Luciana Repici – «Uomini capovolti. Le piante nel pensiero dei greci». Un filosofo è pianta rara che difficilmente attecchisce ma facilmente deperisce e si corrompe, se non sussistono tutte le condizioni perché possa crescere. Diventare filosofi ed essere felici sono acquisizioni che non conseguono se non a prezzo di un duro lavoro.

Luciana Repici, Uomini capovolti. Le piante nel pensiero dei greci,
Scuola Normale Superiore, Pisa 2020.

Un filosofo è pianta rara che difficilmente attecchisce ma facilmente deperisce e si corrompe, se non sussistono tutte le condizioni perché possa crescere. Diventare filosofi ed essere felici sono acquisizioni che non conseguono se non a prezzo di un duro lavoro.


L’agricoltura dell’anima

Ricompare nelle parole di Timeo l’immagine, cara a sofisti e poeti, dell’educazione come coltivazione. Socrate usa nella Repubblica la stessa immagine per mostrare, come Timeo, le difficoltà di crescita che le nature filosofiche incontrano in contesti politici inadeguati. Un filosofo è pianta rara che difficilmente attecchisce ma facilmente deperisce e si corrompe, se non sussistono tutte le condizioni perché possa crescere. Si potrebbe riassumere in questi termini il quadro che in questo dialogo Socrate fornisce delle modalità di esistenza delle nature filosofiche sulla base del ricorso alla costituzione delle piante. La rarità dipende soprattutto dalla difficoltà di ritrovare tutte insieme in una sola natura l’intera gamma delle doti richieste in una natura filosofica. È raro infatti, secondo Socrate, che tali doti ‘concrescano’ (symphyesthai) come parti di un’unica natura, mentre possono «crescere (phyesthai) smembrate» in molti individui; perciò simili nature «crescono poche e poche volte». Molte e grandi sono invece le degenerazioni cui queste nature così rare vanno incontro.

L’allettamento ad opera dei ‘cosiddetti beni’ esterni e del corpo non è la causa più pericolosa della loro rovina. Molto più perniciosa è per Socrate la rovina che insorge dall’interno di esse a causa di una cattiva educazione. L’analogia con il modo di costituzione delle piante è introdotta proprio a questo punto. Un seme o una pianta, se non ‘si imbatte’ (tychòn) nel nutrimento conveniente e non gode di una stagione o di un luogo adatto, necessita di mezzi di sostentamento confacenti quanto maggiore è la sua forza. Allo stesso modo, nature ottime ma allevate con un nutrimento (trophè) ad esse troppo ‘estraneo’ riescono pessime. In tal caso, esse ‘si imbattono’ (tychousai) in una educazione che le manda tanto più in rovina quanto più sono forti e vigorose. Solo se ‘si imbattono’ nell’istruzione conveniente, esse possono crescere indirizzandosi necessariamente verso la virtù nella sua interezza; si volgono invece in direzione opposta se, dopo essere state ‘seminate’ (spareisa) e ‘piantate’ (phyteutheisa), non sono ‘alimentate’ (trephetai) in modo confacente, «a meno che un dio non càpiti (tychei) in suo soccorso».

La degenerazione è imputabile in parte ai cattivi educatori, ma dipende soprattutto per Socrate dal terreno in cui la natura filosofica si trova a crescere. Egli avverte che, in realtà, nessuna costituzione di città esistente è terreno adatto ad accogliere nature filosofiche. L’analogia con quel che accade alle piante è di nuovo illuminante. Le nature filosofiche infatti «mutano e degenerano», perdendo le loro specifiche proprietà e trapassando a carattere peggiore, per la stessa ragione per cui un ‘seme straniero’ (xenikòn) gettato in una ‘terra straniera’ diventa ‘debole’ (exitelon) e si avvia ‘forzatamente’ a diventare ‘indigeno’ (epichorion). Se ‘incontrano’ (lepsetai) nel loro cammino la costituzione politica migliore, esse possono mostrare la condizione ‘divina’ loro e della costituzione stessa; se invece non ‘si imbattono’ nella costituzione adatta, non possono accrescersi né conservarsi né cooperare al bene comune. Nelle città storicamente esistenti in realtà i filosofi «nascono spontaneamente (automatoi phyontai) senza che la città lo voglia», quasi come piante che si producano per qualche caso fortunato e, poiché ciò che cresce spontaneo non deve a nessuno il suo nutrimento, essi non si sentono neppure in dovere di rendersi utili alla comunità pagando le proprie ‘spese di mantenimento’ (tropheia).

Come si vede, Socrate non sottovaluta la componente di casualità che sembra circondare l’esistenza del filosofo e la preservazione della sua condizione in una città che non sia adatta a riceverlo. La mancata realizzazione del perfezionamento morale non dipende dall’individuo, ma è conseguenza del contesto politico in cui egli è allevato e nutrito. In un contesto politico inadeguato, ossia in una città ingiusta, il filosofo è come una pianta che cresce spontanea, cioè senza cure, in un terreno improprio e riceve un nutrimento improprio. La sua nascita è quindi casuale, cioè non voluta e la sua crescita debole e stentata; in tali condizioni, solo l’intervento di una divinità potrebbe portare a buon fine il suo sviluppo. Neppure l’opera dell’educatore/agricoltore varrebbe a molto e in ogni caso, ammesso che valesse, dovrebbe trattarsi di un tipo di educatore/agricoltore ben diverso da quello che Protagora professava di essere. Solo nella città giusta il filosofo troverebbe il terreno proprio di coltura e di crescita, anche se neppure in questo caso la sua esistenza e condizione avrebbero garanzia di durare indefinitamente.

Anche le costituzioni infatti, come Socrate rileva altrove nella stessa Repubblica, sono soggette a mutare e alterarsi allo stesso modo in cui gli esseri viventi, animali e piante, esauriscono i loro cicli vitali e attraversano periodi alternati di fertilità e in fertilità o nell’ambiente stagioni di siccità si alternano a stagioni piovose. Una questione che possiamo porci è se l’analogia con la costituzione delle piante serva ad evidenziare in Platone una certa fragilità della condizione del bene incarnato nel filosofo. In effetti, una pianta che cresce casualmente come può in un ambiente incurante della sua crescita potrebbe anche apparire come una pianta fragile perché debole, quindi più soggetta a fattori esterni di corruzione; il bene allo stesso modo, se non ricevesse costanti cure, sarebbe fragile perché malfermo, quindi più soggetto all’erosione dei rovesci fortuiti del caso. In un altro luogo della stessa Repubblica tuttavia Socrate indica le piante come modello di capacità di resistenza fisica al mutamento; ma anche in questo contesto l’elemento dell’accidentalità ha la sua parte. Nel passo egli argomenta che un corpo ‘sanissimo e fortissimo’ può resistere al mutamento ad opera di agenti esterni tanto quanto una pianta può opporre resistenza a fattori ambientali quali calore solare e venti e altre ‘accidentalità’ (pathemata) che possono interferire con la sua preservazione e tanto quanto un’anima ‘coraggiosissima e saggissima’ può contrastare un’ ‘affezione’. Si tratta in ogni caso, come Socrate mostra, di una capacità di resistenza relativa, quale si addice a nature di esseri mortali e non immortali e indistruttibili come la divinità”. In realtà, né la sanità o il vigore dei corpi né la virtù delle anime premuniscono interamente dall’azione erosiva di cause accidentali esterne, siano fattori climatici o desideri e passioni.

Nel Fedro la metafora della coltivazione serve a Socrate a mostrare anche che tipo di lavoro occorre per educare un’anima alla filosofia.

Un agricoltore intelligente che volesse prendersi cura dei semi e farli fruttificare – così Socrate argomenta in questo dialogo – li pianterebbe d’estate nei giardini di Adone, per gioire nel vederli diventare belli in otto giorni, o farebbe così solo per gioco e nelloccasione della festa e userebbe invece la tecnica agricola e pianterebbe i semi di cui volesse seriamente prendersi cura nel tempo e nel terreno adatto, per l’amore di vederli giungere a maturità in otto mesi? A questa immagine Socrate ricorre quando vuole spiegare «in che modo nasce e quanto cresce (phyetaiil discorso che, «accompagnato da scienza», «è scritto nell’anima di chi apprende» ed è capace di difendersi da sé, sapendo con chi parlare e con chi tacere. Egli intende riferirsi al discorso orale.

Ai suoi occhi, al pari dell’agricoltore con i suoi semi, «chi ha scienza del giusto, del bello e del buono» non seminerà seriamente in discorsi «incapaci di parlare in propria difesa e incapaci di insegnare la verità»; nei «giardini scritti» costui seminerà e scriverà solo per gioco, in modo da accumulare per sé ricordi per la vecchiaia e consentire a quanti seguiranno le sue orme di gioire nel coglierne i ‘teneri frutti’.

Nella semina fatta seriamente invece, quella cioè analoga alla semina eseguita secondo i dettami della tecnica agricola, costui si servirà della dialettica. Prenderà perciò un’anima ‘adatta’ e vi pianterà e seminerà «discorsi accompagnati da scienza», capaci di «portare aiuto a se stessi e a chi li ha piantati» e non «infruttuosi (akarpoi), ma recanti un seme, da cui germoglieranno in altre indoli altri discorsi»; ed essi riusciranno a «rendere sempre immortale questo seme e ad assicurare a chi lo possiede la massima felicità possibile ad un uomo». Sono questi i discorsi che Socrate vuole siano considerati suoi ‘figli legittimi’; rinuncia invece a tutti gli altri, che non siano ‘figli o fratelli’ di questi ‘germogliati’ nella sua anima e nell’anima di altri uomini’.

L’agricoltura riprende così il suo aspetto metaforico per rispecchiare il processo di acquisizione del sapere filosofico. Non il sofista è il vero agricoltore, come Protagora pretendeva, ma il filosofo e i suoi semi sono i semi della verità gettati direttamente nel terreno dell’anima di chi si pone all’ascolto dei suoi discorsi. Anche in Platone l’analogia sottolinea che si tratta di un processo lungo e impegnativo. Neppure gli esiti appaiono scontati, se Socrate invita a diffidare di risultati brillanti ma effimeri. L’apprendimento della filosofia e il conseguimento della massima felicità per l’uomo non sono come la coltivazione delle piante nei giardini di Adone, dove le donne usano interrare i semi in vasi, orci e simili recipienti. I risultati vengono rapidamente in questa forma di coltivazione e l’operazione della semina è coronata dal successo della crescita di una vegetazione lussureggiante. Ma il verde si dissecca presto e in questi giardini quasi pietrificati la morte subentra presto alla vita. Diventare filosofi ed essere felici sono invece acquisizioni che non conseguono se non a prezzo di un duro lavoro, come quello dell’agricoltore che non per gioco, ma seriamente getta i suoi semi nei campi di Demetra. Per chi si dedica a questa forma di coltivazione i risultati verranno solo al termine del tempo necessario al compiersi del processo di germinazione e crescita e, ovviamente, solo a condizione che questo arrivi a buon fine. Ma, se il raccolto verrà, sarà ottimo e ogni sforzo sarà ricompensato. Socrate mostra di considerare essenziale la scelta del terreno in cui il filosofo agricoltore deve gettare i semi dei discorsi: solo nel terreno di un’anima adatta a riceverli essi potranno attecchire e germogliare. Essenziale è però anche la qualità dei semi. Il buon raccolto viene infatti se i discorsi sono orali, non scritti e se perciò possono iscriversi direttamente nell’anima di chi apprende; allora, questi semi germineranno e cresceranno in essa come cosa viva mettendo radici non superficiali, ma profonde e seguendo l’andamento della natura invece che forzandola. Poiché, come abbiamo appreso, i discorsi dei filosofi sono anche medicamenti, potremmo pensare ad essi come a piante medicamentose con radici che sprofondano nell’anima di chi ascolta, dispiegando in essa anche il loro potere curativo e risanatore.

Luciana Repici, Uomini capovolti. Le piante nel pensiero dei greci, Scuola Normale Superiore di Pisa, Pisa 2020, pp. 211-217.





M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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