe essere colmato. So di usare paroloni: vocazione, ispirazione, etica! Anche Pasolini le usava, ed è andato ad insegnare ai ragazzini incolti del Friuli. Certo lui aveva delle motivazioni “romantiche”, vedeva il sottoproletariato come paradiso, anche sensuale; però la motivazione etica di un insegnante deve venire prima e nonostante tutto, altrimenti manca a se stesso. È vero che in Italia, specialmente nell’ultimo ventennio, si è fatto e si fa di tutto per demotivare i giovani e gli insegnanti col precariato, è stato screditato ogni valore e prestigio alla cultura, in particolare a quella umanistica, ma anche alla vera ricerca scientifica, togliendole i fondi necessari, e incoraggiando un iper-tecnologismo passivo, massificato, furbesco. Ma l’anima ha bisogno di nutrimento. Ha notato che anche i papi non parlano quasi più dell’anima? Quindi dell’anima parlano solo gli artisti con i loro strumenti, ed anche gli educatori: anche quella è tuttavia un’arte, difficile e socratica.

Lei ha detto prima di non aver mai incontrato un maestro. Pensa che sarebbe cambiata la sua vita se ne avesse avuto uno?

 «Forse no. Probabilmente avrei avuto un imprinting più “personalizzato”, come l’hanno avuto ad esempio gli allievi di Longhi o di De Robertis; poi però, essendo parecchio individualista, anche per l’eredità familiare artigiana, penso che presto sarei andata per la mia strada, anche se devo ammettere di avere una certa nostalgia sentimentale per padri, madri e maestri, soprattutto spirituali».

E lei adesso, da maestro, ha discepoli?

 «Non mi sento un maestro, mi sento un poeta-madre (e ormai felicemente nonna). Non credo di avere discepoli. Ho degli amici giovani, e degli ex allievi che ogni tanto vengono a trovarmi, mi scrivono. Qualcuno è diventato uno scrittore o uno studioso, mi manda i suoi lavori, ed ho vari amici artisti anche loro giovani, con cui ho molto feeling, la loro bravura, il loro entusiasmo ed affetto mi nutrono molto e con loro mi è più facile collaborare rispetto ai miei coetanei».

Ci parli ancora della sua spinta interiore quando era ragazzina. Il suo desiderio di leggere, di conoscere, la sua curiosità…

 «Già da bambina, a tre anni, raccoglievo i fogli che trovavo per terra, dei pezzi di giornale, non sapevo leggere, però ne ero attratta, sentivo che lì c’era “qualcosa”. Era un amore istintivo, una passione per un regno che ancora non conoscevo, ma sapevo che c’era e che io dovevo entrare lì, nelle parole, dovevo leggerle e scriverle. Poi non ho più smesso di farlo, con qualunque testo mi capitasse. In casa mia non c’erano molti libri, ma c’era La divina Commedia, in una edizione degli anni Trenta, quindi a dieci anni mi misi a leggere Dante, non capendo quasi niente sul piano intellettuale, ma rimanendo incantata dalle immagini, dalle rime, dal suono. Insomma è stata subito una passione, io non la definirei curiosità, né ambizione. In un tema di quinta elementare scrissi – si trattava di uno dei temi allora obbligati del tipo “cosa volete fare da grandi” – io scrissi che volevo “fare la carriera della poetessa”; allora credevo ingenuamente che fosse una carriera, però era ciò che volevo e che sentivo di dover fare. Non avrei potuto fare nient’altro. Poi certamente mi sono resa conto che che carmina non dant panem e quindi c’è stato l’insegnamento, qualche supplenza alle superiori e poi l’Università.
Ora non sono più addicted ai libri, il vino si è decantato, a sua volta, e la vita mi è venuta incontro in tutti i suoi aspetti, ma quella vocazione, quel bisogno fisiologico è rimasto intatto, si è arricchito qualitativamente. Anche i vostri ragazzi, credo che troveranno la via per esprimere la loro personale “arte”».

Spesso questa sensibilità innata è anestetizzata anche da feticci tipo playstation, giochi virtuali, computer. Questi sono muri.

 «È vero, possono essere droghe facili…Lo stesso uso del computer ha comportato la conseguenza che molti ragazzi non sanno più scrivere a mano oconversare. Io ho la sventura, che per me è stata la provvida sventura di Manzoni, di non poter usare il computer per ragioni di vista, ma questo handicap non nuoce all’ispirazione, anzi. Ho sempre scritto tutto a mano, e scrivere a mano le poesie comporta un contatto fisico, per me prezioso, con la penna e con la carta, quindi con l’albero e con la natura. L’uso del computer (certo utilissimo) ha comportato però anche la perdita della variantistica letteraria, che era preziosa per gli studiosi e per i lettori attenti: penso alle varianti molto significative delle poesie di Leopardi o di Montale, su cui si tenevano interi corsi. La grafia, le cancellature, tutto era significativo, come nelle vecchie lettere, sostituite dalle più sbrigative e mails. Dopo la versione a mano io copio e modifico ancora a macchina, ne ho una elettrica, ma ho dei problemi per trovare i nastri in via di esaurimento. Il mio è un lavoro di antico artigianato, di scriba arcaico in via di estinzione. Comunque non mi scoraggio. Anche Pasolini continuava a scrivere, sempre affermando che non c’era via d’uscita dalla morte della poesia… Poi mio marito, pazientemente scannerizza e digitalizza tutto.».

Mai arrendersi…

 «Appunto. Penso a Gorgia e ai sofisti, che tenevano discorsi sulla necessità di non parlare. Tutto il nostro lavoro è paradossale, è basato sugli ossimori, come la vita. Un lavoro à rebours, in direzione contraria all’attuale “aziendalizzazione” e mercificazione di tutto, compresa l’Università e la scuola, dove fumosi giudizi avevano sostituito i voti, che ora hanno dovuto reintrodurre. È importantenon essere complici in questo processo , o esserlo il meno possibile. Simone Weil diceva :“Non mentire, non essere complici, non restare ciechi”. Certo questa fedeltà si paga, tutto questo si paga in termini di emarginazione mondana, di solitudine, come ho già detto, però il compenso è alto qualitativamente, sia per l’autostima e per la propria interiorità, per la propria libera “autocostruzione”, sia sul piano della stima e dell’affetto dei ragazzi, quando si è insegnanti».

Io vedo che le persone non si amano

 «Spesso non riescono a farlo perché si disprezzano, non hanno autostima, provengono magari da famiglie anaffettive dove non c’è amore, né valori, né rispetto. Anche la nostra società non aiuta nel dare prospettive, nell’offrire un futuro, non solo ai giovani, ma anche a persone in età che magari perdono il lavoro e che si sentono “rottamati”, e comprensibilmente cadono nella disperazione. Ogni persona è un cosmo complesso, e le cause del non-amore possono avere molte e differenti configurazioni. La condizione umana è assai imperfetta, però Rita Levi Montalcini ha scritto il famoso e combattivo Elogio dell’imperfezione… Magari arriveremo a centodue anni come lei, elogiando l’imperfezione, ma amando la perfezione».

Una curiosità: la poesia su Wittgenstein?…

 «Io non sono una filosofa, anche se la mia poesia è stata definita “pensante”, e non capisco granché di logica. La lirica su Wittgenstein cerca di restituire metaforicamente l’elemento ascetico che c’è nei suoi scritti, la sua forma filosofica di “misticismo” implicito, che io avverto fortmente e che mi affascina. Avverto che il Tractatus, al di là della sua importanza “tecnica”, è molto bello, anche se lo capisco poco più di quanto capivo Dante a dieci anni, è bello per la sua ricerca di verità e di assoluto, al di la della credenza, della doxa».

Se non ricordo male lo ha composto prevalentemente sul fronte, durante la prima Guerra Mondiale.

 «Le cose fondamentali e importanti, spesso si scrivono in condizioni estreme, di pericolo, di precarietà assoluta. Anche Ungaretti ha scritto L’Allegria sul Carso».

E lei ha un autore preferito?

 «Sarebbero troppi da elencare, è una scelta impossibile: da Platone a Dante, ai mistici sufi da Shakespeare e gli elisabettiani a tutti i classici, fino ai grandi del Novecento Proust e Kafka, un po’ meno Musil e Joyce, Oscar Wilde e i modernisti, i simbolisti russi… Anche gli scrittori mitteleuropei, Kraus e in particolare Canetti, che è stato uno degli autori della mia autoformazione: Massa e Potere, l’Autobiografia e il suo straordinario romanzo Die Wendlung, il cui titolo in italiano è stato tradotto malamente con Autodafé. Canetti è uno scrittore nutriente, quando morì fui molto colpita dalla notizia, mi ricordo che mi trovavo a Londra, sono andata a sedermi in un giardino ed ho scritto una poesia in sua memoria, Per Elias».

Non esiste solo il contemporaneo, è vero…

 «Il concetto di contemporaneità è falso e contingente. Io Omero e Sofocle li sento molto contemporanei, contemporanei sono tutti i grandi, ma anche i meno grandi, tutti quelli che contribuiscono allo sviluppo della coscienza cosmica e personale. Il tempo è una dimensione interiore, come Agostino ci ha insegnato precedendo Einstein e il suo spazio curvo. Il nostro tempo umano è un atomo nel cosmo, quello degli animali un altro atomo, quello delle piante un altro ancora, per non parlare di quello dei sistemi stellari, e tutti insieme facciamo parte di un cosmo che è armonia e bellezza. Non dobbiamo sentirsi schiacciati dal presente storico: il “contemporaneo” passerà presto, come i secoli precedenti, come noi. Mitridate, re del Ponto, aveva un anello su cui era scritto “anche questo passerà”, è un aneddoto famoso. Certo nella nostra dimensione c’è il tempo specifico, e ci sono le occasioni, le scelte da fare , i dubbi… Però ce lo dice la voce interiore, il nostro daimon, qual è la nostra strada, la voce interiore magari incarnata in una persona. Non c’è da aver troppa paura, un po’ sì, ma ragionata. La vita stessa ci guida, la “madre vita” ci dà segnali, ci fa incontrare in un certo momento una certa persona, un messaggio, una situazione, un libro. I greci lo chiamavano il kairós. Ci vuole attenzione, bisogna essere ricettivi e contraccambiare, lavorando su se stessi, fino a diventare chi siamo e chi saremo».

E il cliché del poeta?

 «Genio e follia? È un cliché romantico, uno stereotipo, e per crescere bisogna sgombrare la mente dagli stereotipi. Certo il più famoso dei maudits, Baudelaire, ha vissuto in un certo contesto, il decadentismo francese, ed è un grande poeta che faceva uso di droghe, come del resto Coleridge, De Quincey, e poi nel Novecento Artaud o Trakl… Fra l’altro Baudelaire , come molti grandi, come Rilke, è un poeta intraducibile, l’ho già detto. Le traduzioni delle sue poesie sono tutte insoddisfacenti: è impossibile riprodurre il ritmo solenne e le forme chiuse de Le Fleurs du Mal. Qualche traduttore ha usato la prosa ritmica, o i versi sciolti, i più coraggiosi hanno tentato di rifare il suo sonetto, ma secondo me non con grande resa. Io ho rinunciato a priori, ed anche questa è una forma di omaggio».

Trasgredire?

 «Non c’è più nulla da trasgredire…nel senso che, come si è detto prima, nulla fa più scandalo; ormai si possono fare solo piccole variazioni sul tema per smania di protagonismo mediatico. La mia forma di trasgressione è sempre stata, per carattere, per destino, “lavorare zitti”, come diceva Giovanni Boine, uno scrittore legato al gruppo della “Riviera ligure”, morto tisico a trent’anni nel 1918, un critico di istinto e di stile formidabile, un modernista nostrano, come del resto molti dei cosiddetti “vociani”. Certo chi è estroverso, esibizionista ed è incline al protagonismo, non può lavorare zitto. Per me è naturale, caratteriale appunto. Ho insegnato per trentacinque anni, però ogni volta che salivo in cattedra dovevo fare una certa violenza a me stessa, e tuttora quando parlo in pubblico».

Che bello!

 «No, non tanto. Il lavoro da fare diventa doppio».
I musicisti dicono che se la paura del palco andasse via, non avrebbero più motivo di salirci

 «Il palco di un musicista o di un attore è un po’ diverso da una cattedra, o dal tavolo di un Convegno, però ti senti comunque osservato, pesato, sezionato. È una sfida continua, ma può diventare una prova di umiltà, un dono di sé. Io non sono incline alle apparizioni mediatiche e neppure alle conferenze, pur avendone fatte molte ed avendo ricevuto molti premi e riconoscimenti. Ogni volta che devo salire su un palco lo sforzo rimane, ma mi consola credere che la forza sia appunto una somma di debolezze ben usate, compattate e sublimate, come direbbe Freud. Molti attori ed artisti, com’è noto, sono dei timidi assoluti. Il narcisimo, la vanità, sono una grande debolezza, al di la dell’apparenza; rendono vulnerabili al ricatto, all’adulazione, alla prostituzione intellettuale, alle delusioni e alle manie di grandezza. Questo non significa che non si debba avere autostima: come sempre, in medio stat virtus».

 

 

[1]

[1] M. Del Serra, L’opera del vento. Poesie 1965 – 2005, Marsilio, Venezia 2006, p. 131.

 

 

 

 

MAURA DEL SERRA

È nata il 2 Giugno del 1948. Ha una figlia e due nipotini. Sostiene le cause per la difesa delle libertà della persona umana ed è attiva anche in iniziative ambientaliste e per la difesa degli animali. Ha pubblicato nove raccolte poetiche, l’antologia Corale. Ha dedicato volumi critici a Dino Campana, Giovanni Pascoli, Giuseppe Ungaretti, Clemente Rebora, Piero Jahier, Margherita Guidacci e saggi a numerosi poeti e scrittori italiani ed europei.
Ha curato alcune antologie, fra le quali: Kore. Iniziazioni femminili. Antologia di racconti contemporanei, Firenze, Le Lettere, 1997; Margherita Guidacci, Le poesie, Firenze, Le Lettere, 1999; Egle Marini. La parola scolpita, Pistoia; Artout, Maschietto e Musolino, 2001; Poesia e lavoro nella cultura occidentale, Roma, Edizione del Giano, 2007.
Ha pubblicato venti testi teatrali e fra gli autori da lei tradotti dal latino, tedesco, inglese, francese e spagnolo: Quinto Tullio Cicerone, William Shakespeare, George Herbert, Francis Thompson, Virginia Woolf, Katherine Mansfield, Dorothy Parker, Rabindranath Tagore, Marcel Proust, Simone Weil, Victoria Ocampo, Jorge Luis Borges.
Per la sua attività ha ricevuto numerosi riconoscimenti nazionali ed internazionali, fra i quali: il premio “Montale” per la poesia, il premio “Flaiano” per il teatro e il premio “Betocchi” per la traduzione.
Nell’anno 2000 le è stato assegnato il premio della Cultura della Presidenza del Consiglio dei ministri.

L'opera del vento

Tentativi di certezza

Maura Del Serra, Teatro

Il teatro di Maura Del Serra, qui riunito nella molteplice complessità del suo arco cronologico trentennale, abbraccia una pluralità di forme sceniche, ora corali ora dialogiche ora monologanti, che spaziano con incisiva e vivace profondità dall’“affresco” epocale alla fulminea microcellula drammatica e a forme singolari di teatro-danza sempre sorrette da un inventivo simbolismo di luci, colori, voci fuoriscena e suggestioni scenografiche. L’organon di questa scrittura – in versi e in prosa – fonde il nitore visionario con un senso vivace e concreto del phatos quotidiano, spesso nutrito da uno humour tipicamente affidato a personaggi “terrestri” fino al farsesco, secondo la tradizione della commedia antica. Il teatro decisamente anti-minimalista della Del Serra mostra infatti il suo grato debito creativo verso i classici della tradizione drammaturgica e poetico-letteraria europea, dai tragici e lirici greci al barocco inglese e ispanico, al decandentismo e alle avanguardie artistiche del Novecento.
I suoi personaggi, a vario titolo esemplari fino all’archetipo, sono scolpiti e dominati da una solitudine “eroica” non astratta bensì coerentemente testimoniale, tormentati e salvati dalla grandezza antistorica e metastorica del loro dono “eretico” che si oppone geneticamente alla forza oppressiva del potere nelle sue varie espressioni, da quelle canoniche politico-sociali a quelle suasive dell’intelletto, fino a quelle della “sapienza senza nome” della vita. Ed è perciò sempre agonico il rapporto fra la certezza di una verità ultima e inattingibile e l’illusione soggettiva, mediante l’utopia salvifica affidata all’ardore dei protagonisti. Motore e forma privilegiata di queste compresenze è l’eros generatore e multiforme, espresso in tutte le sue pulsioni, dall’amicizia alle polarità maschili e femminili, fino ad una complessa androginia psicologica e spirituale.
In questa straordinaria galleria evocativa di presenze, che spaziano dall’ellenismo alla contemporaneità al futuro, le voci interiori dell’autrice si incarnano di volta in volta, come la poesia ed ogni arte, per “sognare la verità del mondo”.

Maura Del Serra – Wikipedia
Pagine di Maura Del Serra
ANTOLOGIA POETICA
Maura Del Serra, aforismi
Parole in coincidenza 8: Maura Del Serra tradotta da Dominique Sorrente
Maura Del Serra e Cristina Campo
Maura Del Serra, “Tentativi di certezza. Poesie 1999-2009”
Silvio Ramat: L’opera del vento, di Maura del Serra

 

 

 

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