«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
Diego Lanza (1937-2018), grecista e accademico dei Lincei, è stato titolare della cattedra di Letteratura greca all’Università di Pavia a partire dal 1968. Studioso di rara sensibilità, nel corso della sua prolifica carriera ha curato edizioni con commento di Anassagora e Aristotele e ha contribuito a opere collettive come Lo spazio letterario della Grecia antica (Salerno Editrice, 1992-1996) e I Greci. Storia, cultura, arte, società (Einaudi, 1996-2002). È autore di opere e saggi di grande respiro storico-letterario. Nel 2013 esce Interrogare il passato. Lo studio dell’antico tra Ottocento e Novecento (Carocci), e nel 2017 Tempo senza tempo. La riflessione sul mito dal Settecento ad oggi (Carocci). Nel 2018 Bompiani ha pubblicato la nuova edizione delle Opere biologiche di Aristotele a cura di D. Lanza e M. Vegetti, con il titolo Aristotele, La vita. Testo greco a fronte. Nel 2019 vedono nuova luce La disciplina dell’emozione e Lo stolto. Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune (Petite Plaisance), nel 2020 Il tiranno e il suo pubblico (Petite Plaisance), nel 2022 Nous e thanatos. Scritti su Anassagora e sulla filosofia antica (Petite Plaisance) e, postumo, sua unica prova narrativa, esce Il gatto di piazza Wagner (L’Orma, 2019).
Il piano dellopera prevede quatto volumi di «Dramata»
Dramata, I. Scritti sulla drammaturgia euripidea / Dramata, II. Scritti sulla tragedia antica e le teorie del tragico / Dramata, III. Scritti sulla commedia antica / Dramata, IV. Scritti sulla Poetica di Aristotele
«Nella domanda che nasce, si alimenta e dimora la filosofia. Invece, soprattutto in ambito accademico, perplessità e domande sembrano essere diventate qualcosa da temere a fronte della minacciata ostracizzazione da parte della comunità scientifica, che pretende una produzione “in serie” della conoscenza, oltre alla coerenza, alla verificabilità, e alla ripetibilità di procedure calcolabili: operazioni senza resto. […] Io parlo di quel resto, e cioè di quanto del riferimento antico eccede l’utilità scientifica, anche solo su un piano intuitivo, abitando invece una dimensione più simbolica e sacra, più umana o, anche, spirituale. […] Una ricerca che non sia profondamente connessa con la spiritualità del ricercatore è una ricerca sterile […]. La filosofia del tragico riguarda una spinta tutta simbolica e mitologica di aderenza alla vita. […] Questo lavoro intende dimostrare come per praticare la filosofia sia assolutamente inevitabile e necessario sporcarsi le mani immergendole nella materia mitologica, rivelando uno sguardo diverso anche su materie settoriali e molto ben standardizzate, che non siamo soliti trattare con un orientamento filosofico. […] La filosofia del tragico ci costringerà inevitabilmente a mettere in discussione tutto ciò che viene avulso dal mondo, nel parlare del mondo, e cioè, avulso dal divenire».
«Pochi sanno che Dioniso, il nume tutelare del teatro antico, è padre tanto della tragedia quanto della commedia, e che nel teatro della vita, proprio come durante uno spettacolo, abbiamo il compito di guardare, capire e fare spazio a ciò che succede, nostro malgrado. […] Coprendo e ricoprendo l’autentica densità del mito in se stesso, ammutolendolo e assottigliandone la profondità, non facciamo che seguire una modalità consumistica, anche di ricercare e di studiare».
Ancora sentiamo levarsi dall’Antica Grecia il terribile pianto di un capro sacrificale. Alle urla strazianti di dolore si uniscono i canti commossi e le danze sfrenate in onore di Dioniso: la tragedia nasce come un sacro rituale di compartecipazione al ciclo di vita, morte e rinascita. Nell’epoca del consumismo e del “tutto subito”, abbiamo urgente bisogno di una filosofia del tragico, aperta alla complessità simbolica della vita. In questa direzione, l’Euripide di Baccanti ci consegna un Dioniso δαίμων (daimon), mediano, misterioso e contraddittorio; incarnazione dell’eccesso panico così come maestro di una puntuale presenza all’istante – l’autentico compito di ogni filosofia. Dioniso lo Straniero, ma secondo soltanto ad Atena nei festeggiamenti; Dioniso l’Androgino, l’irrazionale, l’addolorato: molteplici nomi tentano di definirlo, nessuno riesce mai a comprenderlo. Perché la filosofia dovrebbe dunque, e provocatoriamente, occuparsi del tragico? Cosa significa rispondere a una vocazione al dionisiaco? E perché questo ci riguarda?
Introduzione Filosofie del tragico, mitologie e scienze umane
Prima parte
Capitolo I
La filosofia del tragico: scenografie rapsodiche, panorami insoliti
Al cuore della filosofia del tragico: etica comefilosofia prima e vita filosofica
Il tragico dell’origine: spinte genealogiche e miti originari a partire da Esiodo
Appunti su μῦθος (mythos) e ἀλήθεια (alḕtheia) nellaRepubblica di Platone
Sulla μίμησις (mìmēsis), sulla vita: Aristotele e l’arte omeopatica delle passion
Cantando il capro, cantare la vita:Nietzsche e la tragedia come paesaggio d’anima
Per un tragico entelechiale: il contributo di Ernst Bernhard
Tracce e risonanze junghiane e kerenyane per una filosofia del tragico
Nicole Loraux e la voce addolorata della tragedia antica
Capitolo II
Introduzione a Dioniso, il nume tutelare del teatro antico
Dioniso il tragico, Dioniso il comico: una scelta di campo
Feste rituali e festeggiamenti in onore di Dioniso
Morte e rinascita come πολυμορφία (polymorphìa)
11.1 Il Polinomio: innumerevoli nomi, innumerevoli identità
11.2 L’animale, l’agreste e il vegetale: simboli sacri e rappresentazioni mondane
11.3 Δίγονος (Dìgonos) e Πενθεύς (Penthéus):il “nato-due-volte” e il “dio dalle insopportabili sofferenze”
11.4 Sussurri e segreti sui misteri dionisiaci: gli ἀπòῤῥητα (apòrrhēta)
Seconda Parte
Capitolo III
Ermeneutica simbolica e filosofia del tragico Dioniso nelle Baccanti di Euripide
L’esercizio e il suo contesto
Leggere il tragico
13.1 “Eccomi a Tebe”. Una divinità daimonica
13.2 “Dioniso, chiunque egli sia”. Un’identità inafferrabile
13.3 “Io lo vedevo e lui vedeva me” La disperante ambiguità dei dialoghi
13.4 “Un dio non dovrebbe assomigliare agli uomini nell’ira”. Dioniso, troppo umano
Conclusione. L’uscita danzante
Nel passaggio da εὐδαιμονία (eudaimonìa) a ἐνδαιμονία (endaimonìa)
Postfazione. La tragedia che siamo, la tragedia che dovremmo essere consapevoli di essere di Romano Màdera
Bibliografia
«[…] Alessandra Filannino Indelicato nella figura di Dioniso interroga la vita tragica, che è la vita in quanto tale, così come noi la conosciamo. Tragica perché sempre sul punto di andare in pezzi, tenuta insieme soltanto da uno sguardo che ne colga nessi e strutture là dove, nel fitto degli avvicendamenti e dei coinvolgimenti, ci adoperiamo ciecamente. Tenuta insieme da uno sguardo che ne colga l’unità narrativa, la sensatezza, la necessità. […] Ed è qui che la vita tragica, A. Filannino Indelicato ci mostra, si fa una con la vita filosofica, con l’impegno a una vita consapevole. E con la cura, l’accudimento. La vita tragica contemplata, attraversata con consapevolezza, è vita accompagnata, non lasciata allo stato brado ma coltivata, lavorata, esercitata: non lasciata sola ma seguìta, ricordata, riaccordata, raccontata, curata. […] La proposta di Alessandra Filannino Indelicato colpisce per audacia, urgenza e verità. Perché chiama a più livelli a un rinnovamento e a una serietà».
«Questo libro è un contributo serio e generoso alla rinascita e al rinnovamento della filosofia come modo di vivere e, quindi, come insieme di pratiche filosofiche. Un contributo che rinnova ritornando, secondo una lezione classica che riconosce la rivoluzione proprio mentre ne rintraccia la più oscura genealogia. Qui, a differenza del reperto archeologico, portare alla luce, esporre all’aria, non dissolve, ma fortifica e acuisce la capacità di vedere».
Un ringraziamento speciale va a tutti gli amici che mi hanno incoraggiato a portare a termine questo lungo lavoro, durato quasi sei anni. In particolare, a chi mi ha aiutato nella revisione del testo: Marina Barioglio, Elena Bartolini, Andrea I. Daddi, Donata Feroldi, Luca Grecchi. Grazie a Claudia Baracchi e Romano Màdera, maestri dalla grande anima e insostituibili, ai quali sarò grata per tutta la vita. Agli amici immensi: Amos Badalin, Carmen Cocco, Gloria Diffidenti, Fabio Galimberti, Tommaso Giovenzana, Giusi Negroni. E a tutti gli amici di Philo. Grazie della philia. Un anemone e una viola a D., e un grazie per accompagnarmi alla scoperta di Dioniso, grazie per essere rimasta. Anche a te, Chandra, donna sangue-carezza, alla tasca di cangura, perché le tue poesie salvano me e molte altre, anche se, forse, tu continui a non saperlo davvero. Ermione, quanto ti devo? Mi hai adottato, piccola e selvaggia felina, maestra d’altrove, famiglia. Fabrizio, grande anima, la tua umiltà e il tuo cuore mi hanno insegnato a temere meno l’esposizione, e a legittimarmi l’arrivederci: e ora guarda, guarda tutto questo e il nuovo e l’America e tu, la tua America e le nostre gatte. Alle Filannino, donne che corrono coi lupi, in special modo alle mie sorelle Michela e Manuela, a mia cugina Marilena e, ovviamente, alla grande Lena, mia madre, che avrebbe voluto studiare psicologia e greco antico. Ai miei nipoti, tutti quanti, con la preghiera che si involino all’ascolto appassionato del loro daimōn. In ultimo, un grazie a chi, pur non conoscendomi, deciderà di spendere un po’ del suo tempo per leggermi.
COLLEGIO SANTA CATERINA DA SIENA Aula conferenze (Via San Martino 17)
Ore 9: Saluti istituzionali Ore 9.15: Elisa Romano, Università di Pavia Introduzione ai lavori
Ore 9.30 Valeria Andò, Università di Palermo Sotera Fornaro, Università della Campania Francesco Massa, Université de Fribourg Martina Di Stefano, Università di Pavia Omaggio ad Anna Beltrametti
Pausa
Ore 11: Maria Pia Pattoni, Università Cattolica di Brescia Alcesti nel Novecento, tra desiderio di emancipazione e spinte nichiliste Ore 11.40: Ester Cerbo, Università di Roma Tor Vergata Filottete e L’altra ferita: dopo Sofocle, Aldo Braibanti
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UNIVERSITA’ DI PAVIA Aula Volta (Palazzo Centrale, Strada Nuova 65)
Ore 14.30: Maurizio Harari, Università di Pavia Un’ascia (anche) per Elettra Ore 15.10: Massimo Stella, Università Ca’ Foscari di Venezia L’Arcadia degli Spiriti: filologia e fantasmi dell’Antico Ore 15.50: Gherardo Ugolini, Università di Verona Berlino 1936: L’Orestea al tempo del nazismo
Pausa
Ore 16.45: Martina Treu, Università IULM di Milano Emozione di moltitudine: il coro ritrovato Ore 17.25: Raffaella Viccei, Università Cattolica di Brescia Cassandra nel XXI secolo: teatro e arte
I am grateful for having had opportunity to read your wonderful “Convincere Socrate”. Truly, you make the characters come alive. My favorite scene was the second scene, where Socrates’ friends are trying to come up with a plan. So true to life to have lots of side issues and irrelevant thoughts voiced in meetings where a decision needs to be made. The reader experiences the effect that is experienced also in tragedy, in that s/he sees actors acting in the hope or even confidence that they will be able to effect a result that the reader knows will be impossible. And trying to change Socrates is up there with trying to change fate.
David J. Murphy, New York
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«Non c’è dubbio che solo dopo aver letto con attenzione e a lungo meditato l’ampia letteratura socratica (i numerosi lògoi sokratikòi restatici, sia pur spesso in frammenti), come Rossetti fa da molto tempo, si possa scrivere un testo simile, dove ogni personaggio, battuta, rinvio, cenno ha precisa base nelle fonti e viene ri-usato però con deliberata levità».
Linda M. Napolitano Valditara (dalla nota introduttiva)
“Chi di noi è la nuova Euriclea?”
Nota introduttiva di
Linda M. Napolitano Valditara
A inizio estate 2019 leggevo questo piccolo prezioso lavoro teatrale di Livio Rossetti, Convincere Socrate, per farne una recensione. Lo conoscevo già per averne, pochi mesi prima, condiviso la recitazione con l’autore, con colleghi, dottorandi e studenti all’Università di Verona, scegliendomi – da studiosa di Socrate e Platone – l’intrigante parte di Santippe, la stizzosa incomprensiva sposa del protagonista.
Riprendere in mano il testo due anni dopo per questa Introduzione mi fa un effetto strano: anzitutto perché sento ben netta la distanza esistenziale da allora, quando in università si lavorava in presenza e si condividevano, senza forse comprenderne l’implicita ricchezza, tutti gli aspetti e modi del nostro magnifico lavoro filosofico. Una vita fa: tutto è cambiato col coronavirus e abbiamo imparato anche noi a interagire ‘da schermo’ e, prim’ancora, nella prima fase della pandemia, a impartire audio-lezioni parlando per ore… ai libri del nostro studio, senza poter guardare negli occhi i nostri studenti.
Il contenuto testuale e filosofico sapientemente filtrato da Rossetti in pièce teatrale dice invece tutt’altro, che non pochi sanciscono essere ormai del tutto perduto: un vivere insieme, un syzên, ripreso anche da Platone nella sua Lettera VII (341c-d), un con-dividere – uno davanti all’altro, a volto scoperto e senza ubbie di distanza di sicurezza – parole, desideri, speranze, timori e azioni; qualcosa che l’ultimo anno pare aver cancellato per sempre, mettendo a nudo solo il crudo, individualistico gioco, la terribile selezione solipsistica del ‘si salvi chi può’, da solo, e peggio per gli altri…
La cosa strana è però che, nel far risaltare così tutta la differenza dalla ‘vita di prima’, l’impianto del lavoro di Rossetti – appunto un rifacimento teatrale curato e godibile – non solo non appare datato e superato dallo tsunami pandemico: tutto al contrario, per quanto punta sull’interazione, su quanto si fa e si dice davanti all’altro, insieme con lui e anche in dissenso da lui, rivendica con forza un modo di vivere-insieme che nessun distanziamento può cancellare o render irrilevante e superfluo. Quel suo trattenersi a parlare in piazze, strade, palestre e assemblee di Atene fu soprattutto un poter e dover essere per l’essere umano, mai a sufficienza sapiente, destinato perciò alla vita di ricerca senza cui non sarebbe un uomo (Platone, Apologia, 38a): una vita che però non si può vivere da soli, separati dagli altri – tanto che, se poi dagli altri non si viene compresi, la vita può tirarsi dietro perfino un rischio mortale, com’è quello della condanna comminata a Socrate. Proprio il verificarsi di situazioni estreme esige – ancora e anche allora – che siano rimeditate insieme le ragioni che quella vita hanno nutrito e che non possono esser sconfessate neppure dinnanzi alla prospettiva di perdere la vita biologica.
Socrate non si lascia convincere – da chi pure ama e che lo ama – a fuggire davanti alla morte e ancora dialoga per ribadire e rivendicare quanto insieme con loro ha fin lì imparato, anche se ora non può accettare l’invito alla fuga davanti alla morte. Quale insegnamento migliore da meditare insieme, ridandogli voce e interpretandolo, in una pandemia che – notizia di stamani, 22 aprile 2021 – ha già fatto, nel mondo, tre milioni di morti? [… continua a leggere nel libro …]
Livio Rossetti, Strategie macro-retoriche. Prefazione di Mauro Serra. ISBN 978–88–7588-280-8, 2021, pp. 192, formato 130×200 mm, Euro 16 – Collana “Il giogo” [130]. In copertina: Joan Mirò, Il mio Alfabeto, 1972.
È strano che in una società invasa da forme di comunicazione sapiente e anche astuta (quindi insidiosa) qual è la nostra non si registri una congrua offerta di strumenti analitici sulle procedure cui è normale ricorrere in ogni momento. In effetti, nel rivolgere la parola, nello scrivere o anche soltanto nel rispondere al telefono si manifestano moltissime scelte, alcune involontarie e altre consapevoli. Queste scelte delineano l’impostazione e il senso di ciò che io, per esempio, ho finito per dire o scrivere. Quindi parlano di me, del mio stato d’animo, dell’idea che mi ero fatta sul conto della persona o delle persone cui mi sono rivolto, dell’idea che mi ero fatta della situazione, di cosa credevo di fare e dei criteri che ho saputo adottare nel decidere cosa dire e come esprimermi, di cosa tacere, che cosa lasciare intendere etc. E a essere carica di tutti questi impliciti è ogni iniziativa comunicazionale, semplice o impegnativa che sia. Per cercare di penetrare nei segreti della comunicazione e individuare anche ciò che transita sotto traccia, c’è poco da fare: bisogna attrezzarsi e prendere confidenza con cose così diverse come la ‘retorica dell’anti-retorica’, il feedback comunicazionale, la soglia critica, la saturazione, i meta-segnali e altro ancora. Questo libro fornisce l’apparato concettuale di cui c’è bisogno per mettersi a scavare in profondità.
Il nome di Livio Rossetti è facilmente associato alla filosofia greca – Socrate e Platone, Parmenide e Zenone – mentre non è intuitivo associarlo al tema della retorica, che è rimasta un filone leggermente in ombra della sua produzione scientifica. In effetti il volume sulle strategie macro-retoriche (1994), ora in seconda edizione, è nato a margine dei suoi studi sul dialogo socratico (alcuni dei quali figurano in Le dialogue socratique, Paris 2011) e avrebbe dovuto fornire le premesse concettuali per indagini più specifiche sull’insidiosa sapienza comunicazionale di Platone, indagini che però… devono ancora materializzarsi. Docente di filosofia greca all’Università di Perugia per decenni, Rossetti ha pubblicato, da ultimo, Verso la filosofia: nuove prospettive su Parmenide, Zenone e Melisso (Baden Baden 2020), che si può considerare l’editio maior di Parmenide e Zenone sophoi ad Elea (in questa stessa collana, Pistoia 2020), mentre
I. Iniziative comunicazionali, strategie comunicazionali e retorica
1. L’iniziativa comunicazionale 2. Individuare gli ‘incantesimi’ di ordine comunicazionale 3. Impostazione dell’iniziativa comunicazionale e forme di finissage 4. Progettare una iniziativa comunicazionali significa… 5. Identificare e analizzare l’impianto macroretorico
II. La formattazione dell ’unità comunicazionale
1.Una formattazione a molti livelli. Il feedback comunicazionale 2. Gli obiettivi da raggiungere
III. Ricettore ideale, distanza critica, dissimulazione. Il contratto comunicazionale
1. Lettore ideale e ricettore ideale. Il ruolo della dissimulazione 2. Contratto letterario e contratto comunicazionale. Il foedus iniquus
IV. Gestione dell a soglia critica e forme di saturazione
1. Orizzonte di attesa, soglia critica e forme di saturazione 2. La pretesa di incidere sulla soglia critica 3. Risalire alla soglia critica prefigurata dal locutore
V. La comunicazione form attante. Il ‘sottotesto’
1. Farsi largo nella mente altrui; la pretesa di ‘comandare a casa nostra’ 2. La semplificazione: grimaldello con cui si aggirano le difese altrui 3. Quando l’intreccio di contenuti epistemici e valori comunicazionali resiste all’analisi
VI. Formattazione e obsolescenza degli standard comunicazionali. Come difendersi dall a formattazione sapiente?
1. Siamo sicuri che la magia dell’evento comunicazionale funzioni ancora? 2. Understatement, autoironia e ‘retorica dell’anti-retorica’ 3. Le difese su cui possono contare i ricettori 4. Identificare il sovraccarico comunicazionale
VII. Conclusioni. Oltre la formattazione
Bibliografia
Appendice – Verso una rhetorica universalis
1. La mia comunicazione non è mai del tutto spontanea 2. Platone e la retorica degli altri 3. Le ossessioni dei moderni e le loro ‘aggressioni’ alla retorica 4. Oltre il mero arrocco. Nuovi aspetti della relazione retorica-filosofia nel Novecento 5.Verso una nuova idea di verità 6. Verso una nuova idea di retorica: la rhetorica universalis Nota bibliografica
In questo Parmenide e Zenone sophoi a EleaLivio Rossetti ci propone una marcia di avvicinamento a due pensatori antichi di primissimo ordine. Il suo proposito è stato di lavorare su due ‘pezzi da museo’ che ci sono stati trasmessi pieni di polvere e di incrostazioni esegetiche, riportarli alla luce e tornare a osservarli da vicino. Pretesa eccessiva? Non proprio, perché di Parmenide si sta riscoprendo solo ora lo stupefacente sapere naturalistico che pure formava parte integrante del suo poema, e di conseguenza il suo insegnamento richiede di essere visto da una prospettiva profondamente rinnovata. Quanto poi ai paradossi di Zenone, essi sono stati per lo più trattati come problemi da risolvere o calcoli da eseguire, senza considerare che Zenone avrà avuto interesse a idearli, non certo a risolverli e dissolverli. Quindi, anche qui, netto cambio di prospettiva. L’autore ci invita dunque a guardare a questi due personaggi estremamente creativi senza pensare alle tradizioni interpretative, con la mente sgombra, con rinnovata curiosità. Lo fa con competenza, ma usando un linguaggio piano, cordiale, arioso, partendo dai luoghi e dal contesto. Avvicinarsi a quel mondo sarà una scoperta.
Un tuffo …
… tra alcuni dei libri di Livio Rossetti …
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:
La serata è più silenziosa del solito, mi preparo con la radio spenta e la fantasia accesa. Prendo un vestito sobrio e particolare al tempo stesso, mi immagino indossarlo bevendo un prosecco al bar del teatro. Che anche questo fa parte della serata in fondo, penso, quasi a giustificare questa immagine. Un prosecco, il bar, le persone … stasera stranamente mi soffermo su questo tipo di dettagli, quando penso alle ore che mi aspettano. Ho un tuffo al cuore e mi manca quasi il respiro quando immagino la fila all’ingresso, quel cauto camminare cercando di controllare la voglia di entrare nella hall calda e liberarsi del peso della giacca, quel cercare di mantenere un’elegante distanza dall’ospite che ci precede, pur riuscendo ad annusare distintamente il profumo emanato dalla sua sciarpa.
Il saluto alla maschera che controlla i biglietti: gli chiederò da che parte debba dirigermi per trovare il mio posto, anche se lo so benissimo, tanta è la voglia di parlare. Di vedere mani che indicano, gesticolano, che prendono il mio biglietto tra le dita e me lo restituiscono e per spiegare ancora una cosa me lo sottraggono nuovamente per poi consegnarmelo un’ultima volta, sfiorandomi perfino il dorso della mano. Immagino poi la fila al bar, immagino di guardare con benevolenza il cameriere mentre tocca i contanti e poi tocca la mia brezel e poi di nuovo le banconote e poi ancora il cibo altrui, senza guanti e senza rimedio, con allegria e noncuranza. Qualcuno mi pesta un piede per sbaglio, tanto ci tiene al vassoio con le quattro birre che deve ritirare, si gira e si scusa, con una risata di cui sento il vento sulla guancia. Gli sorrido, inalando il suo buonumore.
Quando trovo il mio posto le luci della sala sono ancora accese. Dopo pochi secondi che mi sono seduta arrivano quattro persone che desiderano raggiungere le loro poltrone più avanti nella stessa fila. Mi sorridono, come si sorride a teatro quando si desidera raggiungere una poltrona più avanti nella stessa fila. Sorrido anche io e mi alzo, mi schiaccio contro la mia poltrona chiusa, loro si schiacciano contro la fila davanti, ma il loro fondoschiena struscia contro le mie cosce e il mio addome. Questa stessa scena avrà luogo ancora quattro, cinque volte. Poi potrò stare seduta un po’ più a lungo, prima di dovermi alzare l’ultima volta per far passare la signora che siede alla mia destra. Quella davanti a me indossa un vestito azzurro spento con uno scollo sulla schiena. Il collier argento e i capelli biondi raccolti si gonfiano e sgonfiano con ogni suo respiro, la pelle è dorata e mi sembra di percepirne la tiepida aura profumata.
Poi le luci si spegneranno, e succede che si sentono più forti i respiri, le parole, le risate, quando è buio e sta per cominciare la magia. Si sente la vicinanza, si sente l’energia della folla pronta al miracolo, si sente la sintonia dell’attesa.
Ma intanto attendo, attendo che il tassista raggiunga il teatro. Gli biascico qualche battuta ma non mi sente, la mia voce non riesce a superare la barriera di plexiglass posta tra i sedili posteriori e quelli anteriori. Allora mi ricordo di quell’altra sera, che forse dovrei chiamare mattina, erano le 4 circa, dopo la serata di tango. Salgo sul taxi e il tassista turco mi fa mille domande sulla serata, ha sentito parlare della folle milonga berlinese di Kreuzberg e vuole sentire che ne penso. Gli piace la danza, ma se ne occupa indirettamente dice lui, lui suona il saz e gli altri ballano. Se suona bene, ballano di gusto. Tu hai ballato di gusto, osserva, chiudendo il finestrino “perché sennò ti ammali, sei tutta bagnata”. E sì, ero tutta bagnata, del mio sudore e di quello delle decine e decine di persone che avevano ballato dentro l’aria tropicale della stanza dal pavimento rosso. Abbiamo riso, con quel tassista, mi ha concesso di fumare nella sua macchina, mi ha offerto una birra, ne aveva diverse lì, gli ho detto va bene, ma accosta che ce la fumiamo insieme questa sigaretta, in onore della musica e del ballo.
Contatto, promiscuità dell’anima, Berlino è la città perfetta, anche per quella del corpo, ma quella sera è stata così, ore di danze sfrenate, una sigaretta col tassista, poi ancora quattro chiacchiere con una che, povera anima, anche lei con il cane che doveva pisciare alle 5 del mattino. Il tassista frena e accosta, siamo arrivati davanti al teatro. Sono contenta, pago e scendo, lui riparte.
La piazza è deserta, il teatro è chiuso. Ci sono dei cartelli davanti, non descrivono la prossima produzione, bensì il funzionamento dei tamponi. Il teatro è diventato un grande mercato di tamponi rapidi. Ma a quest’ora no purtroppo, quasi penso che sarei entrata comunque, pur di entrare.
Mi sento chiusa fuori dal calore che ho immaginato. Penso alle persone che non vedrò, penso all’arte di cui non farò esperienza. Sono impalata davanti al portone chiuso, quando avverto come un alito di vento alle mie spalle. Non oso girarmi. Lo sento di nuovo, e insieme individuo come un sussurrio. Le voci si fanno gradualmente più forti. Declamano, piangono, ridono, urlano, sussurrano, scherzano. Virtuosamente modulano toni e modi dei mille personaggi che sono rimasti chiusi fuori dal teatro. Anche il vento è aumentato nel frattempo, e nella piazza deserta distinguo il frullio di piroette, salti, attese e rincorse. Alzo gli occhi e davanti dietro e intorno al teatro scopro centinaia di frammenti di scenografia, tele e pezzi dei panorami più esotici che camuffano l’edificio dentro al quale dorme il palcoscenico.
Dall’opera di Bertolt Brecht si leva una invocazione e una denuncia
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Resistibile ascesa La resistibile ascesa di Arturo Ui di Bertolt Brecht[1] è un’opera teatrale, scritta nel 1941, che denuncia – in un gioco di metafore – la violenza nazista: i personaggi dell’opera, infatti, sono i protagonisti del potere politico in Germania. Bertolt Brecht rappresenta il potere nazista nella sua verità essenziale: nichilismo e violenza. Il titolo dell’opera teatrale ha un significato profondo: pone un quesito, ovvero, se l’ascesa di Adolf Hitler, nell’opera Arturo Ui, sia stata ineluttabile. Il titolo dell’opera esplicita la risposta: non vi sono eventi storici fatali, ma è la responsabilità generale dei popoli come delle classi dirigenti a pronunciare il “sì” fatale. Si può estorcere il “sì” in una pluralità di modi, le paure possono essere utilizzate per invocare l’uomo della provvidenza, e si può abdicare ad ogni responsabilità individuale e collettiva. Vi è sempre la complicità generale e di molti, la quale ci pone il problema della responsabilità umana e politica delle nuove generazioni. La storia non è scritta nelle stelle o nella natura, ma nella volontà dei singoli e dei popoli che interagiscono con la storia: la formazione, in tal senso, è fondamentale. La guerra all’istruzione, meglio alla paideia, la sua mutazione che l’ha ridotta a serva del potere, aumenta la possibilità in modo esponenziale che si possano generare in modo simile derive totalitarie. La formazione è d’ausilio a riconoscerle, essa non è solo contenuti e cultura, ma anche formazione di caratteri e di volontà disponibili alla partecipazione ed alla lotta condivisa. La rappresentazione del potere nazista, si pensi alla Notte dei lunghi coltelli (1934), come lotta tra gangster, non è poi dissimile dall’attualità, in cui partiti e movimenti si contendono il potere spartendosi lo stesso sulle ceneri della pubblica utilità; la negazione dei diritti sociali in nome degli interessi privati ha innumerevoli vittime che non attendono di essere riconosciute e di avere giustizia:
«Butttafuori: Oggi, spettabile pubblico, presentiamo – ehi voi, fate silenzio, laggiù in fondo! e si tolga il cappello, signorina! – la cavalcata storica dei gangster! Contenente, in prima assoluta, la verità sul grande scandalo dei docks. Vi sveleremo inoltre il testamento e la confessione di Dogsborough. La carriera di Arturo Ui in tempo di crisi! Colpi di scena al processo per l’incendio dei magazzini! Il caso Dullfeet! La giustizia in coma! Lotta tra i gangster: ucciso Ernesto Roma! Quindi il quadro finale, con luminaria: i gangster che conquistano la città di Cicero! Vedrete qui, artisticamente interpretati, gli eroi più noti dei nostri bassifondi. Ne vedrete di morti e di ancor ritti, di già passati e di presenti, di elezione e di nascita; ad esempio, il buono, il vecchio, onesto Dogsborough! (Il vecchio Dogsborough si presenta innanzi al sipario). Nero di cuore, candidi i capelli, fa la tua reverenza, vecchio corrotto! (Il vecchio Dogsborough si inchina e si ritira). Vedrete ancora – ma ecco, è proprio lui che viene… (Givola si presenta davanti al sipario). il negoziante in fiori Givola. Con la bocca unta d’olio sintetico vi sa spacciare un caprone per ronzino. Le bugie, dicono, han le gambe corte! Osservate le sue! (Givola si ritira zoppicando). Ed ora Emanuele Giri, il superclown! Su, vieni fuori, fatti vedere! (Giri compare davanti al sipario e saluta con la mano). Assassino fra i sommi d’ogni tempo! Fuori, via! (Giri si ritira in collera). Ed ora la nostra attrazione più grande! Il gangster di tutti i gangster! Il notorio Arturo Ui! Il castigo del cielo per tutti i nostri peccati e delitti, violenze, debolezze e stupidaggini! (Ui si presenta davanti al sipario ed esce camminando lungo la ribalta). Riccardo Terzo: a chi non viene in mente? Dai tempi della Rosa Rossa e Bianca non si sono piti visti così grandi sanguinosi fulminei massacri. Così stando le cose, inclito pubblico, la direzione si è proposta di non badare a spese straordinarie per inscenare tutto in grande stile. Pure, qui è realistica ogni cosa: quanto vedrete stasera non è nuovo, non è stato inventato o escogitato censurato e manipolato per voi: lo sa, quel che mostriamo, l’intero continente: la commedia dei gangster, nota a tutta la gente! (Mentre la musica cresce e le si unisce il suono di un mitra il buttafuori esce rapido)».[2]
Plebi oranti Il potere ha le sue strategie e dinamiche per rendere i popoli “plebi oranti” che attendono che cadano le briciole dalla tavola dei padroni. In primis l’abitudine graduale alla violenza, la quale non è più colta come tale. Se è inserita nella normalità dei rapporti umani e delle relazioni politiche e sociali diviene il mezzo per “far accettare” anche l’impossibile. Hume lo ha dimostrato, l’essere umano è abitudine, il potere forma all’abitudine alla violenza, al punto da renderla legge del vivere civile in modo che non venga colta nella sua verità e genesi. La violenza non è solo fisica, ma specialmente ideologica e linguistica, essa deve privare il pensiero delle sue potenzialità critiche e generative, deve asciugare al sole dell’indifferenza l’intenzionalità sociale e comunitaria, deve dividere per potersi affermare e conservare. La speranza e l’immaginazione critica tramontano, di conseguenza, dalla comune visuale per abbandonare i popoli all’immediatezza del destino, ad una nuova filosofia della storia in cui i popoli non sono che servi al servizio del destino:
«DOGSBOROUGH: Quelle azioni sono state come il sacchetto di salati, esposto dal barista gratuitamente, in modo che il cliente, saziando la sua fame a buon mercato, stimoli la sete. (Pausa). Non mi piace l’inchiesta al municipio circa le attrezzature. Il nostro prestito è già sprecato: Clark ha preso, Butcher e Caruther e Flake, tutti hanno preso: purtroppo ho preso anch’io, e non s’è ancora acquistata una libbra di cemento! C’è un unico vantaggio: per volere di Sheet, al nostro affare non ho dato pubblicità, e così non sa nessuno che ho a che fare con questa società».[3]
La paura è il modo più celere e veloce per spingere popoli e nazioni sotto la protezione degli uomini della provvidenza o di “istituzioni oracolari” (mercato, scienza e partito) a cui delegare il presente ed il futuro. Diffondere l’inquietudine, far percepire una minaccia perenne che incombe, è il modo più funzionale e diretto per strutturare forme di potere illegittime. Governare in uno stato di eccezione perenne permette di assuefarsi all’impossibile, di tacitare la coscienza comune nell’incombente necessità di provvedimenti eccezionali, ma necessari. Il consenso si vena di terrore, lo si sparge ovunque, la lingua diviene veicolo di violenza scientemente programmata, si solleticano paure e fantasmi profondi, al punto da far apparire l’alterità come minaccia, si inquinano le fonti della vita per spingere ad invocare e sostenere i poteri forti e solidi. La solitudine dei singoli caduti in un mondo irrazionale è l’inizio dei ceppi imposti in nome della sicurezza e della vita:
«UI In breve: regna il caos. Perché, quando ciascuno può far ciò che vuole e che gli suggerisce l’egoismo, significa che tutti son contro tutti, e perciò regna il caos. Quando mi guardo in pace il mio negozio o carico, diciamo, sul mio camion i cavoli o che altro, ed uno irrompe meno pacifico in bottega, e dice «Mani in alto!» e mi spara sulle gomme con la Browning, non può regnar la pace! Però una volta accertato che gli uomini sono così, non agnellini, io debbo fare qualcosa perché non mi mettano tutto il negozio sottosopra, ed io non sia costretto a alzar le mani ad ogni momento, se fa comodo al vicino, ma possa usarle per il mio lavoro, per contar cetrioli, o che so io. Perché l’uomo è così. Di proprio impulso non metterà mai la Browning da parte, e neanche perché sarebbe nobile o perché un oratore al municipio lo loderebbe. Se non sparo io, spara l’altro! È la logica. Ma cosa si deve fare, voi chiedete. Adesso ve lo dirò. Una cosa innanzi tutto. Non quello che finora avete fatto. Sedere pigri davanti alla cassa e sperare che tutto vada bene, e per di più non essere d’accordo tra voi, dispersi, senza una robusta sorveglianza che vi protegga, e quindi impotenti di fronte ad ogni gangster, non va, naturalmente. Quindi occorre, per prima cosa, l’unità. Poi qualche sacrificio. Vi sento dire: «Cosa bisognerà sacrificare? Soldi? Dare il trenta per cento sugli incassi per pagare la protezione? No, noi non vogliamo questo! Amiamo troppo i nostri soldi! Se la protezione si potesse aver gratis, volentieri!» Ma non è cosi semplice, miei cari bottegai! Solo la morte è gratis, tutto il resto si paga. E cosi pure la protezione. E la sicurezza, e la pace, e la tranquillità. Cosi è la vita. E dato che è cosi, né sarà mai diversa, abbiamo stabilito, io ed alcune persone che vedete qui intorno – ed altre ancora stanno fuori – di prestarvi la nostra protezione. (Givola e Roma applaudono). Ma per farvi vedere che ogni cosa sarà fatta su base commerciale, è presente il signor Clark, dei Grossisti, Clark, che voi tutti conoscete».[4]
Frode linguistica perenne L’inganno linguistico è l’appello perenne ai lavoratori, tutti sono al capezzale dei lavoratori, fin quando sono disponibili al solo lavoro senza diritti e specialmente senza partecipazione. L’appello ai lavoratori ha lo stesso effetto del suono del pifferaio magico, serve a richiamare greggi da condurre nell’abisso, ma se qualche elemento del gregge osa “belare” diversamente è oggetto di ostracismo e violenza. Le parole non hanno più significato, sono solo mezzi per l’ascesa inarrestabile di poteri criminali legittimati dalla sovrastruttura giuridica:
«UI: Domanda molto giusta. Ed io rispondo: con il lavoratore, lo si apprezzi o no, nel mondo d’oggi è necessario fare i conti. Anche già come cliente. Io ho sempre affermato che il lavoro non fa vergogna, anzi edifica e dà dei profitti. E per questo è indispensabile. Il singolo lavoratore ha tutta la mia simpatia. Soltanto quando si riunisce in massa e poi pretende di intervenire dove non capisce, ossia sul meccanismo dei profitti e cosi via, io dico allora: fermo, fratello, in questo modo non va bene. Tu sei un lavoratore, ossia lavori, ma quando non lavori più e scioperi, allora non sei più un lavoratore, ma un soggetto pericoloso, ed io intervengo. (Clark applaude). Ma per rendervi certi che ogni cosa è prevista in buona fede, un uomo siede qui tra noi, che vale per tutti noi, posso ben dirlo, come modello di onestà, di incorruttibile moralità, cioè il signor Dogsborough. (I negozianti applaudono un po’ più forte). Io sento, signor Dogsborough, in quest’ora, tutto il debito di riconoscenza che ho verso di lei. Noi siamo stati uniti dalla Provvidenza. Mai mi scorderò che un uomo come lei ha eletto me, più giovane, ed un semplice figlio di Bronx, a suo amico, anzi vorrei dire di più, quasi a suo figlio. (Afferra la mano di Dogsborough che pende inerte e la stringe)».[5]
Il palazzo del Reichstag (1933) in Europa brucia ancora, e continuerà a bruciare fin quando i popoli saranno messi in catene da paure sollecitate e rese incomprensibili, in modo che i poteri possano gestire con l’inquietudine e l’angoscia forme di sussunzione finalizzate a rendere i popoli carne da macello per gli interessi di oligarchie senza etica e senza comunità. Poteri sovranazionali dominano e si celano dietro parole sempre più simili a potenze celesti che necessitano del clero orante per la loro interpretazione da consegnare ai popoli. In tale contesto si comprende come l’attacco o l’indifferenza verso la formazione sia parte di un disegno di analfabetismo tecnocratico che vuole i popoli greggi belanti delle migrazioni in nome dei mercati. Dall’opera di Bertolt Brecht si leva una invocazione indicando un problema perdurante, ma nello stesso tempo è una denuncia del silenzio degli intellettuali che vivono all’ombra del potere e di accademie e che hanno tradito la vocazione critica che dovrebbe animarli. La qualità della democrazia coincide con la qualità dei suoi intellettuali. Il linguaggio ed i contenuti attuali ci parlano di una decadenza che non è solo causata da circostanze storiche, ma è specialmente una scelta distopica che sta contribuendo alle brutture del presente ed alla riduzione della democrazia a semplice formalità senza sostanza e prassi.
Salvatore Bravo
[1] Bertolt Brecht (Augusta, 10 febbraio 1898 – Berlino Est, 14 agosto 1956).
[2] Bertolt Brecht, La resistibile ascesa di Arturo Ui, Prologo.
Tempi e Luoghi, occasioni e forme della letteratura greca
L’impianto si regge sui due binomi – tempi e luoghi, occasioni e forme – sottolineati nel titolo e funzionali sia come rubriche di catalogazione e descrizione sia come categorie di analisi critica. La prima idea-guida è quella di ripresentare quanto ci resta della letteratura greca antica non solo secondo la sequenza cronologica, ma anche secondo la distribuzione geografica. Alla base c’è l’intento di contrastare periodizzazioni secche (il tempo non passa con la stessa velocità nei vari luoghi) e il consolidarsi di false prospettive, di mostrare come le forme si modifichino o si conservino non solo nel tempo o in funzione delle occasioni a cui rispondono, ma anche in relazione ai luoghi, profondamente e durevolmente segnati da cerimonie e rituali specifici, da consuetudini culturali precise: non hanno molto in comune i corali complessi, a uso liturgico, di Alcmane, nella Sparta della seconda metà del VII secolo, con le composizioni, affini nella strutturazione metrica e strofica, ma di tenore prevalentemente narrativo, di Stesicoro, nella Sicilia e nella Magna Grecia tra la fine del VII e i primi del VI secolo; Pindaro, nativo della Beozia, legato per nascita e frequentazioni alla nobiltà panellenica, viene ricondotto da molti studenti, interrogati d’acchito o anche richiamati sui tratti salienti del suo linguaggio poetico, all’età arcaica, mentre il suo contemporaneo Eschilo, eleusino di nascita e ateniese per attività, è collocato con certezza nel periodo classico; il teatro attico, tragico e comico, dei festival dionisiaci e dei concorsi pubblici, è contemporaneo, ma avvertito come posteriore a forme spettacolari meno istituzionalizzate e praticate nella cultura dorica, greca e italica, come la farsa megarese cui allude Aristofane negli Acarnesi e la farsa fliacica o il mimo di ambiente siceliota e italico apprezzato da Platone; per contro, la polis ateniese mantiene nel tempo le forme più specifiche della sua cultura, pur investendole di nuove tematiche e di nuovi intenti, attraverso discontinuità collegate agli sconvolgimenti politici e bellici, chiaramente percepibili, tra Erodoto e Tucidide come tra Eschilo ed Euripide, nella lunga durata della tragedia e del racconto storico.
Un secondo principio conduttore, collegato al binomio occasioni-forme, è quello di superare la categoria di “genere letterario”. La nozione di genere e di sistema letterario resta per molte ragioni imprescindibile e del tutto appropriata per la produzione stabilizzata prima dalla scrittura e dai concorsi drammatici, poi dalle scuole di retorica e filosofia, quindi rivisitata e profondamente ricodificata dai poeti-filologi delle biblioteche ellenistiche. Ma si rivela tuttavia troppo vincolante, meno adatta a cogliere e comprendere l’estrema variabilità di componimenti d’autore fuori scala, che sembrano sfuggire completamente al sistema, calibrati principalmente e primariamente per occasioni pubbliche d’eccezione, mirati a una fruizione orale e collettiva, anche quando la ricercatezza poetica supera ampiamente i clichés della composizione orale e l’estemporaneità della prima e singola esecuzione. Mentre la categoria di “genere letterario”, anche nell’accezione più dinamica e relazionale, induce a descrivere/analizzare le scritture in termini di adeguamento e scarto fisiologico rispetto alle regole codificate, il nesso occasioni-forme sembra più efficace a registrare i condizionamenti pragmatici, l’aspetto performativo specifico dei testi più antichi, arcaici e classici, senza sminuire le singolari impronte autoriali. Da una parte, non implica la sopravvalutazione delle basi ritmico-dialettali, più culturali che “letterarie”, in cui si genera la splendida poesia arcaica. Dall’altra, orienta a valorizzare meglio una produzione in cui, anche per effetto di una tradizione molto selettiva, i “maggiori” prevalgono sui “minori”, e le paroles degli autori, veri e propri capolavori dell’umanità, si pongono spesso non in tensione, ma in alternativa alla langue presupposta, ai codici e alle regole da essa previsti.
Incrociare tempi e luoghi, occasioni e forme; lasciar prevalere di volta in volta, a seconda dei testi e dei contesti di riferimento, l’attenzione per l’espressione o per il contenuto, il piano significante o quello referenziale; modificare continuamente punto di vista e metodo d’analisi e di descrizione: sono i punti chiave di una proposta che viene dal tentativo di scrivere una storia della letteratura greca, come se si scrivesse da sola. Mi sono lasciata guidare la mano dai testi che ancora ci sono e che si possono leggere, accettando che testi e autori si disponessero autonomamente per rimandi espliciti e affinità meno evidenti, affollandosi, talvolta, in aree sincroniche e/o geografiche molto coese di scritture che si implicano e si parlano nelle stesse condizioni storiche – è il caso dell’Atene classica –, disegnando, talaltra, linee di fuga, di rinvii diacronici nella lunga durata, come nel caso della catena storiografica che avrebbe dovuto proseguire ininterrotta da Erodoto oltre Polibio.
Ho affidato a quattro più giovani studiosi – Marzia Bambozzi, Andrea Rodighiero, Massimo Stella e Martina Treu – il profilo di alcuni grandi autori, sicura che il taglio nuovo delle loro ricerche sarebbe stato un arricchimento, che avrebbe aggiunto informazioni, offerto suggestioni e suggerito approcci non previsti nei miei pur liberi percorsi.
Anna Beltrametti, Le letteratura greca. Tempi e luoghi, occasioni e forme, Carocci editore, Roma 20155, pp. 9-10.
Al critico della cultura non va a genio quella cultura alla quale sola egli deve il disagio che prova di fronte ad essa.
Theodor W. Adorno
In Euripide non si fa tanto questione di giusta ricchezza, di mezzi modesti ma necessari per non cadere nell’accattonaggio e nella miseria sregolata; la preoccupazione principale appare un’altra: delineare la figura del nuovo saggio, del sophron che non pretende di fondare i valori del proprio comportamento morale su improbabili rapporti con la divinità, sulla disciplina della polis, ma piuttosto si scopre alla ricerca di un nuovo equilibrio. È questa figura che infrange gli schemi tradizionali dell’eroe del mito.
«Euripide porta sulla scena lo spettatore; l’uomo della vita di ogni giorno, e non soltanto vestendolo dei panni solenni degli eroi epici, ma addirittura con le sue proprie vesti. Euripide porta sulla scena gente comune, anonima, e non soltanto in ruoli tradizionalmente consentiti e riconosciuti: il pedagogo, la guardia, la nutrice. Il contadino dell’Elettra e l’altro contadino, questo soltanto evocato, in un logos angelikos ma non per questo di minore importanza, dell’Oreste, non sono personaggi al seguito degli eroi, né semplici elementi di comodo nello svolgersi della vicenda drammatica. La loro introduzione nelle tragedie è un fatto nuovo, reso possibile dal nuovo carattere che la tragedia è venuta assumendo. […] Negli ultimi quarant’anni del V secolo a.C. si trasforma profondamente lo stesso valore semantico di termini come sophron, sophrosyne, sophronein. Come per altri termini, quali philos, eusebes, eleutheros, si attua per sophron un processo di interiorizzazione: una definizione sociale si trasforma in definizione psicologica, sì che la mente e l’anima dell’uomo possono essere esplorate con gli stessi strumenti che servono a descrivere la comunità sociale. Il platonico “l’uomo è simile alla città” non è che l’approdo teoricamente consapevole di una lunga pratica analogica, che ha trovato il suo costante presupposto non solo dei trattati di retorica, ma anche della invenzione e dell’elaborazione dei personaggi tragici. Il personaggio della tragedia acquista in profondità e in complessità a misura che si rende esplicita la sua analogia di microcosmo col macrocosmo della città: le parti dell’anima tendono a riprodurre le parti della città e a riprodurne l’interna dinamica. Un siffatto processo sposta oggettivamente l’attenzione dello spettatore dai conflitti tra le persone ai conflitti interni all’anima del singolo personaggio, e avvia una dialettica che ha sempre meno riferimento con la realtà sociale della città. Giunta a consapevolezza l’analogia tra città e uomo sortisce un doppio effetto: da una parte la corrispondenza di microcosmo psichico e di macrocosmo politico assicura immediatamente un ampio e fecondo sviluppo all’indagine psicologica e ne garantisce la validità, dall’altra parte rafforza il presupposto ideologico della concezione politica su cui riposa: che la polis sia un tutto organico e non un agglomerato di individui o di gruppi sociali. Si enfatizza in questo modo l’aspetto unitario ed organico della città offrendone una certezza intuitiva e trasparente. Le parti dell’anima sono la proiezione su un piano parallelo delle parti della città, ma la loro indiscutibile unità organica si riproietta a sua volta sul piano della città, e ne garantisce definitivamente la coesione. Così l’ideologia della città come di un tutto organico e indisgiungibile è oggettivamente rafforzata proprio nello spettacolo teatrale, e grazie all’invenzione del personaggio tragico, anche in assenza di una tematica direttamente politica. Tuttavia il trasferimento della legge dell’equilibrio e della concordia sociale nell’individuo finiscono col comporre un modello di uomo autosufficiente che nel proprio intimo realizza i valori della città, ma con la quale paradossalmente non può non riconoscersi in conflitto, dalla quale finisce con l’apparire anche spazialmente separato. Il contadino che abita lontano dal centro della città, che frequenta poco il mercato e l’assemblea è chiamato a incarnare questa nuova figura ideologica, in lui si vuole riconoscere il più geloso custode dei valori patrii, l’unica parte sana di una città corrotta. Ciò è diverso dalla collocazione dei contadini come forza intermedia tra ricchi e poveri, come invece talvolta si è stati tentati di interpretare sotto l’evidente suggestione di Aristotele. In Euripide non si fa tanto questione di giusta ricchezza, di mezzi modesti ma necessari per non cadere nell’accattonaggio e nella miseria sregolata; la preoccupazione principale appare un’altra: delineare la figura del nuovo saggio, del sophron che non pretende di fondare i valori del proprio comportamento morale su improbabili rapporti con la divinità, sulla disciplina della polis, ma piuttosto si scopre alla ricerca di un nuovo equilibrio. È questa figura che infrange gli schemi tradizionali dell’eroe del mito. Dapprima essa si presenta ancora sulla scena sotto panni eroici, poi osa comparire con gli abiti della vita quotidiana, quelli appunto del contadino. È l’uomo della vita di ogni giorno, il contadino non il borghese, lo spettatore che si affaccia sulla scena. […]».
Diego Lanza, Lo spettatore sulla scena, in AA.VV., L’ideologia della città, Liguori Editore, Napoli 1977, pp. 57, 71-72.
Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune.
Prefazione di M. Stella: La storia incantata. Diego Lanza narratore e antropologo dello ‘stolto’. Postfazione di G. Ugolini: Del ridere e del conoscere: la stultitia secondo Diego Lanza.
ISBN 978-88-7588-255-6, 2020, pp. 448, , Euro 35 – Collana “Il giogo” [118].
Socrate, Till Eulenspiegel, Pinocchio, ma anche Solone, Bruto, i profeti di Israele, Bertoldo, Giufà, i «santi folli» di Bisanzio … Sono innumerevoli i personaggi che trasgrediscono il senso comune; figure spesso ridicole, ma portatrici tutte di verità inquietanti di cui la ragione dominante diffida, delle quali tuttavia non può fare a meno. Ciò che si mantiene nella fiaba, nel romanzo, nella letteratura filosofica e religiosa non è tanto la fisionomia dell’insensatezza quanto il suo rapporto conflittuale di esclusione/complementarietà con la ragione, con il sistema dei valori etici e affettivi accettati come fondamentale norma di convivenza. Lo stolto e la stoltezza non costituiscono un elemento chiaramente definibile e persistente della tradizione culturale europea, un topos, ma piuttosto un’incognita alla quale ogni volta si attribuisce ciò che disturba il senso comune. È il senso comune, cioè la razionalità riconosciuta da ciascun assetto sociale come sua propria, che stabilisce quel che deve apparire ripugnante, ridicolo, riprovevole. La figura dello stolto e l’immagine della stoltezza mutano perciò a misura dei cambiamenti del senso comune e della razionalità che le definiscono, serbando tuttavia, di mutamento in mutamento, importanti tratti del passato. Il viaggio intrapreso alla riscoperta delle molte e molto differenti raffigurazioni dello stolto conduce a interrogarci sul difficile ma tenace equilibrio che governa il gioco tra verità e riso, scherzo e ragione.
Il gesto che non sia sostenuto liricamente è solo un disegno nello spazio. Bisogna inoltre sistemarlo nel tempo e misurarlo, dandogli una potenza drammatica. Dal canto suo questa potenza si rivelerà poetica o, al contrario, romperà brutalmente col suo contesto, lasciando solo uno spasmo, uno scarto, una frattura, una linea retta o una curva; una geometria, in certo modo, fredda e lineare. Un gesto non basta, è necessario che un pensiero lo rivesta; e inoltre che il disegno che dà forma a questo pensiero sia rigoroso. Infine, deve emergere lo stile. Nell’invenzione dell’attore mimo e nel suo modo di espressione si rivela· il fondo comico e tragico della sua arte. Tale invenzione è legata a sua volta alla conoscenza della vita o, per dirla in altro modo, all’osservazione dell’uomo in mezzo ai suoi simili. Quando l’attore mimo sostiene la propria vocazione drammatica col soffio del suo pensiero, provoca ondate di fremiti sensibili che costituiscono gli echi della sua anima, e il gesto diviene un muto canto interiore. L’attore mimo vibra come le corde di un’arpa. È lirico: il suo gesto sembra rivestirsi, ai nostri occhi, di un alone poetico. Si può essere lirici tanto nel comico quanto nel tragico. Il gesto deve respirare ed espirare, altrimenti inaridisce come una pianta che rimanga senz’acqua. Il gesto deve quindi incessantemente respirare e vibrare. Ma l’alone poetico supera l’armonia del gesto; esso è la musica e quasi l’eco del movimento. Anche l’atteggiamento immobile nello spazio deve liberare questo fluido, questo contatto che si stabilisce tra l’attore e il pubblico, e che possiamo chiamare scambio magnetico. L’equilibrio della nostra arte poetica è il connubio riuscito di foma e contenuto. La forma, nella nostra arte, altro non è che l’architettura dei gesti e la combinazione felice delle linee; l’una e l’altra colpiscono i nostri sensi e generano la bellezza. Quanto al contenuto, esso è forse il risultato di condizioni più esterne: il dato psicologico del soggetto, il carattere, il tipo, i nostri pensieri influenzati dalla vita sociale. Il gesto rivestito di questo alone poetico può essere classico pur nel suo slancio romantico. Cosi il disordine è ordinato e il calore, sotto il fuoco dell’azione, è controllato da un animo lucido. I mimi dell’Estremo Oriente e i greci lo sapevano bene: le loro tragedie erano rigorosamente costruite; essi prevedevano ciò che a noi sembra imprevedibile, creando quella unità drammatica che è indispensabile all’azione. Quando parliamo di alone poetico pensiamo ai mimi dell’antichità, a quelli del Medioevo e del Settecento e ai mimi contemporanei. Quest’arte che ci fa sognare, che è concreta e astratta, che evoca e suggerisce, che si identifica nell’universo con il controllato compiacimento del retore e con l’eleganza del poeta che ordina i propri versi, è l’Arte del Mimo.
Marcel Marceau, “L’alone poetico”, in Id., Mimo e mimi, La casa Usher, Firenze 1980.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
«C’è un momento in cui l’uomo è padrone del suo destino: la colpa, caro Bruto, non è nella nostra stella, ma in noi stessi, che ci lasciamo sottomettere».
William Shakespeare, Giulio Cesare, atto I, scena II, Rizzoli, Milano 1981.
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