Antonio Labriola (1843-1904) – L’umanesimo socratico, negli scritti di Labriola, ha come fine la felicità. Il concetto della vita per Socrate dipende, in tutto e per tutto, dal principio della consapevolezza: l’atto di fendere i “dis-valori” del politicamente corretto segna una faglia ed è l’incipit della storia e delle storie.

Antonio Labriola - Socrate

Salvatore Bravo

L’umanesimo socratico, negli scritti di Labriola, ha come fine la felicità (εὐδαιμονία):
è confronto con i propri conflitti, relazione con il comune fondamento comunitario di ogni individualità

Il concetto è una breccia che fende la cappa dell’immobilità che si nutre di dogmatismi e pregiudizi sclerotizzati:
l’atto di fendere i “dis-valori” del politicamente corretto segna una faglia ed è l’incipit della storia e delle storie.

Il Socrate di Labriola
Ogni epoca e ogni autore ha variamente interpretato Socrate. Il Socrate di Antonio Labriola coglie aspetti imperituri nella genesi del pensiero di Socrate. In Labriola Socrate rappresenta l’emergere della coscienza attraverso conflitti e contraddizioni. La coscienza socratica è già umanesimo nella sua forma matura, in quanto vi è nei dialoghi socratici la consapevolezza che il destino umano come le idee non cadono dal cielo, ma sono il punto di convergenza e divergenza con sé e con l’alterità. L’essere umano è il fondamento della legge, ogni obbedienza formale e non mediata dalla ragione non è che “offesa” alla dignità e all’autonomia umana. L’umanesimo socratico è un percorso in cui è inevitabile lo scontro-incontro tra la coscienza e le forme di sussunzione del potere. Socrate scopre che la vita psichica è abitata dal potere con le sue liturgie ed i suoi pregiudizi, ma il logos può mettere in atto processi di liberazione, che non sono miracolosi, ma necessitano della comunità educante. La libertà è attività che dà nuova forma all’anima, che in tal modo può risplendere nella sua armonia sempre viva:

«Il suo convivere coi giovani, il suo perpetuo ragionare, la sua preoccupazione logica, e fino la relazione con Cherefonte, vi appariscono come cose già note a tutti; e tali, che, senza essere caratterizzate con fedeltà storica, si prestavano a rappresentare vivamente su la scena una personalità già stata argomento di molti discorsi nel pubblico. Quanto lavoro e quante lotte non ha dovuto sostenere Socrate, per raggiungere una forma di coscienza così pronunziata; e quanti motivi non han dovuto esercitare la loro azione sul suo animo, dal momento che abbandonata la bottega del padre cominciò egli a vivere nella sua beata e laboriosa ἀπραγμοσύνῃ?».[1]

 

L’umanesimo socratico
L’umanesimo di Socrate ha come fine la felicità (εὐδαιμονία). Quest’ultima non è uno stato di grazia improvviso, ma è cammino dialogico e comunitario. La felicità del singolo non può essere disgiunta dal benessere della comunità. L’umanesimo socratico dimostra che la natura umana è comunitaria: pertanto lo sviluppo dell’individualità è parallelo all’evolversi della comunità. I singoli devono rapportarsi con il “tutto” a cui appartengono, devono legare responsabilmente il loro destino alla comunità. La felicità in Socrate è confronto con i propri conflitti, relazione con il comune fondamento comunitario di ogni individualità, la quale non è mai astratta, ma concreta, perché dialettica. Il logos nel pensare se stesso rivive la pluralità delle relazioni che lo hanno formato, agisce sul passato che condiziona il presente per liberare il futuro dalle angustie che ne inibiscono le potenzialità:

«Il termine comune di tutti questi svariati fini è l’εὐδαιμονία, al cui conseguimento ci ha disposti l’ordine intero della natura, che nella sua bellezza ed armonia ha come ultimo scopo l’umana felicità: ma questo fine non si raggiunge per caso o per fortuite circostanze, né la sua misura sta in arbitrio dell’uomo, perché il conseguimento n’è coordinato alla esatta cognizione della propria capacità in relazione con l’ingenito bisogno del benessere, ed il limite n’è predeterminato dalle reali condizioni della vita».[2]

 

Socrate pone problemi eterni. Pertanto, mediante la sua parabola filosofica, è possibile leggere la tragedia della contemporaneità. L’individualismo sofistico conduceva inevitabilmente alla disintegrazione della comunità come l’economicismo crematistico attuale. La tirannia degli individui comportava il relativismo nichilistico, di conseguenza l’economico assimilava il politico. La contemporaneità è nel segno della scomparsa del politico e nella forma del totalitarismo dell’economico tecnocratico. La variopinta democrazia, come Platone definiva la tirannia della maggioranza, è la premessa del dispotismo. L’individualismo sregolato conduce al caos che legittima la presa del potere del tiranno. In Socrate vi è l’urgenza etica di porre un limite alla deriva nichilistica mediante l’elaborazione di un metodo capace di porre una “concettuale barriera” all’individualismo ed al degrado morale conseguente. Il metodo socratico è il corpo vivente della prassi socratica, è il limite (κατέχον) all’avanzare della tirannia del singolo. Contro l’arbitrarietà del singolo che erge i propri desideri a legge del mondo, Socrate contrappone la forza etica del metodo che si incarna nella consapevolezza della coscienza e del dialogo sempre vivo con se stesso e con l’alterità. La parola è salvifica, in quanto la dualità che essa comporta è segnata dalla presenza sempre viva dei soggetti dialoganti L’umanesimo è parola emancipatrice che consente lo sviluppo autentico di ogni individualità nella comunità. L’umanesimo comporta la liberazione della parola dalle pastoie dell’utilitarismo economico più bieco. Sotto i colpi dell’economicismo individualistico la prima vittima a cadere è la parola, la quale è negata nella sua natura per essere solo mezzo:

«Nella pratica della vita le tendenze degli individui, delle classi e dei partiti aveano preso a seguire direzioni divergenti, e di tale una intrinseca differenza ed opposizione, da presentare il triste spettacolo di una morale pubblica, che precipita pel declivio di una sicura rovina. Tutto piglia una piega arbitraria, ed in una sfera più alta assume il carattere di una ricerca, che non mira ad altro che alla piena soddisfazione del criterio personale, è soggettiva, diremmo noi nel nostro linguaggio (i Sofisti). Socrate, che era pure penetrato dal bisogno di valutare alla misura della convinzione il merito od il demerito degli uomini, reagì contro le tendenze arbitrarie con la sicurezza del metodo ricercativo, e con l’aver fissata la misura costante delle azioni in una stregua più alta, e di un carattere incondizionato, quello della obbiettività della legge nell’ordine delle cose naturali, e delle relazioni sociali. Egli va d’accordo con lo spirito del tempo, e non se ne avvede; perché la maggiore intimità delle sue convinzioni lo avea fornito dei mezzi per reagire[3]”.

Prassi e limite
Il limite in ogni individualismo è vissuto ed interpretato come un’offesa alla libertà dell’individuo. Socrate dimostra che la consapevolezza di esso è la forma più alta di libertà e di umanità, altrimenti è oggetto di forze esterne, degli appetiti incontrollabili e di fantasie di onnipotenza. Il limite ricercato e razionalizzato permette al soggetto di dare forma alla propria vita, di disegnarne i margini d’azione e di definirne le possibilità entro cui la prassi può concretizzare l’azione personale e politica. Le individualità fioriscono all’ombra della forma, devono sottrarre le ridondanze dell’anima (desideri smodati, certezze ossificate, sogni d’onnipotenza senza realtà e verità) che ne impediscono lo sviluppo:

«Ma la differenza e la opposizione apparisce maggiormente in quel principio di Socrate, che poc’anzi abbiamo esaminato. Socrate, con l’ammettere la limitazione del sapere umano, non pronunziava solo una massima di morale rassegnazione, o di religiosa riverenza verso la divinità, ma esprimeva eziandio con maggiore evidenza il bisogno di un criterio di assoluta certezza. Il sapere diveniva così non solo formalmente certo, ma intrinsecamente predeterminato ad uno scopo, nel quale dovea attuare, e necessariamente esaurire, la propria attività e potenza».[4]

 

La libertà non è la soddisfazione immediata di un desiderio, ma un lungo lavoro razionale che presuppone la disposizione emotiva a conoscersi: il “conosci te stesso” (γνῶθι σαυτόν) è la libertà che si rivela al soggetto. Nessun individuo nasce libero, ma la libertà è possibile solo nell’incontro dialettico con una comunità che accoglie ed educa. La libertà è una potenzialità dell’essere umano che si impara con un lungo “addestramento”. I maestri della libertà appaiono nella vita di ciascuno, ma sta al soggetto disporsi ad un “sì” positivo e costruttivo irto di difficoltà, perché ripensare i propri convincimenti può essere doloroso: imparare a pensare non è attività spontanea, ma necessita di una non breve formazione. L’esperienza di Socrate palesa che la libertà non è una realtà astratta, in cui il soggetto è un assoluto sciolto da ogni legame etico, ma la libertà è il legame che si concretizza nella parola autentica, nella quale l’io appare nella sua forma viva, nelle sue potenzialità più autentiche. Il conoscersi diviene libertà di essere con e per la comunità senza rinunciare alla propria individualità profonda:

 «La conoscenza di se stessi non ha luogo mediante un’apprensione immediata, ma è un risultato dell’esame. Bisogna dapprima cadere nell’aporia, e mettere in discussione il concetto esatto di quello che si prende a seguire, come termine e oggetto della propria attività. La discussione percorre tutti gli stadi che abbiamo esposti parlando del metodo in generale; ed una volta che il concetto è stato fermato mediante la definizione e determinato chiaramente in tutte le sue attinenze, si tratta in fine di vedere se l’individuo adegui o pur no, con le sue personali attitudini, le reali condizioni del fine propostosi. La conoscenza di se medesimo diviene così per l’individuo il reale convincimento della propria attitudine; e mette termine nella consapevolezza del fine cui deve tendere e dei mezzi per conseguirlo. L’apparente universalità logica del precetto sparisce innanzi alle reali condizioni nelle quali si svolge, e diviene in fine una esigenza pedagogica; mercé la quale il filosofo, suscitato dapprima il bisogno dell’esame, conduce il suo interlocutore a sottostare all’intrinseca virtù della convinzione».[5]

 

Filosofia come pratica radicale
La consapevolezza in Socrate mette in discussione il principio di autorità. Non vi sono principi etici o religiosi che non possano essere posti in discussione. La pratica filosofica è radicale, non conosce recinti sacri. La dialettica dialogica pone in esame i fondamenti della comunità, non per distruggerli o per affermare l’illimitato, ma per aderire ad essi con la mediazione della coscienza e dunque vi è il passaggio dalla sussunzione ad una adesione di tipo qualitativo e partecipata che favorisce il benessere generale:

«Il concetto della vita dipendeva per Socrate, in tutto e per tutto, dal principio della consapevolezza; e la costante applicazione di questo criterio non poteva in qualche punto non contradire al naturale sentimento della domestica pietà. Egli in fatti non rifuggì dalla pericolosa opinione di far dipendere la filiale riverenza dal grado di capacità o d’intelligenza, che il figlio può presumere nel padre, autorizzandolo a non sacrificare la propria intellettuale capacità al principio istintivo del rispetto e dell’ubbidienza. Da questa ambigua posizione seppe trarre partito Aristofane nella interessante catastrofe delle Nuvole, per improntare nel suo dramma quel carattere di morale severità, che lo eleva dalla sfera ordinaria di un contrasto comico alla estetica dignità di una profonda antitesi etica e pedagogica».[6]

 

Il bene socratico
Il bene in Socrate è l’utile nella forma di ciò che fortifica la coscienza e consente alla natura di ciascuno di esprimere l’universale concreto: “individuale ed universale” sono in un felice connubio che rende il soggetto disposto al riorientamento gestaltico, il quale è maieutico e dunque è una nuova nascita. Vi è, dunque, una gerarchia tra i beni, i quali sono molteplici, ma devono essere posti nella giusta teleologia da un bene maggiore, devono essere ordinati in funzione della buona vita:

«Il bene adunque è l’utile, cioè quello che favorisce la nostra natura e fortifica in noi il sentimento della felicità. Le due sfere di questi concetti non sono precedentemente determinate nella loro opposizione e poi ridotte all’identità logica del giudizio, per degradare il valore del bene a vantaggio dell’utile».[7]

 

Il bene è l’utile condiviso, ciò che nutre positivamente la coscienza della comunità e si realizza nelle individualità. Il bene non è un a priori predeterminato, ma la possibilità più autentica che si concretizza nella parola che emancipa dai pregiudizi e dalle caverne senza prospettive. Socrate ha testimoniato che è possibile un altro modo di vivere e di operare nel rispetto di un universale concreto e dinamico in cui ritrovarsi senza il timore di capirsi e conoscersi, in quanto non vi è altro modo per vivere una vita degna di essere definita “umana”. L’esperienza di Socrate è la prova che il potere non ammette che si “viva la verità”.

 

Socrate e Labriola
Nell’opera di Labriola si rilevano tracce del pensiero socratico, in primis l’umanesimo, senza il quale ogni rivoluzione o riforma non può che cadere in un semplice avvicendarsi di poteri. Secondo il paradigma socratico nessuna teoretica può essere trasformata in dogma, pertanto lo stesso materialismo storico dev’essere rielaborato e ridefinito, in quanto vi è filosofia dove vi è critica. Il materialismo storico non è un sistema concluso da cui attingere in modo meccanico, ma un modello concettuale da ridefinire e ripensare in modo critico; ogni sacralizzazione del pensiero di un autore è negazione della pratica filosofica:

«Tutti cotesti scritti hanno un fondo comune; e questo è il materialismo storico, inteso nel triplice aspetto, di tendenza filosofica nella veduta generale della vita e del mondo, di critica dell’economia, che ha modi di procedimento riducibili in leggi solo perché rappresenta una determinata fase storica, e di interpretazione della politica, e soprattutto di quella che occorre e giova alla direzione del momento operaio verso il socialismo. Questi tre aspetti, che qui enumero astrattamente, come accade sempre per comodo di analisi, faceano uno nella mente degli autori stessi. Perciò quegli scritti, che, tranne il caso dell’Antidühring di Engels e del primo volume del Capitale, non parranno mai ai letterati di tradizione classica come condotti secondo i canoni dell’arte di faire le livre, sono in verità delle monografie, e nella più parte dei casi dei lavori d’occasione. Ossia, sono i frammenti di una scienza e di una politica che è in continuo divenire; e che altri – e non dico che ciò sia l’affare del primo venuto – deve e può continuare. Per intenderli, dunque, a pieno, bisogna ricollegarli biograficamente; e in tale biografia è come la traccia e l’orma, e a volte l’indice e il riflesso della genesi del socialismo moderno».[8]

 

Socrate è il modello archetipico della filosofia in cui la critica dialogante non sacralizza nessuna posizione, ma le rigenera nella storia. Vi è filosofia nel concetto che si definisce nel libero contributo storicamente condizionato. Se non vi fosse tale spazio di libertà non vi sarebbero né storia e né umanesimo, l’uno si intreccia e sostiene l’altro in una continuità inscindibile. Il marxismo è nella sua struttura attività critica, si potrebbe aggiungere socratica, per cui le categorie della teoretica marxiana includono la necessaria possibilità di ampliamento e rinnovamento della stessa dottrina:

«Il marxismo – giacché questo nome è oramai adottabile come simbolo e compendio di un molteplice indirizzo e di una complessa dottrina – non è e non rimarrà tutto rinchiuso negli scritti di Marx e di Engels. Ci vorrà, anzi, molto, prima che esso divenga la dottrina piena e completa di tutte le fasi storiche già ridotte alle rispettive forme della produzione economica, e regola al tempo istesso della politica. A ciò fare occorre, o studio accuratamente nuovo di fonti, per chi voglia ingegnarsi a studiare il passato secondo l’angolo visuale della nuova veduta storico-genetica, o speciali attitudini di orientazione politica in chi voglia praticamente operare al presente. Come quella dottrina è in sé la critica, così non può essere continuata, applicata e corretta, se non criticamente».[9]

 

La filosofia è l’arte di creare e ricreare concetti. Senza tale operazione non vi è filosofia e non vi è storia, poiché il concetto è una breccia che fende la cappa dell’immobilità che si nutre di dogmatismi e pregiudizi sclerotizzati: l’atto di fendere i “dis-valori” del politicamente corretto segna una faglia ed è l’incipit della storia e delle storie.

 

Salvatore Bravo

 

[1] Antonio Labriola, Socrate, Laterza Bari, 1909, pag. 23.
[2] Ibidem,, pag. 37.
[3] Ibidem, pag. 43.
4] Ibidem, pag. 59.
[5] Ibidem, pag. 98.
[6] Ibidem, pag. 110.
[7] Ibidem, pag. 132.
[8] Antonio Labriola, Discorrendo di socialismo e di filosofia, Liber Liber, 2002, pag. 10.
[9] Ibidem, pag. 13.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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