Salvatore Bravo – Il trionfo della malinconia nella società dello spettacolo nega la parola che è festa della vita. La festa è l’immanenza che dà un nuovo senso al tempo vissuto.
Salvatore Bravo
Il trionfo della malinconia nella società dello spettacolo nega la parola che è festa della vita. La festa è l’immanenza che dà un nuovo senso al tempo vissuto.
Il trionfo della malinconia.
La parola – nella sua essenza umana – è festa della vita.
Se essa è depotenziata, si riduce a spettacolo,
luogo della separazione, dello sguardo che passivamente assiste e subisce il potere.
Lo spettacolo diseduca all’ascolto, incita al confronto nevrotico,
muove alla società dell’invidia, per instillare il pessimismo antropologico.
La festa è prassi, attività, agere politico poiché muove nella direzione comunitaria.
L’homo faber non conosce la festa, non produce per conoscersi,
per contribuire alla liberazione-emancipazione della comunità.
La festa è l’immanenza che dà un nuovo senso al tempo vissuto.
Il lavoro è liberato dalle pastoie dell’alienazione,
poiché la formazione comunitaria insegna al soggetto la dialettica con l’altro.
La “festa” è il luogo del ricordo vivo,
mentre la società della tristezza conosce lo spettacolo,
l’esibizione di sé e specialmente la dimenticanza.
Il capitalismo assoluto è il trionfo della malinconia. Dietro la facciata orgiastica dei consumi, non vi è che il regno delle passioni tristi che depotenziano la creatività umana e la prassi storica. Il capitalismo neoliberista procede per annientamento, trasforma ogni esperienza umana in plusvalore con l’effetto di astrarre l’elemento essenziale dell’esperienza, “la relazione comunitaria”, per sostituirla con il calcolo, col saccheggio predatorio: affinché ciò possa avvenire, agisce sulle parole rendendole organiche al capitale.
La manipolazione delle parole svela la verità del capitalismo assoluto, esse sono il mezzo con cui stringere i lacci dell’oppressione. “Il fenomenismo delle parole” fa apparire la libertà e la democrazia come esperienze individualistiche e crematistiche:[1] riduce le attività umane a soli fini privati negando la pubblica partecipazione vera sostanza della democrazia.
Le parole usate, svuotandone il “loro senso”, dimostrano che il capitalismo è esperienza di consumo, ma non di festa. Quest’ultima vive nell’esperienza disinteressata, è la forma emozionale e razionale dell’emancipazione dall’utile, dalla fatica della coercizione inclusiva.
La parola – nella festa – è incontro, è pensiero che argomenta per elaborare concetti, con i quali il mondo “emerge” dalla caverna dell’ignoranza e della negazione. Non è un caso che il capitalismo ami gli “acronimi”, deve celare l’evidenza con “formule linguistiche” senza trasparenza. La lingua germinatrice di vita e pensiero è stata sostituita dalla “lingua tracciabile” dei replicanti, non più pensiero, ma semplice opinione ripetuta senza argomentazione. Il surrogato della parola è la chiacchiera (Gerede) senza pensiero. Le parole dominanti sono i significati frecciati delle classi dominanti: il potere ha le sue parole con cui cannibalizza la semantica delle culture. Il lessico del potere si insedia nelle menti dei dominati per diventarne la gabbia d’acciaio entro cui il prigioniero lessicale deve muoversi. Le parole allora divengono vincoli che irretiscono e delineano i filtri sociali ed individuai: costruiscono percezioni, azioni, orizzonti orientati all’utile privato. Il mondo è osservato da una feritoia, si è sempre pronti all’attacco ed alla difesa.
La parola – nella sua essenza umana – è, invece, festa della vita, poiché permette di approssimarsi ai problemi per condividerli e decodificarli: dove c’è lingua, ci sono ricerca e comunità:[2]
«SOCRATE: Phronesis (‘senno’); è infatti ‘intendimento di movimento e di corrente’, phoras kai rou noesis. Ma sarebbe possibile intenderlo anche come utilità di movimento, onesis phoras. Dunque riguarda sempre il pheresthai (‘essere portato’, ‘muoversi’). E se vuoi, la gnome (‘discernimento’) significa sostanzialmente gones skepis (‘indagine’, ‘studio di generazione): infatti noman (‘studiare’) e skopein (‘investigare’, ‘ricercare’) significano la stessa cosa. Del resto, se vuoi, lo stesso vocabolo noesis è neou esis (‘tendenza al nuovo’), e il fatto che le cose esistenti siano nuove significa che sono generate in continuità. Chi dunque assegnò il nome di noesis, ha voluto significare che l’anima tende sempre al nuovo; infatti anticamente non veniva chiamata noesis, ma invece dell’eta bisognava pronunciare due epsilon: noeesis. Sophrosune (‘saggezza’), poi, è salvezza di quello che abbiamo esaminato or ora, cioè della phronesis (‘senno’). E episteme (‘scienza’, ‘conoscenza’) significa che l’anima, quella degna di considerazione, tiene dietro, hepetai, alle cose che sono in movimento e non le lascia indietro e nemmeno corre loro innanzi. Noi perciò introducendo una e bisogna che la chiamiamo epeisteme. Synesis (‘intelligenza ‘,’comprensione’) a sua volta parrebbe, grosso modo, equivalere a sylloghismos (‘ragionamento’, ‘conclusione’); e dunque quando si dice synienai accade di dire proprio lo stesso che epistasthai (‘comprendere’). Synienai infatti vuol dire che l’anima avanza insieme con le cose. Sophia (‘saggezza’), poi, [Platone, Cratilo, 16] significa ephaptesthai phoras (‘toccare il movimento’), ma è un termine alquanto oscuro e strano. Ma occorre pure ricordarsi che i poeti, assai spesso, quando si imbattono in qualcuna di quelle cose che cominciano ad avanzare rapidamente, dicono esythe (‘balzò su’). Uno spartano, tra i più illustri, aveva nome Sous, vocabolo questo che gli Spartani chiamano il movimento rapido».
Festa
Vi è “festa[3]” dove vi è comunità senza monismo. La festa è relazione donante tra soggetti che si riconoscono in un’esperienza comune. Non vi è festa nella società dello spettacolo, ma solo divisione, affermazione narcisistica dell’io astratto, scisso dal tutto, che corre sul palcoscenico per l’ultimo cono di luce. Tutto si oscura intorno a lui, le ombre abitano l’esibizione. Non è un caso, se l’asticella della spettacolarizzazione dell’io, del narcisismo, per poter attrarre e vendere deve alzare di volta in volta l’asticella della trasgressione, fino a trasformarsi in tragedia etica ed umana. Lo spettacolo trasforma ogni festa in occasione di affermazione, competizione, plusvalore. Ogni evento mascherato da festa non lascia ai partecipanti che una sottile malinconia, poiché si maschera per “focolare comune”, una sua volgare copia: anche il dolore è festa, se vi è condivisione. Senza l’accoglienza dell’altro, senza lo sguardo che si fa altro non si conosce se stessi: la festa è disvelamento di sé. Essa è l’essenza del comunismo comunitario: la parola comunismo deriva dal latino commūnis («comune», «pubblico» e «che appartiene a tutti»): la festa è l’esodo dall’alienazione e pertanto è emancipazione, è il luogo nel quale lo scorrere del tempo ha un nuovo inizio. La festa assume, così, la dimensione della gioia dalla quale non si esce eguali. Non vi è festa è senza teoria,[4] senza pratica del concetto che dispone al riorientamento gestaltico.
Se essa è depotenziata, si riduce a spettacolo, in cui i partecipanti sono mezzi per un unico fine: il plusvalore. Lo spettacolo[5] è il luogo della separazione, dello sguardo che passivamente assiste e subisce il potere. Lo spettacolo diseduca all’ascolto, incita al confronto nevrotico, muove alla società dell’invidia, per instillare il pessimismo antropologico negando, in tal modo, la prassi: in esso ogni esperienza è all’interno delle maglie dell’economicismo che come una cappa di piombo scende per lasciare, dietro gli splendori e gli abbagli dell’immediato, un senso di tristezza. Il totalitarismo dell’individuo,[6] la sua tirannide, non conosce la festa, ma solo l’illimitatezza e la solitudine nella moltitudine: non vi è scambio simbolico, ma solo il chiasso che silenzia la partecipazione/festa.
La festa secondo Aldo Capitini
Aldo Capitini, il primo in Italia ad aver utilizzato la bandiera arcobaleno della pace, il 24 Settembre 1962 nel corso della marcia Perugia-Assisi. Nelle sue opere tratta della festa. Essa è un momento maieutico e partecipativo. Non vi è giustapposizione, ma incontro, in cui tutti scoprono di essere importanti con la loro semplice presenza. Ogni storia umana col suo mistero può donare il suo contributo alla comunità, in quanto ogni prospettiva coglie ed accoglie un frammento dell’infinita verità. La festa per Aldo Capitini è l’omnicrazia, il potere di tutti, in cui le parole circolano per essere ascoltate; il potere è nella festa, nella collettiva tensione per capire e proporre; è il luogo della compresenza, ovvero della partecipazione empatica e razionale di ciascuno alla vita della comunità:[7]
«La piena realizzazione della compresenza e dell’omnicrazia è la festa, la festa per tutti. L’apertura ad esse ne è la visione. La festa è la celebrazione e il godimento per la rimozione di tutto ciò che impedisce la compresenza e l’omicrazia».
La festa è prassi, attività, agere politico poiché ci si muove nella direzione comunitaria, e ciò può avvenire solo se i partecipanti rimuovono le sovrastrutture che impediscono la partecipazione e l’espressione del sé profondo.
L’homo faber
L’homo faber non conosce la festa, non produce per conoscersi, per contribuire alla liberazione-emancipazione della comunità, ma fa del suo lavoro un mezzo di divisione, uno strumento attraverso il quale rimarcare la sua affermazione sugli altri esseri umani: è interno alla legge della giungla. L’homo faber fa del lavoro un’esperienza muscolare, si astrae dal mondo della vita. I successi divengono sottili esperienze della lontananza non solo dall’umanità, ma anche da se stesso: disperso nei ritmi lavorativi, come un orcio bucato non è mai gratificato, in quanto gradualmente diventa parte meccanica di un sistema che non controlla. Non ha potere alcuno sulla sua vita, sul sistema di cui è solo il famulo triste ed arrabbiato:[8]
«Noi siamo ancora sotto l’influenza dell’isolamento che è stato fatto negli ultimi secoli, e con grande sviluppo teorico e pratico, del fatto del lavoro, o homo faber: tutto il resto è passato in secondo piano, e si è visto nel lavoro l’espressione più concreta della personalità umana e il modo più serio per costituirla e per contrapporla alla personalità di “chi non fa”».
La terza rivoluzione
Per Aldo Capitini ci sono le condizioni culturali e tecniche, affinché si possa andare oltre gli schemi ideologici del novecento. Nessuna alienazione sarà superata se gli esseri umani non si riapproprieranno della dimensione della festa, della compresenza e della omnicrazia: il trittico semantico prospetta un quotidiano in cui la prassi modifica le strutture istituzionali e lavorative. La festa è l’immanenza che dà un nuovo senso al tempo vissuto. Il lavoro è liberato dalle pastoie dell’alienazione, poiché la formazione comunitaria insegna al soggetto la dialettica con l’altro, l’io incontra il tu senza monismo o universalismi che discendono, estranei e minacciosi, dall’alto. La festa è la luce terrena che irrora le vite, le lega secondo geometrie sempre nuove. La festa di Aldo Capitini è impegno, assunzione di responsabilità e cura dell’altro. L’io si magnifica, si infinitizza per ritrovarsi. Se la formazione e l’educazione non prevedono un percorso di tal genere, il lavoro come il potere continueranno ad essere esperienza della separazione, della competizione che scava solchi per indurre gli esseri umani a vivere da estranei, ed a rafforzare le logiche di dominio:[9]
«La festa così diventa il sostegno più profondo del lavoro e del tempo libero, e come impostata con essi, un elemento, come una luce, che li accompagna e li irrora. Prendere il lavoro come non ci fosse tutto questo, ha portato ad assolutizzazioni che si son viste insufficienti. Non che mi sfugga quel molto della civiltà che è connesso con esse, ma bisogna aver anche il coraggio di cogliere le svolte della civiltà. In nome dell’uomo come “cittadino” e dell’uomo come “lavoratore”, sono state fatte due rivoluzioni: ma noi oggi possiamo cogliere che l’uomo, in quanto connesso con la compresenza e con l’onnicrazia, è anche altro e questo altro diventa un protomovimento, a suo modo, dell’esser cittadino e dell’esser lavoratore; perché, sulla base di questo altro di questo elemento celebrato nella festa, il cittadino diventa appassionatamente aperto al potere di tutti e il lavoro viene aperto al contributo che da ogni essere viene alla produzione dei valori, che è la forma più alta del lavoro».
Trascendere la tecnocrazia
Aldo Capitini intende la omnicrazia non solo come esperienza di partecipazione attiva dal basso, ma anche come educazione che consenta a tutti di partecipare e controllare le operazioni tecniche imprescindibili per il benessere delle comunità. “Festa” è non subire il potere tecnico, ma comprenderlo e saperlo vivere, e specialmente non “pensare” in modo unicamente computazionale. A tal fine Aldo Capitini propone una formazione tecnica che possa facilitare l’accesso a chiunque, per brevi periodi, a ruoli dirigenziali e tecnici per evitare la formazione di oligarchie tecnocratiche. Ciò è possibile, in quanto le tecnologie stanno sviluppando sistemi che in quanto automatizzati sono più semplici nell’uso con l’effetto di permettere ad un numero sempre più ampio di persone l’accesso a funzioni sociali di rilievo:[10]
«Se il dominio di un processo meccanico è possibile con poca fatica e con poche conoscenze, sarà possibile estendere a moltissimi tali compiti, almeno per brevi periodi a turno. Tutti potremmo alternarci in certi servizi pubblici, se estremamente esemplificati nel congegno direttivo. […] D’altra parte nella scuola dovremmo apprendere, tutti, una certa cultura politecnica che ci renda atti, domani, ad esercitare temporaneamente certe funzioni tecniche o a dirigerle, se avremo imparato le strutture dei vari campi dell’amministrazione della vita».
Educazione permanente
L’educazione permanente, la crescita formativa di ciascuno è attività interna al potere. Le assemblee sono la libera discussione, dove si realizza lo scambio di informazioni, e ognuno è di ausilio all’altro nei processi di concettualizzazione e liberazione dai pregiudizi. La festa entra nel potere e nel processo formativo, non nella forma della esemplificazione, del divertimento[11] perenne, quale fuga dai contenuti e dalle difficoltà, ma nella parola che diviene dialogo per comunicare e motivare a trascendere resistenze ideologiche e stereotipi:[12]
«Inoltre l’apertura all’omnicrazia, che è l’esercizio continuamente costruttivo delle assemblee, spinge pressantemente all’educazione permanente, perché le assemblee affrontano problemi, e i problemi bisogna conoscerli, approfondirli, vederne i precedenti, i riferimenti, le soluzioni proposte. Valori e problemi vengono così a costituire la sostanza sempre viva di un’educazione permanente coltivata è sperabile dal più largo numero di esseri viventi».
La “festa” è il luogo del ricordo vivo, mentre la società della tristezza conosce lo spettacolo, l’esibizione di sé e specialmente la dimenticanza:[13]
«La realtà sorge nello spettacolo, e lo spettacolo è reale».
La festa e l’omnicrazia conseguenti sono un disporsi su più direttrici temporali: il senso necessita della compresenza, ma anche di un ponte teso tra passato e futuro, solo in questo modo il soggetto assume concretezza, in quanto è parte di una storia che si orienta verso il possibile. La società dello spettacolo, invece, è il regno della tirannia dell’individuo astratto che annichilisce la libertà e la comunità. L’individuo senza comunità trasforma la libertà giuridica in esperienza di violenza dalle mille forme: dalla seduzione a tutti i costi, al desiderio acquisitivo senza limiti. Il regno della tirannia dell’individuo, si connota per la sua generale regressione infantile di massa, si attende che il mondo soddisfi e si pieghi ai desideri di ciascuno. Non vi è festa, non vi è comunità, ma solo l’inquietudine del desiderio senza misura, la tristezza della lotta e della perenne frustrazione.
Che fare?
L’intellettuale in un periodo storico di passività e senza attesa ha il dovere di ricordare che la storia è un processo di prassi ed ideologie, che l’improbabile può prendere forma, se i popoli, le comunità, le classi sociali si mettono in cammino. La “festa” non è terminata come la non lo è la storia. La festa e la storia respinte e rimosse possono tornare, se anche le parole degli intellettuali ritornano a far circolare con la critica sociale anche una visione del mondo che apra a nuovi scenari. Perché questo possa avvenire non è necessario che gli intellettuali assumano il ruolo dei depositari della verità, ma a loro spetta il compito di fessurare la cappa del velo dell’ignoranza generato dall’ipertrofia della disinformazione mediatica per mostrare la verità storica del presente. Senza la memoria, dunque, non vi lotta, pertanto il dovere primo è guardare alla storia da cui trarre motivazione e speranza per il futuro.
L’intellettuale che ha trasformato il proprio ruolo ad una banale professione, ha rinunciato alla propria vocazione all’impegno e alla verità. L’intellettuale clericale è parte del problema e sintomo del conformismo operante. La memoria storica può ritrovare la sua forza plastica solo nell’intellettuale che non fa della propria attività un semplice mezzo per fini soggettivi. Alla festa ci si avvicina solo nella rinuncia alla servitù dell’utile personale e collettivo:[14]
«Diversa è la minaccia che oggi incombe sugli intellettuali in ogni parte del mondo: non l’accademia né il voler vivere periferici né l’esecrabile spirito commerciale del giornalismo e dell’editoria, bensì un atteggiamento che definirei professionale. Di chi, cioè, pensa di svolgere il proprio compito come un’attività lavorativa qualsiasi, tra le nove del mattino e le cinque di sera, tenendo d’occhio l’orologio ma con qualche ammiccamento al corretto stile del presunto vero professionista: non creare incidenti, non scostarsi dai modelli e dai limiti convenzionati, mostrarsi disponibili al mercato e, soprattutto, mantenere il doveroso contegno: non prestando mai il fianco, non scendendo sul terreno della politica, mantenendosi ”oggettivi”».
La festa e la comunità sono un binomio possibile solo nella rinuncia a ciò che Costanzo Preve definiva “centrismo furbesco” in Il popolo al potere. L’intellettuale ed il cittadino sempre disponibili al compromesso non producono che estraneità e sfiducia, e specialmente rafforzano l’oligarchia al potere, in tal modo, “moralmente legittimata”. Si consolida la malinconia del “politicamente corretto” senza speranza. La democrazia è un “campo di battaglia” (Kampfplatz), alla “festa” si arriva, solo se si attraversa la fatica del concetto ed il rischio dell’esodo. “La capacità di secessione” è il punto di inizio dialettico senza il quale non si realizza la democrazia. Gli intellettuali potrebbero essere parte essenziale di questo processo, loro compito è favorire la partecipazione, oggi neutralizzata dalla disinformazione organizzata. Devono riportare al centro della discussione politica la formazione senza la quale la democrazia e la comunità non sono che presenze formali e non sostanziali.
Salvatore Bravo
[1] Crematistica, dal greco τὰ χρήματα (ta chrèmata) “ricchezze”.
[2] Platone, Cratilo, Edizione Acrobat a cura di Patrizio Sanasi, pp. 14-15.
[3] Festa da Festum o dies festus = giorno di festa, o dal greco festiao o estiao, indica, in entrambi i casi, l’atto di accogliere presso il focolare domestico.
[4] Teoria da da thea spettacolo, da cui anche “teatro”, e horan osservare: nei due sensi, corteo appariscente e angolo di osservazione.
[5] Spettacolo da latino spectacŭlum, der. di spectare «guardare».
[6] Individuo dal latino individuus, parola composta dal prefisso in – privativo e dividuus, «diviso».
[7] Aldo Capitini, Attraverso due terzi del secolo, Omnicrazia: il potere di tutti, a cura di L. Binni e M. Rossi, Il Ponte Editore, Firenze. pag. 108.
[8] Ibidem, pag. 109.
[9] Ibidem, pag. 110.
[10] Ibidem, pag. 86.
[11] Divertimento dal latino divertere “cambiare strada”.
[12] Aldo Capitini, Attraverso due terzi del secolo, Omnicrazia: il potere di tutti, op. cit., pag. 102
[13] Guy Debord, La società dello spettacolo, Milano, Baldini Castoldi Dalai editore, 2008, pag. 55.
[14] Edward W. Said, Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, Feltrinelli, Milano, 2014, pp. 82-83.